Comunismo - Scintilla Rossa

Crisi, lavoratori allo sbaraglio

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view post Posted on 1/12/2015, 18:47

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Firenze. Solidarietà con i lavoratori Montedomini licenziati



Il giorno 20 novembre 2015 il tribunale del lavoro di Firenze ha emesso una sentenza vergognosa,rigettando il ricorso presentato da Cristian e Olivia, entrambi operatori della Residenza Sanitaria Assistita (RSA) San Silvestro di Firenze.

I lavoratori erano dipendenti della cooperativa Agorà Toscana, che gestisce l’RSA per conto dell’Azienda di Servizi alla Persona (ASP) Montedomini, a sua volta amministrata da dirigenti nominati dal Comune di Firenze. Nel dicembre 2014, subito dopo Natale, i lavoratori sono stati licenziati in tronco, essendosi rifiutati di servire il primo pasto della cena del giorno di Santo Stefano, giunto (per l’ennesima volta) in ritardo, e quindi inevitabilmente scotto e colloso, immangiabile.

Cristian e Olivia si sono comunque confrontati coi pazienti, che hanno acconsentito a ricevere una dose più abbondante del secondo e a “rinunciare” alla pasta, divenuta ormai colla, anche perché nel pomeriggio avevano ricevuto una merenda natalizia in più. La cooperativa Agorà ha ritenuto sufficiente questo gesto per mandarli via dal lavoro.

Contro il licenziamento, Cristian e Olivia sono immediatamente ricorsi in tribunale.Al giudice è bastato concentrarsi sui lavoratori intenti a gettare la pasta nella pattumiera per accusarli di comportamento “lesivo nei confronti della dignità dei pazienti” (ex art. 42 CCNL cooperative sociali), nonostante questi ultimi fossero stati interpellati e fossero d’accordo (!) e rigettare la richiesta di reintegro!

Come se non bastasse, il giudice per umiliarli ed inibire l’accesso alla “giustizia”, ha condannato Cristian e Olivia al pagamento di una penale di circa 4.000 euro (più un 15% di spese legali e IVA) che faranno lievitare il costo a quasi 6000 euro.

Il giudice era così impegnato a puntare il dito contro di loro da non vedere la luna: non si è accorto per esempio che Agorà toscana aveva già provato a licenziare un’altra lavoratrice di sessant’anni, Antonietta, poi reintegrata per la palese inconsistenza delle argomentazioni aziendali. Non si è accorto che Agorà paga i salari regolarmente in ritardo, che non rispetta l’orario lavorativo fissato, che adotta atteggiamenti autoritari al lavoro, e non solo a Firenze e in Toscana, ma anche nelle altre sedi sparse per l’Italia, presenti in ben 8 regioni. Non si è accorto soprattutto che Cristian, Olivia e Antonietta facevano parte di un gruppo di lavoratori iscritti ai Cobas che avevano denunciato i comportamenti dell’azienda, e che il loro licenziamento è stato un atto chiaramente ritorsivo nei loro confronti!

La sentenza riflette un clima politico segnato dall’attacco che il Governo Renzi sta portando ai diritti dei lavoratori. L’art. 18 – definitivamente abolito dal Jobs Act – non è infatti un semplice dispositivo giuridico, ma riflette la possibilità per i lavoratori di dire la propria e di organizzarsi per far valere i propri diritti. Purtroppo il giudice ha deciso di adeguarsi allo spirito dei tempi.Non si tratta però solo di questo: Olivia e Cristian infatti lavoravano all’interno degli appalti della pubblica amministrazione, ossia all’interno di quei servizi che vengono dati in gestione a cooperative o società private. È sui lavoratori degli appalti che si regge ormai l’intera offerta in servizi delle amministrazioni pubbliche. Basti pensare che la ASP Montedomini – che teoricamente dovrebbe gestire l’assistenza pubblica di un comune di 350.000 abitanti come Firenze – ha solo 40 dipendenti diretti (!). Tutto i resto diviene monopolio naturale delle cooperative, legate a doppio filo agli amministratori da un fiume continuo di denaro pubblico e da accordi quantomeno opachi.

Non siamo certo noi di aver scoperto l’acqua calda, cioè l’esistenza endemica e strutturale di appalti truccati nelle grandi città metropolitane.Così i lavoratori sono doppiamente vessati. Da un lato ci sono le cooperative che intercettano i finanziamenti pubblici e cercano di trarne il massimo vantaggio: il risultato sono turni massacranti, costante carenza di organico, precarietà sistematica (dati i continui cambi appalti) e autoritarismo aziendale. Proprio quello che Cristian e Olivia hanno vissuto sulla propria pelle.

D’altra parte, il recupero di risorse per il pagamento del debito pubblico viene effettuato per la gran parte tagliando sui servizi pubblici e in particolare quelli comunali: tutti bravi a dire che non ci sono i soldi, ma nessuno ci è mai venuto a dire una piccola verità, ossia che le esternalizzazioni costano di più rispetto alla gestione pubblica diretta.

Sta di fatto che per pagare questo benedetto debito (ma di chi e per chi??) gli utenti vedono peggiorare – o peggio scomparire – il servizio, mentre i lavoratori vengono licenziati da un giorno all’altro. Costruiamo la solidarietà!

Il licenziamento di Cristian e Olivia diventa dunque un monito per i loro colleghi e tutti quei lavoratori che vogliono e possono reagire a questa condizione di doppio ricatto. Non è un caso che Montedomini si sia subito schierata al fianco della Cooperativa Agorà, avallando i licenziamenti. I dirigenti di Montedomini nominati dalla Giunta e i capetti della Cooperativa sanno infatti benissimo che lo sviluppo di una coscienza sindacale e politica tra i lavoratori può essere un potenziale pericolo per i loro giri d’affari.

Noi invece pensiamo che, nonostante la sentenza in primo grado abbia dato ragione ad Agorà, i lavoratori siano nel giusto. Noi pensiamo che quanto successo la sera del 26 dicembre 2014 sia la diretta conseguenza delle politiche di Montedomini e del Comune di Firenze, dei tagli e delle speculazioni costruite sulla pelle dei lavoratori. Che il licenziamento di Cristian e Olivia sia un messaggio rivolto ai loro colleghi – ora in stato di agitazione contro i ritardi nei pagamenti e l’autoritarismo aziendale.

Sappiamo anche , però, che è possibile ribaltare questa sentenza. Oltre a percorrere le vie legali, siamo convinti che quello per cui Olivia e Cristian stanno lottando è nelle corde di ciascuno di noi, dei nostri. Migliori condizioni di lavoro e maggiore qualità del servizio pubblico. Siamo convinti che intorno a questa vicenda si possa e si debba raccogliere la solidarietà di altri lavoratori e di altri utenti.Per questo lanciamo un appello a tutti i lavoratori, agli utenti e alle loro famiglie, alle organizzazioni sindacali, alle realtà politiche di base: aiutateci a diffondere questo messaggio, sosteniamo insieme le iniziative di solidarietà e di lotta dei due lavoratori e dei loro colleghi. Una sconfitta per Cristian e Olivia è una sconfitta per tutti.

Non lasciamoli soli!

SE TOCCANO UNO, TOCCANO TUTTI!ESPRIMI LA TUA SOLIDARIETÀ CONDIVIDENDO QUEST’APPELLO E PARTECIPANDO ANCHE CON UN PICCOLO CONTRIBUTO ALLA RACCOLTA FONDI PER LA COPERTURA DELLE SPESE LEGALI

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Ciò che succede a melfi riguarda tutte. verso un nuovo sciopero delle donne. dalle lavoratrici dell’Aquila



(da slai cobas sc)
Pubblicato il 05/12/2015 di pennatagliente



Quando ha iniziato a lavorare in azienda, A. non aveva un contratto. Glielo hanno fatto dopo qualche mese, dopo averle fatto firmare le dimissioni in bianco.
“Per carità” diceva, “tra tutti i padroni che ho conosciuto, questi non sono certo i peggiori: quando lavoravo in fabbrica ad esempio, il capo mi molestava sessualmente!”
Poi Giorgia è entrata in maternità e il nostro padrone si è limitato a “ironizzare” sulle nostre abitudini sessuali chiedendoci se non fosse necessario dotarci di “mutande di latta”.
Dopo il nostro primo sciopero delle donne sono iniziati i licenziamenti e i tentativi di allontanare anche A. dal posto di lavoro. Ma noi avevamo doppie ragioni e doppia rabbia per lottare e abbiamo vinto.
A 2 anni da quel 25 novembre, io ed A. lavoriamo ancora in quell’azienda e anche se ci hanno separate, un filo rosso ci unisce: quello che A. ha indossato al lavoro anche per questo 25 novembre e che io porterò da L’Aquila a Melfi, tra le operaie in lotta contro le tute bianche e la beffa di Marchionne sul pannolone.
Che siano “mutande di latta” o “culottes”, dimissioni in bianco o molestie sessuali fisiche, il ricatto padronale per le lavoratrici è sempre più intimo e sessista! Non si accontenta di fagocitare la nostra forza lavoro, ma mira a governare la nostra sessualità e affettività, la libertà di scelta delle donne, a gestire la nostra mente e il nostro corpo, il nostro tempo di vita, come fossimo galline in batteria.
L’unico fine è ottenere il massimo profitto con il minimo dispendio di mezzi e per quanto “democratico” il sistema capitalistico si sforzi di apparire, ogni sua azione/decisione passa sempre sul nostro corpo e la nostra anima, come un insulto alla dignità delle lavoratrici, come il rifiuto della nostra felicità, la nostra libertà, la nostra vita.

Ma noi siamo donne proletarie, siamo le masse. Siamo forza lavoro e strumento di riproduzione della forza lavoro. Perciò siamo la leva della storia e le operaie di Melfi, con la loro lotta e la loro denuncia, possono essere il “tallone di Achille” di Marchionne ed essere di esempio ed incoraggiamento per tutte le lavoratrici. Ciò che succede a Melfi non può non avere un valore nazionale, perché parla di dignità delle lavoratrici e della necessità del protagonismo diretto delle operaie, perciò ci riguarda tutte!
Per questo saremo anche noi l’11 dicembre davanti ai cancelli della Fiat-Sata di Melfi, per parlare e preparare insieme alle operaie un nuovo “sciopero delle donne”, che abbia il cuore tra le operaie delle fabbriche e le lavoratrici più sfruttate, oppresse, discriminate; uno sciopero costruito dal basso con le lavoratrici, facendo insieme una piattaforma e costruendo una rete tra i vari posti di lavoro e città.
Le lavoratrici del commercio dello Slai Cobas s.c. (AQ)
L’Aquila 4 dicembre 2015

PS. concluderemo questa marcia a Roma, festeggiando il 20° anniversario del movimento femminista proletario rivoluzionario, che ha promosso il primo, storico sciopero delle donne in Italia.
Invitiamo pertanto tutte le lavoratrici, le donne proletarie, le compagne romane a partecipare, verso la costruzione di un secondo sciopero delle donne.
 
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Moncalieri. Gli operai “trattengono” il manager.
Alla Bienne denunciati in dieci



Dieci operai della Bienne di Moncalieri ( una fabbrica di verniciatura per automobili vicino Torino con 80 dipendenti) sono stati denunciati per sequestro di persona. A gennaio la fabbrica era andata a fuoco e a febbraio era stata chiesta la cassa integrazione straordinaria. Ma la richiesta di "cigs" di febbraio però non è ancora stata autorizzata dal ministero del Lavoro. Nei primi sette mesi di quest’anno le banche avevano anticipato l'indennità, ma a dicembre hanno deciso di cessare i versamenti. La rabbia degli operai è sfociata in una assemblea permanente negli uffici della Bienne. Gli operai sono entrati e si sono chiusi dentro impedendo al capo del personale, secondo le accuse, di uscire. Il titolare dell'azienda ha chiamato i carabinieri, che dopo tre quarti d'ora di trattativa hanno "liberato" il capo del personale e segnalato i dieci lavoratori alla procura con l'accusa di sequestro di persona. La notizia di questa mattina è che è stato firmato il decreto che autorizza la cassa integrazione straordinaria. Lo ha comunicato l’assessore al Lavoro ella Regione Piemonte, Gianna Pentenero, durante l’incontro con gli 80 lavoratori della fabbrica di vernici, da dieci mesi in attesa della cassa integrazione autorizzata dal ministero.

La Bienne è una ditta specializzata in verniciature di componenti per automobili e, nello stabilimento di Moncalieri, lavorano 20 operai con contratto da metalmeccanici e 60 addetti con il contratto gomma plastica.
 
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In pensione ancora più tardi, anche se crollano le "aspettative di vita"

Tra gli auguri di buon anno, non poteva mancare l'arrivo di un altro “scalino” pensionistico. Pubblichiamo qui di seguito l'analisi dettagliata di Davide Grasso, pubblicata nel sito de “Il sindacato è un'altra cosa” (la componente di opposizione interna alla Cgil), che dà conto di tutti i dettagli “tecnici”.

Noi vorremmo però indirizzare l'attenzione dei lettori sulla contraddizione che comincia a diventare palese tra le ragioni addotte per “riformare le pensioni” dai vari governi criminali degli ultimi decenni e la dinamica reale degli andamenti demografici.

Come abbiamo sentito dire per anni, le “riforme” pensionistiche erano scelte obbligate per “adeguare l'età pensionabile alle aspettative di vita”. Formula infame, certamente, ma dall'apparenza innocente. Che c'è di male, in astratto (ma solo in astratto), a far lavorare qualche anno di più una popolazione che vede continuamente allungarsi nel tempo il momento del trapasso?

Le argometazioni a contrasto sono state molte, e tutte serie (dai lavori cosiddetti “usuranti” alle pure constatazioni empiriche: come fa una maestra a fare lezione, o un muratore a camminare sui ponteggi, fino a 67 anni?). Ma non hanno spostato di una virgola i programmi dei governi /dalla “riforma Dini” del 1996 a quella “Boeri” in via di progettazione: tremate!).

Il principio basilare restava infatti quello contabile (se la gente vive più a lungo, “non possiamo pagare pensioni per un numero indefinito di anni”), perché le “aspettative di vita” effettivamente continuavano ad aumentare. E chissenefrega se a un quasi settantenne non si può chiedere la stessa efficienza lavorativa di un cinquantenne (a meno di non svolgere professioni esclusivamente intellettuali: giornalista, professore universitario, parlamentare, ecc).

Le ragioni di quell'aumento sono state più volte analizzate: un orario di lavoro limitato a otto ore, la sicurezza del posto (con tutele contro i licenziamenti, ferie, riposi, diritto a periodi di malattia o maternità, ecc), una sanità pubblica efficiente e semigratuita, un'istruzione altrettanto pubblica e semigratuita (che permetteva il funzionamento dell'”ascensore sociale”, verso mestieri meno stressanti sul piano fisico), e infine un'età pensionabile umana (mediamente intorno ai 57 anni, invece dei 67 che vanno a regime dal 1 gennaio).

Tutte queste condizioni favorevoli all'allungamento della vita sono state cancellate più o meno radicalmente (sanità e istruzione sopravvivono con molte difficoltà, ma l'attacco finale contro di esse non è stato ancora sferrato), e i risultati concreti si cominciano a vedere: nel 2015 ci sono stati 68.000 morti in più rispetto al 2014, + 11,3%.

I cambiamenti nei processi demografici sono in genere molto lenti, a meno di eventi socialmente catastrofici come le guerre. Quindi la percezione che se ne ha a livello di common people è ritardata; ossia, prima ci devono essere i mutamenti e poi ci si rende conto di quanto è ormai avvenuto.

In questo caso, però, abbiamo la possibilità di verificare in tempi abbastanza rapidi quel che sta avvenendo. Quel +11,3% del 2015 è un aumento che non si vedeva dagli anni in cui erano in corso due guerre mondiali anche sul nostro territorio. La stretta operata già ora sulle condizioni di vita e di lavoro della popolazione è insomma tale da produrre gli effetti tipici di una guerra. Ossia un abbassamento delle aspettative di vita.

Se, com'è prevedibile, questo andamento si confermerà anche nei prossimi due-tre anni (con ulteriori accelerazioni), tutti gli elementi che concorrono a produrre l'apposito “indice” subiranno variazioni negative tali da rendere impossibile continuare nella cantilena padronale sull'”adeguamento dell'età pensionabile, ecc”. Resteranno a quel punto solo i brutali criteri contabili: inumani.

Secondo noi non c'è nessuna ragione di attendere che qualche centinaio di migliaia di persone scendano prematuramente nella tomba per cominciarsi ad incazzare. Si puà fare anche subito. Esempi e numeri non mancano. Basta smettere di attendere che le cose migliorino per volontà divina. Come si è visto in questi anni, ogni messaggio “ottimistico” sparso da governo e media è solo oppio per invitare alla calma ed avere “fiducia”.

Quel tempo è durato anche troppo e deve finire. Altrimenti ne va della nostra vita... (qualsiasi età abbiate, lettori!)

*****

Pensioni, scatta la stretta. Così si andrà in pensione nel 2016

Davide Grasso

Con lo slittamento del capitolo sulla flessibilità in uscita dal 1° gennaio del prossimo anno si dovrà lavorare 4 mesi in più. Per le donne l’incremento sarà di quasi di due anni.
Con il rinvio della flessibilità in uscita dal prossimo anno si dovrà lavorare di più. Ben 4 mesi in più, a causa dell’aspettativa di vita. E dal 2019 si dovrà mettere in conto un ulteriore scatto che attualmente, secondo lo scenario demografico dell’Istat, sarà di nuovo pari a 4 o 5 mesi. Poche le novità contenute nella legge di stabilità che in realtà rispondono più che altro a questioni emergenziali piuttosto che ad un disegno organico di revisione della Legge Fornero da molti richiesto. Vediamo dunque di riassumere i cambiamenti in arrivo dal 1° gennaio 2016.
P. Anticipata. Dal prossimo anno, e sino al 2018, i requisiti contributi per la pensione anticipata salgono a 42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e a 41 anni e 10 mesi di contributi per donne pari, rispettivamente, a 2227 settimane e a 2175 settimane di versamenti (per coloro che hanno la contribuzione espressa in settimane). Si potrà continuare ad uscire indipendentemente dall’età anagrafica, cioè anche prima dei 62 anni, senza incorrere nella penalizzazione dato che, grazie alla legge 190/2014, è stata congelata sino al 2017.
Vecchiaia. Per la pensione di vecchiaia, fermo restando il minimo di 20 anni di contributi (15 anni per i lavoratori cd. quindicenni), i requisiti restano differenti per le donne del settore privato rispetto agli uomini e alle donne del settore pubblico. Gli uomini, dipendenti o lavoratori autonomi, dovranno raggiungere i 66 anni e 7 mesi di età. Lo stesso requisito è fissato per le donne del pubblico impiego. Per le lavoratrici del settore privato l’aumento sarà piu’ elevato in quanto l’effetto della speranza di vita si cumula con il graduale innalzamento dell’età per la vecchiaia che, entro il 2018, dovrà assicurare la totale parificazione con i requisiti vigenti per gli uomini. Per le dipendenti del settore privato serviranno quindi 65 anni e 7 mesi (contro i 63 anni e 9 mesi attuali), per le autonome 66 anni e un mese (contro i 64 anni e 9 mesi attuali).
L’unica novità è per le donne che vedranno allungarsi di un anno la possibilità di accesso all’opzione donna: con la legge di stabilità 2016 il Governo consentirà a quelle lavoratrici che hanno raggiunto i 57 anni e 3 mesi di età (58 anni e 3 mesi le autonome) entro il 31 dicembre 2015 di optare per la pensione contributiva anche se la decorrenza del trattamento avverrà successivamente al 2015 (restano infatti in vigore per questa forma di pensionamento le finestre mobili di 12 o 18 mesi). Ma a parte questa novità che potrà interessare alcune migliaia di lavoratrici il canale di uscita si chiuderà comunque il 31 dicembre 2015 salvo residuino risorse per una proroga del regime. C’è poi la settima salvaguardia anch’essa prevista con la legge di stabilità che consentirà a 26.300 lavoratori di prepensionarsi rispetto alle regole Fornero.


Usuranti. Novità anche per i lavori usuranti. Com’è noto nei loro confronti si applica ancora il previgente sistema delle quote di cui alla Tabella B allegata alla legge 23 agosto 2004, n. 243. Ebbene dal 2016 dovranno perfezionare 61 anni e 7 mesi di età anagrafica con il contestuale raggiungimento del quorum 97,6 con un minimo di 35 anni di contributi. Anche se per la liquidazione del primo rateo dovranno attendere sempre uno slittamento di 12 mesi per via delle cd. finestre mobili. Va peggio per i notturni con un numero di notti lavorate inferiore a 77 anni: dovranno perfezionare 62 anni e 7 mesi di età unitamente ad un quorum pari a 98,6; mentre se il numero di notti lavorate è invece ricompreso tra 64 e 71 il requisito da raggiungere diventa 63 anni e 7 mesi ed il quorum passa a quota 99,6.
Lo slittamento di 4 mesi influenzerà anche la data di ingresso alla pensione per il comparto difesa e sicurezza e per i comparti per i quali sono attualmente previsti requisiti previdenziali diversi da quelli vigenti nell’AGO, appena esposti (si pensi ad esempio agli ex-enpals e agli autoferrotranvieri). Naturalmente sono soggetti agli adeguamenti anche i lavoratori cd. salvaguardati che, sempre con la legge di stabilita’ guadagnano la settima salvaguardia in favore di altri 26.300 soggetti, ma in tal caso la normativa da prendere a riferimento, sulla quale applicare i 4 mesi di slittamento, sarà quella ante-fornero. Anche il requisito anagrafico per conseguire l’assegno sociale slitterà da 65 anni e 3 mesi a 65 anni e 7 mesi.
 
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Un esempio di come i padroni usano la criminale legge sui lavori


Pubblicato il 30/12/2015 di pennatagliente
Quest’oggi voglio rendere pubblica una storia che mi è stata raccontata sulla corriera il ventitre dicembre scorso: lo faccio – cambiando soltanto i nomi dei protagonisti della vicenda, e non citando la zona dove essa avviene, per tutelarli – perché il Presuntuoso Toscano ha appena rilasciato la conferenza stampa di fine anno, durante la quale ha magnificato i risultati ottenuti dalle sue controriforme, ed in particolare dalla Legge sui Lavori (Jobs Act).

A metà circa del percorso sale a bordo Franco: mi riconosce immediatamente e, dopo pochi minuti di tragitto comune, decide di rendermi edotto circa la storia di suo cugino Luigi, operaio presso una delle tante fabbriche che sorgono nella zona.

Questi, essendo stato assunto in pianta stabile ormai da diversi anni, riceveva un trattamento economico dignitoso: 1.400,00 Euro al mese, per quattordici mensilità, con annesse tutte le garanzie previste dall’articolo 18 della Legge 20 maggio 1970 numero 300, meglio conosciuta come Statuto dei Lavoratori.

Subito dopo l’approvazione della schifosa norma voluta dal Bischero Fiorentino, Luigi è stato chiamato dalla direzione dell’azienda; per evitare l’allontanamento definitivo dal posto di lavoro, per motivi economici, il lavoratore avrebbe dovuto accettare di essere licenziato, per essere immediatamente riassunto alle condizioni sopraggiunte: stipendio ridotto a 900,00 Euro, e azzeramento delle tutele di cui precedentemente godeva.

Franco mi fa notare come, molte delle tanto strombazzate “nuove assunzioni” sono state fatte in questo modo a dir poco truffaldino: se ve ne fosse stato bisogno, ecco un motivo in più per impegnarsi a fondo onde far saltare – anche attraverso lo strumento del referendum previsto per l’autunno del 2016 – quella serie di controriforme che ha sensibilmente peggiorato la qualità della vita dei lavoratori e delle famiglie.
 
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Lo schiavismo capitalista in una fabbrica tessile in cambogia, per il profitto dei padroni schiave di nove anni sfruttate dal colosso svedese dell’abbigliamento h&m

(da slai cobas sc)
Pubblicato il 17/01/2016 di pennatagliente
Lavoro forzato

Cosa si cela dietro i vestiti di H&M? La blogger 17enne svela il segreto
Si chiama Sweat Shop, ed è un docu-reality realizzato dal quotidiano norvegese Aftenposten nato per raccontare come e dove vengono prodotti gli abiti venduti da una delle più grandi catene di negozi di abbigliamento “low cost”, il colosso svedese H&M.

Lavoratori in una azienda cambogiana. (Human Rights Watch)
Tre giovani fashion blogger norvegesi sono state inviate in Cambogia – uno dei paesi dove l’azienda produce la maggior parte dei capi – e per un mese hanno vissuto a stretto contatto con i lavoratori dei laboratori tessili dove vengono realizzati gli abiti, vivendo nelle loro stesse condizioni, tra alloggi fatiscenti e turni di lavoro massacranti. Lo scopo dell’iniziativa di Aftenposten era quello di raccontare ai giovani norvegesi da dove viene la maggior parte dei vestiti che indossano ogni giorno, prodotti nei laboratori tessili dei paesi in via di sviluppo, diventati ormai da decenni “terreno di conquista” per i grandi brand della moda che delocalizzano la produzione dei capi di abbigliamento nei paesi del sud-est asiatico, dove milioni di persone lavorano anche per 16-18 ore al giorno con uno stipendio molto al di sotto di quello che considereremmo “salario minimo”, in condizioni igienico-sanitarie spesso molto precarie e senza tutela alcuna.

Eppure, il pesante velo di omertà che copre questo scenario non si squarcia nemmeno grazie al lavoro dei tre blogger norvegesi di Sweat Shop cui è stato chiesto, o per meglio dire imposto, di non raccontare parte di ciò che avevano visto e vissuto durante la loro esperienza nei laboratori tessili della Cambogia. Per questo motivo, la giovanissima Anniken Jørgensen, una delle tre blogger che ha partecipato al reality, ha deciso di raccontare la verità, intraprendendo da sola una campagna per far sapere al mondo le reali condizioni dei lavoratori tessili cambogiani e fare in modo che la propria esperienza non restasse solo “un pugno di video” pubblicati sul web

Nonostante la giovanissima età, Anniken ha 17 anni, la ragazza ha cominciato a fare i nomi delle aziende coinvolte nello sfruttamento degli operai, in particolare H&M, raccontando sul proprio blog la realtà dei fatti, accuratamente censurata anche dallo stesso Aftenposten. Per mesi, nonostante le obiezioni dei tre blogger, il quotidiano sarebbe riuscito a mantenere il silenzio, fino a un paio di mesi fa, quando Anniken non ha deciso di parlare “da sola” dopo aver compreso che nessuno sarebbe stato disposto ad ascoltare la sua storia: “È incredibilmente frustrante che una grande catena di abbigliamento abbia così tanto potere da spaventare e condizionare il più importante quotidiano della Norvegia. Non c’è da meravigliarsi: il mondo è così. Ho sempre pensato che nel mio paese ci fosse libertà di espressione. Mi sbagliavo”.

E così, grazie al tam tam del web, la denuncia di Anniken ha cominciato a prendere il largo, diventando virale insieme alla sua iniziativa di boicottare H&M e i suoi abiti. Fino al punto che la stessa azienda ha chiesto di poterla incontrare nella sede principale di Stoccolma annunciando, nello stesso tempo, di aver preso provvedimenti nei confronti dei laboratori tessili a cui commissiona la realizzazione degli abiti, affinché si impegnassero a migliorare le condizioni di vita dei propri operai. In diverse occasioni Anniken ha sottolineato che quel viaggio in Cambogia ha cambiato per sempre la sua vita e che mai potrà dimenticare le condizioni di lavoro di quegli operai. In particolare, la giovane racconta dell’incontro con una ragazza diciottenne, che ha iniziato a lavorare quando aveva appena nove anni.
 
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view post Posted on 6/2/2016, 14:06

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Il licenziamento del professore perché fece pipì in un cespuglio



La scure della giustizia, che troppe volte aveva graziato bancarottieri, ladri, trafficanti di droga e truffatori, s’è finalmente abbattuta. Implacabile. E ha mozzato la testa a un professore padre di tre figli che undici anni fa, alle due di notte, in un borgo di poche anime, aveva fatto pipì in un cespuglio. Licenziato in tronco. Vi chiederete: è uno scherzo? Magari! Il protagonista di questa storia (meglio: la vittima di questa giustizia ottusamente ingiusta) si chiama Stefano Rho ed è nato 43 anni fa a Lacor, in Uganda, dove il padre e la madre facevano i medici volontari per quella straordinaria organizzazione che è il Cuamm-Medici con l’Africa. Anzi, loro stessi avevano messo su un piccolo ospedale dopo essersi sposati e aver chiesto agli amici, nella «lista nozze», il dono di «22 letti per adulti, 9 lettini per bambini, culle per neonati, lenzuola, elettrocardiografo, microscopio, lettino operatorio...».
continua qui http://www.corriere.it/cronache/16_febbrai...67fb53351.shtml

Però se licenziano la mia prof perchè trovata a fare pipì in un cespuglio non mi dispiace! -_-
 
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view post Posted on 9/2/2016, 15:39

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Senza lavoro, coppia si uccide con il gas dell'auto


Operaio di 39 anni e la compagna di 45 anni, casalinga, residenti a Guastalla, sono stati trovati nell'auto a San Matteo delle Chiaviche (Mantova) nel cortile di un cascinale. Il sindaco: "Vennero per cercare lavoro"

GUASTALLA. L'uomo e la donna trovati morti in un'auto a Viadana, nel Mantovano, erano entrambi quarantenni, abitavano a Guastalla ed erano conviventi. Secondo un comunicato dei carabinieri della compagnia di
Viadana, i due si sono suicidati convogliando all'interno dell'abitacolo il gas di scarico della vettura.
I due, sempre secondo i carabinieri, sarebbero stati affetti da «uno stato depressivo non diagnosticato» dovuto probabilmente alla perdita del lavoro da parte dell'uomo. L'auto con i due cadaveri è stata trovato in via Fossola, nel cortile di un condominio . Il motore era accesso e l'abitacolo chiuso a chiave dall'interno. A Guastalla la notizia ha suscitato viva impressione.

IL SINDACO: "VENNERO A CERCARE LAVORO" «Erano venuti da me un anno fa circa. Poi non li ho più visti. Lamentavano un solo problema: la mancanza di lavoro». È il ricordo del sindaco di Guastalla, Camilla Verona, della coppia che si è suicidata nel Mantovano. Una coppia senza altri problemi che non la mancanza di lavoro, all'apparenza affiatata.
«Li indirizzai al centro per l'impiego, consigliai anche di sentire i nostri servizi, che hanno una rete». Poi, per tutti questi mesi, la coppia non ha più chiesto aiuto. E visto che lui era un uomo con competenze professionali («informatiche direi») il sindaco aveva ritenuto possibile che i problemi si fossero risolti. «
Mi avevano raccontato che anche lei in passato aveva avuto un lavoro, poi l'aveva perso. Ma di recente cercavano un impiego prevalentemente
per lui». La donna aveva una figlia da un precedente matrimonio. Il sindaco non sa dire se ci sia stato un episodio scatenante della tragica decisione. «Debiti? non so. Certo in un anno potrebbero essersene accumulati. Ma siamo alle voci di paese».

http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/...?ref=hfrereea-1
 
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view post Posted on 19/5/2016, 14:01

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La teorizzazione della paura tra i dipendenti.
Sale in cattedra il Prof. Starace (Enel)


"Questo avviene oggi. Nel 2016, in pieno regime cosiddetto democratico. È il regime della paura e del terrorismo. E quello aziendale è molto più diffuso, prossimo e pervasivo di quello dell’Isis…"


Alla domanda di uno studente sulle migliori metodologie per guidare un’azienda, Starace, attuale amministratore delegato dell'Enel, ha risposto senza troppi giri di parole. “Per cambiare un’organizzazione ci vuole un gruppo sufficiente di persone convinte di questo cambiamento, non è necessario sia la maggioranza, basta un manipolo di cambiatori. Poi vanno individuati i gangli di controllo dell’organizzazione che si vuole cambiare e bisogna distruggere fisicamente questi centri di potere. Per farlo, ci vogliono i cambiatori che vanno infilati lì dentro, dando ad essi una visibilità sproporzionata rispetto al loro status aziendale, creando quindi malessere all’interno dell’organizzazione dei gangli che si vuole distruggere. Appena questo malessere diventa sufficientemente manifesto, si colpiscono le persone opposte al cambiamento, e la cosa va fatta nella maniera più plateale e manifesta possibile, sicché da ispirare paura o esempi positivi nel resto dell’organizzazione. Questa cosa va fatta in fretta, con decisione e senza nessuna requie, e dopo pochi mesi l’organizzazione capisce perchè alla gente non piace soffrire. Quando capiscono che la strada è un’altra, tutto sommato si convincono miracolosamente e vanno tutti lì. È facile”.

Rispetto alle indegne dichiarazioni di Starace, vi riportiamo di seguito parte dell'ottimo commento di Dante Barontini su Contropiano:

Queste lezioni di governance possono essere applicate a qualsiasi organizzazione (somiglia abbastanza bene all’irruzione del manipolo renziano nelle istituzioni e nel dispositivo costituzionale) e certo costituiscono da sempre l’abc del bravo capitalista tutto d’un pezzo (oltre 130 anni fa il costruttore di ferrovie Jay Gould diceva, più brutalmente, “Posso assumere metà dei lavoratori perché uccidano l’altra metà”). Ma sentirle pronunciare così, senza alcun imbarazzo, davanti a una platea di studenti – per quanto “predestinati” a eseguire quegli insegnamenti – in una università, fa abbastanza senso.
[...]
Mettere paura è il primo comandamento di qualsiasi manuale di strategia militare, almeno a far data da Sun Tsu. Ma è anche il primo comandamento dell’impresa, in qualsiasi parte del mondo. Se e quando il sistema delle imprese ha accettato qualche livello di mediazione, di contrattazione sistematica, è avvenuto solo in presenza di un movimento operaio altrettanto forte, coeso, pronto alla battaglia in modo organizzato e compatto.

La governance aziendale è insomma costitutivamente violenta, bellica e senza regole (se non si è costretti a subirne). Non ha bisogno di ricorrere sistematicamente alle bastonate fisiche, se le è possibile raggiungere l’obiettivo manovrando esclusivamente sul fronte contrattuale, magari con la complicità di qualche sindacato di regime, o col mobbing e le minacce di licenziamento. Ma – come si è visto in alcuni casi, specie nella logistica o nella grande distribuzione – l’impresa non si tira certo indietro anche dal ricorso alla violenza fisica (guardioni e crumiri con le mazze, se non interviene prima la polizia; gomme delle auto squarciate, minacce anonime o palesi, ecc).

Questo avviene oggi. Nel 2016, in pieno regime cosiddetto democratico. È il regime della paura e del terrorismo. E quello aziendale è molto più diffuso, prossimo e pervasivo di quello dell’Isis…

www.lantidiplomatico.it/dettnews.php?idx=82&pg=15728
 
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view post Posted on 31/7/2016, 11:03

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sempre sulla pelle dei lavoratori


Pubblicato il 31/07/2016 di pennatagliente

Quando ripartì, all’alba del terzo millennio, l’insensato progetto del Terzo Valico ferroviario dei Giovi, le istituzioni assicurarono che, per le diverse fasi di costruzione dell’opera, sarebbe stata usata un congrua percentuale di lavoratori provenienti dalle zone interessate all’opera.

E’ vero che, fino a questo momento, tale promessa è risultata disattesa quasi totalmente, ma in parte qualche azienda che insiste sul territorio è stata coinvolta, attraverso la concessione di subappalti.

E’ il caso della storica fabbrica di cemento denominata Cementir, di proprietà del gruppo Caltagitone, presente nel Comune di Arquata Scrivia (Al), ubicata a pochi metri dalla strada che porta al cantiere di località Radimero.

Detta azienda – finita più volte, negli anni, sotto accusa della Magistratura per le proprie emissioni fortemente fuori norma – ha vinto un’importante fornitura di calcestruzzo per i cantieri, per un valore di circa cinquanta milioni di euro.

Sembrerebbe che le cose vadano a gonfie vele, per la società di proprietà del suocero di Pierfurby Casini: per questo si fatica a comprendere perché, nonostante questo ‘bel colpo’, la direzione abbia confermato venti licenziamenti nella propria forza lavoro.

Se è chi scrive a non arrivare a capire certe sottigliezze, nella strategia aziendale, non cambia tutto sommato molto: il discorso è diverso se a lamentarsi per il comportamento della Cementir è una istituzione come la Regione Piemonte.

L’assessore al Lavoro, la sedicente democratica – legata all’ala liberaldemocratica guidata da Fra Pierluigi da Bettola – Gianna Pentenero, giudica inamissibile l’annuncio di sovrappiù di dipendenti, a fronte dell’assicurazione, da parte dell’azienda, che con la commessa Cociv avrebbe potuto mantenere inalterata la propria forza lavoro.

Ancora una volta viene dimostrato che l’unica cosa che interessa i padroni è fare profitti, utilizzando il minimo di manodopera possibile: così si gonfia a dismisura la quantità di denaro che il padrone incassa, e contemporaneamente si può continuare a giocare sulla pelle dei proletari.
 
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Max86
view post Posted on 6/8/2016, 21:46




bello tutto molto bello,come i "cavalieri del lavoro"
pieni di miliardi
con migliaia di persone che lavorano per loro,con contratti di cacca,e stipendi da fame,legalizzati sempre dai contratti di cacca :asd:
e loro vengono definiti sono "cavalieri del lavoro"
mi viene solo da bestemmiare
 
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view post Posted on 8/8/2016, 09:29

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Ben tornato Max e condivido tutto!
 
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view post Posted on 27/8/2016, 11:15

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Foggia, centinaia di braccianti bloccano la Princes contro lo sfruttamento nelle campagne



importante giornata di mobilitazione quella di oggi a Foggia sulle condizioni di lavoro di migliaia e migliaia di braccianti del Meridione del nostro paese, occupati nelle campagne nel campo della raccolta dei pomodori.

L'ha promossa e ne dà notizia sulle reti sociali il Comitato dei Lavoratori delle Campagne, che racconta dei tre blocchi davanti ai cancelli della Princes, azienda foggiana che ha subito un forte stop alle operazioni di produzione e trasporto degli ortaggi.

Uno sciopero e un'azione di lotta messa in campo dai braccianti del luogo, stanchi di dover sottostare alle molteplici forme di ricatto e di sfruttamento che subiscono ogni giorno. L'azione ha coinvolto circa trecento lavoratori.

Centinaia di camion in tutta la provincia di Foggia sono stati bloccati mentre cercavano di raggiungere la Princes, mossa che ha inflitto un duro colpo ai profitti basati sullo sfruttamento che caratterizzano la filiera produttiva in questione.

Il blocco è finalizzato all'ottenimento dell'apertura di due tavoli con le istituzioni, di cui uno che affronti il tema delle condizioni di lavoro nelle campagne e l'altro che si misuri su questioni come quella del permesso di soggiorno, ovvero del dispositivo principe del mantenimento in catene dei lavoratori.

Un sistema basato sull'intreccio tra disposizioni legali e malavita organizzata, come già segnalato qualche giorno fa durante l'azione di contestazione al ministro Orlando in visita alla prefettura foggiana. Non servono tendopoli o leggi che si preoccupano di mettere un velo di legalità su un sistema strutturalmente mafioso, ma la regolarizzazione dei lavoratori e un'azione concreta sulle loro condizioni di lavoro.
 
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view post Posted on 5/9/2016, 18:23

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Ripartiamo dalle fabbriche. fca mirafiori torino:
ripartire dall’organizzazione di classe in fabbrica



(da slai cobas sc)
Pubblicato il 03/09/2016 di pennatagliente

Tornare al lavoro, con i contratti di solidarietà incorporati, per il massimo sfruttamento e flessibilità al servizio del profitto

Questa volta a Mirafiori tornano al lavoro tutti gli operai della Carrozzeria. Se finora il rientro in fabbrica, per quanto limitato a pochi giorni al mese, era una questione che riguardava circa un terzo dei dipendenti, ora invece tutti quanti valicheranno i cancelli e si rimetteranno la tuta blu (che nel frattempo è diventata grigio-perla). Fca e i sindacati hanno siglato un contratto di solidarietà che consentirà a 2.369 lavoratori di rientrare, anche se a orario abbreviato. La riduzione è infatti in media del 55 per cento, ma l’azienda dovrà comunque garantire un minimo del 30 per cento di ore lavorate a ciascun dipendente.

Che il Lingotto volesse scegliere questo strumento era già nell’aria da qualche tempo. Il contratto di solidarietà non è infatti una novità nell’universo italiano di Fiat-Chrysler. A febbraio era stato utilizzato già per la Pcma di San Benigno, fabbrica della Magneti Marelli specializzata nella fornitura di componenti e colpita da un grave calo di commesse, mentre a marzo lo stesso tipo di ammortizzatore sociale era stato applicato pure alla New Holland di San Mauro, che produce escavatori nel gruppo Cnhi.

Ora Fca replica la mossa sulle Carrozzerie, anche se solo su una parte dell’organico. La misura non riguarda infatti i 1.503 addetti che si occupano di costruire la Maserati Levante, che invece continueranno a lavorare a tempo pieno. Gli altri 2.369 invece saranno in fabbrica a singhiozzo, ma a differenza del passato rientreranno tutti, anche i cassintegrati storici che non vedono la linea di montaggio da anni. Tra loro ci sono pure alcune centinaia di inidonei, più o meno gravi. Operai che a causa del logorio dei carichi di lavoro del passato non sono più in grado di svolgere tutte le mansioni. Per loro è stato creato già da tempo un mini reparto, che si occupa di allestire le cassette degli attrezzi e i componenti per agevolare le operazioni degli altri.
Dietro la scelta, però, non ci sono solo buone notizie: «I contratti di solidarietà sono un fatto positivo chi da anni è in cassa a zero ore, ma indicano anche che la crisi non è finita e che sarà importante capire quale altro investimento seguirà il Levante», riflette Federico Bellono della Fiom-Cgil. Lo strumento serve infatti per gestire in via temporanea un esubero di 1.303 lavoratori, che dunque non sarebbero più utili in base all’attuale mole di lavoro assegnata alle Carrozzerie.
La Fiom critica il fatto che la solidarietà valga solo per un terzo del reparto: «Chiediamo che con l’assestamento della produzione del Levante e un allargamento della formazione, si possa coinvolgere tutta la fabbrica, per evitare che i sacrifici ricadano solo su una parte dei lavoratori», dice Bellono. Anche dalla Uilm-Uil parte un messaggio simile: «Serve un alto grado di attenzione sulla gestione dello strumento. Bisogna creare le condizioni per garantire la continuità operativa a tutti i lavoratori», commenta il segretario provinciale Dario Basso.
Perché Fca ha puntato sulla solidarietà e non sulla cassa integrazione? Da un lato perché la “cig” non può essere chiesta all’infinito e le Carrozzerie non sono lontane dal limite massimo previsto dalle norme. Dall’altro le nuove regole hanno reso la tradizionale cassa meno conveniente di un tempo e, al contrario, il contratto di solidarietà ha pià agevolazioni di prima.
In generale, per le tute blu è meglio così perché possono lavorare meno e lavorare tutti: «Chi non è impiegato sul Levante svolgerà nelle giornate lavorative, per circa 6-7 giorni al mese, attività formative o produttive anche per settori esterni alle Carrozzerie», spiega il leader della Fim-Cisl, Claudio Chiarle. Ora, aggiunge, «abbiamo la necessità che il secondo modello su Mirafiori si metta in moto per garantire il lavoro a pieno regime per tutti».
 
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view post Posted on 8/9/2016, 13:42

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Fincantieri palermo: si può andare avanti così? tra infinita cassa integrazione e richiesta di ristrutturazione dei bacini…
(da slai cobas sc)

Pubblicato il 08/09/2016 di pennatagliente

È ricominciata così com’era finita la stagione delle richieste inutili alla Regione (mai alla Fincantieri) di ristrutturare i bacini galleggianti oramai fuori uso e che impediscono non tanto di lavoricchiare ma di considerare lo stabilimento di Palermo come ancora pienamente efficiente ed affidabile. Un’azione seria serve soprattutto per non dare spazio alle chiacchiere dei dirigenti nazionali dell’azienda che prendono scuse su scuse per non portare mai a Palermo commesse di costruzione di intere navi! Se gli operai della Fincantieri vanno a turno in cassa integrazione, ancora peggio sono messi tutti quelli dell’indotto che rischiano costantemente il licenziamento…

Le RSU hanno ripreso le solite lamentele, per adesso sul servizio mensa che gli operai non considerano soddisfacente.

Non agire in maniera forte per dare una svolta a questa situazione allucinante significa di fatto lasciare nelle mani della “controparte”, dei dirigenti della Fincantieri, le decisioni sul presente e sul futuro dello stabilimento e degli operai. Non basta più, oramai da tempo, la vecchia “minaccia” di iniziative e scioperi se da un lato le decisioni importanti si sono lasciano nelle mani degli altri, delle istituzioni mentre dall’altro lato i padroni hanno imparato da tempo a valutare i rapporti di forza!



Gli operai, se vogliono riprendere la lotta, sono costretti a liberarsi dei vecchi vincoli di ogni tipo, sindacali e aziendali!

***

Fincantieri. Le due strutture sono abbandonate e la loro condizione limita lo sviluppo dello stabilimento. In una lettera chiesto l’affidamento alle imprese dell’indotto

Bacini di carenaggio, appello alla Regione per ristrutturarli

Bacini di carenaggio a perdere. Le due infrastrutture galleggianti da 19 e 52 mila tonnellate all’interno del Cantiere navale, da tempo inagibili, rimangono sotto il sole a marcire.

Una fine segnata ma con un futuro ancora da scrivere, perché almeno il 52mila tonnellate potrebbe essere trasformato in un bacino moderno e di stazza maggiore, mentre per il 19 mila tonnellate si son
fatti avanti le piccole e medie imprese metalmeccaniche e gli operatori marittimi, cioè l’indotto Fincantieri, che hanno chiesto al presidente della Regione la ristrutturazione e l’affidamento del bacino.

Come hanno più volte denunciato i sindacati, il nodo delle infrastrutture, soprattutto la mancata costruzione di un nuovo bacino galleggiante, sta limitando lo sviluppo dello stabilimento palermitano. Ma questo nodo, adesso, rischia di strangolare il Cantiere, in un periodo in cui le commesse di lavoro arrivano con il contagocce. A soffrire oltre le tute blu di Fincantieri, sono soprattutto le cooperative storiche e le imprese dell’indotto che sviluppano l’attività in simbiosi con quella dello stabilimento e occupano oltre duemila lavoratori.

Le imprese vorrebbero rendere produttivo il bacino da 19mila tonnellate sfruttando la domanda inevasa di riparazioni e costruzioni navali di medio e piccolo tonnellaggio che oggi, secondo or, finisce nei cantieri fuori dalla Sicilia. l’obiettivo è quello di riunirsi in consorzio.

La lettera inviata a Crocetta riporta in calce una trentina di firme. “Chiediamo alla Regione, proprietaria del bacino da 19mila tonnellate – scrivono gli imprenditori – che lo stesso venga ristrutturato e messo in condizione di potere operare. Successivamente, che venga affidato alle imprese dell’indotto, che rappresentano una realtà viva e attiva capace di attrarre commesse e di essere competitive sul mercato mediterraneo e mondiale”.

Affidare il bacino potrebbe significare per la Regione mettere a reddito una struttura che da molti anni è un peso morto. Ma tutto ciò dovrà andare di pari passo con gli altri interventi che il governo crocetta dovrebbe varare ma che al momento rimangono solo carta sul tavolo della giunta.

Da tre mesi infatti il governo avrebbe dovuto discutere il progetto preliminare e più dare il via libera agli uffici tecnici per predisporre quello esecutivo e gli atti di gara sui lavori di trasformazione del vecchio bacino da 52 mila tonnellate in uno più grande da 90mila. Si tratta della strada più breve, visto che non è possibile percorrere quella del progetto di finanza. I soldi sono disponibili, circa 50 milioni, ma la giunta ancor nicchia.

L’intenzione è quella di passare da una geometria rettangolare, con dimensioni di 54,60 x 285 metri, ad una, sempre rettangolare, di 118,20 x 166,25 metri, aumentando così la capacità complessiva da 52mila a 80/90mila tonnellate.

La nuova configurazione consentirebbe di ospitare la manutenzione di quasi tutte le piattaforme offshore operanti nel mondo.

Sotto il profilo amministrativo l’attività è configurabile come “Servizio di manutenzione straordinaria”, poiché si riutilizzano integralmente i singoli componenti dell’originario bacino ed anche i materiali ricavati non più utilizzati.

GdS 4/9/16
 
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