Comunismo - Scintilla Rossa

Posts written by RedSioux

view post Posted: 10/11/2019, 14:13 L'imperialismo si organizza in Bolivia - Esteri
Bolivia. Evo Morales accetta la Risoluzione dell’OSA per nuove elezioni
di Rino Condemi

Ultima ora. Con una decisione sofferta e inaspettata, Evo Morales ha annunciato la richiesta di nuove elezioni generali e il rinnovo del Tribunale Supremo Elettorale, l’organo ufficiale finito sotto accusa di frode elettorale che aveva consentito al presidente Morales una nuova vittoria.
La decisione del presidente boliviano arriva dopo una relazione preliminare resa nota questa mattina (vedi sotto) dal segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA), Luis Alamagro. L’agenzia ha concluso che, nel corso dell’audit dei risultati e dopo aver esaminato elementi quali la tecnologia utilizzata nelle elezioni, la catena di custodia, l’integrità dei verbali e le proiezioni statistiche, “sono state riscontrate irregolarità che vanno da molto gravi a indicative”.
In particolare, il documento indica che vi era una manipolazione nel sistema di trasmissione dei risultati elettorali preliminari (TREP), che “influiva sui risultati di tale sistema” e sul calcolo finale, che era anche direttamente influenzato dall’esistenza di “atti fisici con alterazioni e firme contraffatte “.
La risoluzione cita esempi del conteggio dei voti fatti all’estero e denuncia che “dei 176 minuti di analisi del campione che era stato esaminato in Argentina, il 38,07% presenta incoerenze con il numero di cittadini che hanno pagato. riflette un numero maggiore di voti rispetto al totale nelle liste indice. ”
Pertanto, l’OSA afferma che il gruppo incaricato dell’audit “non può convalidare una vittoria al primo turno” per il presidente Evo Morales e ha raccomandato che “un altro processo elettorale” venga svolto, sebbene con “nuove autorità elettorali per lo svolgimento di elezioni affidabili” “.

Questo audit è stato condotto con l’approvazione del governo boliviano, tuttavia è stato respinto dal leader dell’opposizione Carlos Mesa, quindi ci si aspetta quale sarà la sua posizione, ora che i risultati dell’OSA recepiscono quello che hanno richiesto con le violente manifestazioni nelle strade ossia la ripetizione delle elezioni.

Qui di seguito il testo della Risoluzione dell’OSA

Il Segretariato Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) segue costantemente i molti aspetti della situazione in Bolivia mentre, di fronte alle tensioni nel paese, ha richiesto al team di audit il massimo impegno per avanzare i risultati del rapporto nel processo di preparazione delle ultime elezioni.
La situazione nel paese richiede attori governativi (principalmente) e politici delle diverse opzioni, nonché tutte le istituzioni per agire in conformità con la Costituzione, la responsabilità e il rispetto dei mezzi pacifici.
Il diritto alla protesta pacifica deve essere protetto e garantito, mentre le istituzioni dello Stato boliviano devono agire in conformità con le disposizioni della Costituzione e le leggi del paese.
La cosa più preziosa da tenere a mente in questo momento è il diritto alla vita dei boliviani ed evitare qualsiasi confronto violento tra compatrioti.
Dal Segretariato Generale dell’OSA ribadiamo la volontà di cooperare nella ricerca di soluzioni democratiche per il Paese, motivo per cui, a causa della gravità delle denunce e delle analisi relative al processo elettorale che il team di revisori dei conti ci ha trasferito Va notato che il primo turno delle elezioni del 20 ottobre deve essere annullato e il processo elettorale deve ricominciare, il primo turno ha luogo non appena ci siano nuove condizioni che diano nuove garanzie per la sua celebrazione, tra cui una nuova composizione del corpo elettorale.
Naturalmente, rimane il rapporto finale dettagliato sulla questione che verrà elaborato secondo le ipotesi stabilite.
Resta inoltre inteso che i mandati costituzionali non dovrebbero essere interrotti, incluso quello del presidente Evo Morales.
Il Segretariato Generale ribadisce la richiesta di evitare l’estensione della violenza e fa pervenire la sua solidarietà al popolo boliviano.
view post Posted: 10/11/2019, 09:49 L'imperialismo si organizza in Bolivia - Esteri
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Bolivia, Morales: 'A fuoco case di due governatori'
Condannato l'attacco, definito "codardo e selvaggio"

Il presidente boliviano Evo Morales ha denunciato la notte scorsa di fronte alla comunità internazionale ed al popolo boliviano che "il piano di golpe fascista esegue atti violenti con gruppi irregolari che hanno incendiato la casa dei governatori di Chuquisaca ed Oruro e quella di mia sorella in quest'ultima città".

Via Twitter Morales ha anche condannato l'attacco "codardo e selvaggio", "nello stile delle dittature militari", alla radio della Confederazione sindacale unica dei lavoratori contadini della Bolivia (Csutcb).

Il capo dello Stato ha anche rivelato che "gruppi organizzati" hanno preso il controllo dei media statali Bolivia Tv (Btv) e Red Patria Nueva (Rpn). "Dopo aver minacciato ed intimorito i giornalisti - ha concluso - li hanno obbligati ad abbandonare le loro fonti di lavoro".

Settori della polizia boliviana si sono ammutinati da due giorni a Cochabamba e in altre città del Paese nel quadro di proteste di piazza contro il presidente Evo Morales, la cui recente conferma alla massima carica dello Stato nelle elezioni del 20 ottobre è respinta dall'opposizione. Secondo il quotidiano La Razon, l'ammutinamento è cominciato ieri pomeriggio nell'Unità tattica di operazioni di polizia (Utop) di Cochabamba e si è esteso nelle ore successive a settori di agenti di altri cinque dipartimenti: Chuquisaca, Tarija, Santa Cruz, Potosí e Oruro. Il ministro dell'Interno, Carlos Romero, ha accettato la principale richiesta di Cochabamba, esonerando il capo della polizia dipartimentale, Raúl Grandy, dicendosi fiducioso di poter superare il malessere attraverso il dialogo. Da parte sua il ministro della Difesa, Javier Zavaleta, ha escluso un intervento dell'esercito in questa crisi.

fonte Ansa
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view post Posted: 8/11/2019, 17:48 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
Non v'è dubbio che la Costituzione consenta l'espropriazione a determinate condizioni e mi riferisco agli articoli 42 e 43. Piuttosto rimango scettico sul modo di imporsi davanti a queste vicende. Temo infatti che ciò che per noi può apparire ovvio, potrebbe non esserlo altrettanto per altri.
view post Posted: 8/11/2019, 11:31 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE (carre @ 8/11/2019, 01:07) 
Questa settimana con la nostra parola d’ordine, che è l’unica attuabile, fuori dai cancelli dell’ILVA dobbiamo dire: “l’ILVA va nazionalizzata. Che cos’altro dobbiamo aspettare? Applichiamo la Costituzione!”

Io nutro forti dubbi sul senso di queste affermazioni. Come è intesa la nazionalizzazione di un'attività produttiva attuata da uno Stato borghese dal partito?
Per applicazione della Costituzione cosa si intende?
Come è possibile che un partito comunista si faccia strada con queste parole d'ordine?
view post Posted: 7/11/2019, 15:39 ingiustizie del capitalismo - Off topic
CITAZIONE (aixo @ 7/11/2019, 14:49) 
CITAZIONE (vecio_ @ 7/11/2019, 14:39) 
Non so se le cause di lavoro abbiano un iter a parte, comunque pensavo che avesse vinto in primo grado e avesse perso l'appello da parte di Poste, ma se invece l'ultima sentenza è quella della Cassazione ovviamente non ci sono altri gradi.

Sì, mi sono dimenticato di dire che mio padre ha vinto 2 volte, e proprio la terza dopo molti anni ha perso. E' ovvio che la giustizia italiana(direi ingiustizia italiana) è fatta in maniera tale di aiutare i ricchi (come dimostra il fatto che molti politici che hanno commesso crimini alla fine si ritrovano liberi) se ci sono tempi lunghi è proprio per questo, nulla costa fare una riforma della giustizia come si deve per diminuire i tempi ma se non è stata fatta fino a ora un motivo ci sarà.

Ma la Cassazione ha cassato la Sentenza senza rinvio? In quest'ultimo caso le ipotesi sono tassative e riguardano vizi radicali del giudizio di merito. Altrimenti ha cassato rinviando al Giudice del grado precedente che dovrà conformarsi al principio di diritto espresso nella sentenza di Cassazione.
view post Posted: 4/11/2019, 15:35 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE (aixo @ 4/11/2019, 15:34) 
CITAZIONE (carre @ 4/11/2019, 14:37) 
Complimenti per la modestia, ma non hai risposto alla mia semplicissima domanda.

Ok la risposta è sì, ho letto almeno Marx e Lenin almeno in compendio, ma mi pareva scontato dato i discorsi che sto facendo, se vuoi possiamo confrontare quali parti ho letto io e quali tu, non ho problema

Stai per entrare in una valle di lacrime
view post Posted: 4/11/2019, 15:34 Crisi, lavoratori allo sbaraglio - Varie
FCA/PSA: LA “FUSIONE DI ALLOWEEN” E LA BUFALA DELL’AUTO ELETTRICA

Non a caso la ‘fusione’ è stata presentata alla vigilia della “notte degli zombie”! Quando faranno rivivere ancora una volta i ‘piani industriali fantasma’ di FCA (ormai trentennali) nell’effimera notte di Alloween!

Lo scandalo dell’auto elettrica italiana: 333 miliardi e 740 milioni di lire furono già regalati dallo Stato (e ad obtorto collo dai lavoratori e dai contribuenti) alla Fiat, oggi FCA, per realizzare l’auto elettrica in Italia e produrre già 23 anni fa (nel 1996, nell’ex Alfa di Arese) la prima vettura elettrica ed un’altra di seconda generazione nel 1999, più un’altra vettura ‘ibrida’ (benzina/elettrica). Furono firmati solenni accordi per la creazione del ‘polo della mobilità sostenibile’ tra Fiat, sindacati confederali, Regione Lombardia e Provincia, nonché dai comuni interessati di Arese, Garbagnate, Rho e Lainate, nonché da Governo e Presidenza del Consiglio, Ministri competenti ecc. (vedi scheda la bufala dell’auto elettrica italiana - per approfondimenti vedi ‘DOSSIER / FIAT AUTOSABOTAGGIO CON I SOLDI DELLO STATO’). Ma delle 1500 vetture annue da produrre a regime già 20 anni fa (1000 elettriche e 500 ibride) ne furono prodotte in tutto appena 221 ed ognuna di loro costò alla produzione oltre 1 miliardo di lire dell’epoca! Poi gli impianti dell’ex Alfa Romeo di Arese furono dismessi e l’area sottoposta a speculazione edilizia e finte reindustrializazioni.

L’accordo in atto tra FCA e PSA non cambia ma conferma la “strategia di fusione” di FCA perseguente la ulteriore liquefazione dei già risicati livelli occupazionali e produttivi delle fabbriche italiane: ma come può paventare la FCA di costituire con PSA il 4° gruppo mondiale dell’automotive con una risibile produzione annua di 695.000 vetture ed i lavoratori delle fabbriche italiane in cassa integrazione senza soluzione di continuità ormai da qualche decennio? Ma come può pensare che la PSA possa regalarle, in cambio di niente, le nuove tecnologie dell’elettrico? Infatti non lo pensa e si prepara allo scambio: drastici tagli occupazionali e produttivi in Italia in cambio del servitoraggio a PSA! A guadagnarci, ancora una volta a sbafo saranno gli azionisti… a pagare saranno ancora una volta i lavoratori ed i contribuenti! Mentre il governo, consapevolmente complice, balbetta impotente e resta a guardare.

Comunicato Slai cobas
view post Posted: 2/11/2019, 19:06 EDOARDO BUSO PRODUCTION 2019 - Off topic
CITAZIONE (Colonello Busachov @ 30/9/2019, 11:04) 
ciao Vecio,nascono e basta non c'è molto da dire...utilizzo dei sequencer e dei loop online e poi suono la tastiera con un programma scaricato ...e registro il tutto con audacity ,prima cerco i loop poi faccio gli accordi poi la melodia e poi metto una base ritmica in loop ed effetti speciali in loop piu' l' utilizzo di drum machine e sintetizzatori fruibili online...e poi mixo tutto !!! ma non c'è una reale ispirazione a qualcosa...piu che altro mi viene in mente un soggetto ,ovvero un titolo e penso come dovrebbe essere costruita una musica per parlare di buco dell'ozono o di paperino ...ma di piu non saprei dire :)

Eppure ricordo che sul finire del 2014 facevi ampio uso di scale arabe e percussioni, ti sarai pure ispirato a qualcosa in particolare
view post Posted: 2/11/2019, 18:25 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE (carre @ 31/10/2019, 18:51) 
L'UE millanta di essere una istituzione statuale, detta leggi ecc, e quindi come tale può esprimesi sui questioni di interesse internazionale. Altrimenti noi dovremmo pensare che gli USA, ove A sta per America, non dovrebbero interessarsi di problemi extra-americani. E pure l'URSS .....

Vorrei premettere che appellarsi ad una determinata istituzione presuppone l’idea di sottoporre alla medesima un’istanza nell’auspicio dell’adozione di un certo provvedimento. Ora, mi sembra inutile sperticarsi per tentare di dare altre valenze all’appello fatto da Rizzo (in proprio o in nome del partito?). Peraltro lo stesso Rizzo riporta la notizia del corriere tale e quale senza alcun emendamento, è dunque ragionevole ritenere che lo stesso Rizzo abbia ben pensato di rivolgersi all’UE affinché quest’ultima adottasse un provvedimento relativo alla situazione cilena. Ora dal mio punto di vista (ditemi voi se coerente o meno), una tale condotta è ingiustificabile. Se Rizzo avesse semplicemente voluto mettere in luce l’atteggiamento contraddittorio delle istituzioni europee, avrebbe potuto farlo in altri modi altrettanto efficaci e che non prestassero il fianco a critiche come quelle che intendo esporre.
Il problema di fondo a mio avviso si rifà a quanto giustamente, e in più occasioni, sottolineato da Primomaggio, ossia il carattere opportunista del modo politico di Rizzo e aihmé dell’intero partito. Più specificamente ritengo che Rizzo sia perfettamente integrato nei meccanismi istituzionali borghesi. L’appello fatto all’U.E. né è un esempio, forse il più recente. Ci si rivolge all’U.E. come ad un’entità sovranazionale particolarmente pericolosa per il proletariato e per le masse popolari oppresse, come ad un nemico mortale che deve essere raso al suolo, come ad un’istituzione assolutamente irriformabile, strumento della borghesia più pericolosa e senz’altro più attrezzata. E’ forse possibile un dialogo nei termini auspicati da Rizzo? Insomma d’accordo nelle dichiarazioni di lotta nei confronti dell’UE e dell’Euro, ma nella pratica bisogna anche essere coerenti!
E’ da un po’ di post che si giustificano alcune pratiche del PC, che in precedenza avrebbero fatto rizzare i capelli a tutti i compagni del Forum, come necessarie al fine di avere visibilità, beh a questo punto che Rizzo si metta a interpretare un porno, di questi tempi potrebbe anche funzionare.
Tornando seri, a me pare che il PC non abbia una strategia e di conseguenza non possa servirsi di espedienti tattici quali l’elettoralismo e il parlamentarismo, i quali, spero concordiate con me, non sono altro che mezzi.
Ho sempre sostenuto che la partecipazione alle istituzioni borghesi rappresentasse un espediente tattico necessario, oggi un po’ meno in realtà, e lo dico a costo di essere tacciato di estremismo, ma ditemi un po’ voi se oggi le condizioni sono le medesime della prima metà del 900?
Tuttavia, nel caso del PC mi sembra di rilevare che il parlamentarismo non rappresenti un mero espediente tattico, ma nella totale spaesatezza dei quadri del partito rappresenti forse l’unica rotta da seguire. Un po’ come dire, intanto aumentiamo il nostro elettorato poi vediamo che succede.
Ancora, se l’elettoralismo è usato dal PC come espediente per attrarre masse popolari (quali classi?) occorre essere ancor più sicuri circa la strategia da porre in essere, in quanto si rischia di veicolare le stesse masse all’interno dei meccasinismo istituzionali borghesi con evidentissimi aspetti negativi!
Quanto già espresso è, forse, confermato da un altro indizio, a mio avviso sempre più spesso sottovalutato dai compagni. E’ pur vero che succede che sia la stessa borghesia a offrire l’assist al proprio nemico, ma onestamente i continui inviti che i media rivolgono a Marco Rizzo non vi dicono qualcosa? Veramente si invita il nemico per dire la sua? Oppure si cerca di canonizzarlo? O ancora il nemico, è un nemico solo a parole, ma in realta è assolutamente sublaterno ai meccanismi imposti dal capitalismo?
Insomma, a me pare che al di là dei cori Stalin Stalin non ci sia molto di nuovo, capisco anche la volonta, assolutamente lodevole, dei compagni di volersi mettere in gioco e di voler contribuire fattivamente alla lotta contro il capitalismo, ma non credo che questa possa proseguire al fianco di del sig. Rizzo. Insomma, io più che andare da Sassoli o a quelli che il calcio… cercherei di egemonizzare tutti i percorsi alternativi alla logica istituzionale borghese. Starei in mezzo ai compagni che si recano a Capo Frasca contro le installazioni militari, starei tra i No Tav, tra i No Muos, all’interno dei movimenti per la casa all’interno dei Sindacati (ebbene sì TUTTI i sindacati) e non come ospite a quelli che il calcio. Per condurre il partito della rivoluzione serve anche autorevolezza e coerenza soprattutto da chi ne ha la rappresentanza.
view post Posted: 31/10/2019, 17:58 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
L'UE dovrebbe ergersi a difesa delle masse popolari oppresse cilene?
Il lupo ha perso il pelo...
view post Posted: 26/8/2016, 15:19 L'imperialismo si organizza in Siria - Esteri
CITAZIONE (Kollontaj @ 25/8/2016, 20:37) 
se fosse cosi, la Russia avrebbe venduto la Siria...

Le alleanze tra i poli imperialisti si fanno e si disfano continuamente, e non potrebbe essere altrimenti. Che la Russia abbia rilasciato il nulla osta alla Turchia mi pare un fatto incontestabile.
view post Posted: 2/1/2016, 14:42 L'imperialismo si organizza in Siria - Esteri
La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/prima parte

Subito dopo gli attacchi del 13 novembre abbiamo pensato di prenderci un po’ di tempo per provare a scrivere qualcosa di più “ragionato” su quello che era accaduto a Parigi. Man mano che buttavamo giù gli appunti ci siamo accorti, però, che era impossibile provare a smontare il meccanismo bellico che si era attivato senza provare a spiegare la funzione di “mostro provvidenziale” che svolge oggi lo Stato Islamico in medioriente. Però non si possono comprendere le peculiarità del Califfato senza tener conto della guerra siriana, semplicemente perchè senza il conflitto in Siria l’IS non esisterebbe. E a sua volta non si possono individuare le ragioni profonde della guerra che dal 2011 ha mietuto più di 200 mila morti, senza aver chiare le mire e le ambizioni di potenze regionali e globali che in quella guerra giocano un ruolo decisivo. E poi c’è anche il fallimento dei processi di decolonizzazione, la globalizzazione liberista, la crisi… insomma quello che doveva essere un post è diventato una cosa troppo lunga per essere proposto tutto in una volta. Per cui abbiamo deciso di pubblicarlo a puntate e farlo diventare, alla fine del percorso, un “documentino” scaricabile che (speriamo) possa aiutare a contestualizzare i fatti.



Nello spiegare un evento passato o presente le argomentazioni addotte dai media non seguono mai un filo logico o una ricostruzione fedele di quanto accaduto, ma preferiscono fornire versioni che fanno sempre più leva sull’emotività degli spettatori, seguendo lo schema di quello che Losurdo, in un suo recente lavoro, definisce giustamente “il terrorismo multimediale dell’indignazione”. L’opinione pubblica viene “bombardata” (nemmeno troppo metaforicamente) di immagini e informazioni che non forniscono alcun apporto nella comprensione dei fatti e il cui unico scopo risulta essere quello di incanalare questa indignazione nei confronti del nemico di turno, innalzato per l’occasione al rango di “male assoluto”. I giorni successivi alla strage del 13 novembre e le roboanti dichiarazioni di guerra allo Stato islamico hanno dimostrato ancora una volta l’intima verità di queste considerazioni. Da settimane viviamo nel frame della “guerra all’Europa”, immersi in un flusso di informazioni e notizie che ha davvero pochi precedenti, e il cui unico tratto distintivo sembra essere quello della sistematica decontestualizzazione degli avvenimenti. Le poche voci che osano discostarsi da questa chiave di lettura, anche solo per un riflesso pacifista, vengono prontamente bastonate dai Maître à penser che gli rinfacciano di far parte della vecchia sinistra antioccidentale. In un mondo in cui è venuta a mancare la contrapposizione tra i due grandi campi ideologici riuscire ad orientarsi senza la bussola del materialismo diventa sempre più arduo, se non impossibile. Proviamo però a dirlo in estrema sintesi: con la cosiddetta globalizzazione il modo di produzione capitalistico ha preso possesso dell’intero pianeta coinvolgendo tutte le aree nella circolazione delle merci e dei capitali e ha determinato un sistema multipolare in cui grandissimi Stati o entità di stazza continentale entrano in competizione tra loro e con potenze regionali. Placche tettoniche in continuo movimento destinate inevitabilmente a scontrarsi. E dove questo accade si creano aree di crisi e linee di frattura che inevitabilmente si combinano con rivalità secolari, odi etnici e confessionali. L’elemento di novità non va dunque ricercato nella “tendenza alla guerra”, che fin da Lenin sappiamo caratterizzare il capitalismo nella sua fase imperialista, quanto piuttosto nel fatto che i nessi della globalizzazione collegano in modo sempre più stretto queste crisi alla metropoli. Così che conflitti generati in Medio Oriente si riverberano drammaticamente nelle città della vecchia Europa. In questa prospettiva gli attentati in Turchia e poi in Europa vanno letti come un messaggio dei jihadisti e dei loro complici a chi li ha usati e poi li ha lasciati soli in balia dei missili russi e iraniani. Proviamo dunque a riavvolgere, seppur velocemente, il filo rosso delle politiche coloniali e neocoloniali di quest’ultimo secolo per provare a inquadrare il contesto.

Le radici del disordine mediorientale
Il Medio Oriente contemporaneo è figlio dell’ultima opera di ingegneria coloniale dell’Europa. Nelle ex province arabe il crollo dell’impero ottomano e la spartizione europea delle sue spoglie hanno sostituito l’ordine imperiale con un sistema di Stati fortemente instabile, costellato da una sequenza di nodi irrisolti che hanno alimentato molti dei conflitti scoppiati in seguito. Nonostante l’assetto politico mediorientale definito dalla Conferenza di Sanremo (che nel 1920 ridisegnò i confini interni della regione) non abbia recepito integralmente i contenuti dell’accordo di Sykes-Picot del 1916, è comunemente a questi ultimi che si fa risalire la riconfigurazione del Medio Oriente sopravvissuta sino agli anni recenti. Tali accordi stabilirono le aree di influenza delle potenze vincitrici assegnando alla Francia: la Turchia sud orientale, l’Iraq settentrionale e il territorio corrispondente agli attuali Stati di Siria e Libano. Mentre alla Gran Bretagna andarono la Palestina, l’attuale Giordania e l’Iraq centromeridionale. Per quanto relativamente lontani nel tempo, eventi come gli accordi Sykes-Picot (1916), la promessa di Balfour (1917), la frantumazione dell’impero ottomano (1920-23) e la nascita di Israele (1948) rimangono scolpiti nella memoria arabo-islamica come altrettanti episodi chiave della dominazione coloniale europea. La spartizione delle province arabe della Sublime Porta comportò inoltre la trasposizione del modello westfaliano di Stato-Nazione secondo linee elaborate in Europa nel corso di secoli e i cui elementi costitutivi erano essenzialmente la delimitazione di un assetto territoriale e politico preciso, e la creazione di frontiere sulle quali un governo esercitava la propria sovranità in nome del popolo. In una regione in cui le frontiere politiche erano state sempre storicamente poco definite la creazione di confini stabili da parte delle potenze europee, senza tener conto della composizione etnica e della storia delle popolazioni locali, costituì una pesantissima ipoteca sul futuro. Per lungo tempo le potenze europee fecero leva su tali contraddizioni per perpetrare il proprio dominio secondo il principio del divide et impera. Il retaggio coloniale ha così permeato la storia della regione fino ad oggi, sia perché il colonialismo ha modellato gli Stati in cui attualmente è suddivisa l’area mediorientale, sia perché la fase della decolonizzazione non si è mai realmente conclusa. Anzi tale rapporto di subordinazione si è spesso rinnovato attraverso il consolidamento di una forma di egemonia coloniale incentrata sull’assoggettamento economico.



L’attuale sfaldamento dell’ordine regionale sotto i colpi delle “primavere arabe”, e sotto l’urto dei conflitti che hanno flagellato il mondo arabo islamico dal 1990 ad oggi, può dunque essere spiegato completamente solo tenendo conto di questa evoluzione storica. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’ondata anticoloniale spazzò via le élite imposte dagli europei, ma il crollo o la mancata realizzazione delle aspettative suscitate hanno messo a nudo i regimi nazionalisti creando una voragine di legittimità sempre più spesso riempita dall’Islam poitico. I valori di unità e laicità del nazionalismo arabo avrebbero dovuto assicurare la coesione territoriale e politica dei nuovi Stati facendo dimenticare le divisioni interne di ordine etnico e confessionale. La riorganizzazione della società su basi politiche e sociali moderne avrebbe dovuto produrre come effetto l’indebolimento dell’influenza dei gruppi basati sui vincoli di lignaggio, appartenenza familiare, tribale e territoriale. Il fallimento di questo processi è quindi fondamentale per comprendere la crisi politica e di identità che ha sconvolto l’intero Medio Oriente. Quando le repubbliche arabe erano nate, intorno alla metà del secolo scorso, avevano adottato un contratto sociale d’ispirazione socialista imperniato sui diritti economici come il lavoro e l’assistenza sociale in cambio di un sistema politico rigido. Il processo di “liberalizzazione” cui sono andati incontro questi regimi nell’ultimo ventennio, sotto la spinta della globalizzazione neoliberista e secondo i piani di “aggiustamento strutturale” indicati dalle principali istituzioni economiche internazionali, è stato accompagnato da un progressivo smantellamento dello stato sociale e da un generale arretramento dell’intervento statale in economia. Questo non ha fatto altro che esacerbare le disuguaglianze, aumentando la disoccupazione e le sacche di povertà e che hanno reso sempre più intollerabile l’intera architettura politica. Fin dai primi anni Novanta, quando paesi come l’Egitto, la Tunisia, il Marocco e la Giordania cominciarono ad applicare in maniera massiccia questi programmi di riforma strutturale, apparve chiaramente che la formula era sbilanciata; la crescita economica fu accompagnata da un accesso sempre più diseguale all’istruzione e ai servizi essenziali, mentre l’esigenza di creare un “ambiente favorevole” agli investimenti stranieri si tradusse in politiche che riducevano i diritti dei lavoratori. In Egitto ad esempio i programmi di aggiustamento strutturale del Fmi determinarono la privatizzazione di gran parte dell’industria tessile egiziana mentre la manodopera del settore, che ammontava a mezzo milione di persone, venne falcidiata da un’ondata di licenziamenti che la ridusse della metà. Le primavere arabe, questa strana combinazione di rivoluzione, controrivoluzione e intervento straniero, hanno dunque rappresentato il tracollo di un sistema che si era forgiato politicamente nell’era della guerra fredda e della decolonizzazione, per poi riconvertirsi economicamente all’ombra del neoliberismo imposto dalla globalizzazione di matrice statunitense. Sullo sfondo, come detonatore, la crisi esplosa negli Stati Uniti nel 2007 e propagatasi rapidamente attraverso i mercati globali in tutto il pianeta.


Prima parte: www.militant-blog.org/?p=12623

La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/seconda parte

Proseguiamo il nostro approfondimento sui legami economici, geopolitici e religiosi che connettono il conflitto in Siria con l’ascesa dello Stato Islamico e la guerra nel cuore dell’Europa. Qui la prima parte.

Il moderno stato siriano è frutto anch’esso degli accordi di Sykes-Picot. La Siria storica (Bilād al-Shām) che comprendeva gli attuali Stati di Siria, Libano, Giordania e Palestina/Israele venne infatti smembrata dalle potenze coloniali in base ai suddetti accordi. La Gran Bretagna divise la Palestina mandataria dalla Transgiordania (l’attuale Giordania), mentre la Francia ricavò dalla restante parte della ”Grande Siria” uno stato alauita, in aggiunta al Gebel druso e al Grande Libano, che sarebbe poi divenuto il Libano attuale. L’attuale Repubblica Araba Siriana è, insieme al Libano, anche il Paese meno omogeneo dell’area dal punto di vista comunitario. Prima dell’inizio del conflitto la sua popolazione di oltre ventidue milioni di abitanti era composta in maggioranza da arabi sunniti (60%), ma comprendeva anche un 13% di alauiti, un 10% di cristiani e un 3% di drusi, cui bisognava poi aggiungere ismailiti e sciiti. Tra le minoranze etniche spiccano poi i curdi, che rappresentano il 9% della popolazione, oltre a turkmeni e circassi e a un’importante comunità armena. A complicare questo mosaico confessionale ed etnico contribuivano poi circa mezzo milione di profughi palestinesi appartenenti a tutte le classi sociali e un milione e mezzo di profughi iracheni, riparati in Siria dopo l’invasione statunitense del 2003.



Gli alauiti, a cui appartengono gli al-Asad, sono stati per lungo tempo la parte più povera e arretrata della società siriana e poiché il loro corpus di credenze era molto lontano dall’islam, erano anche considerati e trattati come dei non musulmani. Fino agli anni Venti erano conosciuti con il nome di nosayri, termine che rimandava alla loro estraneità alla famiglia islamica e fu solo sotto la potenza mandataria francese che prese piede l’uso del termine alawi che rimanda ad Alì (il genero del profeta Maometto) accomunando in qualche modo gli alauiti agli sciiti. I francesi, dal canto loro, incoraggiarono il separatismo alauita per allontanare questa comunità dal movimento nazionalista siriano. Nel 1936 i nazionalisti arabi, nel tentativo di assicurarsi l’appoggio alauita alla creazione di uno stato siriano indipendente, ottennero però da una delle più alte autorità sunnite dell’epoca, il Gran Mufti di Gerusalemme, Muḥammad Amīn al-Ḥusaynī, una fatwa che dichiarava gli alauiti membri della nazione islamica. Dopo l’ascesa al potere di Hāfiz al-Asad nel 1970 molti alauiti lasciarono le loro roccaforti nelle montagne del nord-est della Siria per stabilirsi nelle città portuali di Tartus, Latakia, Banias e Jableh, dove tutt’oggi costituiscono la maggioranza della popolazione. La carriera militare e l’adesione al Ba’th, ispirato dai principi di socialismo e laicità, costituirono all’epoca un potente mezzo di ascesa sociale. Un fattore tutt’altro che secondario per cercare di spiegare quello “spirito di solidarietà” (ʻaṣabīya) che unisce indissolubilmente la comunità alauita alla famiglia al-Asad. Per governare il paese gli alauiti tentarono inoltre di uscire dal loro isolamento, cercando di ottenere il riconoscimento degli sciiti, grazie alla fatwa dell’imam Moussa al-Sadr, e al tempo stesso stringendo rapporti economici con le élite urbane sunnite. Per fare questo il Ba’th incluse nella propria piattaforma economico-politica alcune importanti concessioni a favore di questa classe sociale, attenuando la propria originaria ispirazione socialista. Il matrimonio tra Bashar al-Asad e Asma Akhras, proveniente da una famiglia sunnita, è per certi versi una dimostrazione plastica di questo continuo tentativo di allargare la propria base sociale. La natura laica dell’apparato statale rappresentò un elemento attrattivo e protettivo anche per le altre minoranze non musulmane. La Repubblica Araba Siriana non riuscì, però, a contenere il risentimento crescente che covava in alcuni segmenti della società e che veniva fomentato dall’estero. Tale risentimento sfociò nell’opposizione dura e a tratti violenta del movimento sunnita dei Fratelli Musulmani. Il governo, colpito da attentati ed attacchi armati, reagì con una repressione brutale culminata nel massacro del 1982 ad Ḥamā. Nel 1979 la rivoluzione iraniana e la deposizione dello Shāh gettarono le premesse per la storica alleanza tra la Siria e l’Iran, ormai fuori dall’orbita statunitense. Quell’alleanza, che dura ancora oggi, costò a Damasco pesanti ritorsioni economiche da parte dell’Arabia Saudita e delle altre petromonarchie, impegnate all’epoca a finanziare Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran. Mantenendosi fedele a questa alleanza Bashar al-Asad ha respinto sia le pressioni di Erdoğan che quelle delle monarchie del Golfo che nel 2010 offrirono a Damasco l’equivalente di tre anni di bilancio dello stato affinché rompesse i rapporti con la repubblica degli ayatollah (Il Sole 24 ore del 28/12/2012).

Eppure, quando nel 2000 il trentacinquenne Bashar al-Asad subentrò al padre Hāfiz, erano davvero in pochi quelli che avrebbero scommesso sulla capacità del giovane presidente di raccogliere la pesante eredità paterna. Contrariamente ad ogni aspettativa, attraverso una scaltra azione diplomatica, negli anni precedenti allo scoppio delle rivolte arabe la Siria era tornata ad essere il fulcro degli equilibri regionali, controbilanciando la propria dipendenza da Teheran con il rapporto privilegiato stabilito con la Turchia. Nel frattempo Damasco aveva anche riallacciato un difficile dialogo con la nuova amministrazione americana di Barack Obama, pur continuando a far parte di quell’Asse della Resistenza (composto da Siria, Iran, Hamas e Hezbollah) che si opponeva all’egemonia israelo-americana nella regione. Gli anni della presidenza di Bashar al-Asad coincisero inoltre con l’avvio di un processo di liberalizzazione dell’economia e di una serie di riforme orientate al mercato, e se non si tiene conto dell’impatto della globalizzazione sulla Siria difficilmente si potrà comprendere lo scoppio della crisi. Il parziale inserimento del Paese nello spazio economico globale favorì l’arricchimento delle classi urbane, che poterono godere dell’aumento del volume degli scambi commerciali e dell’afflusso di turisti. Fra il 2004 e il 2009 il tasso di crescita dell’economia siriana si attestò intorno al 6% annuo. Un incremento che sbalordì statunitensi ed europei suscitando interessi ed appetiti stranieri. L’Unione Europea ad esempio, tirò fuori dal cassetto un progetto di “Accordo di associazione” con la Siria accantonato alcuni anni prima e anche l’Italia, da parte sua, non fu da meno. Nel marzo del 2010 l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano insignì il giovane presidente siriano della più alta onorificenza prevista dagli ordinamenti di benemerito internazionali. Il presidente della Repubblica Araba Siriana, che solo pochi mesi più tardi sarebbe stato accusato di essere uno dei dittatori più sanguinari in circolazione, venne infatti fregiato del titolo di “Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone”. Dopo aver concesso l’alta onorificenza ad al-Asad il presidente Napolitano, accompagnato dall’allora ministro degli esteri Franco Frattini, compì la prima visita di un capo di stato italiano in Siria. Le immagini, facilmente recuperabili in rete, lo ritraggono al banchetto ufficiale di Damasco l’11 marzo del 2010 insieme a al-Asad, all’elegante moglie Asma e alla signora Clio, mentre un video ci restituisce le solenni parole pronunciate dal presidente della Repubblica Italiana: consideriamo essenziale il ruolo della Siria per la pace in Medio Oriente e per la stabilizzazione dell’intera regione. Mentre altre immagini, di appena due anni prima, ci mostrano il “sanguinario dittatore” ospite di Sarkozy sulla tribuna presidenziale durante la parata del 14 luglio in Francia (vedi).



Il processo di liberalizzazione economica, elogiato dalle capitali straniere, stava però concentrando la ricchezza in poche mani, mentre parte della popolazione, soprattutto quella giovanile e scolarizzata, rimaneva disoccupata o sottoccupata. Gli stipendi della classe media non reggevano il passo con l’inflazione e le importazioni a basso costo, soprattutto dalla Turchia, spingevano fuori mercato i piccoli produttori contribuendo alla pauperizzazione della classe operaia urbana. Il ritiro dello Stato dall’economia ebbe inoltre effetti dolorosi per le popolazioni rurali fino ad allora inquadrate in un sistema di cooperative sovvenzionate. Ad aggravare la situazione intervenne anche una terribile siccità durata oltre quattro anni (dal 2006 al 2010) che spinse verso le città centinaia di migliaia di agricoltori impoveriti. Le Nazioni Unite rilevarono che nel giro di pochi anni fino a tre milioni di siriani erano caduti in una condizione di “povertà estrema” e avevano lasciato la campagna per accamparsi in baraccopoli alla periferia delle città. Il quadro socio-economico spiega dunque la “geografia” della sollevazione popolare che, a dispetto della narrazione manichea che la rappresentava come la ribellione di un intero popolo contro la dittatura, nacque essenzialmente come una rivolta rurale. Il mantra che veniva riproposto dal mainstream era “Ash-shaʻb yurīd isqāṭ an-niẓām” (ovvero “il popolo vuole la caduta del regime”), anche se le imponenti manifestazioni a sostegno del governo che in quel periodo si svolsero a Latakia e Damasco dimostravano chiaramente come la “ribellione” coinvolgesse solo una parte della popolazione. Esiste dunque un legame innegabile tra i processi di liberalizzazione dell’economia, la crisi delle campagne e la crisi di legittimità del Ba’th, e se non se ne tiene conto diventa difficile analizzare i successivi sviluppi della guerra civile siriana. L’altro elemento “geografico” di cui tenere conto è la natura transfrontaliera delle città dove la protesta si concentrò maggiormente. Se si considerano Homs e Darʿā, che furono l’epicentro della sollevazione, non è difficile ritrovare tra loro alcune analogie. La prima si trova a soli 20 chilometri dal confine con il Libano ed ha sempre rappresentato un crocevia di traffici illeciti, così come Darʿā si trova a soli 4 chilometri dal confine con la Giordania, uno stato tradizionalmente tollerante nei confronti dei Fratelli Musulmani. La sollevazione armata fu, per alcuni aspetti, anche il tentativo dei potentati locali di sbarazzarsi di un potere troppo ingombrante, quello di uno Stato “moderno” e unitario che avanzava pretese centralizzatrici. D’altro canto è ormai accertato il ruolo svolto fin dai primi giorni della rivolta dalla filiera del contrabbando nell’afflusso di armi ai ribelli. Anche la dimensione energetica gioca un ruolo nel conflitto siriano, sebbene costituisca solo una delle componenti del quadro. Il governo di Baghdad ha infatti dato il via libera a un progetto iraniano per la costruzione in territorio iracheno di un gasdotto diretto in Siria. Esso dovrebbe attingere al bacino iraniano offshore di Pars Sud, il più grande giacimento di gas del mondo, che in parte è posseduto anche dal Qatar. Il progetto ha fortemente irritato Doha che ambiva a costruire un analogo gasdotto diretto dal suo giacimento verso la Turchia (e quindi verso i mercati europei) passando per l’Arabia Saudita, la Giordania e la stessa Siria. La pipeline avrebbe rappresentato un canale di smistamento commerciale più sicuro dello stretto di Hormuz. Nel 2009 Damasco, su suggerimento russo, rifiutò l’offerta del Qatar di far passare sul proprio territorio tale gasdotto fornendo a Doha e ad Ankara un ulteriore motivo per appoggiare i ribelli siriani. Un cambio di regime a Damasco significherebbe infatti l’affossamento definitivo del progetto iraniano a tutto vantaggio di questi due paesi. A rendere ancora più incandescente la situazione c’è inoltre la questione del Leviathan, l’enorme giacimento di gas scoperto nel 2010 di fronte alle coste del Libano e di Israele, e su cui anche Cipro e Siria sembrerebbero poter accampare dei diritti.

Occorre infine considerare il fatto che la Siria, sebbene sia un Paese relativamente povero e poco importante da un punto di vista economico, riveste invece un’enorme rilevanza per gli equilibri e le fondazioni stesse dell’attuale ordine mediorientale. Per queste ragioni fin dalle prime proteste la “rivolta siriana” era fatalmente destinata a divenire ostaggio di fattori regionali e internazionali finendo per assomigliare sempre di più al conflitto libanese, dove per quindici anni fattori locali e internazionali interagirono fra di loro, intessendo un intricato tappeto di guerre le une contro le altre, combattute dalle superpotenze, dai loro alleati regionali e dai clienti interni in un caleidoscopio di alleanze e rivalità in continuo movimento. Tutto questo ha provocato, nel corso di questi quattro anni, una “cantonizzazione” di fatto del Paese in cui sono ormai chiaramente individuabili diverse aeree di influenza militare, economica, geopolitica e culturale. Ciascuna legata ad una potenza o ad un consorzio di forze più o meno potenti, tradizionali ed emergenti, protette dal sostegno diretto ed indiretto di attori regionali ed internazionali. Al nord la Turchia considera un proprio cortile di casa la cintura che da Idlib e Aleppo arriva alle zone di maggioranza curda confinanti con il Kurdistan iracheno. Ankara è appoggiata dal Qatar, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti e, politicamente, da Francia e Gran Bretagna. Al sud la Giordania riesce a mantenere le regioni di Darʿā e al-Qunayṭra sotto il proprio indiretto controllo salvaguardando gli interessi sauditi, statunitensi e israeliani. A Damasco, nella Siria centrale e nella regione costiera il governo di al-Asad, insieme con l’Iran e il suo alleato Hezbollah, grazie anche al sostegno russo, mantengono il loro fortino lontano da minacce concrete in quella che è stata definita la “Siria utile”. Mentre al Nord e all’est, nel cosiddetto “Siraq”, lo Stato Islamico appare come la potenza con il maggior numero di propri uomini direttamente dispiegati sul territorio. L’analisi delle cartine fisiche e geopolitiche non è però sufficiente a comprendere la spartizione in corso della Siria. Il fattore comunitario e confessionale (ma anche etnico nel caso della contrapposizione tra arabi e curdi) ha assunto una valenza di primo piano del determinare le linee del fronte. Infatti se la contiguità geografica ha consentito agli attori esterni di penetrare con facilità nei quattro fianchi della Siria, per mantenere queste posizioni è stato necessario instaurare rapporti di fiducia e di mutuo interesse economico con gli attori interni, assicurandosi il consenso delle comunità locali. In questo senso la comune appartenenza ad un gruppo confessionale o etnico ha costituito fin da subito un elemento cruciale. E’ utile ricordare come la confessionalizzazione del conflitto si produsse a partire da tre aree calde, Darʿā, Homs e Idlib, dove le rivendicazioni islamiste divennero ben presto il catalizzatore del malcontento sociale trasformando la preghiera del venerdì nel detonatore della rivolta. In questo un ruolo fondamentale lo ebbero le tante moschee e madrase nate negli anni precedenti grazie alle cospicue donazioni dei Paesi del Golfo. Aprendosi agli scambi con l’Arabia saudita ed il Qatar la Siria aveva infatti finito con l’importare, oltre ai capitali, anche il salafismo, come testimoniava l’irrigidimento dei costumi cui era andata incontro una parte della comunità arabo-sunnita. A questa radicalizzazione non fu estraneo lo sviluppo delle televisioni satellitari arabe, e in particolare quello di al-Jazeera, un vero e proprio strumento del soft power del Qatar che nel giro di pochi anni aveva rotto il monopolio informativo del Ba’th, portando nelle case di milioni di siriani le prediche incendiarie di personaggi come Yūsuf al-Qaraḍāwī, esponente di spicco dei Fratelli Musulmani, che soffiavano sul fuoco del “sectarian divide” e sulla contrapposizione tra sunniti e sciiti in seno al mondo islamico.



Nel 2011 lo scoppio della rivolta colse relativamente di sorpresa il governo di al-Asad che addebitò la ribellione esclusivamente ad una cospirazione straniera. Queste convinzioni poggiavano del resto su fatti incontrovertibili, come il sostegno prolungato fornito da Washington, in particolare dall’amministrazione Bush, all’opposizione siriana in esilio. O come il fatto che fin dai primi giorni della rivolta si registrarono episodi di violenza contro le istituzioni siriane. Al di la di questo è però innegabile che le proteste ebbero comunque una scintilla spontanea, e la città in cui tutto ebbe inizio, Darʿā, poteva essere tranquillamente portata ad esempio della durissima realtà che caratterizzava le aree rurali della Siria. L’opposizione siriana è però rapidamente andata incontro ad un processo di militarizzazione e già ad aprile furono diverse decine i soldati che vennero attaccati ed uccisi da gruppi ben armati a Bāniyās e Jisr al-Shughur. A tale processo contribuirono senza dubbio anche i crescenti appelli di alcuni paesi ad “armare i ribelli contro il sanguinario al-Asad”. Fra questi paesi spiccavano in particolare le monarchie del Golfo a cui ben presto si unì la Turchia. Il processo di militarizzazione venne inoltre incoraggiato dal cosiddetto “precedente libico”, che illuse i “ribelli” siriani sulla possibilità di ripercorrere la strada tracciata dagli insorti che da Bengasi erano partiti alla conquista dell’intera Libia con l’aiuto determinante della Nato. E come in quel caso il tentativo di creare una leadership dell’opposizione venne portato avanti grazie all’appoggio determinante di paesi come la Turchia, il Qatar, la Francia e gli Stati Uniti. Due incontri, ad Antalya e a Istanbul, nel giugno e nel luglio del 2011, furono determinanti per annunciare, il 23 agosto successivo, la nascita del Consiglio Nazionale Siriano (Cns), un’organizzazione ombrello che avrebbe dovuto raccogliere le varie componenti dell’opposizione e che prese definitivamente forma nell’ottobre dello stesso anno. Il Consiglio venne costituito sull’esempio del Consiglio Nazionale di Transizione libico e, come in quel caso, era formato essenzialmente da esuli residenti all’estero, in Francia, negli Usa e in Turchia, con uno scarso seguito in patria. Nonostante si fosse dotato fin da subito di una veste laica esso era essenzialmente dominato dai Fratelli Musulmani. Col passare del tempo, pur dimostrando di avere un ridotto ascendente sulla popolazione, la Fratellanza acquistò un ruolo sempre maggiore grazie ai contatti internazionali su cui poteva contare e soprattutto grazie alla capacità di canalizzare i finanziamenti. Nonostante lo scarso radicamento in Siria il Cns ottenne fin da subito il sostegno della Lega Araba oltre che quello dei paesi che ne avevano facilitato la nascita. Il Consiglio entrò ben presto in competizione con il Free Syrian Army (Fsa), un’organizzazione armata estremamente eterogenea in cui confluirono disertori dell’esercito, milizie di autodifesa e combattenti salafiti finanziati dalle petromonarchie. Anche il Fsa si dimostrò però poco rappresentativo e, soprattutto, incapace di coordinare la maggior parte dei diversi gruppi armati ostili al regime. Per una dettagliata panoramica delle organizzazioni militari e delle loro affiliazioni rimandiamo al quaderno prodotto dal Comitato del martire Ghassan Kanafani (leggi). L’opposizione era talmente frastagliata che non riuscì nemmeno ad elaborare una visione chiara e unitaria sul futuro assetto del Paese.

Nell’autunno del 2011, sebbene l’economia siriana fosse allo sbando, era chiaro che al-Asad non era affatto in bilico, ma la crisi aveva comunque messo in moto un meccanismo regionale e internazionale che si sarebbe rivelato inarrestabile. Turchia e Qatar avevano già voltato le spalle a Damasco e ad agosto anche Riyāḍ aveva deciso di rompere gli indugi, individuando nella caduta del presidente siriano un modo per indebolire il rivale iraniano. A novembre l’internazionalizzazione della crisi divenne manifesta con la sospensione della Siria dalla Lega Araba, preludio della presa di posizione da parte di altre potenze occidentali, con gli Stati Uniti in prima linea, che di li a pochi mesi daranno vita alla coalizione internazionale “Amici della Siria”. Il piano d’azione, rivelato successivamente da alcuni diplomatici arabi ed occidentali, era quello di realizzare “zone cuscinetto” in territorio siriano finalizzate alla “protezione dei civili”. Tali zone, ovviamente create attraverso un intervento militare, in realtà avrebbero dovuto fornire all’opposizione dei “santuari” dai quali poter organizzare e proseguire la battaglia contro il regime, anche grazie al sostegno diretto dei paesi occidentali. In quei giorni il sito web di intelligence israeliano “DEBKAfile” rivelò che forze speciali britanniche si da tempo erano infiltrate a Homs fornendo assistenza tecnica e militare agli insorti (il Sole 24 Ore del 8/2/2012). Tutto questo mentre a Iskenderun, in Turchia, nella provincia di Hatay, si era insediato un comando multinazionale ristretto formato da militari statunitensi, inglesi, francesi, canadesi, arabi degli Emirati, del Qatar e dell’Arabia Saudita. Un simile progetto necessitava però di una legittimazione internazionale, possibilmente da parte dell’Onu. Gli stessi paesi che avevano promosso la formazione del Cns e che avevano sollecitato la presa di posizione della Lega Araba si incaricarono dunque di promuovere un’azione all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, finendo però per scontrarsi con l’opposizione irremovibile di Russia e Cina (il 4 febbraio del 2012) che non volevano si ripetesse quanto avvenuto in Libia con la risoluzione 1973. Pochi giorni più tardi l’allora ministro degli esteri francese, Alain Juppé, stigmatizzò il voto di Mosca e Pechino definendolo testualmente una “vergogna morale”, e auspicando che il presidente siriano finisse davanti al Tribunale Penale Internazionale. Un concetto che verrà ribadito in maniera ancora più energica qualche mese più tardi dal suo successore, il socialista Laurent Fabius, il quale arrivò a sostenere che: bisogna abbattere Bashar al-Asad, non merita di stare al mondo.

Nel corso di tutto il 2012, esaurita la possibilità di ripercorrere la via libica al regime change, si assistette ad un afflusso senza precedenti di combattenti stranieri in Siria (i cosiddetti foreign fighters) soprattutto attraverso la frontiera turca. Si trattò di uno degli effetti della propaganda dei paesi arabi sunniti che stavano sempre di più confessionalizzando il conflitto siriano, creando nel mondo arabo un clima non dissimile da quello che negli anni Ottanta aveva portato alla mobilitazione islamica in Afghanistan contro la minaccia sovietica. Il tramonto di ogni possibilità di soluzione politica del conflitto venne del resto suggellato dal fallimento del cosiddetto “Piano Annan”, entrato ufficialmente in vigore il 12 aprile, ma boicottato fin da subito dai paesi occidentali e dalle petromonarchie. Nel novembre dello stesso anno in un incontro voluto dagli Stati Uniti a Doha, gli “Amici della Siria” cercarono di ridefinire la leadership dell’opposizione siriana dando vita ad una nuova organizzazione ombrello di cui il Cns sarebbe stato solo una parte. Il tentativo da parte statunitense era quello di riprendere il controllo su un’opposizione ormai sempre più dominata da islamisti e gruppi estremisti. La narrazione unilaterale degli eventi, che vedeva nei ribelli esclusivamente dei “combattenti per la democrazia”, si era infatti inceppata costringendo le cancellerie occidentali, che fino a quel momento avevano negato la presenza di gruppi qaedisti, ad ammettere la presenza di organizzazioni jihadiste in Siria. I moderati filo-occidentali si erano dimostrati fragili militarmente e inconsistenti politicamente, finendo per lasciare campo libero agli islamisti salafiti che invece non facevano difetto di determinazione e capacità operativa. La nuova Coalizione dell’Opposizione Siriana (Cos) presentava però gli stessi problemi del Cns: nella sua composizione rifletteva il confuso mosaico mediorientale impegnato nella destabilizzazione della Repubblica Araba Siriana e nei fatti dimostrava di avere uno scarso controllo sulle fazioni armate, nonché una limitata influenza sulle evoluzioni degli eventi in Siria. Alla sua guida venne posto lo sceicco Aḥmad Muʿādh al-Khaṭīb, un islamista vicino alla Fratellanza che viveva in esilio in Egitto, mentre nel programma fu esclusa ogni possibilità di trattativa con il regime, ponendo così fine alle residue speranze di soluzione diplomatica. Circa un mese dopo l’incontro di Doha si costituì in Turchia un nuovo “comando militare unificato”, dominato dai Fratelli Musulmani e da gruppi salafiti, in un incontro a cui partecipano anche esponenti di alcuni servizi segreti occidentali. Una serie di gruppi islamici armati disconobbero però la nuova leadership, una decisione su cui ebbe sicuramente un peso l’inserimento di Jabhat al-Nuṣra nella lista nera delle organizzazioni terroristiche da parte degli Stati Uniti. Ciò non impedì agli Usa e agli “Amici della Siria” di riconoscere il Cos come unico e legittimo rappresentante del popolo siriano in occasione di un vertice tenutosi a Marrakech il 12 dicembre del 2012. Si trattava di un implicito sostegno alla persecuzione della “soluzione” militare, un passaggio che venne significativamente accompagnato dalla decisione della Nato di schierare i missili Patriot in Turchia lungo il confine con la Siria.

Nei primi mesi del 2013 divenne però evidente agli occhi dell’opinione pubblica mondiale che il crollo del “regime siriano” non era poi così imminente come i media occidentali avevano fatto credere. Al fianco del governo di Damasco erano scesi direttamente in campo sia l’Iran, preoccupato dalla possibilità di vedere diminuita la propria influenza nell’area, sia le milizie di Hezbollah. Diventava dunque sempre più chiara l’incapacità dei “ribelli siriani” di rovesciare autonomamente al-Asad, e questo nonostante il gigantesco ponte aereo che, tra la fine del 2012 e l’inizio dell’anno, era stato organizzato per inviare armi ai ribelli da parte di Paesi come Qatar, Arabia Saudita, Turchia e Giordania. La dipendenza dell’opposizione siriana dai finanziatori stranieri verrà ampiamente dimostrata dalle confessioni di Saddam al-Jamal, capo della brigata Aḥfād ar-Rasūl ed ex comandante dell’Fsa nella Siria orientale. Al-Jamal parlerà esplicitamente delle riunioni del consiglio militare del Fsa come di incontri a cui partecipavano abitualmente rappresentanti dei servizi segreti sauditi, degli Emirati Arabi e del Qatar, come pure ufficiali dei servizi segreti statunitensi, britannici e francesi. Aggiungendo che durante una di queste riunioni, svoltasi ad Ankara, l’allora viceministro dell’Arabia Saudita, il principe Salman bin Sultan, fratellastro del capo dell’intelligence saudita Bandar bin Sultan, chiese esplicitamente ai leader siriani dell’opposizione armata: se avevano messo a punto dei piani di attacco contro le posizioni di al-Asad e di esporre le loro necessità in termini di armi, munizioni e denaro. Il raggruppamento “Amici della Siria”, che nel 2012 aveva portato oltre settanta Paesi a partecipare al vertice di Tunisi, era nel frattempo sceso a undici partecipanti (Qatar, Arabia Saudita, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Egitto, Stati uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia) mentre Doha, Ankara e Riyadh lottavano aspramente tra loro per mettere i propri uomini di fiducia ai vertici della Coalizione dell’Opposizione Siriana. E’ dunque in questo contesto che vanno letti alcuni degli accadimenti dei mesi successivi che avrebbero potuto indirizzare in maniera diversa il corso degli eventi. A partire dal 2012 Obama aveva infatti indicato nell’utilizzo delle armi chimiche la “red line” per un possibile intervento statunitense, e il 21 agosto del 2013 il casus belli che avrebbe portato Washington a rompere gli indugi sembrò materializzarsi davvero. A Ghūṭa, nella periferia di Damasco, in un quartiere controllato dai ribelli, un attacco chimico fece strage di centinaia di persone, in gran parte civili. La stampa occidentale si affrettò a puntare il dito sul “sanguinario dittatore”, così come fecero tutti i governi che da tempo spingevano per un intervento militare. In realtà l’identità dei responsabili dell’attacco non venne mai ufficialmente chiarita e sull’interpretazione dell’accaduto emersero divergenze anche all’interno della comunità dell’intelligence nordamericana. Tanto che il documento della Casa Bianca che incriminava al-Asad non venne controfirmato dal direttore del National Intelligence, James Clapper. Il governo siriano e i russi, da parte loro, attribuirono l’uso dei gas al gruppo Jaysh al-Islam, sostenuto dall’Arabia Saudita, allo scopo di far ricadere la colpa sul “regime” e screditarlo definitivamente. La tesi di una montatura non era peraltro campata in aria, dal momento che l’attacco chimico avvenne proprio durante un’ispezione Onu (richiesta dallo stesso governo siriano) circa l’uso di tali armi. Qualche mese più tardi Seymour Hersh, un giornalista statunitense insignito del premio Pulitzer, addebitò la strage ai “ribelli siriani” che, a detta sua, si erano mossi nel tentativo di forzare la mano alla Casa Bianca. Tra la fine di agosto e l’inizio del settembre 2013 la tensione fra i due schieramenti internazionali crebbe enormemente e lo spostamento della flotta statunitense verso le coste siriane fece pensare all’imminenza di un intervento militare. In maniera del tutto inaspettata, però, il fronte occidentale inizio a sgretolarsi. In Gran Bretagna il parlamento negò al premier Cameron il nullaosta all’intervento bellico, ed anche Obama fu costretto a fare i conti con un’opinione pubblica fortemente contraria al coinvolgimento diretto degli Stati Uniti. Agli inizi del mese di settembre giunse quindi quasi inaspettata l’offerta diplomatica russa che, con l’appoggio di Damasco e Teheran, propose ed ottenne lo smantellamento controllato dell’arsenale chimico siriano in cambio della rinuncia statunitense all’intervento militare. Una mossa che riaffermò la centralità di Mosca come elemento chiave per la risoluzione della crisi.

La degenerazione della “rivoluzione” siriana è frutto dunque di profonde divisioni politiche, religiose ed economiche precedenti al 2011 e del modo con cui queste differenze sono state esacerbate e sfruttate dalle potenze straniere trasformando la Siria in una sorta di Jugoslavia araba. Assumono così un nuovo sapore le parole del politologo conservatore Edward Luttwak: a questo punto, uno stallo è il solo esito che non sarebbe dannoso per gli interessi americani (…) C’è solo uno sbocco che può essere favorito dagli Stati Uniti: un pareggio a tempo indeterminato. Inchiodando l’esercito di al-Asad e i suoi alleati in una guerra contro combattenti estremisti alleati con al-Qa’ida. I nemici di Washington saranno impegnati in una guerra gli uni contro gli altri e saranno quindi nell’impossibilità di attaccare gli americani e gli alleati dell’America. Il più grave errore di valutazione commesso in questi anni dalle potenze straniere e dalle opposizioni siriane è stato quello di credere che Bashar al-Asad potesse essere sconfitto così come lo era stato Gheddafi, dimenticando che la caduta del leader libico era stata in larga parte determinata dalla campagna della Nato. Senza la copertura aerea occidentale i cosiddetti ribelli non avrebbero resistito più di qualche settimana. All’inizio della crisi siriana le cancellerie occidentali si erano convinte che tutto si sarebbe risolto nel breve termine e fecero naufragare ogni soluzione politica. Ma Bashar al-Asad non era isolato come Saddam Hussein negli anni Novanta e Duemila, era in una posizione più forte di quella di Milosevic in Serbia e di Gheddafi in Libia e oltre che sul sostegno dell’Asse della Resistenza poteva contare sulla Russia che, dopo un ventennio di ritirate, non intendeva fare marcia indietro o accettare nuovi interventi militari “umanitari”.

Da questi errori di calcolo ne poi è derivato un altro: ovvero l’illusione che il Golem delle milizie islamiche sarebbero rimasto sotto il controllo di chi lo aveva evocato, Turchia e petromonarchie. Ma la guerra civile siriana ha rappresentato un’opportunità irrinunciabile per i jihadisti che a partire dal 2013 iniziarono a confluire nell’Isis. Si erano infatti materializzate le condizioni per il jihad contro il regime dei nusairy e, al tempo stesso, per la nascita di un emirato a cavallo di quella frontiera tracciata cento anni prima da Sykes e Picot. Una popolazione sunnita in rivolta, territori fuori controllo e un abbondante flusso di armi e dollari sono stati quindi gli ingredienti alla base dell’intuizione tattica jihadista: l’unione del campo di battaglia iracheno con quello siriano. Dopo quattro anni di ingerenze ed aggressioni la Repubblica Araba Siriana è oggi ridotta ad uno Stato premoderno, in cui domina l’economia di guerra e dove in molte zone del paese prevalgono reti di economia informale fatte di saccheggi, rapimenti e contrabbando. Le stime delle Nazioni Unite parlano di un indice di sviluppo umano regredito a quello di 37 anni fa e stimano che, anche con un tasso di crescita del 5%, saranno necessari più di 30 anni per tornare al Pil del 2010. Verrebbe da chiedersi se sia questo per il popolo arabo il costo da pagare per la “democrazia”

Seconda parte: www.militant-blog.org/?p=12655

La Siria, lo Stato Islamico e la “guerra all’Europa”/terza parte

Terzo appuntamento con il nostro approfondimento, qui e qui la prima e la seconda parte.

Intervistato dal Corriere della Sera Vali Nasr, rettore della Scuola di studi politici internazionali della John Hopkins University di Washington, ha recentemente dichiarato: Se andiamo a cercare spiegazioni per tutti i rivoli rischiamo di perdere il quadro d’insieme. Il nodo centrale è la Siria. Se non ci fosse stata la guerra civile siriana oggi l’Isis non esisterebbe.(…) Il fatto che esista un’organizzazione terrorista con una sua base territoriale è una cosa di enorme importanza. Sul piano operativo e anche su quello psicologico. Un ribelle reclutato dall’Isis, magari un criminale comune, all’improvviso si sente investito di una missione: ha non solo un’ideologia, ma anche una patria da difendere. Il politologo di origine iraniana, già consigliere di Obama, coglie così, meglio di molti altri osservatori politici, gli elementi di novità strategici e tattici che stanno dietro l’ascesa dello Stato Islamico. La categoria del “terrorismo islamico”, con cui si è soliti inquadrare il tema, inchioda il nemico a due sole dimensioni: la violenza e la fede. Il problema è che lo stigma bipolare coglie alcuni aspetti epifenomenici della questione, ma ne nasconde altri, meno visibili ma indispensabili per comprenderne la natura. Su tutti quella volontà di “farsi Stato” del movimento di al-Baghdādī che ne costituisce il cuore del “pensiero strategico”, nonché il tratto peculiare e distintivo rispetto alle precedenti generazioni di jihadisti. Un elemento che raramente viene colto, tanto che lo Stato Islamico raramente è citato con il suo nome, semmai virgolettato, mentre gli si preferisce in genere l’acronimo Isis o, in arabo, Daesh (ad-Dawla al-Islāmiyya fī al-ʿIrāq wa l-Shām). Sopprimendo o edulcorando l’evocazione della statualità si perde però di vista il carattere innovativo della movimento e delle analoghe strutture attive nella “fascia salafita”, tra Sahel, Sahara e Golfo. Non a caso Boko Haram si richiama al Califfato di Sokoto, uno dei più vasti imperi africani che prima di essere sgominato dai britannici nel 1903 si estendeva dal bacino del Niger al lago Ciad. E anche in questo caso l’obiettivo è (ri)farsi Stato Islamico nella Nigeria settentrionale, ricongiungendosi ai territori contigui ed etnicamente affini in Niger, Ciad e Camerun. Per certi versi lo Stato islamico può essere considerato come una specie di avatar delle petromonarchie del Golfo poiché ha come fondamento ideologico il wahhabismo, propagato con la violenza, e si appoggia alle risorse petrolifere conquistate in Iraq e Siria, per assicurarsi fonti di finanziamento e accrescere la propria influenza. E’ noto inoltre come i libri di Abd al-Wahhāb, fondatore della dottrina wahhabita, siano distribuiti in Iraq ed in Siria proprio dall’IS. Esiste dunque un forte legame ideologico e di solidarietà materiale fra il regime saudita e l’organizzazione jihadista. E’ necessario tuttavia prendere in considerazione anche le profonde mutazioni che ha assunto il wahhabismo nella sua trasposizione in un contesto diverso rispetto a quello della penisola arabica. La sua trasformazione cioè da ideologia di riferimento di un movimento conservatore e legittimista a base dottrinale in un movimento “rivoluzionario”. Ed è proprio questa trasformazione (che pone in imbarazzo gli stessi sauditi sempre più in difficoltà nel giustificare i propri legami economici e politici con gli Stati Uniti) che sta alla base della comprensione del fenomeno dello Stato Islamico. Questa forma di salafismo-jihadista emerge con la guerra in Afghanistan ed ha fin qui prodotto tre generazioni di combattenti. La prima generazione è stata quella che ha fondato il movimento, conferendogli un carattere globale nel contesto della “guerra di liberazione” afghana degli anni Ottanta del secolo scorso. Il suo principale teorico era lo sceicco palestinese Abd Allāh Yūsuf al-’Azzām. La seconda generazione è quella che ha dato origine ad al-Qāʿida, il movimento di Osama bin Laden e di al-Ẓawāhirī. Anch’essa ha origine nell’esperienza dell’Afghanistan, declinata però in contesti nuovi (Egitto, Bosnia, Algeria, Cecenia). Si può dire che l’impronta ideologica di questa seconda generazione di combattenti sia stata quella di dare alla guerra santa una dimensione globale, individuando negli Usa il proprio principale nemico. La terza generazione è invece quella di Abou Moussab al-Zarqaoui e di Abou Moussab al-Souri che hanno, seppur in modo diverso, sottoposto a critica gli obiettivi e il modus operandi dei predecessori teorizzando un jihad “glocale” che si concentrasse prioritariamente sulle zone liberate da usare come base per una espansione futura. Con al-Zarqaoui si procede quindi ad una “irachenizzazione” di al-Qāʿida. Lo Stato Islamico si radica nelle riflessioni di questa terza generazione jihadista. Letta in questa prospettiva la guerra in Afghanistan, lungi dall’essere l’ultimo conflitto per procura combattuto dalle due superpotenze del Novecento nel contesto della Guerra Fredda, diviene piuttosto l’incubatrice degli accadimenti che si dipanano dal primo attentato al World Trade Center del 1994 fino alla proclamazione del califfato nel 2014. Vale allora la pena ricordare, seppure brevemente, quanto ebbe a sostenere il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Zbigniew Brzezinski, in merito al sostegno fornito da Washington ai mujāhidīn afghani, all’epoca considerati dall’occidente combattenti per la libertà: Cos’è più importante? I talebani o il crollo dell’impero sovietico? Qualche musulmano riottoso o la liberazione dell’Europa centrale e la fine della Guerra Fredda?

Queste riflessioni ci riportano a prendere in considerazione nel dettaglio il luogo dove l’idea stessa di Stato Islamico è nata: la fascia sunnita dell’Iraq. Avendo ben chiaro, però, che prima dell’intervento statunitense del 2003 in questo paese non esisteva ancora una branca di al-Qāʿida, e che essa è nata solo nel 2004, approfittando del clima di caos politico generato dalla caduta di Saddam Hussein e dopo la fuga dei principali capi jihadisti dall’Afghanistan. Le radici dello Stato Islamico risalgono dunque all’arrivo in Iraq di al-Zarqaoui e all’inizio delle operazioni del suo gruppo, Jama’at al-Tawhid wal-Jihad, affiliatosi al network di al-Qāʿida nel 2004 e rinominatosi al-Qāʿida in Iraq. E’ sempre qui che avviene la mutazione di al-Qāʿida in Iraq in Isi (poi Isis nel 2013 e Is nel 2014), dopo la morte nel giugno del 2006 dello stesso al-Zarqaoui (ormai “dissidente” da al-Qāʿida stessa) e la fusione nell’ottobre dello stesso con una federazione di gruppi jihadisti locali, la Maglia Shura al-Mujahidin fi al-Iraq. Ed è sempre nel teatro iracheno che l’odierno IS matura il nuovo pensiero strategico (la fondazione di uno Stato) e anche una tattica politica volta a cercare appoggi in fazioni e gruppi ideologicamente molto lontani dallo jihadismo. L’organizzazione si struttura in un territorio dove hanno trovato rifugio molti orfani di Saddam Hussein, un’area dove da anni cova il risentimento per l’invasione americana e dove la repressione sciita nei confronti della minoranza sunnita era più marcata. Ed è proprio tra ex ufficiali della Guardia Repubblicana, come l’ex colonnello al-Turkmānī, o alti ufficiali dei servizi segreti, come Abdul Hadi al Iraqi, o generali dell’Esercito come Abū ʿAlī al–Anbārī, tutti radicalizzati in carcere, che lo Stato Islamico recluta i suoi leader più abili. Tra la fine del 2006-2007 l’organizzazione aveva subito battute di arresto critiche quando le milizie tribali arabo-sunnite del Movimento del risveglio (Sahwa) le si erano rivoltate contro, mentre il gruppo dei volontari stranieri e il denaro iniziavano a scarseggiare. Le cellule jihadiste subirono così un processo di disintegrazione producendo criminali locali dediti a rapimenti ed estorsioni utili a pagare i salari degli affiliati più che a finanziare l’insurrezione. In uno studio su al-Qāʿida in Iraq del dicembre del 2013 Michael Knights spiegava: a partire dalla metà del 2010 l’Isi era “un morto che cammina”.

Il cambiamento avviene nell’estate del 2010 quando la leadership dell’Isi passa nelle mani di Abu Bakr al-Baghdādī, un ex prigioniero del carcere americano di Camp Bucca. Nell’aprile del 2011 si assiste ad un rilancio dell’organizzazione che si garantisce un significativo spazio operativo all’interno delle comunità arabo-sunnite con una serie di clamorosi attacchi contro le carceri irachene. Il punto di svolta vero e proprio però è la progressiva disintegrazione della Siria a partire dall’inizio del 2012. Il paese, che per anni era stato solo una stazione di passaggio per i foreign fighters diretti in Iraq, diventa prima il rifugio sicuro dei jihadisti che operavano in Iraq, e poi la culla dell’Isis. L’intuizione tattica alla base dei successi militari è la fusione, in un unico campo di battaglia, delle aree sunnite di Iraq e Siria. Proprio per questo il conflitto siriano ha costituito un trampolino di lancio ideale per le ambizioni transnazionali di al-Baghdādī e la sua ideologia “antimperialista”. Si trattava di un occasione storica per abbattere la frontiera siro-irachena creata in maniera artificiale dai francesi facendo leva sulla ribellione della maggioranza sunnita in Siria e della minoranza sunnita in Iraq. Per i salafiti infatti la Siria non esiste. Questo nome sarebbe come quello dell’Iraq una fabbricazione degli atei e nel loro gergo ispirato al corano l’Iraq si chiama Bilad al-rafidayn (terra dei due fiumi) mentre la Siria sarebbe Bilad al-Sham (terra del Levante). Al-Baghdādī cominciò con il creare una branca ufficiale di al-Qāʿida in Siria, che prese il nome di Jabhat al-Nuṣra, dotandola di uomini, mezzi e armi. Abou Mohammed al-Jolani, un quadro siriano dell’organizzazione, venne incaricato di supervisionare e dirigere l’operazione. Rapidamente al-Nuṣra si impose come una forza disciplinata, ben equipaggiata e influente nelle zone liberate dall’esercito siriano. Malgrado ciò i rapporti tra al-Jolani e al-Baghdādī si deteriorano. Sebbene i due leader condividessero l’obiettivo dell’instaurazione del califfato, Jabhat al-Nuṣra adottava un atteggiamento più pragmatico nell’applicazione della legge islamica allo scopo di non alienarsi il sostegno della popolazione locale e degli altri gruppi ribelli siriani con cui cooperava. Nell’aprile del 2013 al-Baghdādī annunciò la fusione del suo movimento (Stato Islamico in Iraq) con al-Nuṣra, per dare vita allo Stato Islamico in Iraq e Sham (ISIS). I partigiani di al-Jolani non gradirono però l’operazione e rinnovarono la propria fedeltà ad al-Qāʿida, il cui capo, al-Ẓawāhirī, nel giugno del 2013 decise che le due organizzazioni dovessero rimanere distinte, seppure in un rapporto di reciproca collaborazione. Questa presa di posizione indusse al-Baghdādī a ripudiare la propria organizzazione promuovendo una scissione: i partigiani di al-Jolani mantennero il nome di Jabhat al-Nuṣra mentre quelli di al-Baghdādī utilizzarono la nuova denominazione di Stato Islamico in Iraq e Sham, il cui portavoce in Siria divenne Abu ali al-Anbari. A partire da questo momento l’Isis conobbe un rafforzamento progressivo che lo portò dalla precedente politica di alleanza con altre forze ribelli ad una progressiva autosufficienza. La disciplina dei suoi miliziani, la competenza tecnica dei suoi quadri, la coerenza ideologica e il buon equipaggiamento delle truppe provocarono due tipi di reazione negli altri gruppi “ribelli” siriani: alcuni rimasero soggiogati dal suo prestigio e confluirono nella nuova organizzazione, spinti anche dall’impotenza dimostrata dal FSA, altri allarmati dalla sua forza iniziarono a combatterlo. Si tratta in particolare delle brigate islamiste e salafite del Fronte Islamico, create nel novembre del 2013, di alcune brigate nazionaliste o islamico nazionaliste e del Fronte Rivoluzionario Siriano.

Nel gennaio del 2014 il movimento di al-Baghdādī riuscì ad assumere il pieno controllo di Raqqa, cacciando i miliziani di al-Nuṣra che l’avevano “liberata” il 6 marzo del 2013 ed eleggendola a “capitale” del Califfato. Si tratta di una città di poco più di 200mila abitanti che ha però una storia densa di significato per i musulmani poiché per 13 anni, dal 796 al 809, fu la capitale del Califfato di Harun al-Rashid. Il 10 giugno, dopo una folgorante offensiva durata pochi giorni, al-Baghdādī condusse le sue truppe ad occupare la citta irachena di Mosul, la seconda citta del paese con oltre 2 milioni di abitanti, da dove il 29 giugno annunciò al mondo la nascita del Califfato. Un abbozzo di Stato che ora occupa un’area più vasta della Gran Bretagna abitata da circa 10 milioni di persone e che si è formato nel suo territorio di elezione, lo spazio tribale sunnita a cavallo della linea Sykes-Picot, fra l’Iraq occidentale e la Siria orientale. Appare chiaro dunque come lo Stato islamico sia figlio delle guerre imperialiste e delle avventure neocoloniali. La combinazione letale, ma efficace, di estremismo religioso ed esperienza militare è frutto innanzitutto della destabilizzazione dell’Iraq, iniziata nel 2003 con l’invasione degli Stati Uniti, e poi del confronto bellico scoppiato in Siria nel 2011. Appare altrettanto evidente come siano stati gli Usa e l’Unione Europa, insieme ai loro alleati turchi, sauditi, qatarioti, kuwaitiani e degli Emirato Arabi ad aver creato le condizioni per la nascita dell’Isis. Le guerre irregolari o la guerriglia sono sempre profondamente politiche, e i conflitti scoppiati con la “guerra al terrore” lo sono in modo particolare. Questo non significa che ciò che accade sul campo di battaglia sia insignificante, ma che dev’essere opportunamente e politicamente contestualizzato. Altrimenti non si spiegherebbe come nella presa di Mosul 1300 miliziani jihadisti siano riusciti in soli quattro giorni a sbaragliare un contingente avversario che poteva contare, almeno sulla carta, su oltre 60.000 effettivi ben equipaggiati. Il nodo della questione era che per la maggioranza degli abitanti di Mosul i combattenti dell’Isis, per quanto brutali, erano comunque preferibili alle forze di al-Mālikī controllate dagli sciiti. Così se è vero che nella situazione attuale è facile immaginare che gli attacchi aerei avranno un’efficacia relativa, dato che l’IS agisce come un esercito di guerriglia e non vi sono movimenti di truppe o di materiali facilmente individuabili e bombardabili dall’alto, mentre i suoi dirigenti sono abituati a nascondersi. E’ ancor più vero che annientare l’impianto militare dello Stato Islamico senza sanare davvero e in tutti i suoi aspetti la grande ferita dell’Iraq porterà inevitabilmente l’IS a reincarnarsi in un nuovo e più sofisticato “mostro provvidenziale” da utilizzare come pretesto per ulteriori operazioni militari.

La “territorializzazione” del jihad risponde però anche ad altre esigenze oltre a quella ideologica, su tutte la legittimazione sociale e le necessità logistica-finanziarie. Secondo il capo del consiglio provinciale di quell’area lo Stato Islamico impadronendosi di Mosul, il 10 giugno 2014, avrebbe messo le mani su qualcosa come 400 o 500 milioni di dollari custoditi nella banca centrale della città. Tuttavia le risorse finanziarie derivanti dalle conquiste territoriali non spiegano da sole la potenza finanziaria del movimento che secondo recenti stime potrebbe contare su assets per 2 miliardi di dollari. Una parte consistente del Pil dello Stato islamico deriva dal petrolio. Secondo stime del governo USA l’IS guadagna almeno 50 milioni di dollari al mese dall’estrazione e la vendita illegale di petrolio commercializzato a prezzo di saldo: dai 35 ai 10 dollari al barile. Come vuole la legge del mercato ogni scambio suppone un venditore e un compratore. Alla prima figura corrisponde in questo caso il “terrorista islamico”. Alla seconda, il consumatore globale, soprattutto occidentale. La strategia di espansione di IS in Iraq e Siria non ha fatto altro che puntare al controllo degli impianti petroliferi. L’ultimo pozzo siriano è stato conquistato lo scorso luglio, i jihadisti controllano ora 253 pozzi petroliferi di cui 161 ancora operativi. Secondo il comitato parlamentare per l’energia di Baghdad l’IS estrae ogni giorno 30-40 mila barili in Siria e 20 mila barili in Iraq. Secondo altre fonti la produzione non arriverebbe invece ai 10 mila barili giornalieri, anche a causa dell’intensificazione dei bombardamenti aerei. Comunque sia la gestione dei pozzi richiede competenze specifiche e per ovviare ai problemi tecnici i jihadisti hanno potuto contare sull’invio di macchinari e personale esperto da parti degli Stati sostenitori. Oltre alle donazioni da una miriade di controverse organizzazioni di carità, il contrabbando di greggio e di prodotti raffinati resta dunque la maggiore entrata su cui punta il califfo al-Baghdādī. La strategia dell’IS poggia anche sul controllo delle risorse naturali, cosa che gli ha permesso di retribuire i propri miliziani e sostenere le popolazioni amministrate attraverso la confisca, ad esempio, dei depositi di grano e i mulini della Siria dell’est e nelle province di Ninive in Iraq. In questo l’IS è riuscito la dove gli altri gruppi anti al-Asad hanno fallito: i forni, le fabbriche, i mulini e i silos sono stati rimessi in grado di funzionare e i loro prodotti sono stati offerti a prezzi calmierati alle popolazioni povere. Fintanto che la sua condizione finanziaria glielo permette l’IS può così praticare una politica sociale attiva ottenendo in cambio l’accettazione delle sue politiche draconiane in materia di costumi e ordine pubblico. L’auto sufficienza in termini di risorse finanziarie, umane, energetiche o alimentari ha anche permesso di avviare un’amministrazione efficace sui territori controllati. Come descrive Emanuela C. Del Re in un recente numero della rivista Limes questo proto Stato ha ormai una “capitale”, globalmente riconosciuta nella città siriana di Raqqa ed è stato suddiviso in province, i wilāyāt, seguendo un concetto storico dell’islam. Al vertice della macchina statale c’è il “califfo” , il “vicario di Dio” (khalīfat rasūl Allāh), e immediatamente sotto di lui due vice provenienti dal Consiglio della šūrā, l’organo più importante dello Stato Islamico. Questi sono responsabili dei wilāyāt iracheni e di quelli siriani. Il vice di al-Baghdādī in Siria è Abu ali al-Anbari, mentre in Iraq questo ruolo era ricoperto fino all’agosto scorso, quando è rimasto ucciso in un attacco di droni, da Abū Muslim al-Turkmānī. L’apparato statale fa perno su otto consigli: il “Consiglio della sharīʿa”, che ha natura teologica e amministra la giustizia; il “Consiglio della šūrā”, che definisce le politiche statali; il dipartimento delle finanze; l’Ahl al-Hall wa’l-Aqd (coloro che sciolgono e legano), con finalità legislative; il consiglio militare, il consiglio di sicurezza, il consiglio dei media e l’organizzazione amministrativa vera e propria. Tale organizzazione come abbiamo visto sopra fa perno sui wilāyāt affidati ad un “governatore”, il Wālī, i cui immediati sottoposti sono gli emiri che controllano le zone in cui è divisa la provincia. La macchina burocratica può contare su circa un migliaio di quadri intermedi, forniti di esperienza militare o di polizia, per amministrare territori in cui vivono milioni di persone. La formazione di questo migliaio di quadri sta a testimoniare l’ambizione dello Stato Islamico di far durare a lungo la propria amministrazione. Il Califfato ha portato avanti, fin da subito, una strategia di omogeneizzazione dei territori controllati che ha visto nella distruzione dei santuari, delle moschee sciite e nella furia iconoclasta il suo tratto più “spettacolare”, ma che si è concretizzata per i cristiani dei Mosul nella proposta di accettazione dello status di dhimmi (status di suddito non musulmano), in quella di conversione all’Islam oppure nell’esilio. Lo Stato Islamico promuove inoltre la hijra (emigrazione) attraverso l’esaltazione della figura del mujāhidīn muhāǧir (combattente migrante) e l’insediamento di veri e propri coloni stranieri per sostituire quelle popolazioni locali poco disposte ad accettare le leggi draconiane imposte dai jihadisti. Di fatto si tratta di un’importazione di sostenitori che soddisfano determinati criteri ideologico-religiosi per schiacciare le forme del dissenso, un tratto che nemmeno troppo paradossalmente evoca il sionismo. Un aiuto propagandistico in questo senso lo hanno indubbiamente fornito le conquiste territoriali ottenute dall’IS che gli hanno procurato un grande prestigio verso i jihadisti del Medio oriente e più in generale di tutti i paesi del mondo. In un rapporto del giugno dello scorso anno si stima che attualmente ci siano elementi di 81 paesi differenti, fra cui molti paesi occidentali. Un fenomeno inedito per la sua ampiezza. Intervistato dal Sole 24 Ore Gilles de Kerchove, coordinatore europeo dell’antiterrorismo, ha recentemente dichiarato: Stimo che i cittadini europei che stiano combattendo o abbiano combattuto in Siria siano circa 5 mila. Ipotizziamo che il 5-10% di loro sia molto violento. Il numero è enorme.

Terza parte: www.militant-blog.org/?p=12684

La Siria, lo Stato islamico e la “guerra all’Europa”/quarta parte

Quarto appuntamento con il nostro approfondimento, qui la prima, la seconda e la terza parte.

Peter Harling su “Le Monde Diplomatique” ha definito lo Stato Islamico come un “mostro provvidenziale”. Un’entità che non vale tanto per quello che è, ma per come viene percepita e usata dalle potenze locali, regionali e globali. Una definizione particolarmente calzante in un contesto mediorientale che registra, sotto il dominio di Obama, il progressivo “disimpegno” degli Stati Uniti. Lungi dal pensarlo come una minaccia strategica, la Casa Bianca ritiene infatti lo Stato Islamico un soggetto utile ad attirare nella contesa le nazioni limitrofe, ed indurle ad impantanarsi in una riedizione della “strategia del contenimento” allargata a nuovi attori. Al di la delle dichiarazioni di circostanza per Washington il califfato va contenuto, non eliminato. E’ innegabile infatti che l’IS sia stato adoperato, e venga ancora oggi utilizzato, come uno strumento geopolitico: le monarchie arabe sunnite lo utilizzano per fare una guerra per procura contro Teheran, gli iraniani per consolidare il controllo di uno spazio geografico ininterrotto che dal mare Arabico raggiunge il Mediterraneo (la cosiddetta mezzaluna sciita) e i turchi per la loro “profondità strategica” contro i curdi e per le loro mire egemoniche. Un moderno “great game” caratterizzato dall’impossibilità per ogni singolo contendente (o coalizione di forze) di prevalere in maniera decisiva sui rivali, ma che sta divorando gli Stati postcoloniali del Novecento. Nel gioco delle alleanze, fino allo scoppio delle rivolte arabe in Medio Oriente, si era assistito essenzialmente alla lotta fra il cosiddetto “asse della resistenza” guidato dall’Iran e un variegato fronte costituito da Stati Uniti, da Israele e dai cosiddetti regimi arabi “moderati”. Quest’ultimi rappresentavano essenzialmente uno schieramento sunnita guidato dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Le “primavere arabe”, unitamente alla nuova dottrina obamiana e all’accordo con l’Iran sul nucleare, hanno però notevolmente complicato questo quadro. L’asse della resistenza ha subito un ridimensionamento con la spaccatura di Hamas. Il movimento islamico-palestinese si è schierato dalla parte dei ribelli siriani, a maggioranza sunniti e sostenuti dai Fratelli Musulmani, organizzazione di cui Hamas stesso è una ramificazione. A causa di questo la leadership del gruppo ha lasciato Damasco, dov’era ospitata dal 2001 e si è trasferita in Qatar. Significativamente nel 2013, quando Hamas ha deciso di riaprire un quartier generale distaccato all’estero, lo ha fatto a Istanbul, dove è stato accolto a braccia aperte dal vertice dell’Akp, l’attuale partito governativo del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Sarà forse utile a questo punto ricapitolare in maniera sintetica le motivazioni delle principali potenze regionali e internazionali, che, in misura diversa, sono state risucchiate nel gorgo della crisi siriana.

Turchia
Nel 2011 il governo turco è stato fra i primi stati a reagire alla rivolta scoppiata in Siria, voltando le spalle Bashar al-Asad, che fino a quel punto era considerato un prezioso alleato, anzi un “fratellino”, come Erdoğan amava definire il presidente siriano. Solo nel 2010 Ankara aveva infatti presentato un progetto per la costruzione di un’area di libero scambio che comprendesse, oltre alla Turchia, anche la Siria, la Giordania, il Libano e l’Iraq. L’idea era quella di garantire, oltre a quella delle merci, anche la libera circolazione dei rispettivi cittadini, abolendo il regime dei visti sulla falsa riga del trattato europeo di Shengen. Il progetto avrebbe dovuto rappresentare la concretizzazione del concetto di Ottoman Nations Gathering proposto dall’allora ministro degli esteri e attuale primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, una strategia nota anche come neo-ottomanesimo. Il Şamgen, questo doveva essere il nome dell’area di libero scambio (da Şam, toponimo turco di Damasco), venne però spazzato via dalle “primavere arabe” in coincidenza delle quali Ankara aggiustò la propria strategia mediorientale sostenendo l’ascesa dei fratelli musulmani. La posizione assunta dalla Turchia durante la guerra del Golfo del 1991 e l’invasione statunitense del 2003 avevano alienato al governo di Ankara la possibilità di influire sull’evoluzione irachena, costringendola a fare i conti con la nascita di un Kurdistan iracheno semi-indipendente. Per queste ragioni il governo turco ha deciso fin da subito di adottare nei confronti della Siria una strategia differente, accogliendo la leadership dei Fratelli Musulmani, ospitando le conferenze del “Consiglio nazionale Siriano” (Cns) e della “Coalizione dell’Opposizione Siriana” (Cos) e permettendo ai vertici militari del “Esercito Siriano Libero” (Fsa) di operare nel proprio territorio. fornendo loro sostegno logistico ed economico. La resilienza del presidente al-Asad ed il colpo di stato egiziano del 3 luglio 2013, hanno però fatto collassare anche la seconda fase della strategia neo-ottomana della Turchia, volta a favorire l’installazione di governi amici a Damasco e al Cairo. Secondo l’ex ambasciatore turco a Baghdad, Murat Özçelik, il sostegno offerto da Erdoğan allo Stato islamico e alle altri gruppi jihadisti fa parte di una nuova fase di questa strategia volta a favorire l’implosione delle entità statali di Siria e Iraq e ad integrare gli stati sunniti, che dovrebbero sorgere a sud della Turchia, in una struttura federale governata da un sistema presidenziale. La “politica dell’occhio chiuso” adottata da Erdoğan nei confronti del Califfato vede dunque al-Baghdādī soprattutto come un attore sunnita nel contesto del “Siraq” sciita, piuttosto che come un jihadista sanguinario. In questo momento la Turchia sta quindi combattendo almeno tre battaglie: una del mondo sunnita contro al-Asad e gli sciiti, un’altra per la leadership tra i musulmani nel Levante e una, forse in questo momento la più importante, per evitare la nascita di un proto stato curdo lungo i suoi confini con la Siria. Per queste ragioni Ankara è stata più che compiacente nei confronti del Califfato e per gli stessi motivi la Turchia vorrebbe coinvolgere la Nato in un’operazione di terra nel nord della Siria, rivolta formalmente contro lo Stato Islamico ma indirizzata concretamente contro le milizie curdo-siriane dell’YPG e contro i militanti del PKK.

Nel marzo scorso a Riyāḍ, durante un vertice tra Erdoğan ed il re saudita Salman, è stato raggiunto un accordo per il sostegno congiunto ad una coalizione di ribelli formata da al-Nuṣra, Aḥrār al-Shām e gruppi minori. Stando a quanto riporta un articolo uscito il 13 aprile sull’Huffington Post, in quell’occasione Turchia e Arabia Saudita avrebbero raggiunto anche un’intesa per una possibile operazione militare in Siria volta a rovesciare direttamente il regime di al-Asad. Questa intesa prevedeva l’invasione di terra da parte dell’esercito turco e la copertura aerea dell’aviazione saudita. Sempre secondo quanto riportato dall’articolo l’emiro del Qatar, paese con cui Ankara ha da poco stipulato un accordo militare che prevede la possibilità di schierare truppe congiunte in paesi terzi, avrebbe discusso del piano con Obama ottenendo un tacito assenso. Nei mesi seguenti, per diverse ragioni, Ankara non diede seguito immediato a questa operazione militare. In primo luogo perché l’accordo con Riyāḍ sul sostegno congiunto ai “ribelli”, aveva già permesso di ribaltare, almeno in parte, gli equilibri del conflitto, come dimostravano la conquista di Idlib e Jisr ash-Shugur. C’erano poi da superare le resistenze dell’esercito turco di fronte all’interventismo di Erdoğan. Ed infine pesava l’approccio diverso di Turchia e Arabia Saudita rispetto all’Iran. Ankara, infatti, coltiva l’ambizione di trasformare il proprio paese un hub geoenergetico fondamentale per l’Europa attraverso lo sviluppo del cosiddetto corridoio meridionale in cui, già dal 2019, dovrebbe confluire il gas azero diretto nel vecchio continente e in cui, sempre nei progetti di Ankara, dovrebbero confluire anche il gas iraniano e turkmeno. Questo permetterebbe al paese, in un futuro non troppo lontano, di rappresentare agli occhi degli europei un’importante alternativa all’approvvigionamento russo. L’Iran rappresenta inoltre un importante mercato di sbocco per le merci turche. Il volume delle esportazioni ammonta attualmente a 10 miliardi di dollari e sarebbe destinato a triplicarsi già entro il 2017. Nel medio periodo, secondo analisti turchi, i volumi dell’interscambio potrebbero salire addirittura a 90 miliardi di dollari. L’intervento diretto dei russi nel settembre scorso ha però anticipato e disinnescato, probabilmente in maniera definitiva, la realizzazione dei progetti di Ankara e Riyāḍ, e questo spiegherebbe almeno in parte l’azzardo compiuto da Erdoğan con l’abbattimento del bombardiere russo. Un tentativo (fallito) di provocare una reazione militareda parte di Mosca, cosi da poter forzare la mano ai propri alleati invocando l’articolo 5 del Patto Atlantico, quello che prevede l’obbligo d’intervento al finco di un paese alleato attaccato.

Recentemente il Sole 24 Ore ha dedicato due pagine ad un’illuminate inchiesta sul ruolo svolto dalla Turchia e dal Qatar nel traffico di armi a sostegno dei gruppi jihadisti. Il quotidiano della Confindustria, a cui certamente non possono essere rimproverate simpatie antimperialiste, ha reso note alcune delle conclusioni a cui è giunto il “Gruppo di esperti” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Ne viene fuori un quadro interessante che vede nella Libia, nella Turchia e nel Qatar i vertici di una triangolazione di armi diretta in Siria. Tra le spedizioni dettagliatamente descritte nel rapporto Onu è particolarmente significativa quella di alcuni C-17 partiti dalla Libia ed arrivati in Turchia dopo aver fatto scalo in Qatar. Gli aerei da trasporto militare, di proprietà del Qatar, sono infatti volati da Tripoli e Bengasi fino a Doha usufruendo di uno speciale nullaosta diplomatico-militare che solitamente viene utilizzato per il trasporto di armi o equipaggiamento bellico. Gli incaricati dell’Onu hanno chiesto chiarimenti e dettagli ai Paesi i cui spazi aerei erano lungo la rotta percorsa (Grecia, Egitto, Arabia Saudita) ottenendo scarsissimi risultati. Ancora più reticente si è dimostrata, però, la società responsabile dei piani di volo, la Jeepsen. Un’azienda che, ad un più approfondito controllo, è risultata essere molto vicina alla Cia, tanto da esserne stata indicata come “l’agenzia di viaggio”. La Jeepsen infatti non è una società qualsiasi, ma è un’ azienda controllata dalla Boeing, un colosso che deve il 30% del suo fatturato al Pentagono, ed è anche l’agenzia che è stata adoperata dalla Cia per la campagna di extraordinary rendition dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Ovvero il rapimento al di fuori degli Stati Uniti di persone sospettate di avere rapporti con al-Qāʿida e il loro trasferimento in stati terzi, dove i “sospetti” venivano torturati da agenti locali per conto dell’intelligence statunitense. Un’ulteriore ragione di interesse è data però dall’aeroporto in cui i C-17 hanno fatto scalo. Non si tratta diuna pista qualsiasi, ma di quella della base di Al Udeid, dove ha sede il “quartier generale avanzato” del comando mediorientale delle Forze Armate statunitensi, il Central Command, e che oltre a ospitare il 379° stormo dell’Usaf è sede anche dell’83° stormo della Raf, l’aeronautica militare britannica. Insomma a tutti gli effetti una base anglo-americana. Risulta davvero difficile credere che i vertici militari occidentali potessero non essere al corrente della natura del carico e della sua destinazione. Questo a dimostrazione, ancora una volta, che tra il “bianco” della civiltà moderna occidentale e il “nero” dell’oscurantismo jihadista esiste tutta una gradazione di grigi in cui i confini tra il bene e il male diventano meno netti. Ankara, dal canto suo, ha sempre negato di essere a conoscenza dei trasferimenti di armi verso i ribelli anti al-Asad, eppure lo scorso maggio il giornale turco Cumhuriyet ha rivelato, foto comprese, che tir stipati di armi partivano dalla Turchia per rifornire i ribelli turkmeni. Le immagini scattate nel gennaio del 2014 documentavano l’intervento del Mit (i servizi segreti turchi) per fermare una perquisizione della polizia alla frontiera. Erdoğan aveva giurato al direttore di “fargliela pagare” e così è stato. Per quello scoop, il 26 novembre scorso il direttore di Cumhuriyet, Can Dündar, e il capo della redazione di Ankara, Erdem Gül, sono stati arrestati su richiesta del Tribunale di Istanbul. A innescare la reazione giudiziaria era stato lo stesso presidente Erdoğan, il quale ha prima promesso che i due avrebbero “pagato un duro prezzo” e poi presentato di persona una denuncia per tradimento e divulgazione di segreti di Stato. Se in quelle casse ci fossero davvero stati beni umanitari, come ha provato a sostenere la Turchia, quelle accuse però non si spiegherebbero. E adesso i due giornalisti non rischierebbero l’ergastolo. Al di là dell’origine di quello specifico convoglio è certamente impensabile che la cosiddetta “autostrada del Jihad”, la rotta che il Califfato di Abū Bakr al-Baghdādī ha usato per anni per portare jihadisti stranieri e rifornimenti dalla Turchia in Siria, non fosse monitorata dalle forze di sicurezza di Ankara. Come è difficile credere che tutte queste iniziative turco-qatariote in Libia e Siria siano passate inosservate agli statunitensi e agli altri paladini della “guerra al terrorismo”.

Russia
Per certi versi anche l’intervento russo sembrerebbe confermare la funzione di “mostro provvidenziale” svolta dello Stato islamico. Un proto Stato da cui nessuno, tranne al-Asad, si sente realmente minacciato, e contro il quale si possono dichiarare grandi coalizioni salvo poi tollerarne e addirittura eccitarne le scorrerie quando colpiscono interessi rivali. Nel cercare di analizzare il sostegno diplomatico e militare dei russi nei confronti della Siria occorre però tenere conto di quello che abbiamo già definito il “precedente libico”. In quel caso l’astensione russa e cinese in sede Onu aveva permesso di approvare una risoluzione che autorizzava l’uso della forza per imporre una no-fly zone a “difesa dei civili”. L’intervento della Nato si era però subito trasformato in un aperto sostegno ai ribelli libici, finalizzato ad imporre un “regime change” che, almeno formalmente, non rientrava negli scopi della missione e che, oltre che a una violazione del diritto internazionale, rappresentò anche uno schiaffo diplomatico che Mosca e Pechino difficilmente dimenticheranno. Oltre alla volontà che si potesse ripetere uno scenario libico ci sono pero almeno altri due fattori che vanno considerati:
1) Dopo il tracollo delle relazioni con l’Egitto di Sadat e lo smantellamento delle basi navali di Alessandria e Marsā Maṭrūḥ, la base navale di Tartus, in Siria, rappresenta l’unico ed irrinunciabile punto d’appoggio navale russo nel Mediterraneo. Nel gennaio del 2005 Vladimir Putin ha cancellato il 75% del debito accumulato dalla Siria nei confronti della Russia per spese militari, un segno più che tangibile dell’importanza che il trattato di amicizia fra i due paesi, firmato nel 1980, riveste tuttora per Mosca.
2) Un paese come la Russia, che all’inizio del 2015 dipendeva ancora per il 50% del proprio Pil dal settore idrocarburi, non può non avere un piede in Medio Oriente, l’area che ospita il 40% delle riserve accertate di petrolio ed il 41% di quelle di gas naturale. La stessa regione che attraverso lo stretto di Hormuz e del Canale di Suez controlla la movimentazione di una parte notevole delle risorse energetiche mondiali e in cui viene influenzato, in misura decisiva, il mercato mondiale dell’energia. Basti pensare all’impatto avuto dalla sovrapproduzione saudita nella guerra del prezzo del petrolio, passato in un anno da 113 a 38 dollari al barile, e alle enormi ricadute che questo ha avuto sulle economie dei paesi produttori.

Lo scorso settembre Putin ha così compiuto sullo scacchiere mediorientale quello che qualcuno ha definito acutamente la mossa del cavallo, cosa che gli ha permesso di uscire dall’arrocco ucraino, dove l’Occidente sperava di averlo confinato con le sanzioni per l’annessione della Crimea. Ordinando di schierare un robusto contingente militare nel Nord-Ovest della Siria e rafforzando la storica presenza russa imperniata sulla base di Tartus, Mosca ha dimostrato di saper sfruttare i vuoti prodotti dalla strategia statunitense per segnalare agli stessi Stati Uniti e al mondo che non è disposta a mollare al-Asad e che non è possibile escluderla dai giochi in cui si determineranno i destini della Siria ed i futuri assetti mediorientali. Come dimostra il recente vertice di Antalya Putin ha saputo volgere a proprio vantaggio un problema che resta comunque irrisolto: la divisione dell’Occidente tra Europa e Stati Uniti e anche dentro l’Unione Europea. Divisioni che non riguardano solo l’uso della forza militare, ma anche la cosiddetta soluzione politica. Ovvero l’atteggiamento da tenere nei confronti dell’Arabia Saudita, della Turchia e dell’Iran per spingerli ad attenuare il loro scontro per l’egemonia del Levante da cui la guerra civile siriana è stata alimentata. Se l’occidente vorrà davvero allearsi con Putin nella guerra contro l’IS il prezzo da pagare sarà salato. Lo si è capito quando nelle settimane scorse il premier francese Manuel Valls ha pubblicamene chiesto la revoca delle sanzioni internazionali che dovrebbero essere rinnovate il prossimo 31 gennaio. E se ne è avuta un’ulteriore riprova con l’annuncio da parte dell’ambasciatore iraniano a Mosca dell’avvio delle procedure per la fornitura a Teheran dei sistemi antimissile russi S-300. Il contratto era stato stipulato nel 2007 e poi annullato nel 2010, a causa delle sanzioni internazionali che impedivano all’Iran di acquistare questi sistemi militari. Appare evidente che sul destino di Bashar al-Asad le divergenze delle cancellerie occidentali con Mosca e Teheran siano difficilmente aggirabili e vadano ben oltre la sorte del presidente siriano. Come dimostra l’ambiguità della risoluzione approvata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu lo scorso 19 dicembre.

La presenza aereonavale di Mosca ha però una pluralità di significati che in questa sede non è possibile ignorare. Oltre a fornire appoggio aereo alle operazioni di terra, l’intervento russo ha anticipato e nei fatti ribaltato la possibilità avanzata dalle potenze regionali sunnite (e appoggiata dagli Usa) di creare una no-fly zone. I cruise (Kalibr SS-N-30) sparati a più riprese dalle acque del Mar Caspio, a 1500 km di distanza, contro obiettivi in mano alle forze ribelli, sono stati evidentemente un “parlare a nuora perché suocera intendesse”. Questi missili, con gittata di 2500 km e capacità nucleare, rappresentano infatti il fiore all’occhiello dell’arsenale russo, al pari delle corvette Buyan da cui sono partiti. Attraversando i cieli iraniani e iracheni, prima di giungere in Siria, queste salve di missili hanno segnalato l’estensione dell’influenza russa anche al teatro iracheno. Proprio a Baghdad i servizi militari di Mosca hanno costituito un centro di coordinamento di intelligence con gli omologhi iracheni, iraniani e siriani, formalmente ai fini della guerra all’IS. Mentre un secondo comando, secondo fonti del Cremlino, potrebbe essere costituito a breve in un altro paese della regione. Un riferimento non troppo velato all’Egitto del generale al-Sisi che in una recente occasione ha espresso chiaramente il sostegno all’operazione militare di Putin. L’abbattimento del bombardiere russo da parte della contraerea turca non ha fatto altro che accelerare il processo già in corso. Per tutta risposta, secondo quanto riportato dal quotidiano kuwaitiano “Al-Rai”, Mosca starebbe schierando truppe speciali lungo la frontiera siro-turca allo scopo di sigillare i corridoi terrestri che attraverso i posti di controllo di Aazaz e Bab al-Salamah consentono ai camion provenienti dalla Turchia di portare in Siria armi, munizioni e rifornimenti ai gruppi ribelli che si battono contro il governo di al-Asad. L’intelligence russa avrebbe infatti individuato in questo passaggio una delle più importanti rotte di consegna dei missili anti-tank “Tow”. Altre truppe speciali russe sarebbero invece per essere dislocate nei pressi della base aerea di Al-Shayrat, segno, secondo il quotidiano kuwaitiano, della volontà di rafforzare la presenza dell’aviazione russa che al momento dispone di circa 75 aerei nella base di Hmeimim, adiacente all’aeroporto di Latakia. La realizzazione di una nuova base aerea a circa 25 chilometri da Homs sembrerebbe essere la premessa di un’offensiva di terra verso est dopo l’accordo raggiunto con i ribelli che abbandoneranno la città sede dell’omonimo governatorato. E tutto questo mentre dalla fine di novembre gli aerei russi vengono fatti volare con missili aria-aria di corta e media gittata rafforzando la “bolla aerea” sopra la Siria.

Si tratta di segnali importanti sull’irreversibile internazionalizzazione del conflitto che già da tempo avevano provocato ripercussioni sui progetti energetici condivisi tra i Turchia e Russia. A farne le spese per primo è stato il progetto del Turkish Stream, un gasdotto che avrebbe dovuto collegare la Russia con la Turchia passando per il Mar Nero e che era stato annunciato a sorpresa da Putin nel 2014, durante una visita in Turchia. I lavori avrebbero dovuto iniziare a partire dal giugno di quest’anno, ma Ankara non ha mai approvato neppure gli accordi intergovernativi necessari per l’opera e l’italiana Saipem, che aveva già iniziato la posa dei tubi nella tratta sottomarina del gasdotto, si è vista rescindere da un giorno all’altro il contratto da Gazprom. A tale proposito occorre tener presente che la Russia è il secondo partner commerciale di Ankara, con un interscambio pari a 31 miliardi di dollari nel 2014 e a 18,1 miliardi di dollari per i primi nove mesi del 2015. Considerando anche il settore dei servizi la cifra sale a 44 miliardi di dollari. Solo due mesi fa le ambizioni erano ben altre: in visita a Mosca il 23 settembre scorso, pochi giorni prima dell’avvio della campagna di bombardamenti russa, il presidente turco Erdoğan auspicava che entro il 2023 il commercio bilaterale raggiungesse i 100 miliardi di dollari. Queste ambizioni sono ora vittime della guerra in Siria, anche se le sanzioni russe, almeno in questa prima fase, sono meno rigide di quanto ci si aspettasse. Dal 1° gennaio le aziende russe non potranno più assumere lavoratori turchi e molte imprese di Ankara subiranno limitazioni. Inoltre, dall’inizio del 2016, le agenzie di viaggio russe dovranno smettere di vendere viaggi in Turchia e saranno vietati i voli charter. Anche qui il Cremlino ha infierito duramente perché il Paese è una delle mete preferite dai russi e l’anno scorso i visitatori sono stati oltre tre milioni. Nell’elenco delle sanzioni c’è anche la sospensione degli effetti del trattato bilaterale che aboliva il regime dei visti. Limitazioni sono in arrivo anche per i servizi, in particolare per i trasporti, che verranno sottoposti a controlli approfonditi per ragioni di “sicurezza”. Nessuna sanzione invece sul fronte energetico dove Ankara e Mosca sono legate a doppio filo. Mosca è il principale fornitore di gas della Turchia che importa dai russi il 60% del fabbisogno annuo. E la Turchia, dopo la Germania, è il secondo cliente di Mosca. Senza contare il passaggio al nucleare che Ankara ha affidato in buona parte ai russi: nel 2013 la Turchia ha commissionato alla russa Rosatom la sua prima centrale (ad Akkuyu), quattro reattori e un progetto da 20 miliardi di dollari.

Arabia Saudita e Qatar
Il 2 ottobre del 2014, intervenendo al John F. Kennedy Jr Forum presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Harvard, il vicepresidente americano Joe Biden espose con inusuale franchezza l’opinione del governo americano sugli alleati nella regione e in Siria, sostenendo che l’Arabia Saudita, la Turchia e gli Emirati Arabi: erano decisi a liberarsi di al-Asad e a far esplodere una guerra per procura tra sunniti e sciiti. Cos’hanno fatto allora? Hanno elargito centinaia di milioni di dollari e decine di migliaia di tonnellate di armi a chiunque sostenesse di voler combattere contro al-Asad. Peccato però che tra questi ci fossero anche al-Nuṣra, al-Qāʿida e gli estremisti jihadisti giunti da altri paesi. Considerazioni condivise anche dal ministro tedesco per la Cooperazione e lo Sviluppo, Gerd Müller, che nell’agosto dello stesso anno aveva dichiarato: dovete domandarvi chi sta armando e finanziando le truppe dell’Isis. La parola chiave è Qatar. Del resto era stato lo stesso principe Saud Feisal a chiarire il concetto al segretario di Stato Usa John Kerry: Daesh è la nostra risposta sunnita al vostro appoggio agli sciiti dopo la caduta di Saddam.

Qatar
Questo piccolo ma ricchissimo emirato del Golfo si è contraddistinto per un crescente attivismo politico-regionale a partire dal 1995, quando salì al potere l’emiro Hamad bin Khalifa al-Thani. Schiacciato tra due vicini ingombranti (l’Iran e l’Arabia Saudita) nei primi anni Duemila il Qatar aveva mostrato una notevole scaltrezza politica associata alla capacità di bilanciare le proprie alleanze, grazie anche alla liquidità derivatagli dallo sfruttamento del giacimento di gas condensato chiamato South Pars/North Dome. Uno dei più grandi nodi energetici ed economici del pianeta con riserve stimate di 51 trilioni di metri cubi di gas. Il patrimonio colossale degli al-Thani è segnato però da un vulnus preciso che si chiama Iran. Questo perché più di un terzo del giacimento sottomarino si trova in acque territoriali iraniane. La South Pars (così si chiama il lato persiano del giacimento) a differenza della controparte qatariota non è ancora del tutto sviluppato. L’ambizione del Qatar è quella di realizzare una serie di gasdotti verso l’Europa con sbocco in Turchia alternativi a quello che dovrebbe attraversare Iran, Iraq e Siria. In questa veste il Qatar appare in concorrenza diretta sia con l’Iran (in quanto produttore), che con la Siria (in quanto destinazione), e a un grado inferiore con l’Iraq (in quanto paese di transito). Dopo lo scoppio delle primavere araba Doha ha tuttavia puntato sempre più apertamente sull’ascesa dei movimenti islamici, e soprattutto sui Fratelli Musulmani, rompendo il proprio rapporto con Damasco e incrinando quello con le alte petromonarchie del Golfo che tradizionalmente nutrono una profonda diffidenza nei confronti di questo movimento. Dopo la vittoria dei Fratelli Musulmani in Egitto e del partito al-Nahda in Tunisia, il Qatar ha visto nell’alleanza con la Fratellanza e più in generale coi movimenti islamici la possibilità di accrescere la propria influenza politica ed economica in Medio Oriente. Doha ha dunque deciso di appoggiare economicamente l’Egitto di Morsi, attraverso una vigorosa politica di prestiti, e militarmente la ribellione libica contro Gheddafi prima, e quella siriana contro al-Asad dopo. Così come per la Turchia, la deposizione di Morsi in Egitto e le disfatte subite dai “ribelli siriani” hanno ridimensionato la proiezione regionale dell’Emirato che però non ha rinunciato ad avere un peso nei futuri assetti dell’area. Nel 2009, in un messaggio classificato “segreto” ma reso pubblico da Wikileaks, il dipartimento di Stato statunitense definiva il grado di collaborazione del Qatar nell’anti-terrorismo “il più basso della regione”. Nell’ottobre dell’anno scorso, l’allora sottosegretario al Tesoro Usa David Cohen indicò il Qatar come uno stato “permissivo” in materia di finanziamento al terrorismo. Nell’elenco dei “agevolatori finanziari del terrorismo” redatto da Washington si trovano ben 16 qatarioti, e cinque cittadini di altri Paesi arabi che operano in Qatar. Tra questi ultimi spicca il tunisino Tariq Al-Awni Al-Harzi, che il Tesoro americano definisce “un funzionario di alto livello di Isis (…) responsabile del reclutamento di cittadini nordafricani ed europei (…) il quale, nel settembre del 2013, ha fatto in modo che lo Stato islamico ricevesse due milioni di dollari da un finanziatore di base in Qatar con istruzioni specifiche di usare quella somma in operazioni militari”.

Arabia Saudita
La politica adottata dall’Arabia Saudita nei confronti della guerra civile siriana merita anch’essa un’attenzione particolare. Per Riyāḍ, tradizionalmente ostile al cambiamento e favorevole al mantenimento dello status quo, le “primavere arabe” hanno rappresentato un trauma. Soprattutto quando l’instabilità cominciò a lambire i propri confini con le rivolte in Bahrein e nello Yemen. Inoltre la monarchia saudita è sempre stata legata a doppio filo con gli Stati Uniti ed ha sempre guardato con timore all’emergere di qualsiasi alternativa regionale potesse mettere in secondo piano l’alleanza di Washington con Riyāḍ. La prospettiva di un nuovo fronte “moderato” guidato dalla Turchia e l’accordo sul nucleare conl’Iran ha sempre spaventato la casa saudita. Lo scoppio della rivolta siriana ha dunque permesso alla famiglia saudita di passare al contrattacco. Dopo aver assistito nel 2005 alla nascita in Iraq del primo governo sciita in un paese arabo dal XII secolo, e dopo aver dovuto subire l’ascesa di Hezbollah in Libano, l’Arabia Saudita ha visto nella ribellione siriana l’opportunità di rovesciare il regime alauita di al-Asad infliggendo un duro colpo all’Iran e guadagnando influenza in Libano. A partire dall’estate del 2013 i sauditi hanno sostituito il Qatar in cima all’elenco dei finanziatori dei ribelli siriani grazie anche all’intermediazione di istituti finanziari come l’Al Rajhi Bank. Tuttavia il sostegno è andato ben oltre al semplice incremento degli stanziamenti: il numero di combattenti provenienti dall’Arabia Saudita ha infatti superato quello di ogni altro paese. Un fenomeno, questo, che alla lunga potrebbe rivelarsi un boomerang per la stabilità del regno, ma che si lega a uno degli sviluppi più pericolosi della nostra epoca, ovvero la “wahabbizzazione” dell’islam sunnita tradizionale. Come ha denunciato Ali Allawi, storico ed esperto del settarismo, in un paese dopo l’altro le comunità sunnite “hanno adottato elementi del wahhabismo che in origine non facevano parte del loro canone”. Il prevalere del wahhabismo dipende ovviamente dal peso politico ed economico dell’Arabia Saudita. Riyāḍ sfrutta l’intenso proselitismo delle sue opere di carità wahhabite che negli ultimi trent’anni hanno costruito ai quattro angoli del pianeta più di 1500 moschee, 210 centri musulmani, 202 collegi islamici e 2 mila madrase, spedendovi oltre 4 mila missionari. Arrivati a questo punto ci si potrebbe chiedere con un pizzico di ingenuità perché questa complicità diretta con il “terrorismo islamico” da parte delle petromonarchie viene accettata dagli occidentali.

Nel 2009, a otto anni dall’attentato del 11 settembre, l’allora Segretario si Stato Usa, Hillary Clinton, in un cablogramma rivelato da Wikileaks, lamentava il fatto che la fonte di finanziamento principale dei gruppo terroristi sunniti fosse costituita da donatori sauditi. La risposta al quesito sta nei miliardi di petrodollari che le monarchie del Golfo hanno dirottato fin dalla crisi petrolifera dei primi anni Settanta verso i mercati finanziari statunitensi e nella centralità che in questo modo è stata conferita al dollaro del sistema monetario internazionale dopo la rottura unilaterale degli accordi di Bretton Woods e il tramonto del “gold dollar standard”. Alla luce di queste cifre si spiega l’atteggiamento americano nei confronti del Califfato e dei jihadisti siriani sponsorizzati dalle monarchie del Golfo. La Saudi Connection, come la definisce Alberto Negri: è soprattutto il rapporto ombelicale che da 70 anni lega Washington a Riad. L’Arabia saudita, il più oscurantista degli stati islamici è la roccaforte del sunnismo, ma anche la nazione musulmana con il più antico patto con gli Stati Uniti firmato tra Ibn Saud e Roosevelt nel 1945 pochi giorni dopo Yalta. Mentre Obama e re Salman si stringevano la mano al G-20 di Antalya veniva firmato l’ennesimo contratto militare: 1,2 miliardi di dollari per 10mila sofisticate bombe made in Usa da scaricare in Yemen sulla testa dei ribelli sciiti Houti. Negli ultimi 5 anni o sauditi hanno acquistato sistemi d’arma da Washington per 100 miliardi di dollari. Mentre il Qatar il 14 luglio dell’anno scorso ha acquistato elicotteri Apache per 11 miliardi di dollari con un’intesa siglata a Washington dal Segretario alla Difesa Chuck Hagel. In quell’occasione Hagel definì “di importanza critica” la relazione tra Usa e Qatar e dichiarò di essere “felice che continui a diventare sempre più stretta”. In verità Riyad, dietro pressioni statunitensi, ha ufficialmente inserito l’IS nella lista delle organizzazioni terroristiche e ha recentemente annunciato la costituzione di un’alleanza di 34 stati musulmani per la lotta al Califfato. Ma sia la Russia che le cancellerie occidentali hanno dimostrato di nutrire più di qualche perplessità sulle reali intenzioni di questo “fronte” e sulle sue modalità d’azione.
Quarta parte: www.militant-blog.org/?p=12696
view post Posted: 5/12/2015, 21:49 Partito Marxista-Leninista Italiano (PMLI) - Partiti e movimenti comunisti
Dopo la loro levata di scudi in difesa dell'UCK non c'era da sorprendersi. La loro visione dell'imperialismo, e di conseguenza dell'anti-imperialismo, è irrecuperabile.
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