Comunismo - Scintilla Rossa

la locomotiva

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view post Posted on 17/9/2021, 09:19
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da facebook Matteo Rossi

Pietro Rigosi, 28 anni, babbo di due bambine e macchinista di treni. La vicenda ha una data, 20 luglio 1893 ed è riportata fedelmente dalle cronache dell’epoca, che sarebbero sicuramente rimaste anonime, se non fossero diventate oggetto di una famosa canzone, "La Locomotiva" di Francesco Guccini. La paga da fame, gli orari scellerati, la rabbia per le ingiustizie sociali portarono il ferroviere all’insana decisione di impadronirsi di una locomotiva, la numero 3541 della Rete Adriatica, da dirigere a tutta velocità – parliamo di 50 chilometri all’ora che per l’epoca era un Frecciarossa – contro un treno di lusso che transitava alla stazione di Bologna con “gente riverita, velluti, ori”. Lo scontro e la strage sembrano inevitabili, ma i responsabili delle Ferrovie riuscirono all’ultimo momento a deviare la locomotiva su un binario morto. Pietro Rigosi sopravvisse, nonostante le gravi ferite e l’amputazione di una gamba. “Tenetevi stretto Guccini: uno che è riuscito a scrivere 13 strofe su una locomotiva può scrivere davvero di tutto"- disse bene Giorgio Gaber. Vero. Nel mio piccolo, da appassionato di vicende storiche, riguardando in questi giorni i fatti che hanno portato alla Comune di Parigi, il pensiero è andato subito a quest’altra -piccola al confronto- vicenda di giustizia sociale, di rabbia e frustrazione, che dall’Italia di fine ‘800 è arrivata agli anni 70 del secolo successivo (con la canzone di Guccini) per poi rimanere nell’immortalità. Una canzone che, seppur ricca di riferimenti non fedelmente storici, romanzati, ha lasciato una traccia indelebile di una vicenda che –altrimenti- sarebbe finita nel dimenticatoio. Sia chiaro che il cantautore emiliano non aveva la minima intenzione di scrivere una sorta di inno alle Ferrovie dello Stato, anzi. Ha riportato la storia di una tragedia sfiorata, di un impeto politico e ideologico che rischiava di tramutarsi in una carneficina. Ha raccontato la storia di Pietro Rigosi, e di quel 20 luglio 1893 in cui questi, per una «rabbia antica» o per la vendetta di «generazioni senza nome», decise di tentare un’immane follia. Canzone scritta a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta -dunque- quando in Italia la tensione politica e sociale era ai suoi massimi storici. Rigosi aveva ventotto anni, era padre di due figliolette di tre anni e dieci mesi ciascuna, e, senza mezzi termini, era un uomo disperato. La paga era quello che era, le fatiche altrettanto, ma, soprattutto, ciò che non andava giù al Rigosi, era l’oppressione del sistema borghese, che stringeva fra le proprie possenti tenaglie l’umile e indifesa classe proletaria. Allora al ristorante c’era la polenta per i poveri e l’arrosto per i ricchi, un certo trattamento negli ospedali era garantito solo a chi aveva le scarpe tirate a lucido, e sui treni i signori viaggiavano cullati nelle più gradevoli comodità, mentre tutti gli altri disgraziati venivano assiepati come bovini. Il valore storico dell’opera di Guccini, forse politicizzato in maniera un po’troppo esacerbata, non deve per questo motivo essere dimenticato. Il ricordo del gesto di Rigosi è così emerso agli allori della storia, dalla quale sicuramente sarebbe stato cancellato. Un gesto che -probabilmente- nel suo piccolo non ha inciso in maniera decisiva all’affermazione della giustizia sociale nel nostro Paese, ma che forse sommato a tanti altri che la storia ha –purtroppo- dimenticato, qualcosa ha sicuramente portato.
“E che ci giunga un giorno ancora la notizia, di una locomotiva come una cosa viva, lanciata a bomba contro l’ingiustizia, lanciata a bomba contro l’ingiustizia, lanciata a bomba contro l’ingiustizia”.
 
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