Comunismo - Scintilla Rossa

Crisi, lavoratori allo sbaraglio

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view post Posted on 4/4/2020, 11:18
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vietcong

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Coronavirus, i rider denunciano furti e aggressioni durante le consegne: “Mai successo prima, siamo bersaglio di chi ha fame”
Dopo il calo iniziale della domanda, nelle ultime settimane c'è stato un boom di richieste di consegne a domicilio e così moltissimi rider armati di mascherine e guanti, sono tornati ad andare su e giù per la città senza sosta, rischiando un possibile contagio e riaprendo il dibattito sulla mancanza di tutele nei loro confronti
di Ilaria Mauri | 4 Aprile 2020 - ilfattoquotidiano.it
 
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view post Posted on 7/4/2020, 21:52
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«Tornare alla normalità? Con turni di 10 ore era la normalità il problema». Intervista ad un giovane operaio


Redazione Senza Tregua 7 aprile 2020

Senza Tregua continua a raccogliere informazioni ed interviste provenienti dal mondo del lavoro giovanile. Abbiamo intervistato un giovane operaio, Antonio, che lavora alla galvanica, nel settore chimico-industriale, in una azienda che ha continuato la produzione ininterrotta fino al decreto che ha bloccato, almeno in teoria, le attività non essenziali.

Com’era la situazione prima dell’attuazione del DPCM dell’11 Marzo? Cosa è cambiato dopo?

Si è dovuto attendere l’attuazione del decreto per rendersi conto che in una situazione di emergenza sanitaria non era la cosa migliore tenere 210 persone stipate in dei capannoni. Poco è cambiato, tuttavia, anche dopo l’attuazione del decreto. Per ridurre l’assembramento nel capannone è stata chiusa la sala mensa e siamo stati divisi in due turnazioni; il risultato è che c’è metà dell’organico che deve mantenere il doppio del ritmo produttivo. Cala il numero di lavoratori ma non l’obiettivo di produzione. A questi ritmi è inevitabile che anche riducendo il numero di persone, chi rimane a lavoro si esponga comunque a dei rischi sanitari. Si capisce bene che la situazione in fabbrica diventa in questo modo insostenibile, costringendo le operaie e gli operai a stress psicologico e la sensazione costante di non essere tutelati.

L’azienda ha provveduto a fornirvi dei dispositivi di sicurezza?

Le mascherine che ci venivano distribuite erano mascherine giornaliere, con durata massima di 8-9 ore, ma la distribuzione non avveniva su base giornaliera, quindi le dovevamo tenere per almeno 3 giorni. Se questo è già di per sé un problema ad ogni livello produttivo, lo è ancora di più se pensiamo al fatto che ci sono vari settori all’interno dell’azienda, dal controllo qualità alla doratura degli oggetti prodotti, e che quindi vanno presi in considerazione anche quei settori in cui la vicinanza con altre persone è necessaria o dettata dalla mansione svolta.

L’azienda ha chiuso dopo l’ultimo decreto che blocca, almeno sulla carta, le attività non essenziali? Con quali modalità? Cosa dicono i sindacati?

Con l’ultimo decreto è calata la saracinesca anche sulla nostra fabbrica, anche se come ho detto prima già nel periodo antecedente l’attuazione alcune persone erano state mandate a casa, spesso e volentieri ricorrendo a ferie forzate. Fino all’ultimo hanno cercato di fare andare avanti la produzione, nonostante tutto e a prescindere da tutto e, come al solito, siamo noi a pagare il costo di tutto questo.

Per quanto riguarda i sindacati, anche prima della pandemia la regola sul luogo di lavoro era una: se sei iscritto a un sindacato sei fuori. Di conseguenza, le uniche forme di opposizione possibili sono ridotte a questioni individuali, con tutte le conseguenze lavorative e psicologiche del caso e questo è, in definitiva, la cosa più importante in tutta questa situazione: non ci interessa solo “tornare alla normalità”, non si tratta solo di sperare che “tutto vada bene”. La normalità, il prima era il problema fondamentale; la semplice situazione di emergenza fa solamente emergere con ancora più forza quelle contraddizioni che erano già presenti prima, tra turnazioni che raggiungevano quotidianamente le 10-11 ore di lavoro, il ricatto del licenziamento come arma anti-sindacale, la retorica opprimente dell’essere “tutti una famiglia”. Si parla spesso di come la classe operaia non esista più, ma come al solito senza di essa crolla tutto il castello di carte che questo sistema si è costruito.
 
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view post Posted on 8/4/2020, 08:50
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da La Riscossa

LA NOSTRA SALUTE VALE MENO DEL VOSTRO PROFITTO?



Quelli che erano solo nostri sospetti, sono oramai dati certi sotto gli occhi di tutti: il Covid – 19 prolifica dove c’è assembramento non protetto, che in Italia si traduce semplicemente con “luogo di lavoro”. Abbiamo ormai constatato che il pericolo non è la passeggiata con il cane, dentro un raggio di 200 metri dalla propria abitazione; non è la passeggiata col proprio figlio, contro la quale si sono scagliarti i governatori di regione di mezza Italia; non è la corsa in solitaria che ha disegnato gli untori della prima ora, creando così la psicosi dello “sceriffo di quartiere” che sbircia dalla serranda.

Ad aver seriamente compromesso la Lombardia e successivamente l’Italia, è stata la subordinazione delle nostre amministrazioni, delle nostre autorità e del nostro Governo, al capitale. Ricordiamo gli sproloqui di Salvini, quando faceva pressione per non far chiudere le aziende; la campagna social del sindaco Sala, #MilanoNonSiFerma; gli appelli di Renzi sul riaprire scuole e fabbriche. Bene, c’è un filo conduttore che lega questi esponenti apparentemente di posizioni avverse: si chiama Confindustria.

Sarebbe ridicolo pensare che a Bergamo si passeggi con il cane molto più che in Basilicata, o che a Milano ci sia una concentrazione abitanti/runner percentualmente elevatissima: le mappe del contagio sono sovrapponibili a quelle del manifatturiero. Era prevedibile (e lo avevamo previsto), perché è l’unico risultato possibile se poni un gruppo di persone in un ambiente chiuso per la durata di una giornata lavorativa; se prendiamo in considerazione un lavoro faticoso in un ambiente dove un essere umano sicuramente sarà soggetto a sudorazione e ci sommiamo la già scarsa attenzione che si pone alle normali norme di sicurezza sul lavoro, l’esito è veramente scontato. Siamo certi che chi di dovere l’abbia previsto molto prima di noi, e che abbia taciuto.

Ce lo confermano giorno per giorno i macroscopici “errori” commessi soprattutto nella regione Lombardia riguardo la risposta Sanitaria all’emergenza.

Un paese non in grado di rispondere ad un’emergenza di tale portata per via dello smantellamento sistematico della Sanità pubblica che si va a sommare al resto nell’unico problema su cui porre la nostra attenzione: il profitto di pochi sulla pelle di molti.

In questi giorni abbiamo lanciato in varie zone d’Italia la campagna #SoccorsoRosso, uno sportello, un filo diretto tra il lavoratore ed il Partito, un modo per amplificare le voci di chi ogni giorno è costretto ad andare a lavoro senza che le norme anticontagio previste gli siano garantite. Tramite questa iniziativa, siamo venuti a contatto con numerose irregolarità, che non hanno fatto che confermarci il nostro iniziale sospetto: le norme suddette non sono rispettate quasi in nessun caso.

Questa settimana, nella neoleghista Terni, città industriale della neoleghista regione Umbria, accade che un prefetto accorda alla multinazionale ThyssenKrupp la riapertura degli stabilimenti ed il ripristino della produzione.

Tutto questo sotto l’assordante silenzio del sindaco Latini, uno dei primi in Italia a prendere straordinarie misure restrittive per le uscite individuali dei cittadini, anticipando addirittura Conte, e della governatrice Tesei che nei giorni scorsi ha accordato zone rosse a paesi con un numero di abitanti ben minore del numero di lavoratori delle acciaierie ternane.

Governo, Prefetto, Comune e Regione, tutti inermi di fronte alla necessità del capitale di giustificarsi ed imporsi, ancora una volta, sulla vita umana.

A partire da lunedì 6 aprile, 4000 lavoratori circa hanno ripreso l’attività lavorativa: se pensiamo ad una città di 110.000 abitanti, s’intuisce che la totalità dei cittadini è a rischio contagio, il tutto per il profitto di una multinazionale. In ritardo e in maniera negligente, il sindaco Latini ha balbettato qualcosa sul fatto che avrebbe vigilato sulla severa applicazione delle norme di sicurezza previste per evitare la diffusione del Coronavirus.

Di seguito pubblichiamo una testimonianza di un lavoratore TSK-AST al primo giorno di lavoro, traete le vostre conclusioni.

«Non sono serviti a nulla questi pochissimi giorni di fermata: è tutto come prima!

Questa mattina ci hanno misurato la temperatura all’entrata in fabbrica, ma siccome era freddo il termometro non funzionava. Quindi ci hanno fatto entrare uno alla volta nell’ufficio dei vigilantes, atteso un po’ per darci modo di riscaldarci per poi effettuare nuovamente la misurazione della temperatura. Per quanto riguarda le mascherine, ce ne spetta una per ogni cambio di turnazione, praticamente una ogni 4 giorni (salvo sia lacera o praticamente inutilizzabile).

Insomma stiamo alle stesse condizioni di prima.»

Questo deve renderci consapevoli del tempo e degli avvenimenti che stiamo vivendo, qui e ora, e imporci l’unico obbiettivo, quello di vigilare e lottare per essere alla testa dei lavoratori tutti, degli ultimi, degli sfruttati.

Per porre in essere finalmente, un cambio radicale di sistema:

Il Socialismo come unica alternativa al sistema capitalistico che ormai si sgretola sotto i nostri piedi.

Eduardo De Dominicis
 
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view post Posted on 8/4/2020, 10:35
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Da L'Ordine Nuovo

PER SOSTENERE LA LOTTA DEI BRACCIANTI NON BASTANO COMUNICATI



Fra richiami all’unità nazionale e la ribalta di personaggi grotteschi, questa pandemia ha fatto uscire allo scoperto numerose contraddizioni che per l’opinione pubblica erano fino a poco tempo fa nascoste sotto il tappeto. Oltre che di sanità, lavoro ed Europa, si torna a parlare timidamente del sistema di sfruttamento presente nella filiera alimentare. Del resto, il settore agroalimentare è in queste settimane in crisi, così come gran parte dell’economia. Confagricoltura e Coldiretti, insieme alle associazioni dei padroni di tutta Europa, chiedono manodopera a basso costo e la Commissione europea è in procinto di attivare “corridoi verdi” per la libera circolazione di forza lavoro. Nel frattempo, nelle campagne italiane si continua a lavorare senza misure di sicurezza e con salari da fame, e i braccianti si affidano alla beneficenza per poter sopravvivere.

È proprio nelle campagne, infatti, che nasce la raccolta fondi su GoFundMe intitolata “Portiamo il cibo a tavola ma abbiamo fame”. Si tratta di un’iniziativa firmata da “Paola, Abdul, Michele, Mamy, Patrizia e tanti altri braccianti invisibili”. I lavoratori scrivono: “Oggi abbiamo bisogno di voi e della vostra generosità. Siamo degli esseri umani, con uno stomaco quasi sempre vuoto, e non solo braccia da sfruttare”. La raccolta è stata fatta propria dall’USB, e sono già stati donati 85.000 euro a fronte dei 100.000 previsti. Si tratta di un’iniziativa lodevole (chi scrive ha già donato) che però lascia spazio a qualche riflessione. Anzitutto bisogna contestualizzare, seppur in maniera sintetica e schematica.

In questo periodo di Coronavirus, la situazione per chi lavora nelle campagne è drammatica. I lavoratori si trovano a faticare con salari da fame, senza misure di sicurezza e senza norme igieniche minime. D’altra parte, il settore agroalimentare si basa su un sistema di sfruttamento di cui il caporalato è soltanto la punta dell’iceberg.
Se indaghiamo sulle situazioni “regolari”, in cui i lavoratori hanno quindi un contratto, troviamo una bassa sindacalizzazione e contratti a tempo determinato brevissimi, solitamente stagionali. Le paghe sono esigue, in particolare nel Mezzogiorno, dove i piccoli produttori sono inseriti in un meccanismo di concorrenza verticale con la grande distribuzione, che si aggiudica le materie prime a prezzi irrisori. Una buona parte dei lavoratori stagionali regolari è composta da rumeni ed est-europei, che sono circa 150.000. Dopo l’adesione della Romania all’Unione Europea nel 2008, e con la libera circolazione della forza lavoro nell’Area Schengen, molte aziende agricole italiane basano la propria produzione su manodopera a basso costo proveniente dai paesi ex-socialisti. Ci sono poi marocchini, indiani, senegalesi: molti di loro arrivano in Italia per lavorare qualche mese e poi tornano a casa. La maggior parte è composta in ogni caso da lavoratori italiani. Nella tabella sono presenti dei dati frutto di un’indagine della Confederazione Nazionale Coltivatori Diretti (Coldiretti). Queste informazioni ci serviranno dopo.

Addentrarsi, invece, nelle situazioni di illegalità è complicato, perché i dati a disposizione sono diversi e non spesso coerenti fra di loro. Si stima che siano 430.000 i lavoratori assunti irregolarmente: si tratta della metà della forza lavoro totale del settore. Gran parte di loro è composta da immigrati irregolari provenienti dai paesi dell’Africa Subsahariana.

In questo caso, gli stipendi sono troppo bassi per coprire anche i bisogni più elementari. Spesso i braccianti vivono in baraccopoli in cui sono assenti i servizi sanitari e l’acqua potabile, e non sono rari i casi di vessazioni fisiche e psicologiche da parte dei caporali, che fanno da intermediari fra il padrone e i lavoratori.
In questi contesti è anche molto presente la criminalità organizzata: emblematico l’omicidio di Sacko Soumayla, sindacalista USB di origini maliane, ucciso con una fucilata alla testa a San Calogero, in Calabria. Parliamo quindi di contesti di sfruttamento fortissimi, che sono stati aggravati dal Decreto Sicurezza di Salvini, che ha aumentato di centinaia di migliaia gli “irregolari”, restringendo i criteri per richiedere l’asilo.
La situazione del settore si è aggravata in periodo di pandemia: un sistema che si basa per più di un terzo sulla manodopera a basso costo non può che risentire della chiusura delle frontiere. Non tardano ad arrivare le dichiarazioni (ai limiti del tragicomico) del Presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti, che in un paese con due milioni e mezzo di disoccupati si chiede dove reperire i braccianti. In un’intervista al Corriere della Sera leggiamo: “Senza di loro (i lavoratori stranieri n.d.r.) si torna a un’agricoltura con sole braccia italiane, che a memoria non ricordo: gli ultimi campi senza immigrati saranno degli anni ‘70”.

Le richieste di Confagricoltura per ovviare alla crisi sono sostanzialmente quattro: proroga dei permessi stagionali per i lavoratori regolari stranieri; apertura di corridoi per fare circolare forza lavoro fra i paesi comunitari ed extracomunitari; “pausa” per il reddito di cittadinanza, invitando ad andare nei campi chi riceve il sussidio in cambio di un prolungamento dello stesso; assunzione di cassintegrati e studenti universitari in cambio di voucher (è più forte di loro).
La prima richiesta è già stata esaudita: il Ministero dell’Interno, infatti, ha prorogato fino al 15 giugno i permessi che sarebbero scaduti il 15 aprile.
La seconda è in dirittura d’arrivo, considerato che la Commissione europea si è già attivata con i “corridoi verdi” e che è in programma per questo mese un decreto flussi. A tal riguardo si sta prodigando Teresa Bellanova, Ministro dell’Agricoltura, che si sta impegnando a incontrare rappresentanti di altri paesi, con l’obiettivo di tessere una rete di alleanze per fare circolare liberamente la manodopera. D’altra parte non c’è da stupirsi, considerato che il sistema agroalimentare si basa ormai strutturalmente, in tutta Europa, sulla manodopera a basso costo.

La terza e la quarta richiesta sono più improbabili, ma saranno necessarie delle considerazioni. Anzitutto…

Quali prospettive per i comunisti?


L’obiettivo di organizzare i lavoratori bracciantili appare come uno sforzo titanico, considerata la scarsa sindacalizzazione di questa categoria e la presenza di forti condizioni di ricatto nelle campagne. Le poche mobilitazioni spontanee, come quella dei braccianti Sikh nell’Agro Pontino, si verificano in seguito a casi estremi di vessazione.Va considerato inoltre il fenomeno del lavoro stagionale, per cui molte persone vengono a lavorare solo per qualche mese.

L’azione nelle campagne deve essere un punto imprescindibile per qualsiasi prospettiva di azione unitaria, considerato che, nell’arretratezza generale in cui ci troviamo, non siamo fra le altre cose ancora presenti nei territori più rurali.
D’altra parte, se parliamo di sindacati, la dirigenza nazionale della CGIL conferma la propria totale inadeguatezza, limitandosi a lanciare appelli di regolarizzazione degli irregolari (si perdoni il bisticcio) al Presidente della Repubblica, in un momento in cui chi tesse le reti della filiera alimentare sta lanciando proposte folli.

Ricordandosi che la maggior parte dei lavoratori del settore è di nazionalità italiana, in un’ottica di lavoro futuro è necessario anche interfacciarsi con strutture di altri paesi, considerata la massiccia presenza di lavoratori stagionali provenienti dall’est-Europa. In ogni caso, è possibile fare qualcosa da adesso.

1. La beneficenza, che serve e servirà fino a quando ci saranno condizioni di povertà nel nostro paese, non è uno strumento che da solo assolve a quelli che sono i nostri compiti. D’altra parte, non è opportuno criticare un’iniziativa che è sorta da chi è presente nei territori e che ha l’evidente scopo di dare un po’ di voce a chi non ne ha. Quello che possiamo fare è denunciare con gli esigui mezzi che abbiamo a nostra disposizione la macchina dei buoni sentimenti che puntualmente si muove in queste occasioni, che pone in risalto l’aspetto morale tralasciando quello sostanziale, cioè di una filiera che si basa strutturalmente su un sistema criminale. Aspettiamoci considerazioni da parte di membri dei partiti borghesi o del governo.

2. Denunciare le richieste di Confagricoltura, che pur di non fare assumere lavoratori regolarmente retribuiti propone di fare lavorare dei precari dietro prolungamento di un sussidio o studenti universitari pagandoli con voucher. Si tratta di prospettive improbabili, perché fra Cura Italia e Reddito di emergenza il governo non sa evidentemente dove mettere le mani; né convince la prospettiva di fare andare a zappare gli universitari. Occorre comunque smascherare quelle parti del settore agroalimentare che, trincerandosi dietro una lotta per la legalità, propongono misure di sfruttamento feroci.

3. Fare presente che con le regolarizzazioni non finisce lo sfruttamento nei campi, seppure, in un’ottica di rivendicazioni economiche si tratti di un obiettivo intermedio chiaramente necessario – di certo non perseguibile con degli appelli.

4. Denunciare la connivenza delle istituzioni europee con il sistema di sfruttamento della filiera alimentare. Seppure non sia intrinsecamente negativa la prospettiva di scambio di forza lavoro fra i paesi, in regime capitalistico la mobilità di lavoratori non specializzati si traduce nella mobilità di manodopera a basso costo. Con il sistema dei corridoi verdi, la Commissione europea non garantisce retribuzioni dignitose per questi lavoratori, né si pronuncia sul funzionamento del sistema agroalimentare.

Per quanto riguarda ciò che non bisogna fare:

1. Non bisogna fomentare divisioni fra i lavoratori abbandonandosi a strampalate interpretazioni della teoria sull’esercito industriale di riserva di Marx, che si riferisce alla massa dei disoccupati nella sua interezza, e non agli immigrati.

2. Non bisogna appiattirsi sulla dicotomia Grande Distribuzione Organizzata – piccoli imprenditori, perchè questa dicotomia da sola non rende la complessità di un fenomeno. In determinati settori esiste una concorrenza verticale feroce che fa abbassare i prezzi; d’altro canto, questo non ci mette nelle condizioni di assumere l’ottica dei piccoli o medi produttori. Un conto sono i produttori individuali, contadini proprietari che coltivano direttamente i propri campi, altro aziende che rientrano nel concetto di piccola o media produzione che però dispongono di forza salariata prevalente. Nei 10 cluster dediti all’agroindustria e alla produzione alimentare, la maggior parte delle attività produttive è costituita da piccole e medie imprese. Il capitalismo italiano è storicamente fatto di piccole e medie attività che lavorano in scenari di elevata concorrenza, seppur con frequenti partnership. Da comunisti, dire che i piccoli e medi imprenditori non hanno nulla a che fare con gli episodi di sfruttamento è una bugia, detta per ingoranza o malafede. Il fenomeno del caporalato è alimentato anche da quei settori della filiera che non sono propriamente definibili “grossi”, ma che fanno utilizzo di manodopera salariata spesso in condizioni di elevato sfruttamento.

In questo momento di quarantena, piena solidarietà ai braccianti, con ferma convinzione che i comunisti non si devono limitare a dare solidarietà. Occorre entrare nella mentalità che il lavoro non si fa a suon di comunicati, ma entrando nelle contraddizioni e, laddove possibile, intercettando gli elementi più avanzati per fare progredire le nostre posizioni.

Di Ignazio Terrana
 
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Coronavirus, supermercati chiusi per Pasqua e Pasquetta: la richiesta dei sindacati
Lettera aperta delle federazioni romane di Filcams-CGIL, Fisascat-CISL e Uiltucs. “Servono sensibilità e comprensione per lavoratori in prima linea dall’inizio dell’emergenza”
 
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da senzatregua
Continuano, in tutta Italia, le segnalazioni dai luoghi di lavoro di situazioni anomale e precarie per la sicurezza dei lavoratori. Nonostante le restrizioni emerge che ancora molte aziende non attuano quelle che dovrebbero essere le procedure e i protocollo di sicurezza in ambito lavorativo necessari per contenere la sicurezza dei loro dipendenti.

Persino regole banali e di buon senso come le dovute distanze di sicurezza sembrano non avere vera importanza per molte aziende rimaste aperte e che sorvolano su questo, limitandosi ad affiggere su porte e muri quelle che sembrano disposizioni in merito, ma in realtà sono tutt’altro.

I divieti di assembramento, la turnazione negli spazi dedicati alle pause, i controlli della temperatura all’ingresso del turno di lavoro e tante altre misure risultano superflue e contraddittorie se le postazioni dei lavoratori non sono alla giusta distanza e spesso sono condivise, coi rischi dovuti.

La testimonianza di Luca (nome di fantasia), lavoratore in un call center di Cagliari, fa emergere come a distanza di due settimane dalle disposizioni più stringenti ci sono ancora aziende che perseguono sulla strada della ricerca del massimo profitto, senza muovere un dito per tutelare i lavoratori e rendere sicuri gli spazi lavorativi.

“Lavoro per un’azienda che gestisce gli operatori call center in-bound e rientra nelle categorie essenziali sancite dal Dpcm del 22 marzo. Noi lavoriamo nella sede di Cagliari. Al momento nella sede sono rimaste circa 30 persone mentre 18 colleghi da un mese lavorano in smart working. Nonostante le disposizioni del governo abbiamo lavorato per tutto il primo periodo senza rispettare le distanze di sicurezza. Dopo diverse richieste inviate ai responsabili siamo riusciti a far rispettare le distanza tra le postazioni solamente grazie all’intervento dei sindacati. Ancora oggi alcuni colleghi continuano a lavorare in postazioni condivise, in barba a tutti i protocolli di sicurezza tanto sbandierati. Al contempo non riceviamo nessuna comunicazione da parte dell’azienda riguardo alla possibilità di attivare il lavoro da casa.”

Questa è la situazione che ci racconta Luca, dove le uniche cose che sembrano venire tutelate siano la garanzia di adeguati profitti per l’azienda, anche in questa fase emergenziale. Ma poi aggiunge:

“I colleghi che sono rimasti in sede hanno quasi tutti i requisiti per il lavoro agile, lo smart working, ma i responsabili ci comunicano che stanno aspettando delle autorizzazioni per poter procedere. L’azienda non ci ha mai rassicurato sottovalutando l’emergenza in corso e dopo aver richiesto che ci venissero fornirti i dispositivi di protezione individuale ci è stato fatto trovare a lavoro solamente l’amuchina e l’alcool che ovviamente non garantiscono una protezione reale, tenuto conto anche che la struttura non presenta nessuna finestra o porta per un adeguato riciclo dell’aria“.

Questa è la situazione denunciata da Luca, che denota la sua preoccupazione rispetto alle loro condizioni di sicurezza. Con i nuovi casi di contagi che sono stati registrati anche in Sardegna, e tenuto conto delle condizioni in cui versa la sanità sarda, c’è molta preoccupazione. Ciò che fa davvero rabbrividire è conoscere queste situazioni precarie, dove tanti lavoratori provenienti dai tanti paesi del Sud dell’isola intrecciano le loro strade in luoghi di lavoro che presentano condizioni così precarie, col rischio solamente di un’ulteriore diffusione del virus e quindi una nuova ondata contagi.

La salute pubblica, e quella dei lavoratori, viene messa in secondo piano rispetto al profitto privato. Le tante denunce rendono sempre più evidente che la risposta di questo sistema all’emergenza sanitaria è spesso la ricerca immediata di garanzia per tutelare il profitto, e che anche l’adozione delle misure di sicurezza viene subordinata a questo interesse ovunque risulti possibile.
 
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view post Posted on 9/4/2020, 15:38
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Coronavirus. Amazon annuncia possibile blocco in Francia

15 aprile 2020
Per ora è solo un "forse" ma il coronavirus potrebbe bloccare la distribuzione di Amazon in Francia. Ad annunciarlo la stessa multinazionale americana che avverte di poter essere costretta a bloccare l'attività nei suoi centri di distribuzione.

Un’ipotesi dopo una sentenza di ieri del tribunale di Nanterre che le ha ordinato di valutare i rischi ai quali sono esposti i lavoratori nei magazzini in questo momento di emergenza e ridurre le consegne ai soli prodotti essenziali.

"La nostra interpretazione suggerisce che potremmo essere costretti a sospendere l'attività nei nostri centri di distribuzione in Francia", ha commentato la multinazionale americana, annunciando la decisione di appellarsi contro la sentenza.
 
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view post Posted on 18/4/2020, 10:42
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sda. sciopero dei lavoratori riuscito, ma per la polizia é “assembramento”: e lavorare in 130 persone cos’é!?! (da slai cobas sc)


Pubblicato il 24/04/2020di pennatagliente


Oggi all’Sda di Bergamo, sciopero con adesione al 100% dei lavoratori.
Una rappresentanza dei lavoratori – circa 25 persone – si riunisce in assemblea per discutere la situazione delle condizioni di lavoro – già gravi e ulteriormente peggiorate in questo ultimo periodo – e coordinare l’iniziativa sindacale in atto organizzandone il proseguio.
Di fronte alla organizzazione e compattezza operaia, immediata la reazione padronale, grazie al decisivo aiuto del braccio violento dello Stato: in 10 minuti arriva dal magazzino la polizia politica Digos con al seguito 2 camionette di agenti in assetto antisommossa, per disperdere il temuto “assembramento” addirittura minacciando multe e denunce a tutti i presenti.
Insomma: come in tutti i luoghi di lavoro, nel magazzino gli assembramenti vanno bene se e solo se si lavora in 130 tutti i giorni… ma non quando si fa un’assemblea sindacale peraltro rispettando – naturalmente, essendo in gioco soprattutto la nostra salute – tutte le misure di sicurezza, a partire dall’uso delle mascherine e dal mantenere il distanziamento delle persone.
 
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30 APRILE E 1 MAGGIO: I LAVORATORI IN LOTTA SI RIPRENDONO L’AGIBILITÀ DI SCIOPERO, MOBILITAZIONI E AZIONI DI LOTTA IN TUTTE LE CITTÀ!

La prima giornata di mobilitazione nazionale di oggi, lanciata dal SI Cobas, dall’Adl Cobas e da numerosi reti di solidali, è stata un successo inaspettato.

In tutta Italia si sono moltiplicati scioperi e iniziative sui territori per denunciare il bluff della “fase 2” varata da Conte e voluta da Confindustria, la vergogna delle morti sul lavoro e delle migliaia di contagi provocati nella cosiddetta “Fase uno” grazie al disinteresse di governo e padroni verso la vita e la salute dei lavoratori, la mancata erogazione degli ammortizzatori sociali e soprattutto contro una “riapertura” a senso unico che da una parte tutela i profitti e dall’altra continua a suon di multe, denunce e fermi, a mettere il bavaglio al diritto di sciopero e alla libertà di manifestazione pubblica del dissenso.

Il cuore pulsante delle mobilitazioni sono stati ancora una volta i magazzini della logistica: nelle province di Milano, Brescia, Bergamo, Lodi, Torino, Como, Bologna, Piacenza, Modena, Parma, Reggio Emilia, Padova e gran parte del Veneto, Ancona, Firenze, Roma, Caserta, Napoli gli scioperi nei magazzini si sono moltiplicati con adesioni spesso del 100 in quasi tutte le principali filiere (Tnt-Fedex, BRT, Camst,GLS, SDA, UPS, Ceva, Granarolo, Tigotà, Leroy Merlin, Geodis, Xpo e tante altre). A ciò si sono aggiunti scioperi anche in altri settori come quello ambientale, dei Porti e della Manutenzione Stradale in Campania.

Nel pomeriggio, nel mentre proseguiva lo sciopero sui luoghi di lavoro, una serie di iniziative pubbliche si sono svolte in diverse città: a Napoli e provincia azioni in strada nel mentre una delegazione del Movimento di lotta – Disoccupati 7 Novembre e del SI Cobas veniva ricevuta in delegazione nella sede di Città Metropolitana per esporre i motivi della protesta nazionale e fare un punto sulle vertenze cittadine; a Messina e Bologna presidi sotto alle Prefetture, a Genova analogo presidio con fermi e denunce di alcuni delegati del SI Cobas, in altre città del centro-sud iniziative promosse dalla Rete Vogliamo Tutto, come a Roma con i Movimenti per il Diritto all’Abitare che hanno presidiato in conferenza stampa l’estero di Palazzo Chigi a Montecitorio ed ancora altre iniziative di realtà aderenti al Patto d’Azione.

Stasera e domani la mobilitazione continuerà sia dentro che fuori i luoghi di lavoro, ma ci sentiamo di poter affermare senza ombra di dubbio che a partire da oggi la quarantena obbligatoria a senso unico è finita, e ricomincia la lotta per far sì che la crisi legata all’emergenza CoViD-19 non venga pagata dai lavoratori e dai proletari, ma a pagare siano i padroni.

Tutela piena dei livelli salariali e del diritto di Sciopero!

Patrimoniale del 10% sul 10% più ricco della popolazione!

Solo la lotta paga!

Non siamo carne da macello!


S.I. Cobas nazionale

http://sicobas.org/2020/04/30/comunicato-i...n-tutta-italia/
 
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Si Cobas Lavoratori Autorganizzati

Sciopero in tutta la filiera #Tnt da #Napoli a #Milano passando per #Torino, #Bologna, #Modena, #Bergamo, #Parma, #Ancona, #Alessandria, #Roma ecc..

Per la sicurezza sui posti di lavoro, per l'anticipazione della Cassa Integrazione ed in solidarietà per i lavoratori della Tnt Pescheria Borromeo in occupazione contro i licenziamenti di 66 lavoratori conla scusa #covid19 non rispettando gli accordi firmati.

Digos e polizia subito nei magazzini.

Ma noi non molliamo:
se lavoriamo, possiamo scioperare!

Avanti #SiCobas!

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