Comunismo - Scintilla Rossa

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view post Posted: 27/4/2024, 09:13 Antonio Gramsci - Discussioni varie
l 27 aprile 2024 ricorre l’87°anniversario della morte del compagno Antonio Gramsci, il capo della classe operaia del nostro paese assassinato dal fascismo che lo incarcerò e condannò, tramite il “Tribunale speciale per delitti contro la sicurezza dello Stato”, a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di galera.

Quando fu arrestato, l’8 novembre 1926, Gramsci, oltre ad essere il segretario del Partito Comunista d’Italia – sezione della Internazionale Comunista, era anche deputato eletto per la XXVII legislatura del Regno d’Italia. Godeva quindi dell’immunità parlamentare che il fascismo calpestò sfacciatamente.

L’elezione di Gramsci avvenne cento anni fa, nell’aprile 1924. Come e perché venne eletto deputato, per svolgere la lotta comunista anche dalla tribuna parlamentare, secondo le indicazioni di Lenin?

Riteniamo utile ripercorrere questa pagina di storia, poco conosciuta ma molto interessante.

Dal dicembre del 1923 Gramsci si trovava a Vienna, impossibilitato a tornare in Italia. Con l’avvento del regime fascista era stato infatti emesso un mandato di cattura anche nei suoi confronti. Il Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista, di cui Gramsci faceva parte in quanto rappresentante del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), gli aveva perciò suggerito di trasferirsi nella città austriaca per seguire più da vicino la situazione e l’attività comunista in Italia, curare l’attività giornalistica e mantenere i collegamenti internazionalisti.

Alla vigilia delle elezioni politiche del 1924, che si svolsero con la famigerata legge-truffa “Acerbo”, la direzione del PCd’I propose, già nel gennaio 1924, un blocco di «unità proletaria», ai due partiti socialisti: il PSI di Turati e il PSU di Matteotti.

Il Partito Comunista nell’avanzare questa proposta escluse la possibilità di un accordo di carattere temporaneo, teso al solo scopo di una modifica numerica dei risultati delle elezioni, ma affermò la necessità di concludere un fronte unico permanente tra i partiti posti sul terreno della lotta di classe, interessati perciò non alla semplice affermazione elettorale, bensì al futuro abbattimento dello Stato borghese.

Vi erano dubbi nel PCd’I sull’opportunità di rivolgere la proposta in tali termini al PSU, pregiudizialmente contrario ad una negazione dei principi democratico-borghesi.

Ma tali dubbi vennero superati dalla convinzione che l’inesistenza in Italia di una possibile opposizione democratica e costituzionale poneva anche i riformisti di fronte al problema della lotta contro lo Stato.

È evidente in questa scelta il riavvicinamento del PCd’I alle direttive date, fin dal giugno 1921, dal III Congresso dell’Internazionale Comunista, alle quali si era opposta la direzione bordighista che, essendo ostile alla fusione con la frazione terzinternazionalista del PSI, considerava il fronte unico esclusivamente sul piano sindacale.

Venne, quindi preparata una lettera firmata da Togliatti, che fu inviata ai due partiti socialisti e comunicata alla stampa.

Nella dichiarazione comunista si posero tre pregiudiziali alla formazione del blocco elettorale.

Con la prima, si chiedeva che il blocco operaio accettasse l’indirizzo tattico comunista in quanto «considera la lotta elettorale come un momento dell’azione che il Partito comunista conduce per la formazione di un fronte unico per la difesa degli interessi economici e politici della classe lavoratrice».

Con la seconda, si «approva e conferma la deliberazione di partecipare alla lotta elettorale», ciò in qualunque condizione, escludendo così un’eventuale astensione del blocco proposto.

Con la terza, venne escluso a priori «lo scopo di una restaurazione pura e semplice delle libertà statutarie» respingendo cioè ogni criterio «volto unicamente ad ottenere uno spostamento nei risultati numerici delle elezioni», che partisse da preoccupazioni esclusivamente elettorali.

La ferma decisione partecipazionista dei comunisti rese problematica un’intesa fra i tre partiti, in quanto, sia per i massimalisti sia per gli unitari, la questione della partecipazione o meno, rimaneva invece aperta. Essi, infatti, ritenevano che a favore dell’astensione ci fossero due dati: la situazione nelle province, dove era impossibile la libera manifestazione di volontà, e la legge elettorale, che assicurava preventivamente il successo al governo.

Dopo il passo ufficiale compiuto tempestivamente dai comunisti, pur criticando la loro decisione partecipazionista, non restò alla direzione del PSI che dare mandato di invitare a Roma per il 26 gennaio le rappresentanze dei tre partiti per «prendere una decisione definitiva circa la formazione del blocco socialista di unità proletaria, sia nel senso dell’astensione, che della partecipazione».

Il PSU, invece, inviò al PCd’I una lettera dal tono piuttosto violento, firmata dal segretario Matteotti. Egli accusò i comunisti di aver voluto rendere impossibile un’intesa fissando le pregiudiziali, cioè imponendo l’adozione del partecipazionismo come tattica elettorale ed escludendo qualsiasi blocco di opposizione al fascismo volto alla restaurazione delle libertà statutarie, magari anche con l’appoggio di elementi non appartenenti ai tre partiti di classe. Matteotti rifiutò perciò l’incontro.

A seguito di contatti, venne convocata una nuova riunione per il 28 gennaio. Ma sia riformisti che comunisti, apparvero sempre più rigidi sulle rispettive pregiudiziali.

I riformisti, per bocca di Matteotti, ribadirono l’impossibilità di un blocco positivo e programmatico e posero una questione di principio: «Noi vogliamo lottare contro il fascismo in nome della libertà, voi in nome della dittatura…. Siete disposti a dichiarare che rinunciate alla dittatura, che siete contro tutte le dittature? Se sì, possiamo senz’altro far la lista comune; se no, ciascuno deve andare per la propria strada».

La loro diversa concezione della lotta di classe, il rifiuto della forza per la conquista del potere e la loro fiducia nella possibilità di accordi con gruppi borghesi antifascisti, impedirono di trovare un punto di incontro con i comunisti.

Il PCd’I dal canto suo, esigeva dai riformisti una scelta tra un blocco operaio classista e un blocco di opposizione costituzionale e borghese. Riproposero a questo scopo i quattro punti del blocco proletario: 1) Parola d’ordine: libertà del proletariato. 2) Blocco classista e proletario. 3) La lotta per la conquista della libertà pone il problema dell’abbattimento dello stato fascista. 4) Blocco non esclusivamente elettorale, ma azione comune in tutti i campi della lotta proletaria.

L’ultimo tentativo di accordo venne compiuto il 29 gennaio 1924, quando il PCd’I ripresentò in forma diversa le stesse proposte, naturalmente incontrando ancora l’opposizione del PSU.

Venne allora avanzata dai delegati massimalisti del PSI una mozione che doveva rappresentare il punto di incontro delle opposte tendenze. Pur auspicandovi, infatti, la formazione di un blocco proletario per la riconquista delle libertà politiche e sindacali e per l’abbattimento del regime fascista, vi era tuttavia contenuto il riconoscimento che tale accordo avrebbe potuto realizzarsi solo nel più assoluto rispetto del programma e della fisionomia dei partiti partecipanti.

Fu quindi proposto di dichiarare subito costituito il blocco, ma di riservare la formulazione del piano di azione immediata ed eventualmente successiva ad un Comitato composto dai delegati dei tre partiti.

La mozione però naufragò sul terreno programmatico, inoltre i comunisti non accettarono che la tattica possa essere astensionista, invece che partecipazionista.

A questo punto il PCd’I avanzò ai massimalisti del PSI una offerta di blocco a due, di cui venne naturalmente ribadito il carattere programmatico.

Il 2 febbraio giunse la definitiva risposta negativa della direzione massimalista riunitasi a Milano e che annunciò, subito dopo, la partecipazione alle elezioni con lista propria. L’Avanti continuò la polemica nei confronti dei comunisti. Naturalmente l’Unità ribatté, accusando gli astensionisti di vigliaccheria.

Il PSI, oltre ad essere travagliato dalla corrente astensionista contraria alle decisioni della direzione, è anche corroso dall’atteggiamento tenuto dai “terzini” (la corrente del PSI guidata da Lazzari, vicina alla Terza Internazionale comunista), i quali il 5 febbraio concordarono con il PCd’I una lista elettorale comune, denominata di «Unità proletaria», la quale ebbe come funzione, sia di sostituire agli occhi delle masse il mancato accordo con i socialisti, sia di permettere ai comunisti di presentare all’Internazionale Comunista un fronte unico, seppure con alleati deboli (però radicati nella Venezia Giulia, nelle Puglie, nella provincia di Siena e nel Lazio).

In conseguenza di tali decisioni la direzione del PSI, riunitasi a Roma il 10 febbraio, approvò un ordine del giorno di radiazione dai quadri del partito delle sezioni e dei singoli iscritti oppostisi alla tattica deliberata per le elezioni.

A questo provvedimento i “terzini” reagirono lanciando, attraverso le pagine dell‘Unità (il nome del giornale fu deciso due mesi prima proprio per fare l’unità con i “terzini”), un’esortazione ai loro compagni a non piegarsi al decreto della direzione e a ritirare ugualmente la tessera del partito per l’anno 1924 25.

Sarà proprio in questa lista di “Unità proletaria” con i “terzini” che Gramsci venne eletto deputato alle elezioni-truffa del 6 aprile 1924.

Gramsci ottenne 6.584 voti di preferenza su 41.059 voti di lista in Piemonte, e 1.856 su 32.383 in Veneto, risultando eletto deputato in quest’ultima circoscrizione.

I risultati delle liste di “Unità proletaria” mostrarono la conquista di importanti settori centro meridionali (dal 8,5% del 1921 al 12,09% nel 1924). I “terzini” confluirono nel PCd’I nell’agosto del 1924.

Nel mese di maggio Gramsci lasciò Vienna e poté rientrare in Italia, dopo due anni, grazie all’immunità parlamentare che lo avrebbe garantito dall’arresto; entrò nell’Esecutivo del Partito comunista d’Italia e si trasferì a Roma.

Nel mese di agosto, nella riunione del CC in cui tenne una relazione sulla lotta al fascismo, per lo sviluppo del processo rivoluzionario (si era aperta la crisi seguente all’assassinio di Matteotti), Antonio Gramsci venne eletto segretario del Partito Comunista d’Italia.

Di Antonio Gramsci deputato va ricordato il discorso sulla massoneria, pronunciato a nome del PCdìI alla Camera il 16 maggio 1925, che si concluse con le parole “Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo”. Un discorso che i compagni e le compagne dovrebbero leggere con attenzione.

27 aprile 2024

Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia
view post Posted: 26/4/2024, 12:13 Fassino, chiedero' a suore e preti votare Pd - Off topic
https://pennatagliente.wordpress.com/2024/...bblichiamo-564/

L’ultima impresa di Piero Fassino



Tutti ricorderanno la sceneggiata di Piero Fassino in parlamento, quando sventolando la sua busta paga dichiàrava quasi piangendo che col misero stipendio da parlamentare non ce la fa a campare. Forse per dimostrare praticamente che col suo povero stipendio non si può permettere neanche di fare un regalino alla moglie, il 15 aprile nell’area commerciale dell’aeroporto di Fiumicino, s’è rubato un profumo del valore di circa cento euro

Beccato sul fatto dal sorvegliante, Fassino ha dichiarato che il profumo l’aveva semplicemente “appoggiato nella tasca della giacca”

Molti suoi colleghi hanno rubato milioni, ma lui è talmente miserabile da rubare un centinaio di euro. Ma quello di essere un ladruncolo non è il suo difetto peggiore. Ricordiamo che Fassino sostiene il boia Netanyahu e i nazisti ucraini. Molti non sanno che quando era segretario del PCI a Torino fu soprannominato “spione di questura” perché ogni mattina portava in questura i nomi degli “operai estremisti”, vale a dire di quelli che erano alla testa delle lotte nelle fabbriche torinesi. Diversi anni dopo fu insultato e cacciato dal corteo del primo maggio a Torino insieme col suo compagno di merende Fausto Bertinotti. Insomma, è proprio una merdaccia, come direbbe Paolo Villaggio…

Aldo Calcidese – Circolo Itinerante Proletario “Georges Politzer”
view post Posted: 26/4/2024, 12:10 Apre il “Canale Comunista (M-L)” - Partiti e movimenti comunisti
Apre il “Canale Comunista (M-L)”, un nuovo strumento di propaganda rivoluzionaria



La propaganda rivoluzionaria è il mezzo insostituibile per la diffusione dell’ ideologia della classe operaia, del marxismo-leninismo e dell’internazionalismo proletario, della linea politica, dei comunicati e delle opinioni dell’organizzazione comunista per indirizzare ed accelerare il processo rivoluzionario.

Essa affronta e denuncia da un punto di vista comunista gli avvenimenti, i casi di arbitrio e oppressione, le violenze e le ingiustizie, le guerre di rapina, e s’indirizza particolarmente agli operai e agli altri lavoratori sfruttati, ai giovani, per svilupparne la coscienza politica di classe, utilizzando i più diversi strumenti, inclusi quelli del nemico di classe.

Una delle funzioni proprie della propaganda comunista è lo sviluppo delle condizioni soggettive della rivoluzione proletaria, la più importante delle quali è la costituzione del Partito comunista.

Con queste premesse presentiamo un nuovo mezzo di propaganda da noi gestita in comune: il “Canale Comunista (M-L)” su Telegram:

LINK: Canale Comunista (M-L)

Seguite il Canale Comunista (M-L), iscrivetevi!

25 Aprile 2024

Militanza Comunista Toscana

Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia

Ps: Chi non ha installato la versione desktop di Telegram può aprire il link dal cellulare, oppure cercare in Telegram il nostro canale.
view post Posted: 25/4/2024, 09:55 Dien Bien Phu - Storia
www.resistenze.org/sito/te/po/vi/poviod18-027112.htm

Ðiện Biên Phủ settant'anni dopo



Sandra Scagliotti

18/04/2024

Se tutta la storia del Việt Nam - dal suo più antico passato, sino ai recenti successi economici - costituisce un formidabile strumento per meglio attrezzare il nostro bagaglio contemporaneo di saperi, la battaglia di Điện Biên Phủ, non solo appartiene alla Storia, ma è a sua volta una utile radice per comprendere il mondo in cui viviamo - un mondo dove l'instabilità regna sovrana, dove la pace non è che un'utopica speranza, dove fattori incontrollabili trovano risonanza mondiale.



La memoria collettiva di uno specifico evento, talvolta, assume forme assai diverse dalle reazioni assunte all'epoca dei fatti dai contemporanei. In che modo, potremmo chiederci, fu informato il mondo occidentale, tra il novembre 1953 e il maggio 1954, della battaglia di Điện Biên Phủ? E, come reagì?

Subito dopo il lancio dei paracadutisti, quando già la sproporzione delle forze appariva evidente, la maggior parte degli osservatori prevedeva una sicura vittoria della Francia. Tuttavia, con il progressivo diffondersi delle notizie sull'evolversi del conflitto, gran parte del mondo politico francese e occidentale precipitò in una spirale di dubbio. Infine, in un clima drammatico, la storica vittoria del Việt Nam - un Paese che era stato teatro di una resistenza anti-coloniale durata quasi un secolo - risonò a livello internazionale, sancendo la definitiva scomparsa dell'Indocina francese. Questo tornante storico, questo evento epocale, fu colto, nondimeno, con episodica e moderata attenzione dall'opinione pubblica francese. I francesi - e l'Europa in genere - non arrivarono mai a considerare quel conflitto dall'altra parte del mondo come meritevole di un'attenzione permanente, di specifiche iniziative di massa, di un impegno assiduo che avrebbe potuto in qualche modo influenzare la politica del governo francese e le relazioni internazionali.

Volendoci per un attimo soffermare sul "nodo dell'informazione e delle reazioni dei contemporanei", va detto che, se, nel complesso, la stampa francese ha costantemente fornito un'immagine faziosa dei fatti, prima della battaglia, la maggior parte dei giornali non riportò la realtà della posta in gioco; l'arroganza razzista, il disprezzo per il nemico e il più virulento anticomunismo si fecero sentire su quelle pagine. Nel corso della battaglia, quasi tutti i giornali, sfruttando la facile vena di eroismo, fecero di tutto per nascondere le vere responsabilità della tragedia; dopo il 7 maggio 1954, tuttavia, nonostante alcune eccezioni, la stampa creò un diversivo, nascondendo la verità dietro le maschere dell'unità nazionale e del dolore.

Eguale parabola si era prodotta in America alla fine della seconda guerra mondiale; nel 1945, si respirava aria di trionfalismo, eppure gli USA, usciti vittoriosi da una guerra che ne aveva sancito la superpotenza, accanto alla celebrazione dell'orgoglio e del coraggio, non poterono negare la "coscienza dell'atrocità. Il dubbio una volta insinuatosi, è indelebile e si perpetua: sarà così anche per la "guerra dimenticata" che precede il Việt Nam, cioè la guerra di Corea; gran parte della popolazione associa la mancata vittoria a un indebolimento del carattere americano, prima fase, forse, di una generale perdita di valori. Nell'impossibilità di glorificare i suoi soldati, l'America vuole ostinatamente farne dei martiri, unica via di uscita di fronte al dubbio, alla coscienza di atrocità, fantasmi che, dopo Hiroshima, dopo la Corea, torneranno ad offuscare il sogno americano con sempre maggior vigore. Il memorial dedicato alle vittime del Việt Nam, nel cimitero di Arlington, ne costituisce l'esempio più lampante: è la rappresentazione della discesa verso "la valle della Morte", verso il "muro del pianto", dove non si compiono celebrazioni american and proud, ma si porta il lutto. A questo primo monumento, va detto, è poi stata aggiunta la scultura di tre soldati che sorreggono una bandiera americana affiancati da una infermiera - i soldati, qui, sembrano più vittime che invasori e divengono un simbolo della nuova fase della "sindrome del Việt Nam", dove il cordoglio si sostituisce all'orgoglio.

Numerosi sono gli studi dedicati alla battaglia di Điện Biên Phủ apparsi a livello internazionale; emergono quelli di Alain Ruscio, che, a mio avviso, permane fra i migliori specialisti di questo periodo storico. Il Centro di Studi vietnamiti, a sua volta, ha pubblicato varie analisi, apparse sui Quaderni Vietnamiti e sulla rivista Mekong, firmate, fra il resto, dal'indimenticato Maestro Charles Fourniau e, nondimeno, da Pino Tagliazucchi e Sergio Ricaldone. Man mano che la ricerca avanza, nuove analisi internazionali offrono più ampie prospettive di osservazione e riflessione, alla luce di nuovi reperti documentari, ricerche in emeroteche digitalizzate, documentari e film prodotti in questi settant'anni. Va detto, peraltro, che gli urbanisti, gli economisti, gli agronomi e i cineasti sono assai più attivi degli storici; nel nostro Paese, ancor oggi, nel momento in cui il Việt Nam raccoglie successi in politica internazionale ed estende le sue relazioni multilaterali, l'inerente produzione storica e pubblicistica permane limitata. Questo costituisce non solo un limite di carattere accademico, ma anche un impasse di natura politica e ideologica, poiché le sequele del pensiero coloniale sono all'ora attuale ancor ben lungi dall'essersi esaurite e la malcelata ossessione di riabilitare i trascorsi coloniali e neo-coloniali trapela senza posa. Colonialismo, lotte coloniali e anti-coloniali oggi rivivono nelle realtà del moderno eurocentrismo, nelle politiche migratorie e nell'oppressione razziale in seno alle società contemporanee, a varie latitudini.

Vorrei concludere questi spunti di riflessione sottolineando che nel mondo occidentale, la storica battaglia di Điện Biên Phủ, viene da sempre associata al suo principale protagonista, núi lửa, il "vulcano sotto la neve", che, com'è noto, altri non è che il celebre generale Võ Nguyên Giáp: dal luglio 1954, di generazione in generazione, al passo con gli accadimenti internazionali, il suo ricordo non si è sopito. Hồ Chí Minh e il geniale generale Giáp, forti della tenacia e della determinazione del popolo vietnamita, nel rivendicare la propria indipendenza e libertà dal giogo coloniale, riuscirono a raccogliere un'armata popolare e portarla alla sfolgorante vittoria. Un piccolo popolo, male armato, si era imposto su una vigorosa potenza militare. Da allora, la "storica vittoria d'Indocina", come viene ancor oggi comunemente definita, al di là della sua portata e del suo significato su scala mondiale, divenne un simbolo per tutti i colonizzati, per tutti i popoli oppressi. In Điện Biên Phủ essi videro la propria vittoria, e constatarono come un popolo unito, determinato a lottare per la sua indipendenza, poteva sconfiggere una grande potenza occidentale.

Điện Biên Phủ incarna l'essenza dell'incessante ribellione di tutto un popolo unito contro un oppressore straniero, rappresenta la strenua lotta per l'indipendenza e una resistenza perdurata anche oltre Điện Biên Phủ (i fatti sono tristemente noti).

Ben lungi dall'essere dimentica, la vittoria di Điện Biên Phủ, è stata e resterà uno dei fatti maggiori per la storia dei popoli e nondimeno, una fondamentale chiave di lettura della Storia. Purtuttavia, se - come avvertiva Charles Fourniau, altro grande Maestro di studi relativi all'Indocina francese - il colonialismo è stato sconfitto a Điện Biên Phủ, occorre essere ancora prudenti e vigili, poiché, le catene del passato coloniale segnano ancora drammaticamente il nostro presente e, ribadiamo, la declinazione del rapporto dominante-dominato, ereditato da un passato non ancora del tutto sepolto, è oggi più che mai presente.

Note:

*) Sandra Scagliotti, vietnamologa, laureatasi in Scienze Politiche/Relazioni Internazio¬nali, dalla sua tesi di laurea storico-politica sul Việt Nam (1983) ha derivato il suo interesse di studio e ricerca per questo Paese, dove ha perfezionato i suoi studi. Nel 1989 ha fondato il Centro di Studi Vietnamiti; ha poi tenuto corsi e seminari sul Việt Nam presso l'Università degli Studi di Torino. È autrice e curatrice di numerose pub¬blica-zioni storico sociali, fra cui i volumi: Il banco di sabbia dorata. Il Việt Nam e gli arcipelaghi del Mare orientale (Epics, Torino 2017); Il drago e la fata. Politiche e poetiche nel Việt Nam moderno e contempora¬neo (Stampatori universitaria, Torino 2013); Il Corvo e il Pavone. Racconti fantastici dal Việt Nam (2019) - con Tran Doan Trang; Việt Nam. Cent'anni di resistenza (1885-1975), EPICS, Torino, 2020. E' oggi Console onoraria della Repubblica Socialista del Việt Nam con territorialità Piemonte e Liguria. .
view post Posted: 24/4/2024, 09:32 notizie curiose - Canalisation d'égout
Il Fatto Quotidiano
Fassino denunciato per il tentato furto di un profumo al duty free di Fiumicino. La difesa: “L’avevo appoggiato nella giacca”

Un profumo da 100 euro “appoggiato” nella tasca del giaccone, l’allarme antitaccheggio che suona, il vigilante che si avvicina, il tentativo di spiegazioni e, alla fine, il caso “chiuso” – si fa per dire – con una denuncia sul groppone per tentato furto. (Di Vincenzo Bisbiglia)
view post Posted: 21/4/2024, 09:36 La Brigata Ebraica - Storia
https://contropiano.org/news/cultura-news/...uDjkiXAu8sTlLqI

I millantati crediti della “Brigata Ebraica”. Un po’ di storia che va conosciuta


di Alberto Fazolo


La Brigata ebraica rappresenta il contributo militare degli ebrei di Palestina nella Seconda Guerra Mondiale. Questi rimasero inattivi fino a praticamente la fine del conflitto, lasciando che si consumasse l’orrore della guerra e dell’Olocausto, senza intervenire.

Dopo decine di milioni di morti, si mobilitarono solo quando si prospettò concretamente la possibilità di costituire lo stato d’Israele e per farlo serviva partecipare alla guerra. Per questo venne mandato un numero simbolico di uomini ad arruolarsi nelle fila dell’esercito inglese.

Costoro arrivarono al fronte quando la guerra stava finendo, dopo la liberazione del campo di Auschwitz (non contribuirono a porre fine all’Olocausto), si limitarono ad inseguire i tedeschi in ritirata, combattendo per un mese. Pur non facendo quasi nulla, si intestarono la vittoria e la memoria.

Ciò si pone in evidente antitesi con i valori della Resistenza, eppure in tempi recenti – nonostante le ombre che la coprono – la Brigata ebraica viene spacciata per la principale paladina della lotta antifascista e in difesa degli ebrei. Ovviamente si tratta di una strumentale manovra revisionista finalizzata a legittimare l’azione passata e presente d’Israele.

*****

Nello scenario politico attuale ha assunto un ruolo molto importante il dibattito in merito alla Brigata ebraica. Prevalentemente ciò è il riflesso dell’acuirsi e della polarizzazione dello scontro mediorientale, ma è anche la manifestazione di una contraddizione nostrana. Per entrambe le ragioni, serve conoscere a fondo la storia della Brigata ebraica.

Questa fu l’unica unità combattente che vide tra le proprie fila ebrei di Palestina, ma non era esclusivamente costituita da ebrei o da palestinesi. Nacque su impulso dell’Agenzia ebraica, che era il prodromo dello Stato d’Israele.

Ben Gurion è il “padre della patria” d’Israele, colui che ha dato il maggior impulso alla causa sionista, che ha plasmato lo Stato e che ne ha guidato il primo Governo. Tra le sue varie affermazioni terrificanti ce ne è una che espone in maniera efficacissima la sua scala di priorità in cui la costruzione dello Stato d’Israele viene anteposta a tutto, prima ancora rispetto alle vite degli ebrei perseguitati dai nazisti: “se sapessi di poter salvare tutti i bambini della Germania portandoli in Inghilterra o soltanto la metà di loro portandoli in Palestina, opterei per la seconda soluzione”1.

Questa frase deve essere sempre tenuta a mente per capire il ruolo e l’obiettivo della Brigata ebraica: non lottare per la libertà e salvare le vite (nemmeno degli ebrei), ma favorire la nascita dello Stato d’Israele.

La frase di Ben Gurion ci pone anche un interrogativo. Uno dei più importanti testi dell’ebraismo, il Talmud di Babilonia, recita “chi salva una vita, salva il mondo intero”. Che si dovrebbe dire allora di chi decide, per bieco calcolo, di non salvare delle vite? Ovviamente il giudizio umano e politico su Ben Gurion, non può che essere di ferma condanna.

Esprimerlo in questa sede serve solo a qualificare il generale contesto in cui si costituì la Brigata ebraica. “Ben Gurion, temendo che ‘la coscienza umana’ potesse spingere alcuni paesi ad aprire le porte agli ebrei tedeschi ammonì: ‘Il sionismo è in pericolo’”2.

Il pericolo che lui vedeva era che non si riuscisse a formare lo Stato d’Israele, ma non che decine di milioni di persone – tra cui alcuni milioni di ebrei – morissero per colpa dei nazisti. Solo quando questi due temi si intrecciarono, Ben Gurion utilizzò in chiave strumentale il secondo a favore del primo.

Le persecuzioni contro gli ebrei iniziarono nella notte dei tempi, ma per affrontare la questione della natura e del ruolo della Brigata ebraica è sufficiente soffermarsi nel periodo che va dalla presa del potere da parte di Adolf Hitler.

Nella Germania nazista la formalizzazione ufficiale della persecuzione contro gli ebrei ci fu il 15 settembre 1935 con la promulgazione delle cosiddette “Leggi di Norimberga”. L’Italia ne seguì a breve l’esempio; il 18 settembre 1938 Mussolini annunciò l’adozione delle “Leggi razziali”.

In Germania, il primo atto di violenza genocida perpetrato dai nazisti contro gli ebrei – sistematico e su vasta scala – ci fu il 9 novembre 1938, in quella che è passata alla storia come “La notte dei cristalli”. A quel punto, fu palese a tutto il mondo che l’odio professato dai nazisti si era già trasformato in sterminio. Eppure, le affermazioni orribili e ciniche di Ben Gurion sul destino dei bambini tedeschi, arrivarono circa un mese dopo.

Ogni tentativo di riabilitare Ben Gurion e il suo progetto, deve passare attraverso questa considerazione.

Il primo gesto concreto per cercare di creare una unità combattente formata esclusivamente da ebrei di Palestina durante la Seconda Guerra Mondiale ci fu il 3 settembre 1939, due giorni dopo l’invasione della Polonia.

La domanda fu formalmente rivolta alle autorità coloniali britanniche (che controllavano quei territori) dal capo del dipartimento politico dell’Agenzia Ebraica3. La richiesta fu respinta perché ovviamente gli inglesi non si fidavano ad armare le popolazioni locali, ben consci che quelle armi gli sarebbero potute essere rivolte contro in un processo insurrezionale di autodeterminazione.

Il sospetto era alimentato dal fatto che la proposta dell’Agenzia ebraica non fosse quello di poter attaccare i nazisti e andare a salvare gli ebrei, ma di “provvedere alla difesa della Palestina stessa, ed eventualmente essere impiegata su altri fronti”4. Per l’Agenzia ebraica la priorità era quindi quella di ottenere il controllo armato del territorio palestinese, non di fermare il nazismo.

In Inghilterra l’idea di coinvolgere delle unità di ebrei nella lotta contro il nazismo piaceva alla politica per l’impatto mediatico che poteva offrire la cosa (Churchill era cautamente favorevole), mentre il Colonial Office e il War Office erano decisamente contrari.

Tuttavia già nel 1940 (dopo un incontro tra Churchill e Chaim Azriel Weizmann, presidente dell’Organizzazione sionista mondiale) gli inglesi diedero agli ebrei di Palestina la possibilità di arruolarsi in formazioni ausiliarie del proprio esercito, per contribuire alla lotta contro il nazismo, cosa che però in pochi fecero davvero.

Ciò probabilmente alimentò i sospetti degli inglesi sul fatto che magari le rappresentanze sioniste non avevano molto interesse al conflitto, ma si preoccupavano prevalentemente di creare delle formazioni armate da usare per la costruzione dello Stato d’Israele.

Un’altra cosa di cui non si ha certezza è su quando i nazisti decisero d’attuare la “soluzione finale”, ossia lo sterminio sistematico e completo di tutti gli ebrei dei territori controllati dal Reich e dai suoi alleati. Ad ogni modo quel momento va collocato tra il 1941 e il 1942.

Un successivo tentativo di far contribuire le popolazioni ebraiche di Palestina alla lotta contro il nazismo venne effettuato nel 1942, quando gli inglesi costituirono una formazione combattente mista di arabi ed ebrei, il Palestine Regiment. Quest’ultimo assorbì coloro già in precedenza arruolati nelle truppe ausiliarie.

Anche in quel caso i volontari ebrei che si arruolarono furono davvero pochi (342 nel mese di luglio e 223 in agosto), mentre quelli arabi ancor meno. Complessivamente vi si arruolarono circa 1600 ebrei e 1200 arabi.

La cosa sollevò l’indignazione di molti ebrei, in particolare di quelli provenienti da Germania e Austria che accusarono “l’Agenzia ebraica di miopia politica, di non vedere cioè come la guerra contro Hitler fosse da ritenersi prioritaria rispetto alla difesa degli insediamenti ebraici di Palestina”5.

Lo scontento era anche delle autorità inglesi che constatarono la sparizione di molte armi, munizioni ed esplosivi dai depositi del Palestine Regiment. Episodi di cui erano responsabili i soldati ebrei che così rifornivano gli arsenali del futuro Stato d’Israele.

Le sorti della Seconda Guerra Mondiale apparvero palesi al mondo intero il 2 febbraio 1943, con la vittoria sovietica nella Battaglia di Stalingrado. Da quel momento si scatenò il contrattacco sovietico verso i nazisti, che però erano ancora lungi dal capitolare.

Il 18 aprile 1943 ci fu una delle più gloriose pagine di Resistenza della Seconda Guerra Mondiale, la Rivolta del ghetto di Varsavia, in cui con poche armi e tanta determinazione, si condusse “una lotta senza speranza, in grado di offrire soltanto una morte dignitosa”6.

Il 10 luglio del 1943 gli americani e gli inglesi sbarcarono in Sicilia e per gli ebrei di Palestina si presentò concretamente l’opportunità di poter andare a contribuire alla liberazione degli ebrei europei dalle persecuzioni nazifasciste. Ma ciò non venne fatto, se non molto tempo (e molti morti) dopo, nel marzo del 1944, quando si riaprirono le trattative tra Agenzia ebraica e Governo britannico per formare una unità combattente di soli ebrei di Palestina.

Parecchio dopo, nel luglio del 1944, si trovò un’intesa di massima. Di che cosa sia stato oggetto quella lunga trattativa, non si sa per certo, ma non è assurdo pensare che la questione centrale fosse la possibilità di costituire uno Stato ebraico in Palestina alla fine della guerra.

La decisione di creare la Brigata ebraica “può essere quindi vista come prova che già nell’estate del 1944 esponenti dell’establishment britannico, e in particolare Winston Churchill, stavano rivalutando positivamente l’idea della partizione della Palestina mandataria”7.

Proprio in quell’estate, la capitolazione della Germania nazista era già stata da tutti riconosciuta come inevitabile, l’unica incognita era “a chi” si sarebbe arresa. Infatti, il 6 giugno ci fu lo Sbarco in Normandia e iniziò la corsa per arrivare primi a Berlino. Forse anche per non dover destinare molte delle proprie forze al controllo dei territori mediorientali, ossia per concentrarle tutte contro la Germania, il Regno Unito decise di avallare la causa sionista.

Il 28 settembre 1944 Churchill comunicò ufficialmente alla Camera dei Comuni la creazione della Brigata ebraica, che nel frattempo aveva già iniziato a formarsi in Egitto.

Gli ebrei di Palestina non risposero in massa alla chiamata per lottare contro il nazismo e non perché non ci fossero soldati già addestrati pronti a farlo. “Si stima che alla fine del 1944 gli uomini su cui l’Agenzia ebraica poteva davvero contare per impiego immediato […] fossero circa 37 000”, ma di questi davvero in pochi si arruolarono unendosi alla Brigata ebraica. “Il numero di suoi effettivi ebrei era di circa 4.000 uomini e non tutti erano ebrei palestinesi”. C’erano poi anche dei non ebrei.

I soldati erano provenienti da 54 diversi paesi e avevano un’estrazione sociale molto eterogenea. Uno dei due vice comandanti era il maggiore Edmund Leopold de Rothschild (membro della famosa casata), mentre la truppa era invece per lo più composta da proletari spesso con idee vagamente socialiste. La Brigata era organizzata in tre battaglioni da circa 750 uomini ciascuno e qualche altra compagnia aggregata.



Tenendo presente che ci sono stati casi di persone che hanno militato nella Brigata ebraica, ma vi si sono uniti dopo la fine delle ostilità e non hanno quindi mai combattuto, ad oggi non è chiaro quanti ebrei di Palestina abbiano effettivamente combattuto nella Seconda Guerra Mondiale.

Al netto di detta incertezza, si tratta comunque di numeri irrisori. Si ha quindi un riscontro al sospetto che nell’interesse della maggioranza dei sionisti di Palestina non vi fosse come priorità quella di sconfiggere Hitler e di fermare l’Olocausto, bensì quella di formare lo Stato d’Israele.

Partecipare, seppur simbolicamente, al fianco di quelli che ormai erano i vincitori della guerra dava il diritto ad avanzare pretese per il dopoguerra. Su questa simbolica partecipazione si sarebbe costruita la legittimità e la pretesa di costituire lo Stato d’Israele.

Questo cinico ed egoistico atteggiamento opportunistico ricorda molto quello di Mussolini che aveva detto nel 1940. quando l’avanzata nazista in Europa sembrava inarrestabile: “Io ho solo bisogno di avere alcune migliaia di morti per sedermi al tavolo della pace accanto ai vincitori”8. La cosa che non riuscì a Mussolini, riuscì invece ad Israele.

Il 5 novembre 1944 la Brigata venne trasferita dall’Egitto a Taranto che, con l’Italia divisa in due dalla guerra, era nelle retrovie e ben lontana dai luoghi di combattimento. Dopo cinque giorni fu inviata a Fiuggi. Il quartier generale si insediò alle terme, mentre il comando si sistemò al Grand Hotel Palazzo della Fonte. A Fiuggi la Brigata passò quattro mesi ad addestrarsi, seppur “non potevano certo dirsi i soldati più efficienti dell’esercito britannico”9.

Il 27 gennaio 1945 l’Armata Rossa liberò Auschwitz. Lo sterminio degli ebrei in qualche modo andò ancora avanti per quattro mesi, ma quella viene generalmente indicata come la conclusione dell’Olocausto. All’epoca la Brigata ebraica stava ancora alle terme di Fiuggi; il suo contributo nel porre fine a quell’orrore è stato quindi nullo.

Il 26 febbraio 1945 la Brigata lasciò Fiuggi diretta in Romagna. Venne aggregata al Quinto corpo d’armata, che era un contenitore in cui confluirono diverse truppe straniere. La Brigata ebraica fu messa sotto al comando dell’Ottava divisione indiana. Lì vi erano anche una divisione neozelandese, uno squadrone corazzato nordirlandese e militari italiani arruolatisi volontari con gli Alleati.



Dieci anni dopo l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, a guerra praticamente finita, la Brigata ebraica divenne operativa e si presentò al fronte per tallonare per qualche giorno i tedeschi in ritirata: “La Brigata arrivò in Italia quando le sorti della guerra erano ormai decise. Partecipò soltanto a qualche scaramuccia”10.

Il primo vero scontro a fuoco della Brigata ebraica con i tedeschi ci fu il 14 marzo 1945, l’ultima azione di guerra fu il 14 aprile 1945.

Gli ebrei di Palestina che caddero nelle fila della Brigata ebraica furono 3011.

Combattendo per un mese con qualche migliaio di uomini (a conflitto praticamente finito) e avendo qualche decina di morti, gli ebrei di Palestina si poterono collocare tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale. Ma si intestarono la vittoria e poi pure la memoria.

Il prezzo in termini di vite fu sensibilmente meno salato di quello messo in conto da Mussolini, salvo poi assistere a tentativi ignobili di appropriarsi di altro per gonfiare i conti. A Gerusalemme, per esempio, “Un monumento onora i 200.000 soldati ebrei caduti combattendo con l’Armata Rossa durante la seconda guerra mondiale. Il memoriale, situato tra le tombe dei soldati israeliani, sembra quasi voler rivendicare un’appartenenza postuma delle vittime all’esercito israeliano e al movimento sionista. Proclama, in un certo senso, che quegli uomini e quelle donne sono caduti non per difendere l’Unione Sovietica nella sua guerra contro i nazisti, bensì per difendere il popolo ebraico e per realizzare la fondazione dello Stato d’Israele”12.

Questi atti di sciacallaggio storiografico servono prevalentemente ad alleviare il senso di colpa e di vergogna per non aver cercato d’impedire l’orrore della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto.

L’Agenzia ebraica e la quasi totalità degli ebrei di Palestina non intervennero per praticamente tutta la Seconda Guerra Mondiale. Mentre morivano decine di milioni di persone e l’incubo dell’Olocausto flagellava gli ebrei europei, altri se ne stavano tranquilli, al riparo sotto la protezione britannica.

Ovviamente, non avevano alcun obbligo legale a combattere, ma di certo ve ne era uno morale, lo stesso che aveva mosso volontari in ogni parte del mondo.

In virtù di quell’obbligo morale, chi decide di non combattere tenendosi lontano dalla guerra – a meno che non sia un obiettore non violento – è un “imboscato”. Ovviamente, il caso dell’”obiezione di coscienza non violenta” non è quello d’Israele.

Scrive Fantoni che per Moshe Shertok (direttore del dipartimento politico dell’Agenzia ebraica), il contributo degli uomini della Brigata ebraica “alla vittoria contro il nazifascismo era secondario, quello che contava davvero era che la loro presenza avrebbe propiziato la nascita dello Stato ebraico. […]. L’obiettivo ultimo e di maggiore importanza […] doveva però essere la creazione d’Israele”13.

Israele nacque nel 1948, ma già da prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale gli ebrei di Palestina si erano dati una loro forma di statualità con delle forze armate (milizie clandestine o simili) che potevano contare su decine di migliaia di uomini. Tra tutti questi, solo in pochi decisero di arruolarsi volontari per andare a lottare contro il nazismo e per cercare di porre fine all’Olocausto.

Gli altri, concentrati solo sulla costruzione del proprio Stato, rimasero indifferenti alla sorte delle decine di milioni di persone morte durante la guerra, soprattutto di coloro che lottarono per la vita e la libertà di tutti, nonché per costruire un mondo migliore.

Tornano quindi alla mente le parole di Antonio Gramsci, scritte alcuni anni prima: “Sono partigiano, vivo, sento nelle coscienze della mia parte già pulsare l’attività della città futura che la mia parte sta costruendo. E in essa la catena sociale non pesa su pochi, in essa ogni cosa che succede non è dovuta al caso, alla fatalità, ma è intelligente opera dei cittadini. Non c’è in essa nessuno che stia alla finestra a guardare mentre i pochi si sacrificano, si svenano. Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti”.

Quello della Brigata ebraica è stato un atteggiamento contrario allo spirito che ha animato tutti quelli che hanno combattuto per un mondo migliore. Mentre in ogni parte del mondo partivano per il fronte milioni di persone, anche volontariamente, qualcun altro si teneva da parte, indifferente. Un atteggiamento in antitesi rispetto ai valori della Resistenza, fatta da volontari che hanno lottato per sconfiggere il nazismo e per porre fine alle sue ingiustizie, in primis le persecuzioni. Chi per calcolo si è tenuto da parte, lasciando che l’orrore si compiesse, ne è in qualche misura corresponsabile e come tale va condannato.

La Brigata ebraica non ha contribuito all’esito della guerra si è affacciata al fronte solo quando la vicenda si stava chiudendo. Se tutti avessero fatto altrettanto, allora Hitler avrebbe conquistato il mondo intero e l’Olocausto sarebbe stato totale. Per questo non c’è motivo d’essere riconoscenti: quel poco che hanno fatto non era per la libertà e la giustizia, ma solo per legittimare la fondazione del proprio Stato. Ma soprattutto il loro atteggiamento è da stigmatizzare, in particolar modo di fronte alle nuove generazioni, perché sia chiaro che quella condotta ha favorito il nazismo.

Il saldo dell’azione della Brigata ebraica fu comunque estremamente positivo per Israele; in cambio di una piccola comparsata a fine guerra, riuscì ad ottenere lo Stato. Il saldo invece tra quello che poteva fare e quello che ha realmente fatto per sconfiggere il nazismo e porre fine all’Olocausto, si traduce in bieco e cinico opportunismo. In tal senso va riconosciuta la totale differenza con l’insurrezione antinazista degli ebrei del Ghetto di Varsavia.

Non si può concludere una trattazione sulla Brigata ebraica senza far riferimento alle attività condotte dopo la conclusione della Seconda Guerra Mondiale, cioè fino a quando non venne sciolta, nell’estate del 1946 (si noti che fu operativa per più tempo dopo la guerra, piuttosto che durante).

La narrativa dominante ci racconta esclusivamente dell’opera svolta per dare assistenza agli ebrei di tutta Europa e del ruolo avuto nel organizzare la migrazione verso Israele. Tuttavia c’è dell’altro che merita d’essere approfondito, in particolare le varie forme di vendetta perpetrate.

Dopo la fine della guerra la Brigata si stabilì nei pressi di Tarvisio, una posizione strategica per intercettare i profughi ebrei in arrivo dall’Europa settentrionale e orientale. Questi venivano accolti, rifocillati e poi accompagnati in Israele. Quell’area (su tutti i lati dei confini) era quella in cui risiedevano diversi nazisti, che vi erano ritornati dopo la fine della guerra.

Gli uomini della Brigata ebraica iniziarono ad andare a caccia di nazisti uccidendone un numero imprecisato, ma verosimilmente compreso tra alcune decine e i 1.500. Queste esecuzioni fanno emergere una serie di questioni politiche, di cui due sono le principali e più interessanti.

La prima riguarda la legittimità di uccidere nazisti e fascisti. Negli ultimi venti anni abbiamo assistito ad un processo di glorificazione della Brigata ebraica. Questo ha investito la società e le istituzioni, sono state fatte celebrazioni ed eretti monumenti. Però in questo processo di glorificazione vengono omesse tante cose, tra cui il fatto che l’attività principale della Brigata ebraica fu di fare vendette dopo la guerra14.

Quindi, ad onor di logica, con questo processo si riconoscerebbe la legittimità di uccidere nazisti e fascisti anche dopo la guerra. Chi scrive non ha ovviamente nulla da obiettare al riguardo, ma non può non far notare un’evidente contraddizione: il doppio standard utilizzato contro gli italiani e gli jugoslavi, le cui vendette attuate dopo la fine della guerra furono duramente represse e ancora oggi sono ferocemente stigmatizzate.

Il caso più noto è quello della Volante Rossa, perseguitata in ogni modo perché aveva provato a fare giustizia anche dopo il 25 aprile 1945.

Questa contraddizione si ingigantisce poi se si guarda nello specifico degli schieramenti politici nostrani: molti sostenitori della Brigata ebraica sono anche i maggiori detrattori della Resistenza italiana, nonché coloro che lanciano le più feroci condanne delle vendette successive alla Liberazione15.

La seconda questione che sollevano queste esecuzioni riguarda la finalità di tali gesti. Come già esposto, gli ebrei di Palestina non lottarono per fermare l’Olocausto, arrivarono sul campo di battaglia a cose fatte, dieci anni dopo l’inizio delle persecuzioni contro gli ebrei, perché avevano come priorità la costruzione dello Stato d’Israele e non salvare le vite. Chi era rimasto a guardare per dieci anni senza intervenire, senza cercare d’impedire, dopo la fine della guerra andò a compiere delle vendette.

Quale giudizio politico andrebbe espresso al riguardo? Chi non ha fatto nulla per impedire è complice, quindi non è che con quelle azioni si cercasse una riabilitazione?

Anche per questo va rimarcata la differenza tra costoro e i partigiani che fecero azioni a guerra finita. Questi ultimi cercavano di portare a compimento un percorso interrotto per fattori esogeni, percorso duro e travagliato, nel quale avevano pagato prezzi carissimi. Drammatici fatti da cui altri si tennero ben distanti fino a quasi la fine della guerra.

Il giudizio politico si intreccia con quello morale, che si formula guardando anche ad altre azioni che, se non ascrivibili direttamente alla Brigata ebraica – in quanto verosimilmente condotte solo da alcuni elementi – la coinvolgono in episodi terrificanti.

Scrive Segev che tra i membri della Brigata ebraica “Alcuni sfogarono la propria rabbia sui prigionieri di guerra tedeschi e devastarono le proprietà dei civili”, e prosegue più avanti dicendo che “alcune azioni erano puri e semplici atti di teppismo”, come il giorno in cui i vendicatori “si nascosero ai margini di una strada e cominciarono a sparare su tutto quello che si muoveva, o come quell’altra volta che uccisero anche un’ebrea scampata all’Olocausto”.

Segev liquida come “teppismo” ciò che sarebbe più corretto chiamare “terrorismo”: ammazzarono persone a caso senza una logica e un motivo. Non risulta che questi criminali siano stati puniti. Nemmeno si sa quanti furono i balordi che si resero responsabili di queste azioni, ma se c’è stata copertura (come sembra che ci sia stata), il marchio dell’infamia va necessariamente esteso.

Come già detto, la Brigata ebraica salì sul carro dei vincitori a guerra praticamente finita, combatté per un mese tallonando i tedeschi in ritirata, si pose in antitesi con i valori della Resistenza, alla fine della guerra alcuni suoi membri si macchiarono di orribili crimini per i quali non vennero puniti; ma alla luce di tutto ciò, lo Stato italiano ha deciso di premiarla con la medaglia d’oro al valor militare16.

La motivazione sa di farsa: “operò durante la seconda guerra mondiale e offrì un notevole contributo alla liberazione della Patria e alla lotta contro gli invasori nazisti”. Non può sfuggire il fatto che si sia trattato di un’operazione politica per istituzionalizzare il supporto ad Israele e per delegittimare le contestazioni17.

Ciò è la manifestazione della miseria e della spregiudicatezza della politica italiana. Non gli si darebbe troppo peso se poi non si dovesse fare il paragone con chi davvero lottò. Allora tutto ciò diventa inaccettabile.

Fermo restando il rispetto per i morti, certe pagine di storia forse è meglio consegnarle all’oblio, perché c’è ben poco di cui andar fieri. Ma se qualcuno rispolvera degli eventi per usarli in maniera strumentale in un processo revisionista di legittimazione e di occultamento dei crimini d’Israele, si assume la responsabilità dell’aspra critica che poi si solleva.

Non si può parlare di quella vicenda senza condannare fermamente. Chi ha davvero a cuore la memoria di quegli uomini, li dovrebbe semmai lasciare nel dimenticatoio della storia.

1 Ben Gurion al CC del Mapai, 7 dicembre 1938.

2 Segev T., (2001), Il Settimo milione, Mondadori. Pag. 27. Si noti che Segev è uno dei più affermati storici israeliani, nato a Gerusalemme il primo marzo 1945 proprio da profughi tedeschi che vi erano arrivati nel 1935.

3 L’Agenzia ebraica era parte dell’Organizzazione sionistica mondiale e dalle autorità britanniche era riconosciuta come ente di rappresentanza delle popolazioni ebraiche di Palestina. Di fatto era la prima forma di statualità d’Israele.

4 Fantoni (2022), La Brigata ebraica, Einaudi.

5 Fantoni (2022).

6 Pratolongo G. (2020), Noi conosciamo i sistemi di Hitler, Red Star Press.

7 Fantoni (2022).

8 La frase è riferita dal Capo di Stato Maggiore, Generale Badoglio.

9 Fantoni (2022)

10 Segev (2001) p. 136.

11 A questi vanno aggiunti 27 ebrei inglesi. Come noto, gli inglesi, non erano volontari, ma coscritti.

12 Segev (2001) p. 387.

13 Fantoni (2022).

14 Segev (2001) riporta che per alcuni suoi membri era “la vendetta il compito più importante per la Brigata”.

15 Forse ciò può essere legato al fatto che tra i sostenitori della Brigata ebraica ci sono alcune formazioni di destra, (anche fasciste, o post), che accolgono il retaggio reazionario post bellico, ma oggi si schierano acriticamente con Israele. Per costoro, il sangue dei vinti lo possono versare solo gli israeliani.

16 Conferita sulla base della legge n.114 del 18 luglio 2017.

17 In particolare negli ultimi anni, quelle che si hanno in occasione del 25 aprile.
view post Posted: 21/4/2024, 09:22 La Baia dei Porci - Storia
da fb Pietro Secchia Nuovo
19/04/1961, fallisce miseramente il tentativo d'invasione della "baia dei Porci" sull'isola di Cuba.
In verità nel post, ciò che m'interessa mettere in risalto è come in quei tre giorni di combattimenti, le forze armate cubane, si dimostrarono molto risolute e preparate, non solo ideologicamente ma estremamente pronte nel difendere la Rivoluzione, anche se in quella circostanza i loro armamenti non fossero, decisamente all'altezza della situazione...
Mi spiego meglio.
Nel 1961 le "Fuerzas Armadas Revolucionarias de Cuba" (FAR) si trovavano ancora in una fase di riorganizzazione e di transizione: armi ed equipaggiamenti moderni forniti dai paesi del Patto di Varsavia o acquistati nelle nazioni europee erano ancora in fase di consegna, e gran parte degli uomini doveva ancora utilizzare i rimasugli del vecchio esercito del dittatore Batista.
Le forze terrestri regolari erano suddivise in nove divisioni di fanteria, ciascuna con due brigate di 1.800 uomini e unità di supporto, oltre ad una divisione corazzata recentemente formata con l'assistenza sovietica.
A parte alcune aliquote della divisione corazzata e alcune batterie di artiglieria le forze regolari non furono coinvolte negli scontri della Baia dei Porci, che invece furono portati avanti principalmente dalla Milizia nazionale rivoluzionaria (MNR), un'organizzazione di recente formazione composta sostanzialmente da gruppi di civili armati raccolti tra i sostenitori della rivoluzione: nove battaglioni della milizia, oltre a una batteria d'artiglieria e altre unità ausiliarie, sostennero il grosso degli scontri alla Baia dei Porci.
Anche un battaglione della Policía Nacional Revolucionaria prese parte ai combattimenti.
Anche se l'equipaggiamento aereo della "Defensa Anti-Aérea y Fuerza Aérea Revolucionaria" (DAFAR) non è del tutto noto, si ritiene che nell'aprile 1961 i velivoli da combattimento operativi fossero: nove bombardieri Martin B-26 Marauder di fabbricazione statunitense, dieci caccia Hawker Sea Fury di origine britannica, due caccia North American P-51 Mustang e due caccia Republic P-47 Thunderbolt statunitensi, oltre a quattro jet d'addestramento Lockheed T-33 Shooting Star sempre di origine americana.
Il comandante dell'aeronautica cubana, temendo un bombardamento, aveva predisposto l'occultamento degli aerei da combattimento lontano dalle basi, protetti da reti mimetiche, facendo dormire i piloti al pomeriggio sotto le ali degli aerei in modo che fossero ben protetti ma pronti all'intervento in qualsiasi momento.
Inoltre, furono lasciati sulle piste degli aeroporti vecchi aerei civetta non funzionanti, per attirare su di loro le bombe e ingannare gli attaccanti.
Contrariamente i mercenari anti castristi, circa 1.400 uomini (in verità non tutti cubani) furono reclutati a Miami.
Tra questi si contavano 110 latifondisti, 24 grandi proprietari terrieri, 67 proprietari di immobili, 112 grandi commercianti, 194 ex militari e poliziotti, 179 benestanti della borghesia, 55 magnati dell'industria, 112 sottoproletari, 236 lavoratori a tempo indeterminato, 82 dirigenti, 200 membri di club aristocratici e 82 soldati statunitensi.
Questi mercenari furono addestrate da agenti della CIA, in una azienda (finca) di caffè, di proprietà di Robert Allejos, fratello di Carlos ambasciatore del Guatemala negli Stati Uniti.
La base, chiamata Campo Trax, vicino a Retalhuleu sulle montagne meridionali del Guatemala, era al comando di Jack Hawkins.
Circa 240 uomini erano studenti universitari, 200 uomini erano ex militari cubani della truppa di Batista, dei quali 14 ricercati a Cuba per omicidio, torture e stupro.
Ognuno di questi mercenari era pagato 400 dollari al mese durante l'addestramento, con una cifra addizionale di 175 dollari per la moglie e qualcosa in più per ogni figlio.
I comandanti militari, assunti dal responsabile esecutivo della CIA Richard Bissel, furono gli stessi usati per il colpo di stato in Guatemala contro Arbenz del 18 giugno 1954: più esattamente mister Tracy Barnes, David Atlee Phillips, David Morales, Jake Esterline, William "Rip" Robertson, Howard Hunt, Gerry Droller alias Frank Bender, Desmond Fitzgerald, William Harvey e Ted Shackley; tutti uomini della CIA.
Il comando dei mercenari, non fu dato (come in uso al tempo) ad un colonnello ma a un medico: Cardona fu costretto da Allen Dulles ad ingaggiare Manolo Artime, un giovane medico di 28 anni.
Quest'ultimo inviato dall'ala conservatrice cattolica dei GESUITI, appoggiato da padre Posada, un sacerdote gesuita, che lo fece incontrare col cardinale Avery Robert Dulles pure membro gesuita, che lo pose sotto la protezione di suo zio Allen Dulles.
Gli altri comandanti furono Pepe San Roman, Eneido Oliva, vice comandante, e i due supervisori della CIA Grayston Lynch e William "Rip" Robertson della Special Activities Division.
Il 14 aprile 1961, la forza paramilitare cubana partì da Puerto Cabezas, in Nicaragua, salutata dal generale Luis Somoza, presidente del Nicaragua.
Quando Castro lesse l'articolo sul Washington Post disse: "... ora sappiamo quando ma non sappiamo ancora dove".
Partirono sei navi mercantili, più una vecchia nave da sbarco (Landing Craft Infantry, LCI), la USS San Marcos, prese in affitto dalla Garcia Lines, società marittima di Alfred Garcia, al prezzo di 600 dollari al giorno per ogni nave, più carburante, cambusa e personale.
Il 17 aprile, all'una di notte, un gruppo di uomini rana arrivò sulla spiaggia per segnalare alle navi la posizione dello sbarco.
Una camionetta cubana in perlustrazione li scambiò per pescatori, ma un uomo rana aprì il fuoco contro la camionetta, gettando l'allarme fra le forze cubane, che in questo modo seppero che lo sbarco era incominciato.
I 1453 mercenari del corpo di spedizione anticastrista cominciarono lo sbarco nella Baia dei Porci, portando a terra anche carri armati e camion.
Tuttavia ad attenderli trovarono i soldati dell'esercito cubano, al comando dei quali c'erano gli ex guerriglieri del Movimento 26 luglio, più esperti nel combattimento in quelle zone, che avevano attraversato durante i mesi della rivoluzione fino ad arrivare alla presa dell'Avana.
Allen Dulles si trovava a Puerto Rico per imbarcarsi col gruppo dell'Operazione 40, ideata dalla CIA e tenuta segreta anche allo stesso Kennedy, che comprendeva un gruppo di tiratori scelti della CIA, inizialmente 40 e poi portati a 70 militari e poi 80, che avevano il compito di falcidiare i quadri politici comunisti cubani.
A capo dello squadrone della morte c'era Joaquin Sanjenis Perdomo, ex capo della polizia a Cuba, al tempo del presidente Carlos Prío Socarrás e ne facevano parte David Atlee Philips, Howard Hunt e David Sánchez Morales.
Il 18 aprile alle ore 14:00 circa, il segretario generale del PCUS minacciò subito un intervento delle forze armate sovietiche.
Scrisse da Mosca una lettera intitolata "Sia posta fine all'aggressione statunitense contro la Repubblica di Cuba (End U.S. Aggression Against the Republic of Cuba).
Il contingente della CIA, Operazione 40, con Allen Dulles, trasportati su un battello, in rotta verso l'Avana, fu richiamato quando si seppe che non poteva essere impiegato perché lo sbarco era fallito.
Il 19 aprile, i mercenari al servizio della CIA, avendo finito le munizioni ed essendo senza cibo e acqua, fisicamente allo stremo, incominciò la ritirata verso la spiaggia del Giron, dove furono stretti in una tenaglia di fuoco rivoluzionario.
Affinché non fossero falciati dal micidiale fuoco cubano, sulla portaerei Essex fu preparato un gruppo di Skyhawk A-4s, ripitturati in grigio chiaro, cancellando tutti gli scudetti e i numeri d'ordine, e armati con cannoni da 20 mm.
Questi aerei furono mandati come scorta ad un primo gruppo di bombardieri B-26 ma arrivarono in ritardo a causa di un malinteso dovuto alla differenza di fuso orario fra l'ora locale del Nicaragua e di dove si trovava la portaerei vicino a Cuba.
Di conseguenza, i primi bombardieri cercarono di giungere alla spiaggia della ridotta dei mercenari anti castristi, ma ne furono abbattuti ben quattro ed allora i restanti tornarono indietro.
Leo Francis Berliss e Thomas Williard Ray, piloti statunitensi dei B-26, avevano combattuto, cercando, con bombe, razzi e mitragliatrici, di rallentare la chiusura del cerchio a playa Giron e dare modo ai soldati di ritirarsi.
I due piloti americani, abbattuti dai più veloci Sea Fury e T-33, sopravvissero ma cercando di scappare furono colpiti e i loro corpi furono congelati e tenuti a Cuba a estrema memoria, come prova del coinvolgimento statunitense.
Gli aerei da caccia cubana delle FAR, più i T-33 (aerei d'addestramento e armati nella necessità di sola mitragliatrice), salvatisi dai bombardamenti del 15 aprile perché nascosti lontano dagli aeroporti, si levarono in volo e, sparando dei razzi da 76 mm, affondarono la nave di comando Rio Escondido e la nave Houston che trasportavano le munizioni, le radio ricetrasmittenti e i rifornimenti, lasciando gli attaccanti completamente inermi, senza collegamenti, senza benzina e senza alimenti.
Il capitano Enrique Carreras Rojas, noto come "il nonno", lanciò quattro razzi verso l'imbarcazione americana chiamata Houston, in navigazione otto chilometri a sud della Plaia Lunga, colpendola.
Altri due aerei la colpirono con i loro razzi.
Per salvarla dall'affondamento, il capitano della Houston diresse la nave verso la costa, facendola arenare.
Gli aerei rientrarono e ricaricati fecero una nuova incursione colpendo l'imbarcazione americana Rio Escondido, ferma proprio di fronte alla Playa del Giron, che, essendo carica di combustibile, prese fuoco e affondò in breve.
In successivi attacchi fu danneggiata un'altra nave che si allontanò, furono danneggiati molti mezzi da sbarco e tre barche.
Fra il 17 e il 20 aprile i dieci piloti delle FAR cubane effettuarono settanta missioni, abbattendo nove bombardieri B-26 americani su sedici impiegati, affondando due navi da 5.000 tonnellate su sei impiegate e inoltre una nave comunicazioni, tre lance da sbarco d'equipaggiamento e cinque lance da sbarco truppa.
L'operazione Zapata, nonostante i combattenti sbarcati avessero ricevuto un approfondito addestramento militare americano, un rilevante supporto logistico, fu un clamoroso insuccesso.
I mercenari anticastristi ebbero circa 104 morti, mentre l'esercito cubano ebbe 157 morti, purtroppo sotto i bombardamenti americani morirono molti civili.
26 combattenti riuscirono a ritirarsi e furono tratti in salvo sul sommergibile americano in condizioni pietose, essendo rimasti 5 giorni senza cibo e senza acqua.
Circa 1.113 controrivoluzionari si arresero, furono arrestati, imprigionati e processati; venti mesi dopo, il 21 dicembre 1962, furono rilasciati in cambio di 53 milioni di dollari in alimenti per bambini e farmaci.
Solo due di loro, che erano stati condannati in precedenza a Cuba per omicidio e torture, furono trattenuti e condannati a trent'anni di prigione.
Per concludere, ricordo alle amiche ed agli amici che mister Eisenhower approvò una spesa iniziale di 4 400 000 dollari (nel 1959) che comprendeva 950 000 dollari per l'azione politica,
1 700 000 dollari per la propaganda, 1 500 000 dollari per le forze paramilitari e 250 000 dollari per lo spionaggio.
Un anno dopo, la realtà dei fatti relativo al costo del tentativo di sbarco da parte dei mercenari anti castristi, per i contribuenti statunitensi ammonterà a più di 46 milioni di dollari, a cui si aggiunsero i 53 milioni di dollari di risarcimento al legittimo governo Rivoluzionario.
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