Comunismo - Scintilla Rossa

Crisi, lavoratori allo sbaraglio

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view post Posted on 29/1/2020, 11:08
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vietcong

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Whirlpool, i lavoratori aggrediscono i sindacalisti con urla e spintoni dopo il tavolo al Mise: “Venduti, vergogna”. E la polizia interviene

di F. Q. | 30 Gennaio 2020

I lavoratori della Whirlpool di Napoli in presidio davanti al Ministero dello Sviluppo economico hanno contestato i rappresentanti sindacali al termine del tavolo sulla vertenza con spintoni e lanci d’acqua. I sindacalisti, infatti, tra cui Marco Bentivogli della Fim, dopo circa sei ore di confronto sono usciti dal Mise annunciando che l’incontro era andato male. Questo ha scatenato la rabbia dei manifestanti che hanno urlato: “Venduti! Avete dormito! Vergogna!”. I dipendenti dello stabilimento napoletano poi si sono scontrati anche con la polizia, costretta a intervenire per riportare l’ordine. A causa di un malore una persona è stata trasportata all’ospedale. Dopo il deludente tavolo, Fiom, Fim e Uilm hanno dichiarato 16 ore di sciopero per tutto il Gruppo Whirlpool, le prime 8 ore con articolazione territoriale con presidi davanti agli stabilimenti, le altre 8 in occasione della mobilitazione nazionale che verrà definita nelle prossime settimane.
 
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vietcong

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(clic sull'immagine per leggere l'articolo)

[..]Una vicenda tutt’altro che chiusa, quindi, almeno per l’ex autista Tpl, rimasto in ospedale per mesi, poi messo in aspettativa per sei mesi a metà stipendio e successivamente in ferie obbligate dall’azienda «arrivata anche ad annunciarmi che se mi fossi presentato in sede mi avrebbe fatto allontanare dalla forza pubblica».

Fonte: Corriere.it
 
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Si svuotano in dieci anni le buste paga in sei Paesi UE, tra questi l’Italia


eunews.it
Lo rileva una ricerca dell’Istituto di studi della Confederazione europea dei sindacati

Bruxelles – Le buste paga * dei lavoratori in sei paesi dell’UE, tra i quali l’Italia, sono in media inferiori a dieci anni fa. In altri 3 paesi dell’UE i salari sono stati quasi congelati nell’ultimo decennio.

Nuovi dati dell’European Trade Union Institute (ETUI), il centro studi della Confederazione europea dei sindacati (CES), mostrano che i pacchetti di retribuzione media in Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Croazia e Cipro erano inferiori nel 2019 rispetto al 2010.

I pacchetti di retribuzione media, adeguati all’inflazione (e compresi i contributi previdenziali e le indennità salariali), sono diminuiti dal 2010-19 di:

– 15% in Grecia
– 7% a Cipro
– 5% in Croazia
– 4% in Spagna
– 4% in Portogallo
– 2% in Italia.

Lo studio mostra anche che i pacchetti di retribuzione media sono praticamente congelati con aumenti appena superiori allo zero nell’ultimo decennio in:

Finlandia (+ 0,1%)
Belgio (+ 1,5%)
Paesi Bassi (+ 1,5%).

“I lavoratori di sei Paesi dell’UE stanno peggio di quanto non stessero dieci anni fa”, ha dichiarato Esther Lynch, vice segretaria Generale della CES. “Ai leader dell’UE piace parlare della cosiddetta ripresa – contia la sindacalista -, ma la crisi non è finita per milioni di lavoratori in molti paesi dell’UE”, secondo la quale l’Unione “deve fare molto di più per promuovere aumenti dei salari e dei salari minimi e sostenere una più forte contrattazione collettiva in quasi tutti gli Stati membri dell’UE”.

* Tecnicamente chiamato “compenso reale per dipendente” = retribuzione, contributi previdenziali del datore di lavoro e benefici per dipendente adeguati all’inflazione.
 
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www.resistenze.org - osservatorio - italia - politica e società - 03-02-20 - n. 737

Di bonus in peggio



Federico Giusti e Ascanio Bernardeschi | lacittafutura.it

01/02/2020

Taglio del cuneo fiscale: non un aumento salariale ma solo una diversa ripartizione delle sue voci e a scapito dei redditi più bassi. Non bisogna quindi rinunciare agli incrementi salariali e alla lotta per i diritti dei lavoratori.

Nelle ultime settimane, l'argomento più cavalcato negli slogan di Zingaretti e dei suoi accoliti è stato il taglio del cuneo fiscale, cioè i bonus fiscali che 16 milioni e mezzo di lavoratori italiani si ritroveranno in busta paga dal 1 luglio. Questa è considerata dagli stessi autori la cosa più di sinistra che ha potuto fare questo governo. Figuriamoci il resto. Proviamo a fare un po' di chiarezza per non far cadere i lavoratori in una delle solite trappole.

Questa vera e propria mancia venne introdotta da Renzi nella forma di una detrazione fiscale di 80 euro in favore di chi aveva un reddito non superiore a 26.600 euro, da evidenziare però in busta paga come voce separata, non come le altre detrazioni, tanto per fare propaganda. Trattandosi di detrazione fiscale, chi aveva un reddito minimo che pagava un'imposta inferiore a 80 euro mensili, vedeva ridursi il beneficio alla misura dell'imposta dovuta, e a zero se il suo reddito era così basso che, al netto delle altre detrazioni, non doveva pagare nessuna imposta.

Il governo Conte bis, ha portato questo bonus a 100 euro ed ha esteso la platea dei beneficiari: il tetto di reddito al di sotto del quale si ha diritto al bonus per intero è stato elevato a 28 mila euro, ma fino a 40mila euro si potrà continuare ad avere un beneficio via via decrescente.

Vediamo cosa viene in tasca alle varie fasce di reddito. Chi non supera i 26.600 euro avrà un aumento di 20 euro mensili (la differenza fra 100 e 80), chi avrà un reddito superiore, compreso fra i 26.600 e i 28 mila avrà un beneficio di 100 euro mensili (la differenza fra 100 e niente), da 28 mila a 35 mila il beneficio sarà di 80 euro e oltre i 35 mila euro, fino ai 40 mila, un beneficio gradualmente decrescente. I nuovi beneficiari, circa 4 milioni di persone, si collocano tutti al di sopra del reddito di 26.600 euro. Continueranno a non avere nessun beneficio i redditi bassi e i pensionati, compresi quelli al minimo. Quindi la misura "di sinistra" si risolve nell'avvantaggiare prevalentemente i redditi medi e non darà niente ai redditi più bassi. Naturalmente non ce l'abbiamo con i lavoratori che vengono pagati decentemente e siamo lieti che possano trovarsi qualche euro in più in busta paga. Ma l'ingiustizia verso chi sta anche peggio, introdotta da Renzi, aumenta. Questo se si guarda solo al salario diretto, quello netto in busta paga, per capirsi.

Le cose peggiorano invece se si fanno altre considerazioni. Poiché di rendere più progressive le aliquote Irpef, che nel tempo si sono andate appiattendo drasticamente, o di introdurre un'imposta sui grandi patrimoni, nei programmi del governo non se ne parla nemmeno, queste mance andranno a ridurre il gettito fiscale di circa 3 miliardi. La diminuzione dovrà quindi essere compensata o da tagli delle pensioni e dei servizi o da aumento delle tariffe di quest'ultimi, o da altri balzelli che di solito non tengono minimamente di conto del reddito percepito (e quindi pesano di più sulla povera gente) o, più probabilmente, da un mix di tutto ciò.

Chi avrà qualche euro in più in busta paga avrà per contropartita queste perdite e il bilancio spesso potrebbe essere in perdita. Chi non avrà niente o avrà pochissimo avrà solo le perdite. I grandi redditieri se ne fregheranno altamente perché fanno a meno dei servizi pubblici, che anzi vanno sempre più privatizzandosi. I padroni non spenderanno un euro in più per pagare i lavoratori.

Finisce qui il bilancio? No, c'è altro. La Fondazione Di Vittorio, l'anno scorso, denunciava la perdita di potere di acquisto dei salari e delle pensioni. Dal 2011 al 2019 la perdita sarebbe stata, secondo le sue stime, di oltre 1.000 euro. In ciò l'Italia si differenzia dalla Francia e dalla Germania, dove, secondo i dati Ocse, i salari sono cresciuti (di 2 mila euro in Francia e di 3.800 in Germania). Per quanto riguarda i contratti a part-time la perdita salariale in Italia è ancora maggiore.

Tredici milioni di lavoratori e lavoratrici nel nostro paese attendono il rinnovo dei loro contratti nazionali; il taglio del cuneo fiscale, che illusoriamente fa crescere i salari, potrebbe indurre i sindacati ad accontentarsi di minori aumenti contrattuali. La dice lunga il commento di Landini che canta "vittoria" per questa concessione e afferma che "la lotta [inesistente, n.d.r.] paga"! Che sia già appagato? Il rischio è quello di accettare una sorta di scambio diseguale: accettare nuovi contratti da fame che alla fine ci faranno perdere potere di acquisto e di contrattazione, facendo credere che tale perdita è stata già compensata dalla manovra fiscale del Governo.

Landini, da dopo che è diventato segretario generale della Cgil e che al governo ci sono le autoproclamate sinistre, si dimentica che per il tenore di vita dei lavoratori non conta solo il salario diretto, ma anche quello indiretto (i servizi essenziali assicurati) e differito (le pensioni) e che il taglio del cuneo fiscale non comporta quindi un aumento del salario sociale complessivo ma solo la riduzione delle imposte che, in assenza di una giustizia fiscale (oggi la stragrande maggioranza del gettito proviene dal lavoro dipendente), servono a finanziare le altre voci del salario sociale. Una sorta di partita di giro in cui però ci rimette chi sta peggio.

Anche in un'ottica keynesiana, che pure non ci convince, ammesso e non concesso che la crisi sia superabile attraverso la miracolosa ricetta di aumento dei consumi, sarebbe stato più efficace pensare ai redditi bassi, aventi, per ovvi motivi, una maggiore propensione al consumo, il cui aumento di capacità di spesa avrebbe determinato l'attivazione di un moltiplicatore keynesiano più potente. Se poi queste risorse fossero state destinate ad assicurare servizi più decenti, tutti e tre i miliardi, e non solo una loro parte, si sarebbero tradotti in spesa, con un effetto maggiore sulla domanda.

Il capitalismo italiano da almeno tre decenni si è limitato a precarizzare i lavoratori, a diminuire il valore della forza-lavoro con rapporti di produzione sempre più incivili, a delocalizzare le produzioni dove più gli conveniva e ad esternalizzare alcuni processi produttivi, appaltandoli a imprese che possono far risparmiare trattando peggio i lavoratori. Quello che invece si è guardato dal fare è l'innovazione tecnologica e la formazione del lavoratori. Infatti è cresciuto il peso delle basse qualifiche. Da qui la perdita di competitività del "sistema Italia" e il ritardo nella produttività associato a un aumento sensibile dei carichi di lavoro. Superfluo dire che a perderci sono stati i lavoratori.

Non dovremmo tralasciare neppure la perdita di potere contrattuale e di resistenza da parte del mondo del lavoro grazie al Jobs Act e alla legge Fornero. Davvero i tagli delle tasse sono la soluzione migliore? O serve restituire dignità al lavoro e una legislazione maggiormente tutelante?

In una intervista a Il sole 24 Ore, l'economista e senatore Pd Tommaso Nannicini ha affermato: "Il Jobs Act è un cantiere aperto, va completato, altro che abolito. Alcuni elementi di quella riforma, come le tutele crescenti in caso di licenziamenti illegittimi, non ci sono praticamente più, dopo la pronuncia del 2018 della Corte costituzionale, adesso c'è un semplice meccanismo risarcitorio tornato alla discrezionalità del giudice. Altri elementi dobbiamo completarli senza tornare indietro, come nel caso degli ammortizzatori sociali, che vanno sì rafforzati ma col taglio universalistico del Jobs Act, evitando quindi di ripristinare una cassa integrazione discrezionale, senza limiti temporali e solo per pochi".

Il messaggio sembra chiaro e Nannicini non è certo isolato nel Pd. In questa situazione la Cgil canta vittoria per il fatto che la legge di bilancio presenta "molte cose giuste" (Landini dixit), che si sta ritornando alle politiche concertative, in cui i sindacati "discutono" (non contrattano, né tantomeno lottano) con il governo di ammortizzatori sociali, di rappresentanza sindacale, di pensioni e appunto e di Jobs Act. Ma senza mai rimettere in discussione l'impianto liberista e le leggi in materia di lavoro e previdenza che hanno costruito le basi di una società sempre meno equa e solidale.

Piuttosto che esultare il sindacato e il mondo del lavoro dovrebbero avere chiaro che il taglio delle tasse non può sostituirsi alle dinamiche contrattuali, che l'aumento del netto in busta paga ottenuto facendo pagare Pantalone, senza che il capitale debba perderci un soldo è per quest'ultimo una manna piovuta dal cielo, che è necessario recuperare effettivamente il potere di acquisto perduto nell'ultimo decennio dai salari e dalle pensioni, recuperare il livello qualitativo e quantitativo dei servizi pubblici, sempre più disastrati, non accettando la logica di qualche euro in più per poi doversi arrangiare individualmente a tamponare le carenze delle prestazioni della pubblica amministrazione. Sono questi obiettivi puramente riformisti, non la rivoluzione, ma certo riformismo è ormai molto al di sotto dei limiti di decenza.
 
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Oggi sono stati due ferrovieri
a portare il quotidiano tributo di sangue operaio
sull'altare del profitto
Alle 5,30 di stamani il treno Frecciarossa Milano-Salerno ha deragliato al bivio
Livraga, all'altezza del casello autostradale di Casalpusterlengo (Lodi), sulla linea
Milano-Bologna.
La locomotrice si è paurosamente capovolta di 180° e il primo vagone si è ribaltato
a testa in giù. Sono così tragicamente morti i due macchinisti e un lavoratore addetto
alle pulizie è gravemente ferito.
È un nuovo anello nella catena di incidenti ferroviari in Italia: Crevalcore,
Viareggio, Andria, Pioltello... La sola novità sta nel fatto che ad essere coinvolto è un
treno ad alta velocità, stupido e vuoto vanto dell'azienda che per contrappasso ha le
condizioni fatiscenti in cui lascia decadere il servizio dei treni regionali.
La tragedia odierna è un nuovo episodio della quotidiana strage di lavoratori: sono
già 48 in soli 37 giorni del 2020.
Tre giorni fa – ancora limitandosi all'ambito ferroviario – è morto un operaio di 58
anni cadendo dalle impalcature per i lavori all'interno della stazione centrale di
Benevento.
Cgil, Cisl e Uil hanno proclamato 2 ore di sciopero per domani. Non si
smentiscono.
Cub, Usb, Sgb e Cat hanno proclamato 8 ore di sciopero contro i padroni
responsabili di queste nuove morti sul lavoro in ferrovia e di quelle passate e
sulla base del principio che la sicurezza e la salute dei ferrovieri sono condizione
prima e imprescindibile affinché essa siano garantite anche ai passeggeri.
Ci stringiamo al dolore di familiari, amici e compagni di lavoro di Giuseppe e
Mario e ribadiamo la necessità che tutta la classe lavoratrice torni a scendere sul
terreno della lotta in difesa dei propri bisogni e che, a questo scopo, tutto il
sindacalismo conflittuale si sottometta al principio dell'unità d'azione,
subordinando ad esso ogni legittima differenza.
Giovedì 06 febbraio 2020
[email protected]
Coordinamento Lavoratori/Lavoratrici Autoconvocati per l’Unità della Classe
 
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Air Italy, licenziamento collettivo per 1450 dipendenti. In arrivo le lettere
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14 febbraio 2020
Sta prendendo la peggiore delle pieghe possibili la crisi che coinvolge la compagnia aerea Air Italy.

Licenziamento collettivo per tutti i 1.450 dipendenti, hanno annunciato questa mattina i commissari liquidatori della compagnia ai dirigenti riuniti in conference call a Olbia e Malpensa. Nelle prossime settimane si liquida tutto e già dai prossimi giorni partiranno le lettere di licenziamento.

L'annuncio arriva al termine del primo confronto, in conferenza telefonica, questa mattina tra i liquidatori incaricati e i dipendenti di Air Italy, di base a Malpensa e a Olbia.

I liquidatori, spiega il comunicato della compagnia, hanno illustrato ai dipendenti la possibile evoluzione della procedura di liquidazione, confermando l’intenzione di adottare tutte le misure possibili di sostegno al reddito, compatibili a norma di legge con la procedura di liquidazione stessa.

Verranno inoltre prese in considerazione tutte le possibilità di cessione di rami d’azienda, che comprendano il possibile mantenimento di tutti o di parte dei posti di lavoro.
 
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Treno deragliato a Lodi, sindacato Usb: “In dieci anni persi 15mila addetti alla manutenzione”
Il settore manutenzione di Rfi “è caratterizzato da gravissime lacune organizzative dovute alle politiche di taglio occupazionale e banalizzazione professionale operate in modo intensivo nell’ultimo decennio”, si legge in una nota diffusa dal sindacato Usb.
Cronaca Lombardia
Lodi
17 febbraio 2020 20:26
di Enrico Tata


Negli ultimi dieci anni gli addetti del settore manutenzione di Rfi sono passati da circa 25mila a poco più di 10mila. A denunciarlo è il sindacato Usb in una nota. "A 10 giorni dal disastro ferroviario di Livraga, in cui sono rimasti uccisi i due macchinisti di un Frecciarossa e decine tra passeggeri e altri lavoratori a bordo sono rimasti feriti, mentre si sovrappongono le ipotesi investigative delle agenzie di controllo e della magistratura, torniamo a evidenziare un quadro confusionario e per certi versi omissivo sul contesto operativo nelle attività di manutenzione alla Rete Ferroviaria Italiana", si legge. Il settore manutenzione di Rfi "è caratterizzato da gravissime lacune organizzative dovute alle politiche di taglio occupazionale e banalizzazione professionale operate in modo intensivo nell'ultimo decennio". Questa condizione, spiega il sindacato, sarebbe stata provocata dal mancato rimpiazzo dei ferrovieri pensionati o trasferiti ad altre mansioni.
Continuano le indagini sul deragliamento del Frecciarossa 9595

Intanto continuano le indagini sul deragliamento del Frecciarossa 9595 nei pressi della stazione di Livraga, Lodi. La procura di Lodi ha fatto sapere che sono stati localizzati tutti gli attuatori per deviatoi ferroviari del lotto di cui fa parte anche il componente ritenuto difettoso. Il componente dello scambio, spiega l'azienda produttrice, la Alstom, "fa parte di un lotto che e' stato soggetto ad un accurato processo di fabbricazione e qualità approvato da Rfi e opportunamente seguito e documentato. Ogni singolo elemento viene rilasciato dalla ditta produttrice con un'apposita dichiarazione di conformità in cui il costruttore attesta ‘sotto la propria esclusiva responsabilità che i prodotti sono conformi ai disegni costruttivi e a quanto previsto dai processi di controllo qualità dell'azienda stessa"
 
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Ubi-Intesa, Unicredit e il crac popolari: così le banche lasceranno a casa 30mila persone in 2 anni
La fusione del primo gruppo bancario italiano col terzo nasconde in realtà 5000 esuberi, che fanno il paio coi 6000 di UniCredit, quelli di Mps e di Popolari di Bari. Un totale di 30mila posti di lavoro in meno, cui si sommano i 50mila del decennio 2008-2018: un’emorragia occupazionale spaventosa, che in molti fanno finta di non vedere.
18 febbraio 2020 12:28
di Barbara D'Amico

Bastano 24 ore per stravolgere la propria vita lavorativa? Sì, se sei un dipendente di Ubi Banca e hai appena saputo che il piano lacrime e sangue proposto solo ieri dal tuo amministratore delegato – 2000 esuberi e 175 filiali in chiusura – è diventato carta straccia durante la notte per colpa (o per merito, questo è ancora tutto da vedere) di una mossa inaspettata. Intesa Sanpaolo ha infatti annunciato l’intenzione di acquisire l’istituto di credito lanciando una ops, cioè una offerta pubblica di scambio volontario di azioni ordinarie, un primo passo tecnico verso l’integrazione con Ubi (qui il comunicato ufficiale di Intesa).

Al di là delle ragioni dell’acquisizione – già considerata strategica nella lotta per il rafforzamento del sistema banche, visto che Intesa in questo modo rimpolpa ed espande il proprio ruolo in Europa, risparmia 510 milioni di euro di costi di gestione e aumenta i ricavi annuali a 220 milioni di euro – il matrimonio offre ottimi spunti di riflessione sulla tenuta del lavoro nel comparto.
5 mila esuberi

Sappiamo dal comunicato ufficiale sull’operazione che il gruppo risultante da questa fusione – qualora l’ops andasse a buon fine – assumerà 2500 giovani ma, “con un rapporto di un’assunzione ogni due uscite volontarie”. Questo vuol dire che, tolte le nuove entrate, gli esuberi si attestano attorno alle 5 mila posizioni, pur se in odor di prepensionamento. E questo non in Ubi ma sull’intera pianta organica derivante dall’acquisizione. La buona notizia è che chi in UBI non avesse maturato i requisiti per il prepensionamento potrebbe essere salvo, per ora, ma l’istituto aveva già nel 2017 assorbito a sua volta la decotta Banca Etruria e avviato un piano licenziamenti che è fisiologico nell’accorpamento e nella razionalizzazione dei costi di un’impresa bancaria.

Del resto la stessa Intesa ha ridotto la sua forza lavoro del 15% a seguito dell’acquisizione delle banche venete, nel 2017, e nel 2018 ha raggiunto un accordo con in sindacati per 1600 uscite volontarie entro il 2021 su un totale di 9 mila già programmate. Quindi il gruppo oggi acquisisce e si espande, ma paga e fa pagare un tributo in termini di capitale umano altissimo. C’è infatti un altro elemento di cui tener conto. Intesa ha annunciato la cessione a BPER banca di almeno 400-500 filiali (è un atto dovuto visto che l’Antitrust sanzionerebbe una concentrazione monstre). Cessione non vuol dire licenziamento, ma BPER aveva già approvato un piano di tagli da 2.744 posti per il 2019-2020 a cui si tema possano aggiungersi nuovi licenziamenti.

Il passaggio ad altro istituto preoccupa sempre i sindacati che proprio rispetto al vecchio piano Ubi avevano proposto ciò che poi Intesa ha messo nero su bianco sul comunicato di stanotte. “Obiettivo già dichiarato da tutte le OO.SS – dichiaravano FABI, FISAC/CGIL, FIRST/CISL, UIL/UILCA e UNISIN – sarà un robusto piano di assunzioni (di almeno 1 persona ogni due uscite) per mantenere adeguati livelli occupazionali e di servizio su tutti i territori dove UBI è presente”.
Unicredit Mps e le Popolari

La vera domanda però è se il sistema bancario italiano ed europeo sappia pianificare il reale fabbisogno di personale non solo nel medio ma soprattutto nel lungo periodo. Intesa ha spiegato la sua decisione parlando di espansione sul territorio e necessità di rafforzare la posizione in modo capillare. Cioè l’esatto opposto di quanto invece attuato in termini di forza lavoro negli ultimi dieci anni.
Il piano industriale più eclatante, da questo punto di vista, resta però quello di Unicredit. Il gruppo attuerà entro il 2023 la chiusura di 450 filiali in Italia e 6 mila esuberi (su un totale mondiale di 8 mila). Secondo i dati diffusi lo scorso autunno sempre dalla FABI, la Federazione Autonoma dei Bancari Italiani, solo in base ai piani industriali che erano già stati approvati in Italia il 2019-2020 saranno bruciati 30.114 posti contando anche gli esuberi Intesa.

Anche Montepaschi continua a tagliare (4500). Per la senese il fallimento del 2012 aveva già segnato la perdita di 400 filiali e 4.600 posti di lavoro nel primo periodo post terremoto finanziario. E anche se la cura statale ha permesso di tenere in piedi – anche se molto ridimensionato – l’istituto, la mossa di Intesa suggerisce che presto anche per Mps potrebbe parlarsi di riassetto. Riassetto che invece sarebbe stato forse meno doloroso operare per le banche popolari cadute una dopo l’altra a partire dal 2015. Basta ricordare ancora Popolare di Vicenza e Veneto Banca, acquisite dopo il crac proprio da Intesa Sanapaolo: operazione costata circa 4 mila posti di lavoro tra gli i dipendenti degli ex istituti.

Sulla graticola oggi ci sono anche altri 3 mila dipendenti di un’altra popolare finita sul lastrico, PopBari, che aveva già licenziato duemila persone prima del fallimento ma il cui salvataggio in extremis a fine dicembre 2019 potrebbe ridimensionare i nuovi esuberi.
In dieci anni bruciati oltre 50 mila posti

Non si tratta però di casi isolati, ma di una crisi di sistema. Secondo analisi di Mediobanca, tra il 2008 e il 2018 in Italia sono quindi spariti in tutto 51 mila posti di lavoro nel comparto del credito. A livello europeo il dato è ancor più spaventoso: 470 mila posizioni andate in fumo, per lo più concentrate alle attività di sportello e consulenza in filiale. Ammesso che un piano di rilancio esista e che gli istituti facciano fatica a star dietro ai colossi digitali pronti a concorrere nella gestione del credito, la concentrazione e l'accorpamento sembrano essere le uniche formule per restare a galla. Ma senza forza lavoro, ripartire e reinvestire in professionalità e rilancio digitale sarà ancora più difficile.
 
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No dei sindacati che chiedono l’intervento del governo
Alitalia. Effetto coronavirus: nuova Cassa integrazione per 4mila persone
Numeri inaccettabili, dicono i sindacati. Confermato lo sciopero del 2 aprile di tutto il settore. Uno stop, che dicono, rischia a questo punto di essere il primo di una lunga serie

www.rainews.it

28 febbraio 2020
L’emergenza coronavirus si fa sentire anche sul già delicato caso Alitalia. L’azienda infatti ha deciso una nuova procedura di cassa integrazione: durerà altri 7 mesi, coinvolgerà quasi 4mila dipendenti.

La procedura aperta dall'azienda e comunicata ai sindacati, prevede altri sette mesi di Cigs, dal 24 marzo al 31 ottobre, per complessivi 3.960 dipendenti. Nello specifico, si tratta di 1.175 persone - di cui 70 comandanti, 95 piloti e 340 assistenti di volo e 670 del personale di terra - numeri ai quali vanno aggiunti un massimo di altri 2.785 dipendenti per imprevisti legati all'emergenza coronavirus: 143 comandanti, 182 piloti, 780 assistenti di volo, 1680 personale di terra.

"Sulla base di quanto riconducibile alla emergenza coronavirus - si legge nella procedura - sono in questo momento in fase di valorizzazione ulteriori iniziative e programmi emergenziali che possono richiedere l'urgente e indifferibile attivazione di ulteriori quantitativi di Cigs".

I numeri saranno oggetto della trattativa con i sindacati, che già si preparano a dare battaglia. "Respingiamo ogni ipotesi di cassa integrazione per circa 4mila lavoratori", avvertono il Segretario Nazionale della UGL-Trasporto Aereo, Francesco Alfonsi e il Segretario Nazionale della Filt Cgil, Fabrizio Cuscito, che definiscono questi numeri "assolutamente inaccettabili e immotivati nonostante il coronavirus".

La situazione preoccupa ancora di più, se si considerano anche i 1.500 dipendenti di Air Italy in liquidazione: di fatto ci sono "5500 i lavoratori che rischiano il posto di lavoro nel trasporto aereo italiano in meno di un mese", aggiunge Cuscito, che chiede l'intervento del governo e conferma lo sciopero di tutto il settore del 2 aprile, che rischia a questo punto di essere "il primo di una lunga serie". L'attuale Cigs, che scade il 23 marzo, interessa complessivamente 1.020 persone.

Intanto c’è attesa per il nuovo bando di gara messo a punto dal commissario Giuseppe Leogrande e dal direttore generale Gianfranco Zeni. Il bando potrebbe prevedere la vendita a 'spezzatino' cioè tre asset, volo, manutenzione e handling, oppure un lotto unico. Il bando definirà anche la tempistica dell'iter per arrivare pronti al termine del 31 maggio. Il futuro acquirente di Alitalia non dovrà sobbarcarsi la restituzione degli 1,3 miliardi di prestito ponte, che rimarranno in carico alla bad company.
 
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