Comunismo - Scintilla Rossa

Posts written by RedSioux

view post Posted: 9/12/2019, 18:51 La Francia si ferma, ha inizio lo sciopero generale che paralizzerà il paese - Esteri
Francia: è grève générale !
Riceviamo e pubblichiamo da un compagno a Parigi un commento sulla giornata di sciopero di ieri a Parigi.



La tanto attesa data del 5 dicembre è arrivata. Trainata dal protagonismo degli cheminots, i lavoratori delle ferrovie e dell’azienda del trasporto pubblico di Parigi, la mobilitazione si è presto espansa alla pressoché totalità del settore pubblico: lo sciopero dei trasporti si è trasformato, nel corso della sua costruzione, in sciopero generale, che ha strabordato a sua volta in forme di opposizione e resistenza alle politiche di ristrutturazione neoliberale ben oltre semplice giornata di giovedì. Sciopero illimitato, blocchi, cortei selvaggi, azioni e occupazioni di piazze hanno preceduto, attraversato e superato la giornata di ieri: una reale strategia di attacco verticale che punta direttamente alle stanze dell’Eliseo.

Sono gli studenti dei licei ad aprire, alla vigilia dello sciopero, le danze, con blocchi sparsi negli istituti superiori e cortei selvaggi nel centro della capitale francese. La serrata, messa in campo dalla dirigenza universitaria della Sorbona, di parte dei poli universitari e la presenza di agenti armati di fronte alla sua sede centrale è specchio di un forte timore da parte del potere, causato dal ritrovato protagonismo del mondo della formazione, che nelle mobilitazioni contro la precarietà studentesca delle ultime settimane ha ritrovato vigore e volontà di convergere nella mobilitazione contro la riforma delle pensioni che agita il paese. Il risultato è un 5 dicembre di blocco e paralisi di gran parte dei settori strategici: trasporti, istruzione, sanità, raffinerie e settore energetico registrano altissime percentuali di scioperanti, in tutto il paese. Più di un milione di persone sono mobilitate in tutta la Francia, di cui 250.000 in piazza a Parigi.

Della giornata parigina di giovedì è, anzitutto, il colpo d’occhio a impressionare. In una capitale completamente bloccata dallo sciopero dei mezzi, il numero e la composizione della piazza sono significativi. Gilets gialli, un’importante partecipazione di pompieri in divisa, k-way neri e lavoratori con l’uniforme del settore di appartenenza rappresentano una buona parte della marea che invade i boulevards parigini. Ai primi scontri, sarà proprio questa miscela sociale esplosiva a mettere in pratica forme di dura resistenza, che terrà impegnati gli agenti per ore. Dalle cariche, contro-cariche e barricate di Place de la République, fino alla risposta determinata alle sciocche provocazioni della polizia, alla fine del corteo a Nation. Forme di cooperazione sociale eterogenee, in cui la resistenza di piazza, trainata dalla componente giovanile, si è accompagnata a forme inedite di protagonismo di soggetti non tradizionalmente associati a forme radicali di conflitto, con colonne di pompieri in divisa che fronteggiano e fanno arretrare gli agenti, in più occasioni, o membri della base CGT, che contribuiscono attivamente alla resistenza di fronte ai tentativi di spezzare il corteo e dividerne la forza. L’affollatissima assemblea generale tenutasi alla fine della giornata di lotta rilancia la mobilitazione. Lo sciopero dei mezzi è, per ora, confermato fino a lunedì, mentre l’attenzione è rivolta alla giornata di sabato, quando gli scioperanti convergeranno all’interno del tradizionale atto dei Gilets Gialli.

È “convergenza” la parola d’ordine che guida la costruzione della mobilitazione. Gilets gialli, basi sindacali, studenti e pezzi del mondo dell’ecologismo radicale hanno costruito negli ultimi mesi una piattaforma trasversale che, intorno alla data del 5, è riuscita a imporre alle burocrazie delle realtà sindacali promotrici forme e contenuti di una mobilitazione che va ben oltre la rivendicazione del blocco della contestatissima riforma delle pensioni. “Macron démission”, obiettivo minimo, è l’epiteto di una critica radicale all’esistente che negli ultimi anni le piazze francesi sono riuscite a imporre al dibattito pubblico, consolidate in un anno di straordinaria agitazione sociale. Se “Giletjaunizzare lo sciopero” era uno degli intenti principali dei gruppi autonomi e radicali che vi hanno preso parte attiva, si può parlare di un risultato pienamente ottenuto.

La mobilitazione, in costante costruzione, vive della propria imprevedibilità. Non è dato sapere quanto durerà lo sciopero, né quali strategie di risposta verranno adottate, ma un dato è certo: l’autorganizzazione costruita negli ultimi anni di scontro e resistenza alle politiche di ristrutturazione neoliberali è, ormai, affermata in quanto grammatica del discorso politico quotidiano. Se la sfida è quella della tenuta e della continuità, si può stare certi che la mobilitazione non è che al suo inizio: continuons le début!
view post Posted: 9/12/2019, 18:45 Sardine - Interno
Benissimo lo si sapeva già da tempo! Non c'è dubbio che in varie occasioni si siano formati movimenti più genuini di questo, ma non mi sembra che in questo caso ci si trovi di fronte ad una novità!
La base è composta da studenti, non credo che siano tutti elettori del PD. Si tratta comunque di ragazzi "attenti" a certe questioni che interessano anche noialtri. Il nostro compito è anche quello di insinuarci nelle contraddizioni sviluppate dal sistema capitalistico.
Poi come si è già detto più volte se preferiranno assumere il ruolo del pesce in scatola tanti saluti
view post Posted: 4/12/2019, 10:51 Tanto latte versato - Interno
Latte, 600 indagati: sotto accusa i pastori ma anche amici e simpatizzanti
A Tramatza la riunione degli allevatori destinatari dell'avviso di garanzia per alcune azioni durante la protesta. Tensione alle stelle nelle campagne: secondo un'indiscrezione neppure nel 2020 il prezzo del prodotto sarà di un euro al litro
view post Posted: 3/12/2019, 12:20 Cina vs USA - Esteri

Dazi, Stato e Rivoluzione (digitale)


“La Cina è vicina” gridavano le piazze degli anni Settanta, e dopo quasi mezzo secolo di storia quello slogan non è mai stato tanto aderente alla realtà come lo è oggi, anche se in forme ben diverse da quelle auspicate allora. Non si intravede nessun nuovo Mao al timone, nessuna Rivoluzione Culturale si profila all’orizzonte e non ci sono nemmeno le guardie rosse intente a bombardare il quartier generale. Da Deng Xiaoping in poi la Cina ha smesso di rappresentare un’alternativa ideologica di riferimento, non solo rispetto al comunismo sovietico, ma anche, e soprattutto, rispetto a quell’occidente capitalistico a cui si è andata viepiù, per l’appunto, avvicinando.

La tappa fondamentale di questo percorso è stata sicuramente, tra il 1999 e il 2001, il negoziato finale e poi l’ingresso della Repubblica Popolare nella World Trade Organization (Wto). Com’è noto l’ultimo ventennio di crescita dell’economia globale si è di fatto retto sulla complementarietà tra gli Stati Uniti e la Cina, diventata nel frattempo, la “fabbrica del mondo”. Un’interdipendenza talmente forte da spingere i media internazionali a definire questo G2 informale come “Chimerica”, termine coniato dallo storico statunitense Niall Ferguson e nato dalla crasi di China e America.

Questo processo d’inserimento nel mercato internazionale è rimasto sostanzialmente immutato per tutto il primo decennio del nuovo secolo. La trasformazione della Cina nel principale hub della manifattura globale ha portato con sé, però, uno squilibrio commerciale crescente a danno degli Stati Uniti che, almeno in parte, è stato compensato dai flussi di capitali cinesi a sostegno del debito pubblico USA. All’alto debito dei consumatori statunitensi ha cioè fatto da corrispettivo l’alto risparmio delle famiglie cinesi, e i disavanzi commerciali Usa che hanno riempito le riserve valutarie di Pechino sono stati poi regolarmente “riciclati” in dollari, con la sottoscrizione di Treasury bond statunitensi. Stando agli ultimi dati del 2019 i buoni del tesoro Usa posseduti dalla Cina ammonterebbero a 1112 miliardi di dollari. Una cifra sicuramente considerevole che, però, crea più preoccupazioni alla Cina creditrice che non agli Usa debitori. Considerando anche i 22000 miliardi di debito complessivo di Washington i titoli in mano a Pechino rappresentano infatti solo il 5% del totale.

Questo sistema si è però parzialmente inceppato con la crisi del 2008, quando il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina è crollato del 15% nel giro di pochi mesi. Per far fronte al rallentamento dell’economia Pechino è stata “costretta” a varare misure anticicliche con un pacchetto impressionante di stimoli all’economia, circa 580 miliardi di dollari, finanziato centralmente ed incentrato soprattutto sugli investimenti nelle infrastrutture fisse e sui sussidi fiscali alle imprese esportatrici. È in questo frangente, e sotto l’amministrazione Obama, che inizia a mutare l’atteggiamento statunitense nei confronti della Cina a cui vengono addossate le responsabilità per il doppio debito Usa da deficit commerciale e da indebitamento statale e a cui viene rimproverata l’eccesiva debolezza dello yuan. Dall’altra parte del Pacifico la percezione è invece che Washington non voglia far altro che scaricare la crisi sugli “alleati” continuando a stampare moneta e alimentando nuove bolle speculative. L’impalcatura che aveva retto la fase ascendente della globalizzazione si è rapidamente trasformata in una gabbia troppo stretta per il gigante asiatico.

Alla fine degli anni Dieci del nuovo secolo il quadro geopolitico vede così riemergere una competizione strategica di lungo termine tra gli Stati Uniti e quella che viene ormai pubblicamente descritta come una “potenza revisionista”, una definizione che nella teoria delle relazioni internazionali viene utilizzato per indicare quelle potenze emergenti che intendono modificare a proprio vantaggio l’ordine politico mondiale. Il “momento unipolare” del potere politico ed economico statunitense che aveva contrassegnato la fine della (prima?) guerra fredda ha così lasciato il posto a un bipolarismo, sempre più esplicito, tra Stati Uniti e Cina.

A rendere particolarmente incandescente la congiuntura è la sovrapposizione tutt’altro che casuale, anzi potremmo dire esplicitamente causale, tra le dinamiche geopolitiche e lo scontro per la leadership tecnologico-industriale. La competizione globale e quella tecnologica s’incrociano, e sempre di più la seconda dà forma e contenuti alla prima.

Occorre avere ben chiara, infatti, la distinzione tra le guerre commerciali in corso tra le due sponde del Pacifico e lotte per la leadership sulla tecnologia. Le prime, soprattutto sotto l’amministrazione eclettica di Donald Trump, oltre ad avere una certa dose d’imprevedibilità sono soprattutto condizionate da ragionamenti di natura tattica, anche per via dell’intreccio spesso inestricabile delle catene produttive e distributive. Il loro obiettivo è pragmaticamente misurato a breve termine dai risultati della bilancia commerciale o dal saldo tra delocalizzazione e ri-localizzazioni delle imprese e dei posti di lavoro. Cosa ben diversa è invece la lotta per leadership sulla tecnologia e le industrie del futuro, qui l’orizzonte è strategico e la posta in gioco è l’egemonia economica e geopolitica dei prossimi decenni. Non è un caso che molte delle iniziative di politica dell’innovazione digitale dispiegate dall’attuale amministrazione statunitense siano state impostate o addirittura avviate dai democratici sotto la presidenza Obama che, proprio attraverso il suo “Pivot to East Asia”, fu il primo ad indicare la Cina come nuovo avversario strategico.

Senza dilungarci troppo sull’argomento “scientifico”, che ci porterebbe lontano dalle ragioni di questa riflessione, è ormai acclarato come la nuova fase della cosiddetta terza rivoluzione industriale, o per alcuni la seconda fase della rivoluzione digitale, abbia avuto come innesco una serie impressionante di rotture qualitative in molti settori delle tecnologie digitali. Innovazioni che si stanno alimentando a vicenda e che stanno determinando la nascita di un nuovo “cluster tecnologico secolare” destinato a condizionare profondamente il nuovo secolo tanto quanto l’elettricità influenzò quello precedente. Supercomputer e computer quantistici che promettono potenze di calcolo finora inimmaginabili; reti neurali e machine learning per allargare a dismisura gli orizzonti e le possibilità dell’intelligenza artificiale; l’internet of things (IoT) per far dialogare attraverso il protocollo IP dispositivi, e oggetti di ogni tipo finora esclusi dalla grande convergenza di computer, smartphone e reti di telecomunicazioni; la cognitive automation per il settore manifatturiero e la logistica, e infine il 5G, la tecnologia delle reti di quinta generazione, per connettere e mettere tutto questo a sistema e che non a caso è diventato il terreno di scontro più acceso tra Stati Uniti e Cina.

Un campo, quello delle nuove tecnologie, dove si è davvero compiuto il “Grande Balzo” cinese e che ha portato gli Stati Uniti a vivere un nuovo “momento Sputnik”, così come venne definito lo shock del 4 ottobre 1957 quando l’Unione Sovietica riuscì a mettere in orbita il primo satellite anticipando Washington nella corsa allo spazio. Ma al contrario dell’Urss che rappresentò solo temporaneamente un competitor tecnologico, oggi la Cina ha sopravanzato gli Stati Uniti in molti campi. Alcuni esempi possono dare un’idea dell’ordine di grandezza della questione: attualmente il 60% degli investimenti mondiali totali sulla A.I è cinese, a partire dal 2013 la Cina ha conquistato il primato delle pubblicazioni scientifiche sul deep learning e dal 2018 quasi la metà dei supercomputer più veloci del mondo sono cinesi. La primazia cinese non si manifesta soltanto nel campo della ricerca scientifica o nel chiuso di qualche laboratorio, ma ormai investe direttamente alcuni aspetti produttivi e commerciali. Nel 2005 il valore delle transazioni online in Cina era inferiore all’1% del totale mondiale, che era pari a 495 miliardi di dollari; nel 2016 il valore dell’e-commerce nel mondo è salito a 1915 miliardi di dollari e la quota cinese è salita al 42,5 %, ben oltre quella statunitense. Grazie alle nuove tecnologie il gigante dell’e-commerce asiatico Alibaba gestisce una catena logistica in grado di effettuare 60 milioni di consegne al giorno, dieci volte più di Amazon (dati 2016), mentre Alipay, la piattaforma di pagamento di Alibaba, gestisce fino a 20.000 transazioni al secondo, il triplo delle più efficienti piattaforme americane.

La conseguenza di questa combinazione tra la seconda fase della rivoluzione digitale e il bipolarismo globale è un cambiamento di rotta, se non una vera e propria inversione, della globalizzazione in cui la ricerca dell’autosufficienza dev’essere letta più come il tentativo di costruire e difendere un proprio spazio economico che come un rigurgito autarchico. Da questo punto di vista i momenti di svolta che segnalano il cambio di fase sono essenzialmente due. Da parte cinese la nomina nel 2012 di Xi Jimping alla guida del paese dà forma a un cambiamento profondo rispetto alla strategia denghiana di prosperare economicamente senza mai porsi direttamente su un piano di confronto geopolitico con gli Usa. Solo un anno dopo dalla sua elezione, il 7 settembre del 2013, Xi Jimping presenterà al mondo la “Belt and Road Iniziative” (Bri), o come è stata successivamente chiamata “la nuova via della seta”, un progetto talmente ambizioso da essere inserito, quattro anni dopo, nella Costituzione della Repubblica Popolare proprio a sottolinearne l’importanza storica, geopolitica e strategica. Il cordone di infrastrutture terrestri previsto dal progetto non solo avvicinerà i possibili mercati di sbocco, ma permetterà di ridurre la dipendenza della Cina dalla superpetroliere che percorrono quotidianamente lo stretto di Malacca, una vera e propria vena giugulare energetica su cui gli Usa hanno le mani e che potrebbero strangolare in caso di conflitto con la Repubblica Popolare. Da parte statunitense, dopo il “Pivot to east Asia” obamiano del 2012, la formalizzazione di un cambio di strategia viene esplicitata nel dicembre 2017 con il documento “National Security Strategy” licenziato dall’amministrazione Trump e in cui la Cina viene descritta come “competitore strategico”. Una concezione ribadita dopo nemmeno un anno dal vice presidente Mike Pence in un famoso discorso allo Hudson Institute.

Nella seconda metà degli anni Dieci, negli Stati uniti così come in Europa, la narrazione sulla Cina cambia dunque radicalmente. Fino ad allora il racconto di come questo paese fosse ormai diventato una superpotenza economica si declinava attorno all’idea di una gigantesca manifattura di beni prevalentemente a basso contenuto tecnologico, ma anche in questo campo le strategie di Xi Jimping non collimano più con i desiderata di Washington.

Nel 2015 viene lanciato il piano “Made in China 2025” in cui Pechino esplicita per la prima volta e chiaramente come la sua intenzione sia quella di cambiare la propria collocazione nell’economia globale, risalendo le filiere dell’innovazione e caratterizzandosi come economia di manifattura avanzata e di servizi. L’aspirazione è quella di ridurre la dipendenza tecnologica dagli altri paesi promuovendo nelle industrie High-Tech la nascita di campioni nazionali in grado di dominare il mercato interno e di muoversi efficacemente sui mercati internazionali. Uno degli obiettivi espliciti è quello di riuscire a coprire entro il 2025 almeno il 70% del proprio fabbisogno di microchip con produzioni nazionali. Quello dei chip è infatti un tallone d’Achille per l’economia cinese. Nel 2017 la Cina rappresentava il 90% della produzione mondiale di smartphone e circa il 66% della produzione di computer e di smart tv, ma non disponeva ancora di un’industria dei microprocessori in grado di soddisfare la domanda interna, sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo. Sempre nel 2017 il valore delle importazioni di microchip raggiunse la cifra enorme di 270 miliardi di dollari. Il tentativo di riuscire a colmare questo gap si è sostanziato in almeno 150 miliardi di dollari si investimenti negli ultimi dieci anni e in numerosi tentativi di acquisizioni di aziende statunitensi che sono state, però, quasi tutte bloccate dalla Casa Bianca per ragioni di sicurezza nazionale.

Come abbiamo detto, però, il terreno di scontro principale in questo momento sembra essere il 5G. Gli Stati Uniti hanno ormai maturato la concreta sensazione di essere all’inseguimento rispetto ad un paese che invece sta bruciando le tappe. Uno studio del 2018 dà una misura di questo vantaggio in termini infrastrutturali: se negli Stati Uniti ci sono 4,7 small cells per il 5G ogni 10mila abitanti, i cinesi sono già arrivati a 14,1. Il controllo delle supply chain del 5G, una filiera industriale molto articolata e che presenta una pluralità di nodi tecnologici sensibili, diviene dunque un’esigenza strategica. Controllare questi nodi significa avere il potere di condizionare, rallentare o addirittura bloccare la produzione di un paese rivale, colpendolo non solo nello sviluppo delle telecomunicazioni ma in tutte le industrie che da queste dipendono, dai servizi per le smart city alla manifattura intelligente agli armamenti.

Così, se le minacce di guerra commerciale attraverso l’imposizione di tariffe e di limitazioni alle importazioni conquistano subito l’attenzione prioritaria dei media, il confronto sulle tecnologie in questi ultimi anni si è fatto durissimo. Il 1 dicembre del 2018 in Canada viene arrestata, su mandato statunitense, Meng Wanzhou, figlia del fondatore di Huawei. Pochi mesi dopo l’amministrazione statunitense innalza ulteriormente il livello dello scontro licenziando un ordine esecutivo, l’”Executive Order on Securing the Information and Communications Technology and Service Supply Chain” in cui si dice esplicitamente che mettere in sicurezza la propria filiera significa interrompere quella dell’avversario, dimostrando che le arterie vitali del sistema industriale di un paese “rivale” possono essere aggredite per ragioni politiche. L’embargo di Trump per bloccare la vendita di componenti statunitensi alla Huawei costringerà Google, Qualcomm e Broadcom a congelare le proprie forniture e rafforzerà la convinzione cinese della necessità di arrivare alla ricostruzione delle proprie supply chain all’interno di un perimetro politicamente sicuro. D’altronde già l’umiliazione subita l’anno precedente con la vicenda della Zte, l’azienda cinese accusata di trasferire tecnologia di origine statunitense attraverso la vendita di smartphone alla Corea del Nord, aveva fatto suonare più fi un campanello d’allarme a Pechino. Xi Jimping si era trovato costretto a dover intercedere presso Trump per non far fallire un’azienda con oltre 75 mila dipendenti.

Per chiudere alcune, brevissime, considerazioni. Viviamo in una fase di transizione i cui esiti sono tutt’altro che scontati. Il vecchio ordine mondiale, con la sua bilancia di potenze, non riesce più ad imporsi come l’unico ordine possibile, ma in questo interregno non sembra profilarsene un altro in grado di prenderne saldamente il posto. Ciò che è chiaro è che la globalizzazione non è in crisi perché Trump o Xi Jimping stanno alterando le regole del gioco, ma perché la nuova fase della rivoluzione industriale produce discontinuità nella produzione e distribuzione del valore. E questo impone, e sempre di più imporrà, nuove forme di conflitto economico, geopolitico e militare. Questo potrebbe, e sottolineiamo potrebbe, aprire improvvisamente finestre di possibilità per progetti di trasformazione sociale che adesso sembrano assolutamente impraticabili, ma la storia non procede in maniera lineare e progressiva,va avanti tortuosamente e per salti. Rallenta, per poi accelerare. E questa è una fase in cui tutto corre e in cui, nel caso, bisognerà farsi trovare pronti perchè, come scrisse in altri tempi Ernst Bloch: l’epoca è in putrefazione, ma al tempo stesso ha le doglie.
view post Posted: 2/12/2019, 09:24 Bilancio capitalistico del forum - Off topic
CITAZIONE (vecio_ @ 1/12/2019, 18:39) 
Pochi ma buoni, peccato non ci siano anche compagne.

Ora si va in letargo, la stagione degli amori è rinviata alla Primavera
view post Posted: 2/12/2019, 09:20 Sardine - Interno
CITAZIONE (carre @ 1/12/2019, 18:22) 
Due piccole contestazioni al post di Mustillo. Dando per scontata , come scritto sopra, la partecipazione al fine di fare scuola di comunismo nel movimento, avrei dei seri dubbi sulla composizione di classe dei manifestanti di Firenze. Secondo, mi sembra infantile ed ovviamente fuorviante determinare le idee di qualsivoglia persona dai suoi gusti musicali.

Ineccepibile.

Chi come me crede che la cacciata della Bandiera Rossa dalla piazza di Firenze costituisca un evento non trascurabile?
Intendo dire che andrebbe utilizzato come opportunità! Ritengo che si vadano creando le condizioni per spaccare la piazza, per attirare il centro e isolare la destra. I manifestanti che hanno respinto i compagni che portavano la bandiera hanno gettato la maschera, hanno svelato il loro vero volto. Sono da sostenere i compagni che successivamente a tali fatti non si sono arresi e seguitano nella loro opera anche facendo leva sull'atteggiamento posto in essere da alcuni partecipanti del movimento delle sardine.
Detto ciò, non si può neanche trascurare il fatto che i manifestanti preferiscano fare la fine del pesce in scatola. Peggio per loro, tutti sono utili, nessuno è essenziale
view post Posted: 28/11/2019, 12:49 Sardine - Interno
Si tratta in maggioranza di studenti, peraltro non mi risulta che le Sardine abbiano adottato un manifesto politico, almeno non oltre le solite formule di "protesta" liberali. Tuttavia, sono in maggioranza studenti che si riuniscono nelle piazze. Nessuno è così ingenuo da non sapere che la testa è senz'altro guidata dai noti burattinai. Ciononostante Rizzo ritiene, evidentemente, che sia del tutto inutile qualsiasi "approccio" o lavoro finalizzato a coltivare la causa del proletariato in mezzo agli studenti (o limitatamente a quegli studenti che si raccolgono nelle piazze incitati dal movimento delle sardine). Non si tratta di una classe sociale è vero, ma stando con Mao "I giovani costituiscono la forza più attiva, più dinamica della nostra società. Sono i più appassionati allo studio, i meno aggrappati a idee conservatrici".
Insomma non vedo il motivo di inibirsi imbarazzati di fronte all'ennesima manifestazione delle contraddizioni generate dal capitale (che in questo caso collocherei nello scontro tra borghesia nazionale e borghesia sovranazionale e mi scuserete l'approssimazione).
Le sardine possono combattere il capitale? Ovviamente no.
Il capitale si combatte anche con i giovani che, spinti dal malessere e dalla consapevolezza di un sistema iniquo manifestano con le sardine? Assolutamente Sì.
view post Posted: 28/11/2019, 10:38 Cina vs USA - Esteri
Trump firma legge pro manifestanti Hong Kong, Pechino minaccia contromisure
La Cina esprime "forte rammarico" e convoca l'ambasciatore
E' scontro tra Stati Uniti e Cina dopo la firma del presidente Trump dell'"Hong Kong Human Rights and Democracy Act", la legge varata dal Congresso americano a sostegno delle proteste per la democrazia in corso da oltre cinque mesi nell'ex colonia britannica.

La Cina ha espresso "forte rammarico" minacciando "decise contromisure". "La natura di ciò è estremamente abominevole e nasconde assolutamente intenzioni minacciose - si legge in una nota del ministero degli Esteri -. Avvisiamo gli Usa di non procedere ostinatamente sulla sua strada, altrimenti la Cina adotterà decise contromisure e gli Usa dovrà rispondere di tutte le relative conseguenze". Poi la Cina ha convocato, per la seconda volta dopo lunedì, l'ambasciatore Usa Terry Branstad chiedendo la fine delle interferenze di Washington negli affari interni di Pechino.

Ripercussioni anche sulla Borsa dell'ex colonia che apre la seduta in brusca correzione.

Intanto la polizia di Hong Kong ha avviato la bonifica del Politecnico, sotto l'estenuante assedio negli ultimi 11 giorni. Il campus, nel mezzo dei violenti scontri tra manifestanti e polizia, era diventato un fortino degli attivisti. Secondo i media, questa mattina uno degli "irriducibili" ha detto che ci sarebbero ancora poco meno di una ventina di persone nascoste
view post Posted: 22/11/2019, 11:32 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
Complimenti al compagno Mustillo!
Sarei molto contento se partecipasse al Forum di Scintilla Rossa
view post Posted: 17/11/2019, 15:59 Edifici sovietici - Tecnica
Mi sono accorto che quel sito è scomparso, vediamo di rintracciare un sostituto o sposto in archivio
view post Posted: 15/11/2019, 14:40 L'imperialismo si organizza in Bolivia - Esteri
Il seguente articolo non si riferisce agli ultimi fatti, ma in parte si occupa di evidenziare i limiti del progressismo sud americano concausa della
recente crisi.

Illusioni progressiste divorate dalla crisi

Jorge Beinstein* | alainet.org
Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

21/03/2016

La congiuntura globale è segnata da una crisi deflazionistica, alimentata dalle grandi potenze. La caduta dei prezzi delle materie prime, il cui aspetto più eclatante è stato, da metà del 2014, quello dei prezzi del petrolio, scopre la deflazione della domanda internazionale mentre ristagna l'ondata finanziaria, stampella strategica del sistema negli ultimi 4 decenni. La crisi della finanziarizzazione dell'economia mondiale entra a zig-zag in una zona di depressione, le principali economie capitaliste tradizionali crescono poco o nulla (1) e la Cina decelera rapidamente. Di fronte a questo l'Occidente dispiega la sua ultima risorsa: l'apparato d'intervento militare integrando componenti armate professionali e mercenarie, mediatiche e mafiose articolate come "Guerra di Quarta Generazione" destinata a distruggere società periferiche per convertirle in zone di saccheggio. E' la radicalizzazione di un fenomeno di lunga durata di decadenza sistemica dove il parassitismo finanziario e militare si è trasformato nel centro egemonico dell'Occidente.

Ci presentano la "ricomposizione" politica-economica-militare del sistema come lo è stata la riconversione keynesiana (militarizzata) degli anni '40 e '50 fino alla sua degradazione generale. La mutazione parassitaria del capitalismo lo converte in un sistema di distruzione di forze produttive, dell'ambiente, e di strutture istituzionali dove le vecchie borghesie si vanno trasformando in circoli di banditi, un nuovo incremento planetario di sotto-borghesie centrali e periferiche.

Il declino del progressismo

Immersa in questo mondo si dispiega la congiuntura latinoamericana dove convergono due fatti notevoli: il declino delle esperienze progressiste e il prolungato degrado del neoliberismo che l'ha preceduto e accompagnato in paesi che non entrarono in questa corrente e di cui questo neoliberismo degradato appare adesso come il successore.

I progressismi latinoamericani si installarono sulla base delle ammaccature e in certi casi delle crisi dei regimi neoliberali e quando giunsero al governo i buoni prezzi internazionali delle materie prime sommate a politiche di espansione dei mercati interni gli permisero di ricomporre la governabilità.

L'ascesa progressista si è appoggiata su due impotenze: quella delle destre che non potevano assicurare la governabilità, collassate in alcuni casi (Bolivia nel 2005, Argentina nel 2001-2002, Ecuador nel 2006, Venezuela nel 1998) o sommamente deteriorate in altre (Brasile, Uruguay, Paraguay) e l'impotenza delle basi popolari di rovesciare governi, debilitare regimi e anche nei processi più radicalizzati non hanno potuto imporre rivoluzioni, trasformazioni che andassero oltre la riproduzione delle strutture di dominazione esistenti.

Nei casi di Bolivia e Venezuela i discorsi rivoluzionari accompagnarono pratiche riformiste piegate da contraddizioni, si annunciavano grandi trasformazioni ma le iniziative si imbrogliavano in indefiniti andirivieni, finte, rallentamenti "realisti" e altre astuzie che esprimevano il timore profondo di superare i recinti del capitalismo. Questo non solo ha reso possibile la ricomposizione delle destre ma anche la proliferazione a livello statale di putrefazioni di ogni tipo, grandi corruzioni e piccole corruttele.

Il Venezuela appare come il caso più evidente di miscela di discorsi rivoluzionari, disordine operativo, trasformazioni a medio cammino e autoblocchi ideologici conservatori. Non si è intrapresa la transizione rivoluzionaria proclamata (ma tutto il contrario) anche se si è ottenuto di rendere caotico il funzionamento di un capitalismo stigmatizzato ma in piedi, naturalmente gli USA hanno promosso e approfittato di questa situazione per avanzare nella sua strategia di riconquista del paese. Il risultato è una recessione sempre più grave, una inflazione incontrollata, importazioni fraudolente massive che aggravano la carenza di prodotti e l'evasione di denaro che segnano una economia in crisi acuta (2).

In Brasile il zig-zag tra un neoliberismo "sociale" e un keynesismo light quasi irriconoscibile ha ridotto lo spazio di potere di un progressismo che traboccava di spavalderia "realista" (inclusa la sua furba accettazione dell'egemonia dei gruppi economici dominanti). La dipendenza dalle esportazioni di materie prime e la sottomissione a un sistema finanziario locale internazionalizzato hanno finito per bloccare l'espansione economica, e infine la combinazione della caduta dei prezzi internazionali delle materie prime e l'esacerbazione della rapina finanziaria hanno precipitato una recessione che ha generato una crisi politica sulla quale hanno iniziato a cavalcare i promotori di un "golpe morbido" eseguito dalla destra locale e monitorato dagli USA.

In Argentina il "golpe morbido" si è prodotto protetto da una maschera elettorale forgiata da una manipolazione mediatica smisurata, il progressismo kirchnerista nella sua ultima tappa aveva conseguito di evitare la recessione anche se con una crescita economica anemica sostenuta da un fomento del mercato interno rispettoso del potere economico. E' stata rispettata anche la mafia giudiziaria che insieme alla mafia mediatica l'hanno disturbata fino a rimuoverla politicamente in mezzo ad una ondata di isteria reazionaria delle classi alte e del grosso delle classi medie.

In Bolivia Evo Morales ha sofferto la sua prima sconfitta politica significativa nel referendum sulla rielezione presidenziale, il suo arrivo al governo ha segnato l'ascesa delle basi sociali sommerse dal vecchio sistema razzista coloniale. Ma la miscela ibrida di proclami anti-imperialisti, post-capitalisti e indigeni con la persistenza del modello minerario-estrattivo di deterioramento ambientale e delle comunità rurali e il burocratismo statale generatore di corruzione e autoritarismo hanno finito per diluire il discorso del "socialismo comunitario". Ha lasciato così aperto lo spazio per la ricomposizione delle élite economiche e la mobilitazione revanscista delle classi alte con al seguito le classi medie penetrando in un ampio spettro sociale perplesso.

Adesso le destre latinoamericane vanno occupando le posizioni perse e consolidano quelle preservate, ma adesso non sono quelle vecchie cricche neoliberali ottimiste degli anni '90, si sono trasformate attraverso un complesso processo economico, sociale e culturale che le ha convertite in componenti di sotto-borghesie nichiliste inquadrate nell'ondata globale del capitalismo parassitario.

Gruppi industriali o dell'agribusiness combinano i loro investimenti tradizionali con altri più redditizi ma anche più volatili: avventure speculative, affari illegali di ogni tipo (dal narcotraffico fino a operazioni immobiliari opache passando per truffe commerciali e fiscali e altre avventure torbide) convergendo con "investimenti" saccheggiatori provenienti dall'estero come la mega miniera o le rapine finanziarie.

Questa mutazione ha basi antecedenti locali e globali, varianti nazionali e dinamiche specifiche, ma tutte tendono verso una configurazione basata nel predominio dell'élite economiche viziate dalla "cultura finanziaria-saccheggiatrice" (visione a breve termine, saccheggio territoriale, eliminazione dei confini tra legalità e illegalità, manipolazione delle reti d'affari con una visione più prossima al videogioco che alla gestione produttiva e altre caratteristiche proprie del globalismo mafioso) che dispongono del controllo mediatico come strumento essenziale di dominazione circondandosi di satelliti politici, giudiziari, sindacali, polizieschi-militari, ecc.

Restaurazione conservatrice o instaurazione di neofascismi coloniali?

In generale, il progressismo qualifica le sue sconfitte o minacce di sconfitte come vittorie o pericoli di ritorno del passato neoliberale, si utilizza spesso anche il termine "restaurazione conservatrice", ma avviene che questi fenomeni sono sommamente innovatori, hanno ben poco di "conservatore". Quando valutiamo personaggi come Aecio Neves, Mauricio Macri o Henrique Capriles non troviamo capi autoritari di élite oligarchiche stabili ma personaggi completamente senza scrupoli, sommamente ignoranti delle tradizioni borghesi dei loro paesi (incluso in certi casi con mire dispregiative delle stesse), appaiono come una sorta di mafiosi tra primitivi e post-moderni guidando politicamente gruppi d'affari la cui norma principale è quella di non rispettare nessuna norma (nella misura possibile).

Altro aspetto importante della congiuntura è quella dell'irruzione di mobilitazioni ultra-reazionarie di grande dimensione dove le classi medie occupano un posto centrale. I governi progressisti supponevano che il boom economico avrebbe facilitato la cattura politica di questi settori sociali ma è avvenuto il contrario: gli strati medi venivano egemonizzati dalla destra mentre ascendevano economicamente, guardando con disprezzo a quelli in basso e assumendo come propri i deliri neofascisti di quelli di sopra. Il fenomeno si sincronizza con le tendenze neofasciste ascendenti in Occidente, dall'Ucraina fino agli Stati Uniti passando per la Germania, Francia, Ungheria, ecc., espressione culturale del neoliberismo decadente, pessimista, di un capitalismo nichilista che entra nella sua tappa di riproduzione ampliata negativa dove l'apartheid appare come la tavola di salvataggio.

Ma questo neofascismo latinoamericano include anche la riapparizione di vecchie radici razziste e segregazioniste che erano state tappate dalle crisi di governabilità dei governi neoliberali, l'irruzione di proteste popolari e primavere progressiste. Sono sopravvissute alla tempesta e in vari casi sono risorte anche prima dell'inizio del declino del progressismo come in Argentina l'egoismo sociale dell'epoca di Menem o il gorilismo razzista precedente, in Bolivia il disprezzo verso gli indios e in quasi tutti i casi recuperando resti dell'anticomunismo dell'epoca della Guerra Fredda. Sopravvivenza del passato, latenze sinistre adesso mescolate con le nuove mode.

Un osservazione importante è che il fenomeno assume caratteristiche di tipo "controrivoluzionario", puntando verso una politica di terra bruciata, di estirpazione, del nemico progressista, è quello che si vede attualmente in Argentina o che promette la destra in Venezuela o Brasile, la morbidezza dell'avversario, le sue paure e vacillazioni eccitano la ferocia reazionaria. Riferendosi alla vittoria del fascismo in Italia, Ignazio Silone la definì come una controrivoluzione che aveva operato in maniera preventiva contro una minaccia rivoluzionaria inesistente (3). Questa non esistenza reale di minaccia o di processo rivoluzionario in marcia, di valanga popolare contro strutture decisive del sistema che cadono a pezzi o sono rotte, incoraggia (da sensazioni di impunità) le élite e la loro base sociale.

La marea controrivoluzionaria è uno dei risultati possibili della decomposizione del sistema imponendo con successo in alcuni casi del passato progetti di ricomposizione elitaria, nel caso latinoamericano si esprime nella decomposizione capitalista senza ricomposizione alla vista.

Se il progressismo è stato il superamento fallito del fallimento neoliberista, questo neofascismo sottosviluppato esacerba entrambi i fallimenti inaugurando un'era di durata incerta di contrazione economica e disintegrazione sociale. Basta vedere quello che avviene in Argentina con l'arrivo di Macri alla presidenza: in poche settimane il paese è passato da una crescita debole ad una recessione che si aggrava rapidamente prodotto di un gigantesco saccheggio, non è difficile immaginare che questo possa avvenire in Brasile o in Venezuela che già stanno in recessione se la destra conquista il potere politico.

La caduta dei prezzi delle materie prime e la sua crescente volatilità, che il prolungamento della crisi globale sicuramente aggraverà, sono state cause importanti del fallimento progressista e appaiono come blocchi irreversibili dei progetti di riconversione elitaria-sfruttatrice mediamente stabili. Le vittorie delle destre tendono ad instaurare economie che funzionano a bassa intensità, con mercati interni contratti e instabili, questo significa che la sopravvivenza di questi sistemi di potere dipenderà da fattori che le mafie governanti pretenderanno di controllare. In primo termine il malcontento della maggior parte della popolazione applicando dosi variabili di repressione, legale e illegale, imbruttimento mediatico, corruzione di dirigenti e degradazione morale della classi bassi. Si tratta di strumenti che la stessa crisi e la combattività popolare possono inutilizzare, in questo caso il fantasma della rivolta sociale può convertirsi in minaccia reale.

La strategia imperiale

Gli Stati Uniti sviluppano una strategia di riconquista dell'America Latina applicandola in modo sistematico e flessibile. Il golpe morbido in Honduras è stato il calcio d'inizio a cui è seguito il golpe in Paraguay e un congiunto di azioni destabilizzanti, alcune molto aggressive, di vario esito che avanzano al ritmo delle urgenze imperiali e dell'usura dei governi progressisti. In vari casi le aggressioni più o meno aperte o intense si combinarono con le buone maniere che cercavano di vincere senza violenze militare o economica o sommando dosi minori delle stesse con operazioni addomesticanti. Dove non funzionava efficacemente l'aggressione iniziò ad esser praticato l'appassimento morale, si implementarono pacchetti persuasivi di configurazione variabile combinando penetrazione, cooptazione, pressione, premi e altre forme ritorsive di attacco psicologico-politico.

Il risultato di questo dispiego complesso è una situazione paradossale: mentre gli USA retrocedono a livello globale in termini economici e geopolitici, stanno riconquistando passo dopo passo il loro giardino di casa latinoamericano. La caduta dell'Argentina è stata per l'Impero una vittoria di grande importanza lavorata per molto tempo alla quale è necessario aggiungere tre manovre decisive del loro gioco regionale: la sottomissione del Brasile, la fine del governo chavista in Venezuela e la resa negoziata dell'insurgencia colombiana. Ognuno di questi obiettivi ha un significato speciale:

La vittoria imperialista in Brasile cambierà drammaticamente lo scenario regionale e produrrà un impatto negativo di grande portata al blocco BRICS colpendo i suoi due nemici strategici globali: Cina e Russia. La vittoria in Venezuela non solo gli concederà il controllo del 20% delle riserve petrolifere del pianeta (la maggior riserva mondiale) ma avrà un effetto domino sugli altri governi della regione come quelli della Bolivia, Ecuador e Nicaragua e pregiudicherà Cuba sulla quale gli USA stanno dispiegando una sorta di abbraccio dell'orso.

Infine l'estinzione dell'insurgencia colombiana oltre a rimuovere il principale ostacolo al saccheggio di questo paese, lascerà le mani libere alle sue forze armate per eventuali interventi in Venezuela. Dal punto di vista strategico regionale la fine della guerriglia colombiana eliminerebbe una poderosa forza combattente che potrebbe giungere ad operare come un mega-moltiplicatore delle insurrezioni in una regione in crisi dove la generalizzazione di governi mafiosi e di destra aggraverà la decomposizione delle sue società. Si tratta della maggior minaccia strategica alla dominazione imperiale, di un enorme pericolo rivoluzionario continentale, è precisamente questa dimensione latinoamericana del tema ciò che occultano i mezzi di comunicazione dominanti.

Decadenza sistemica e prospettive popolari

Ma al di là del curioso paradosso di un impero decadente che riconquista la sua retroguardia territoriale, dal punto di vista della congiuntura globale, della decadenza sistemica del capitalismo, la generalizzazione di governi filo-statunitensi in America Latina può esser interpretata superficialmente come una grande vittoria geopolitica degli USA anche se approfondendo l'analisi e introducendo per esempio il tema dell'aggravamento della crisi promossa da questi governi tenderemo a interpretare il fenomeno come espressione specifica regionale della decadenza del sistema globale.

L'uscita dall'intasamento progressista può generare problemi maggiori alla dominazione imperiale, sebbene le inclusioni sociali e i cambiamenti economici realizzati dal progressismo sono stati insufficienti, invischiati, impregnati dei limiti borghesi e se la sua autonomia in materia di politica internazionale ha avuto un audacia limitata; ma è certo che il suo percorso ha lasciato impronte, esperienze sociali, significati (soppressi dalla destra) che saranno molto difficili da estirpare e che di conseguenza potranno convertirsi in apporti significativi a future (e non tanto lontani) sommosse popolari radicalizzate.

L'illusione progressista di umanizzazione del sistema, di realizzazione di riforme "sensate" dentro i quadri istituzionali esistenti, possono passare dalla delusione iniziale a una riflessione sociale profonda, critica dell'istituzione mafiosa, dell'oppressione mediatica e dei gruppi d'affari parassitari. Questo include anche la farsa democratica che li legittima. In questo caso il disturbo progressista potrebbe convertirsi prima o poi in un uragano rivoluzionario non perché il progressismo come tale evolve verso la radicalità anti-sistema ma perché emergerà una cultura popolare superiore, sviluppata nella lotta contro regimi condannati a degradarsi sempre di più.

In questo senso possiamo intendere uno dei significati della rivoluzione cubana, che poi si è esteso come ondata anticapitalista in America Latina, come superamento critico dei riformismi nazionalisti democratizzanti falliti (come il varguismo in Brasile, il nazionalismo rivoluzionario in Bolivia, il primo peronismo in Argentina o il governo di Jacobo Arbenz in Guatemala). La memoria popolare non può esser estirpata, può fondersi in una sorta di clandestinità culturale, in una latenza sotterranea digerita misteriosamente, pensata dal basso, sottostimata dall'alto, per riapparire come presente, quando le circostanze lo richiederanno, rinnovata, implacabile.

(*) Jorge Beinstein è un economista argentino, docente dell'Università di Buenos Aires



Note

1. Se consideriamo l'ultimo lustro (2010-2014) la crescita media reale dell'economia del Giappone è stata dell'ordine dell'1.5%, quella degli Usa 2.2% e quella della Germania 2% (fonte: Banca Mondiale)

2. Un buon esempio è quello della "importazione" di farmaci dove imprese multinazionali come Pfizer, Merck e P&G fanno favolosi affari illegali dinanzi a un governo "socialista" che gli somministra dollari a prezzi preferenziali. Con un gioco di sovrafatturazioni, sovrapprezzi e importazioni inesistenti le imprese farmaceutiche avevano importato nel 2003 circa 222 mila tonnellate di prodotti per i quali pagarono 434 milioni di dollari (circa 2 mila dollari per tonnellata), nel 2010 le importazioni sono scese a 56 mila tonnellate e si pagarono 3410 milioni di dollari (60 mila dollari a tonnellata) e nel 2014 le importazioni scesero ulteriormente a 28 mila tonnellate e si pagarono 2400 milioni di dollari (circa 87mila dollari la tonnellata). Come ben segnala Manuel Sutherland dal cui studio estraggo questa informazione: "lontani dal porsi la creazione di una grande impresa statale di produzione di farmaci, il governo preferisce dare monete preferenziali a importatori fraudolenti, o confidare in burocrati che realizzano importazioni nella maggior opacità". Manuel Sutherland, "2016: La peor de las crisis económicas, causas, medidas y crónica de una ruina anunciada", CIFO, Caracas 2016.

3. Ignazio Silone, "L'École des dictateurs", Collection Du monde entier, Gallimard, París 1964.
view post Posted: 11/11/2019, 18:00 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE (vecio_ @ 8/11/2019, 20:23)
CITAZIONE (RedSioux @ 8/11/2019, 17:48) 
Temo infatti che ciò che per noi può apparire ovvio, potrebbe non esserlo altrettanto per altri.

Che intendi di preciso?

CITAZIONE (Paderborner @ 10/11/2019, 13:10)
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi d'interesse generale. Art. 42, Costituzione.

Nella Costituzione è inoltre previsto (anche se mai applicato nella storia), che la proprietà privata, il suo utilizzo e il suo sviluppo siano tendenti al benessere comune. Ovviamente la Costituzione nel Socialismo deve essere superata, e molti articoli non sono che la proiezione delle logiche borghesi nel diritto pubblico, ma questo è ciò a cui si riferiva Rubicondi.
view post Posted: 11/11/2019, 17:52 Elezioni politiche - Interno
La sinistra dello zero percento
novembre 4th, 2019 | Category: analisi

Le elezioni umbre costituiscono certamente un fatto locale: irrilevante il numero di elettori coinvolti (700mila, di cui votanti circa 400mila: poco più degli abitanti di Cinecittà) per trarne indicazioni generali. Si conferma Salvini, e da una settimana è tutto un dire che “lo sapevamo”, “era scontato”, “non poteva andare diversamente”. Ma in realtà ci sono due dati che trovano nell’Umbria un trend generale, perché inseriti in una direzione che li precede e li seguirà probabilmente in futuro: la sconsolata e comica ritirata del M5S e la curiosa caparbietà della sinistra elettorale di essere caricatura di se stessa.

Sul M5S è inutile insistere: la trasformazione del partito da “populista” a liberale non ha fatto altro che sovrapporlo al partito della stabilità per eccellenza, il Pd. Partito, nonostante tutto il male che ne possiamo pensare, decisamente più attrezzato a svolgere il ruolo per il quale è nato: tradurre in italiano i diktat europei formulati in inglese. Di conseguenza, ahinoi, il Pd rimarrà a galla, e persino il voto umbro ne conferma una certa resilienza: al di là delle incapacità dei suoi dirigenti, rimarrà sempre nel paese un pezzo di società comodamente rappresentato dalle istanze liberal-democratiche incarnate dal Pd. Rimarrà sempre una quota di lavoro dipendente pubblico, semi-colto, para-intellettuale, che sopravvive decentemente al ripiegamento dell’economia nazionale e alla moderazione salariale: questo zoccolo duro è preparato a votare Pd, Renzi, Draghi o il Gabibbo, l’importante è azzeccare i congiuntivi in tv e seguire il breviario euroliberista. Porsi – come sta facendo il M5S – come “alternativa di stabilità” è farsesco: il M5S vince elettoralmente solo se sta all’opposizione, sbraita (giustamente) contro tutto e tutti, se ne frega della coerenza e svolge l’unica funzione di megafono delle insofferenze popolari. La prova del governo non è praticabile: per incapacità, come evidente; ma per essenza politica, soprattutto. Il M5S, come ogni populismo, non è nato per governare ma per influenzare chi governa, costringerlo a mediare tra gli interessi del grande capitale privato, da una parte, e le sofferenze piccolo borghesi, dall’altra. È il partito del vittimismo popolare, che sterilizza ogni forma di partecipazione attiva, meno che mai conflittuale, in funzione dell’autocommiserazione plebea mediata dai famigerati “portavoce” grillini. Un ruolo che ha avuto sicuramente una sua importanza: meglio il vittimismo che l’anestetica accettazione dello status quo. Eppure, anche qui, il gioco non poteva durare. Ad ogni modo, quella fase, la fase cioè del M5S “di lotta”, è definitivamente tramontata. Impossibile (certo in politica, e in Italia, nulla è davvero impossibile) pensare di ricostruire una sua verginità dopo l’ultimo anno e mezzo (e i tre anni di giunta Raggi a Roma), in cui persino i più affezionati al partito grillino vengono disciplinati attraverso promesse di carriera o con la coercizione. Non ci crede più nessuno, si tratta solo di amministrare la ritirata. Operazione per cui il M5S è il più sprovveduto dei partiti, visto che non ha alcuna impalcatura ideologica e nessuna strutturazione pratica per resistere alla burrasca. Non è detto che questo comporti immediatamente una scomparsa del partito dalla scena politica. Se il sistema elettorale si muove verso il proporzionale (ma è tutto da vedere che si finirà davvero con l’approvarlo), persino un partito del 6-9% può tornare utilissimo nelle alleanze post-voto. È lo stesso ragionamento che si è fatto Renzi, che ha intuito – prima di altri – che il bipolarismo distorto avuto in Italia tra il ’94 e il 2011 è stato superato senza che i partiti se ne accorgessero. Ma veniamo alla sinistra dello zeropercento, perenne fonte di appagamento: come si fa a non volerle bene, in fondo?

Anche in Umbria – come ovunque in questi venti anni – trova smentita il ragionamento secondo il quale, laddove non esista già in partenza una forte presenza sociale, questa può essere aggirata sfruttando opportunisticamente il momento elettorale per costruirsi quantomeno una visibilità, e di lì un embrione di presenza politica. Da questo punto di vista l’Umbria è invece una magnifica cartina tornasole per leggere i ritardi politici (e mentali) di questa sinistra. L’Umbria è infatti una delle pochissime ridotte territoriali del paese in cui poteva persistere un certo voto “ideologico”, che al di là della conflittualità sociale, al di là della composizione di classe, al di là del ripiegamento politico di questi decenni, al di là dunque della realtà, poteva premiare (certo in percentuali irrisorie) non la “presenza”, ma un’idea. L’idea del comunismo, variamente inteso (à la Rifondazione, à la Rizzo, à la Pap, à la Pci). L’idea – più affettiva che razionale – di trovare nella falce e martello, o negli ideali che ad essa ecletticamente vorrebbero richiamarsi, un porto sicuro. E invece lo zero percento della sinistra comunista è lì a svelarci il meccanismo mentale inceppato di chi, nonostante la realtà, persiste nell’errore.

Le elezioni non producono di per loro alcun mutamento – anche infinitesimale – dei rapporti politici: fotografano ciò che già esiste e ciò che già non esiste. Non “concedono” alcuna platea, nessuna visibilità ulteriore, nessuno strumento di relazione privilegiato con pezzi di elettorato che già non si siano intercettati prima della chiamata al voto. La sinistra, per rappresentare elettoralmente qualcosa, deve prima conquistarselo nella società, poi cercare di tradurlo in voti. Ovviamente una cosa non esclude l’altra: si può benissimo cercare di intessere relazioni sociali, praticare (si parva licet) del “conflitto”, e contestualmente presentarsi comunque alle elezioni, sapendo da prima dell’impresa impossibile. Ma se questo è il pensiero che muove i compagni, allora il discorso bisognerebbe prenderlo ancora più a monte.

Persino nell’Umbria del trionfo salviniano non solo la Lega perde l’1,2% dei voti rispetto alle europee, ma – soprattutto – la gran parte dei voti in uscita dal M5S si dirige verso l’astensione più che verso altri partiti (sebbene un flusso di una certa importanza dal M5S alla Lega). La differenza qualitativamente decisiva di questi anni non è tanto quella tra “populismo” e “liberalismo”, ma tra chi vota e chi non vota. Poi, certo, nei rapporti di forza politici vale unicamente ciò che viene impresso per via elettorale, soprattutto in una fase di pacificazione sociale come questa in cui viviamo da decenni. Ma la frattura determinante è tra chi “crede” nel sistema – sia esso liberale o “populista” – e chi non ci crede più. È dentro questo magma sociale incompreso e incomprensibile di astensionismo disilluso e rassegnato che la sinistra comunista deve ricostruire relazioni sociali. Anzi: relazioni, prima di tutto, “umane”, etiche, di riconoscimento reciproco. Eppure il goffissimo tentativo è sempre quello di presentarsi “come gli altri”. Certo, “diversi” ideologicamente da tutti gli altri, ma questa traduzione ideologica non viene più recepita, non può essere più compresa. Diceva bene Alessandro Portelli qualche giorno fa sul «Manifesto» (Dalle fallite lotte degli operai alla folla solitaria): guardate che un certo modo di “sopravvivere” alle “sfighe” della vita (quantomeno della vita lavorativa) è sempre stato presente nel tessuto operaio. Se prima l’organizzazione collettiva, la “lotta”, il “partito”, permettevano di mascherare quel certo individualismo egoista proletario, oggi che è venuto meno quel mondo è rimasta sul terreno unicamente una forma di reazione che va compresa, con cui bisogna confrontarsi, ma su cui non è possibile più agire per via ideologica. Non sono gli “operai”, o i “proletari”, che sono cambiati: siamo cambiati noi, è cambiata la lotta per il comunismo. O meglio, è finita. Magari ritornerà, ma oggi non c’è più. Cercare di rappresentare per via unicamente ideologica un pezzo di società che non può più riconoscerne i lemmi è la più idealistica delle vie elettorali alla lotta di classe. E infatti non funziona. Non funzionerà mai.

Tutto ciò non significa che le elezioni non possano essere sfruttate, che a volte sia necessario candidarsi, farsi eleggere anche in posizioni di minoranza, “piazzare” qualche nostro esponente dentro le assemblee rappresentative. Lo si fa, però, quando tutto ciò è utile. Quando si può perdere, ma si ha qualcosa da rappresentare. Oggi noi non abbiamo nulla da rappresentare. Torniamo a farlo, intestiamoci porzioni di società (società, non ridotte ideologizzate di gente “come noi”), e allora – solo allora – diamo battaglia. Ma così è un farsi ridere dietro, e non ce lo meritiamo.

P.s. Persino Renzi non si è presentato in Umbria. Non ci vuole Lenin, basta la scaltrezza realpolitica democristiana a decidere, di volta in volta, quando conviene e quando non conviene farlo. Ma tant’è.

Fonte: Militant.org
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