Comunismo - Scintilla Rossa

Posts written by Khleb

view post Posted: 11/8/2020, 18:59 Rizzo, l’ultimo comunista - Bar Toto Cutugno
Circo mediatico. Rizzo scandalizza il salotto borghese con questo tweet e finisce pure sul messaggero:

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https://www.ilmessaggero.it/politica/furbe...ws-5397184.html
view post Posted: 10/8/2020, 09:12 L'uscita dall'Unione Europea e il socialismo - Documenti e Dossier

LA COLLOCAZIONE DELL’USCITA DALL’UE NELLA STRATEGIA PER IL SOCIALISMO



La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.

Le varie posizioni sull’uscita dalla Ue e dall’euro

In questo contesto, caratterizzato da un crollo del Pil nella zona euro e in Italia, che ha paragoni solo con il periodo degli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, si è, quindi, riaccesa la discussione sull’uscita dall’euro che, del resto, è stato un tema abbastanza dibattuto negli ultimi anni. Purtroppo, tale discussione tende a polarizzarsi in due posizioni estreme. La prima, e più diffusa all’interno della sinistra, anche radicale, è quella secondo cui l’uscita dall’euro sarebbe da rigettare. Sulle ragioni di questo rigetto c’è una certa differenziazione. Alcuni ritengono che uscire dall’euro sarebbe antistorico, comportando il ritorno allo Stato nazione, e quindi prospettano la necessità di una lotta internazionale per la modifica della Ue. Altri, pur riconoscendo immodificabile l’Ue, ritengono che il vero problema sia il capitalismo, e che l’uscita dall’Ue ci riporterebbe nelle braccia dello Stato nazione, che ha, comunque, un preciso carattere di classe, dando al contempo nuova vitalità agli imperialismi nazionali. La seconda posizione è, invece, caratterizzata da chi, non solo mette al centro di tutto la questione dell’uscita dall’euro, ma pensa che, di per sé, l’uscita dalla Ue risolverebbe tutti i problemi delle classi subalterne, favorendo il ritorno al dettato costituzionale. Spesso questa posizione vede l’Italia come una specie di colonia e la sua classe dirigente asservita agli interessi nazionali stranieri, nella fattispecie a quelli tedeschi, sfociando nell’interclassismo e puntando così, di conseguenza, a mettere insieme un blocco sociale eterogeno composto anche da settori del capitale, presunti anti-euro.

italexit

Per quanto riguarda la prima posizione, pensare che si possa modificare la Ue è irrealistico, in quanto i trattati che regolano il funzionamento dell’Ue sono modificabili solo all’unanimità. Inoltre, si è visto molto chiaramente nell’ultimo decennio che la crisi dell’integrazione europea non ha certo favorito la crescita di lotte internazionali per la sua modificazione, bensì, semmai, ha approfondito, insieme ai divari tra le nazioni, anche le contraddizioni all’interno e tra le frazioni nazionali del proletariato europeo, con l’aumento, ad esempio, della xenofobia e del nazionalismo a livello popolare. Sempre all’interno della prima posizione, chi, invece, pensa che il problema è il capitalismo e non la Ue si condanna all’irrilevanza politica, perché rimane su una posizione astrattamente teorica che non tiene conto dei rapporti economici e politici reali, cioè della situazione concreta. Infatti, oggi il capitalismo europeo ha nella Ue e nell’euro un elemento costitutivo decisivo. Un errore speculare, anche se di segno opposto, viene commesso anche da chi ritiene che basti uscire dall’euro per risolvere tutti i problemi. In questo caso, si dimentica la questione dei rapporti di forza e soprattutto la natura non neutrale dello Stato, dando quasi per scontato che fuori dalla Ue e dall’euro si possano svolgere politiche antiliberiste.

Ue come strumento di governabilità del capitale monopolistico

Si tratta di un errore speculare perché entrambe le posizioni nascono da una concezione parziale e non materialistica dello Stato. Lo Stato è non solo lo strumento della classe economicamente dominante ma anche il luogo della mediazione tra le classi sociali e la forma che lo Stato assume è la cristallizzazione di questi rapporti di forza.
Ciò è ben visibile negli Stati che sono usciti dalla Seconda guerra mondiale, dove, pur all’interno di un contesto capitalistico, i rapporti di forza si erano modificati a favore della classe lavoratrice, che ha continuato a fare passi in avanti per alcuni decenni grazie a una serie continua di lotte sul cui esito positivo non fu estranea l’esistenza della competizione tra Paesi imperialisti e Urss. È stato a partire dagli anni ’80 e ’90 che i rapporti di forza tra le classi hanno cominciato e continuano a modificarsi a sfavore della classe lavoratrice. Tali modificazioni hanno avuto un riflesso anche nello Stato, e nel modo di funzionare delle sue istituzioni.

L’elemento su cui dobbiamo soffermarci è che tale modificazione è avvenuta, specialmente ma non solamente in Italia, grazie all’integrazione europea. Significative sono le parole di Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e una delle figure più importanti dei capitalismo italiano tra gli anni ’60 e la i primi ‘90: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento.” Fu a metà degli anni ’70, contemporaneamente alla riproposizione della crisi da sovrapproduzione di capitale, che il capitale europeo cominciò a pensare al concetto di governabilità, cioè a come ridare forza agli esecutivi, cioè ai governi, a detrimento dei legislativi, cioè dei parlamenti, che in qualche modo rappresentavano le spinte che venivano dalla società. Il tema della governabilità fu al centro dell’incontro a Tokio nel 1975 della Trilaterale, una organizzazione che mette insieme l’élite del capitalismo mondiale. A introdurre quell’incontro fu un testo intitolato La crisi della democrazia, dove si possono leggere le parole seguenti:

“L’interdipendenza europea forza le nazioni europee ad affrontare l’impossibile problema dell’unità. Quello di un’Europa unita è stato per lungo tempo l’ideale che ha consentito di conservare la spinta a superare gli obsoleti modi di governo che prevalgono nei sistemi statali nazionali. Ma i fautori della unificazione europea hanno esitato troppo davanti all’ostacolo rappresentato dalla gestione nodale del potere dello Stato centrale, che le crisi attuali hanno ulteriormente rafforzato, affinché si possa sperare nel futuro immediato. Ciononostante l’investimento in una comune capacità europea rimane indispensabile non solo per il bene dell’Europa ma per la capacità di ogni singolo Paese di superare i suoi problemi.”1

La crisi della democrazia, per gli estensori del rapporto della Trilaterale, era dovuta all’”eccesso di democrazia”, cioè al potere delle masse e dei partiti di massa che si era sviluppato in modo per l’appunto eccessivo negli anni precedenti. Gli “obsoleti modi di governo” sono quelli improntati allo sviluppo del settore economico pubblico, del welfare e dei diritti dei lavoratori. Per superarli c’è bisogno, è questo il senso del discorso, che ci sia meno Stato e più privato e questo è permesso dall’integrazione europea, in particolare dalla alienazione ad organismi sovrannazionali di alcune funzioni essenziali dello Stato come il bilancio, il debito pubblico e la moneta. Che una moneta unica potesse essere la soluzione ai problemi del capitale europeo era chiaro già nel 1958, come appare da un estratto della conferenza, tenutasi a Buxton, del Gruppo Bilderberg, un’altra organizzazione del capitale internazionale:

“Uno dei maggiori problemi coi quali la Comunità economica europea si confronta è quello del coordinamento delle politiche monetarie. […] La politica monetaria è strettamente legata ai bilanci nazionali e la disciplina di bilancio è notoriamente difficile da raggiungere. I ministri delle finanze sono di solito più ragionevoli e potrebbero occasionalmente accettare pressioni esterne ma è molto più difficile convincere i parlamenti nazionali. Chi parla dubita che a lungo termine il problema possa essere risolto con successo senza un appropriato meccanismo istituzionale. Questo punto è trattato da un altro partecipante che guarda a una valuta comune come a una soluzione definitiva.”2

Appare evidente che la valuta comune, quella che poi sarà l’euro, è uno strumento di controllo del bilancio pubblico e quindi delle richieste popolari in termini di welfare, pensioni, ecc. In questo contesto rientra anche la separazione della banca centrale dal governo, ossia la sua autonomia, che comincia proprio nello stesso periodo a essere caldeggiata dai mass media legati al grande capitale. Già prima della costituzione della Banca centrale europea, in Italia si produsse la separazione della Banca d’Italia dal Tesoro nel 1981. In questo modo la Banca d’Italia non poteva più acquistare direttamente i titoli di stato emessi dal Tesoro e con ciò calmierare i tassi d’interesse sul debito, cosa che contribuì grandemente al raddoppio del debito pubblico italiano in pochi anni, tra 1981 e 1994.

Il punto è che la classe dominante italiana ha utilizzato l’integrazione europea e il percorso per arrivare ad essa come strumento per imporre quelle controriforme che altrimenti non sarebbero passate e per modificare i rapporti di forza all’interno dello Stato a proprio favore. “Ce lo chiede l’Europa” è stato per vent’anni lo slogan che serviva a tacitare le voci contrarie.
L’integrazione europea ha permesso di raggiungere una piena governabilità, perché l’organismo più importante dell’Ue, come abbiamo avuto conferma durante le recenti trattative sul Recovery Fund, è il Consiglio europeo, che è composto dai capi di governo della Ue. Il Consiglio europeo, oltre a definire le priorità e gli orientamenti generali dell’Ue, propone il Presidente della Commissione europea e soprattutto nomina i membri della Bce e il suo presidente. Quindi, ciò davanti a cui ci troviamo non è una perdita della sovranità nazionale, ma una delega di alcune funzioni a organismi sovranazionali che sono peraltro strettamente controllati dagli esecutivi. La Ue è sostanzialmente un organismo intergovernativo basato sulla competitività economica tra Paesi e imprese, dove contano i rapporti di forza tra gli Stati. Lo stesso Trattato di Aquisgrana, che più di un anno fa rafforzò il legame tra Francia e Germania, è un trattato tra stati nazione che, all’interno dell’Europa, decidono, in base ai propri interessi, di darsi mutuo appoggio su una serie di temi e di consultarsi prima di ogni riunione europea decisiva, come è puntualmente accaduto anche a proposito del Recovery Fund, che è nato proprio su proposta franco-tedesca. Lo Stato nazione rimane, anzi alcune sue funzioni, come quella decisiva del monopolio dell’uso della forza, non solo permangono nelle sue mani ma si rafforzano. Allo stesso modo, all’interno del contesto Ue, la tendenza imperialista nazionale rimane intatta, anzi si rafforza, perché la depressione del mercato interno, accentuato dall’euro e dall’austerity, rafforza la tendenza espansionistica del capitale verso l’estero. Ciò è dimostrato dall’aumento dell’attivismo non solo economico ma anche militare della Francia in Africa, che ha portato, fra l’altro, all’attacco miliare contro la Libia, che aveva tra i suoi scopi anche quello di sostituire nello sfruttamento delle risorse energetiche e dei ricchi appalti di quel Paese le imprese dell’Italia, a partire dall’Eni. In sostanza l’esistenza della Ue e dell’euro non impediscono che i vari Paesi, che pure ne fanno parte, si trovino su fronti opposti in proxy war imperialistiche in Paesi periferici.

Quindi, l’unica sovranità a essere messa in discussione dall’Ue è quella democratica che, come recita la Costituzione, dovrebbe risiedere nel popolo (Art. 1). Invece, grazie ai trattati europei, la sovranità è nelle mani del grande capitale monopolistico e multinazionale a base europea, che la impone grazie agli esecutivi e agli organismi europei che da quelli emanano, molto più di quanto accadrebbe in condizioni “normali”, cioè nelle condizioni ereditate dalla fine del fascismo. Non è un caso che in un rapporto della banca d’affari statunitense JP Morgan nel 2013 si trovasse la seguente affermazione: “I sistemi politici dei Paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza di idee socialiste”, citando, tra i contenuti problematici, la tutela dei diritti dei lavoratori.3

L’euro come mezzo di deflazione salariale e compressione del welfare

L’architettura dell’euro è centrale all’interno del contesto europeo per le ragioni suddette, cioè perché permette di imporre la disciplina di bilancio in modo molto più stringente, ma anche perché è un fattore di deflazione salariale, in quanto le imprese non possono ricorrere alle svalutazioni competitive per compensare svantaggi nei confronti di concorrenti esteri e devono ricorrere ancora di più alla deflazione salariare, cioè a ridurre il salario. La Bce e la Commissione europea, inoltre, impongono scelte di politica economica e sociale ai parlamenti con le cosiddette raccomandazioni. Quale sia la natura di tali raccomandazioni è dimostrato da uno studio svolto per conto di un eurodeputato della Linke tedesca, Martin Schirdewan4. Le raccomandazioni della Commissione rivolte specificatamente ai singoli Paesi hanno riguardato, oltre che la richiesta di riduzione della spesa pubblica, anche i tagli a pensioni, sanità, salari, diritti dei lavoratori e sussidi per disoccupati e persone disabili. In particolare, tra 2014 e 2018, sono state rivolte agli Stati Ue 105 raccomandazioni per l’incremento dell’età pensionistica e la riduzione della spesa pensionistica, 63 raccomandazioni per i tagli alla spesa sanitaria o per la privatizzazione della sanità, 50 raccomandazioni per la soppressione di aumenti salariali, 38 raccomandazioni per la riduzione della sicurezza del lavoro e dei diritti di contrattazione dei lavoratori, e 45 raccomandazioni per la riduzione dei sussidi a disoccupati e persone disabili. I fondi previsti dal Recovery fund verranno pagati ai Paesi richiedenti in singole tranche, ma solo dopo la verifica da parte della Commissione che le sue raccomandazioni saranno state accettate.

Altro elemento centrale è rappresentato dai vincoli al deficit al 3% e al debito al 60% del Pil, contemplati nei trattati, e che rappresentano, insieme all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, una vera gabbia nei confronti della la spesa sociale e fattore di impedimento all’impiego di efficaci politiche contro le crisi. C’è voluta una crisi di dimensioni enormi per sospendere quei vincoli. Ma nessuno ha proposto, come sarebbe stato opportuno, di eliminarli, anzi, a più riprese, membri della Commissione europea hanno affermato che bisogna prepararsi a reintrodurli e che la questione centrale rimane la disciplina di bilancio. Ciò, però, entra in contraddizione con i mezzi che il Consiglio europeo ha individuato per fare fronte alla crisi. Infatti, il Mes, il Sure e il Recovery Fund forniranno il loro aiuto soprattutto sotto forma di prestiti, che non solo aumenteranno il debito dei Paesi richiedenti, ma aumenteranno anche lo spread, cioè il divario tra i tassi d’interesse di Paesi come l’Italia nei confronti della Germania, perché il debito contratto con questi organismi europei è di natura senior, cioè ha il diritto di essere restituito per primo, provocando, in questo modo, l’innalzamento dei tassi d’interesse dei buoni del tesoro ordinari, proprio per compensare il maggiore rischio degli investitori. Infine, la Bce non può svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza che consentirebbe di tenere sotto controllo i tassi d’interesse e finanziare direttamente lo Stato con l’emissione di liquidità. Quello che la Bce si è trovata costretta a fare nel corso della precedente crisi e nel corso della crisi attuale, con i vari Quantitative easing, acquistando titoli di Stato e bond di imprese, rappresenta un pallido esempio di quello che sarebbe necessario fare in condizioni così difficili, senza contare che la Corte costituzione federale tedesca di Karlsruhe ha criticato l’azione della Bce come inappropriata.

Il capitale italiano è per l’uscita dall’euro?

La Ue e l’euro non sono soltanto un progetto economico, ma rappresentano un progetto politico, cioè inerente ai rapporti compressivi tra le classi sociali. L’integrazione europea ha, infatti, contribuito pesantemente a modificare i rapporti di forza all’interno dello Stato a favore del grande capitale multinazionale e contro i lavoratori. Questa è la ragione per cui non è ravvisabile all’interno del capitale italiano, in particolare nel suo settore d’élite, una posizione anti-euro e tantomeno anti-Ue. Se emergono posizioni critiche, queste sono interne ai giochi di potere tra le varie frazioni del capitale europeo e tra gli Stati che le rappresentano, allo scopo non certo di uscire dalla Ue, bensì di ottenere porzioni della torta maggiori, cioè quote maggiori degli aiuti di Stato, attraverso garanzie statali sui prestiti bancari e le ricapitalizzazioni via Cassa depositi e prestiti, ed europei, anche attraverso la Bei, il cui flusso maggiore andrà verso il grande capitale, come dimostrano i prestiti di cui già usufruiscono, ad esempio, Fca e Autostrade per l’Italia. Non si può, dunque, parlare di settori del capitale monopolistico che sono per l’uscita dall’euro o dalla Ue. La vicenda della Brexit è totalmente diversa. In quel caso il settore dominante del capitale britannico, quello finanziario rappresentato dalla borsa di Londra, la seconda piazza finanziaria del mondo, sarebbe stato indebolito dalla costituzione dell’Unione bancaria e soprattutto dalla realizzazione del mercato finanziario unico europeo, che rimane l’obiettivo più importante nella prossima fase dell’integrazione europea.

Ben diverso è l’atteggiamento della classe dominante italiana, costituita in parte rilevante da imprese che esportano manufatti sul mercato europeo e mondiale e vedono la Ue come un organismo necessario ai propri affari ed in grado di fare quello che lo Stato nazionale da solo non potrebbe fare. A manifestare maggiore “nervosismo” nei confronti della Ue sono essenzialmente settori piccolo borghesi, soprattutto composti dal ceto medio intellettuale, dal momento che la piccola borghesia imprenditoriale non ha né la forza né la capacità di andare fino in fondo con la rottura con la Ue, anche perché è strettamente legata alla grande impresa multinazionale sia a base italiana che estera. La stessa Lega, partito storicamente rappresentante della piccolissima, piccola e media impresa, ha di recente molto sfumato le sue posizioni antieuropee, con il prevalere dell’ala europeista rappresentata da Giorgetti e il defilarsi dell’ala anti-Ue, rappresentata da personalità come Bagnai. Resta, però, il fatto che si sta assistendo a un cambiamento dell’atteggiamento di massa nei confronti della Ue, proprio in concomitanza con la crisi attuale e il modo di affrontarla da parte della Ue. Mentre l’opinione pubblica italiana è sempre stata tra quelle più europeiste, recentemente alcuni sondaggi hanno rilevato un giudizio negativo sulla Ue da parte del 62% degli intervistati5. A livello europeo ben il 53% dei rispondenti a una indagine di Eurobarometro si è detto insoddisfatto della solidarietà mostrata dall’Ue nel corso della pandemia6. Del resto i settori di classe che hanno maggiore interesse all’uscita dalla Ue e dall’euro sono proprio quelli subalterni, in particolare i lavoratori salariati.

Conclusioni, l’uscita dall’euro come parte della strategia per il socialismo

Qual è, quindi, la posizione da adottare sulla questione dell’uscita dall’euro e dalla Ue? In primo luogo, va ribadito che non si può non assumere una posizione sulla questione, sia per la centralità oggettiva della Ue nelle vicende italiane, sia perché si sta diffondendo un sempre più forte scetticismo nei confronti della Ue. In secondo luogo, contrariamente a quanti pensano che l’uscita dalla Ue sia l’alfa e l’omega della politica, non bisogna isolare il tema dell’uscita dall’euro dalla questione più generale del capitalismo. Se è vero che oggi il capitale in Italia e in Europa è intimamente legato all’integrazione europea, è altrettanto vero che il problema centrale per la classe lavoratrice, in un Paese avanzato come l’Italia, è rappresentato dall’esistenza del capitalismo e dell’imperialismo.

Ciò significa che l’uscita dall’euro è una condizione necessaria, per portare avanti gli interessi tattici e strategici della classe lavoratrice, ma non sufficiente.
Per questa ragione la domanda non è tanto se è auspicabile o no uscire dall’euro, in quanto questo è, dal punto di vista di classe, indubbio, ma come portare avanti questa parola d’ordine. Il modo corretto non può certo essere quello di piegarsi a una specie di neonazionalismo in cui si tratta di difendere l’Italia, la vittima, nei confronti della “cattiva” Germania, e quindi ricercare alleanze con settori borghesi presunti anti-euro. Al contrario, bisogna inserire la questione dell’uscita dall’euro all’interno del processo più generale di critica e di lotta al capitalismo italiano ed europeo nella fase imperialista.

Se non vogliamo limitarci a declamare la necessità del socialismo, dobbiamo assumere un programma di fase e dentro, anzi al centro di questo programma, in Italia non può non esserci l’uscita dalla Ue. In parole più semplici, se vogliamo essere realisti non possiamo lottare per la sanità pubblica, le pensioni, il lavoro ecc. senza affrontare il nodo dei trattati e della Ue, ma, al tempo stesso, se vogliamo essere coerenti con la nostra visione della società attuale, questa posizione va inserita in una lotta più generale contro il capitale, individuando per l’appunto un programma di fase o minimo, come preferiamo definirlo. Questo programma deve investire la natura dello Stato e delle sue istituzioni, proprio perché lo Stato non è neutrale dal punto di vista di classe, come dimostra lo stesso uso dell’integrazione europea da parte del grande capitale. Ad esempio, non basta uscire dall’euro se poi la Banca d’Italia continua ad essere autonoma dal Tesoro e a non svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza, o se le nazionalizzazioni vengono intese come semplice socializzazione delle perdite del capitale, facendo sì che le imprese partecipate dallo Stato assumano la forma di spa quotate in borsa e quindi soggette a tutte le regole del capitalismo, anziché essere trasformate in enti pubblici con scopi di sviluppo sociale.

In sostanza, c’è bisogno di un perimetro di lotte più complessivo, che faccia fare il salto dalla pura lotta di difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro ad un piano più complessivo, politico, che necessariamente includa il tema della Ue. In quest’ottica, l’uscita dalla Ue sarebbe un passaggio fondamentale sì, ma solo un passaggio, della lotta generale per il socialismo nel nostro Paese e in Europa.

di Domenico Moro



1 M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli editore, Milano 1977, p. 159.
2 Rapporto riservato del Bilderberg Group, Buxton Conference, 13-25 settembre 1958. Documento pubblicato da WikiLeaks. Cit. in D. Moro, Il gruppo Bilderberg. L’élite del potere mondiale, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2014.
3 www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/1...asciste/630787/
4 https://emmaclancy.files.wordpress.com/202...growth-pact.pdf
5 Sondaggio Emg Acqua riportato nella trasmissione televisiva Agorà, 25 giugno 2020.
6 www.europarl.europa.eu/at-your-ser...avirus-crisis-2
view post Posted: 30/7/2020, 15:39 Nikolaj A. Ostrovskij - Letture
breve nota biografica e del romanzo: wikimerd


Nikolaj A. Ostrovskij
1904-1936



N-Ostrovskiy


Esponente del realismo socialista e militante nel Partito comunista sovietico, rimase ferito nella guerra civile russa prima di diventare paralitico e cieco. Nel 1935 pubblicò il libro autobiografico, anche se non narrato in prima persona, Kak zakaljalas´ stal´ (trad. Come fu temprato l'acciaio, 1945), considerato uno dei romanzi più importanti della letteratura comunista. Lasciò incompiuto un secondo romanzo (Roždenie burej, ossia Nascita della tempesta).

Come fu temprato l'acciaio (Как закалялась сталь)



è un romanzo autobiografico dello scrittore ucraino sovietico Nikolaj Ostrovskij (1904 - 1936), pubblicato nel 1932, in lingua russa, in Unione Sovietica. Il romanzo è considerato un classico del realismo socialista sovietico e della letteratura comunista internazionale. L'opera è stata tradotta in molte lingue e più volte ripubblicata.

Il romanzo copre il periodo dal 1917 al 1932 ed è considerato l'elemento centrale di una trilogia narrativa del comunismo sovietico. È preceduto da La madre di Maksim Gor'kij, che riguarda la rivoluzione russa del 1905. Ed è seguito da La giovane guardia di Alexandr Fadeev, relativa alla resistenza partigiana sovietica contro l'invasore nazista nel 1942-43.

trama

Il romanzo è diviso in due parti. La prima va dall'espulsione da scuola di Pavel Korciaghin fino al termine della guerra mondiale e civile, che corrisponde alla fondazione dell'Unione Sovietica, nel 1922. È il periodo della guerra di Pavel e dei bolscevichi contro i nemici esterni, appartenenti ad altri stati e partiti. Il secondo periodo va dal 1922 al 1932 e riguarda la maturità di Pavel nella ricostruzione di un paese distrutto, compresa la nuova guerra della maggioranza del partito contro i nemici interni, cioè la minoranza trotskista, i Nepman arricchiti dalla nuova politica economica, la spietatezza della natura e i residui della mentalità reazionaria tra la popolazione.

Nel 1917, Pavel Korciaghin, detto Pavka, ha dodici anni e vive a Scepetovka, una cittadina di alcune decine di migliaia di abitanti, sede di un importante nodo ferroviario nell'area nord-occidentale dell'attuale Repubblica Ucraina. Entra in urto con l'insegnante di religione, che lo picchia e lo fa espellere dalla scuola. Il ragazzo va a lavorare come lavapiatti tuttofare nel ristorante della stazione ferroviaria, una piccola azienda con una trentina di dipendenti, tra cuochi, sguattere e camerieri.

Il lavoro di Pavel consiste nello spaccare la legna, mantenere il fuoco vivo sotto il pentolone dell'acqua bollente, lavare le posate, scaricare i rifiuti per sei giorni alla settimana in cambio di otto rubli al mese. Il lavoro è sfibrante, frenetico, a ciclo continuo, salvo tre ore di minor attività durante la notte. Nella vita al ristorante, Pavka matura la sua opposizione alle ingiustizie, assieme all'attaccamento al lavoro e all'indignazione per la corruzione morale.

Sono i camerieri a farla da padroni nel ristorante. Oltre allo stipendio, guadagnano anche quaranta rubli di mance al giorno. E' cinque volte quello che Pavka guadagna in un mese ed è poco meno di quanto suo fratello maggiore, Artem, guadagna come operaio al deposito ferroviario. I camerieri sono persone viziate, nelle pause dal lavoro giocano a carte cifre spropositate. Picchiano gli sguatteri che sbagliano. Costringono le ragazze ad andare a letto con loro. Uno dei camerieri fa il protettore di una ragazza e la affitta ai passeggeri in transito per trecento rubli, di cui ne trattiene l'ottanta per cento.

Pavka rimane due anni a lavorare nel ristorante. In questo periodo incontra per la prima volta la politica. Il proprietario del chiosco dei giornali viene arrestato. Pavka raccoglie informazioni e si fa una semplice idea: “Se qualcuno va contro lo zar, questa la chiamano politica”. Il ragazzo riesce a mantenere il posto, nonostante le tensioni coi camerieri, grazie alla sua inesauribile capacità di lavoro. Ma un giorno, per sostituire un garzone che non si è presentato al lavoro, si addormenta in cucina, lasciando aperto il rubinetto dell'acqua. Allagamento, botte dal capocameriere, licenziamento.

Suo fratello Artem, dopo aver dato una lezione al capocameriere, lo presenta a Fedor Zuhraj, un marinaio della flotta del Baltico che lavora alla centrale elettrica della cittadina. Al marinaio, segretamente membro del partito bolscevico, piace l'atteggiamento ribelle del giovane e lo presenta al direttore della centrale elettrica. Il quattordicenne Pavka viene quindi assunto: aiuto-fuochista elettricista. Intanto, in Russia, studenti e soldati armati, depongono lo zar.

In questo periodo, Pavel conosce la studentessa ginnasiale Tonja Tumanova. I due giovani nonostante le differenze sociali, si innamorano l'uno dell'altra. Ma è un rapporto difficile, contrastato, avvelenato dal clima d'odio della guerra civile.

A Pavka, il cambio di governo non sembra portare significativi miglioramenti. Le parole d'ordine del nuovo governo - libertà, eguaglianza, fratellanza - gli paiono vuote di significato. I padroni sono sempre gli stessi. I poveri sempre poveri. Nella cittadina arriva un reggimento di cavalleria della Guardia, i cui ufficiali sono nobili. La guerra continua. Dopo qualche settimana, alla stazione di Scepetovka cominciano ad arrivare dal fronte soldati disertori, organizzati in gruppi, che difendono con le mitragliatrici il proprio ritorno a casa. Portano delle coccarde rosse al petto, sono i bolscevichi. Scepetovka viene occupata e disoccupata più volte: dai tedeschi, dai bolscevichi, dai nazionalisti ucraini, dai polacchi. Pavka partecipa alla guerra mondiale e civile con scioperi che rallentano gli spostamenti degli avversari. Ospita nella centrale elettrica un gruppo di ebrei fuggiti di misura a un pogrom perpetrato dai nazionalisti ucraini.

Un giorno, Pavka si trova di fronte il bolscevico Zuhraj, che un soldato nazionalista ucraino sta portando in galera. Il giovane salta addosso al soldato e libera l'amico. Ma viene riconosciuto e deve scappare.

Pavel combatte con diverse formazioni partigiane e regolari, prima a piedi, poi a cavallo. Fino a riuscire ad arruolarsi nella famosa Prima armata a cavallo di Budënnyj, che scende dal Caucaso e caccia i polacchi dall'Ucraina. Già ferito in precedenza a una gamba e colpito dal tifo, Pavka viene gravemente colpito dalle schegge di una granata. A diciassette anni finisce in coma all'ospedale, un mese tra la vita e la morte. A fatica si ristabilisce, ma perde l'occhio destro.

Con la firma del Trattato di pace con la Polonia, la città di Scepetovka è assegnata all'Ucraina sovietica. Pavka passa a salutare la famiglia e poi si stabilisce a Kiev, capitale dell'Ucraina. Qui finisce la prima parte del romanzo.

Con la fine della guerra civile, inizia anche per Pavka una nuova epoca. Vuole studiare e fare carriera nel partito, ma la salute non gli da energie sufficienti a svolgere il lavoro politico a livello distrettuale o nazionale. Gli offrono una pensione d'invalidità, ma il giovane la rifiuta. Cerca di trovare una nuova identità.

Con l'avvicinarsi dell'inverno si preannuncia una situazione catastrofica: manca il legname, unica fonte d'energia del distretto. I dirigenti politici decidono di costruire a tempo di record una linea ferroviaria che colleghi la foresta alla stazione. È un'impresa quasi disperata. Alla fine il piano riesce. È in questa occasione che vengono pronunciate le parole che genereranno il titolo del romanzo. Il marinaio Zuhraj, capo di una squadra di lavoro, sta valutando con il capocantiere Tokarev l'eventualità di tenere un comizio per spingere gli operai allo sforzo finale. Zuhraj guarda “lo scintillio delle vanghe, le schiene piegate in uno sforzo intenso” e dice al capocantiere: «Non c'è bisogno di un comizio. Non c'è nessuno da convincere. Avevi ragione, Tokarev, quando hai detto che sono eroici. È qui che si tempra l'acciaio».

L'impresa è riuscita, ma la salute di Pavka ne esce definitivamente compromessa. Per un periodo torna a Scepetovka al deposito ferroviario. Il direttore del deposito, che è anche il segretario dei lavoratori comunisti, pensa che Pavka sia tornato per prendere il suo posto e reagisce con attacchi politici. Pavka deve difendersi. È debole ma riesce ad organizzare i giovani operai del suo reparto per pulire i locali. Prende posizione contro il lassismo nel presentarsi al lavoro e nell'uso dei macchinari. In questa sua lotta moralizzatrice si scontra più in generale contro gli oppositori di sinistra, i trotskisti, quali il direttore del deposito e il suo amico di un tempo Dimitri Dubava, diventato un ubriacone che convive con una prostituta.

Pavel Korciaghin diffida anche degli oppositori di destra, cioè la classe media emersa con la Nep, la Nuova politica economica di mediazione coi contadini e con la piccola proprietà capitalistica. Mentre partecipa a una festa nel sanatorio, un gruppo di Nepman, uomini della Nep, sta per lanciarsi in uno scatenato foxtrot. Un giovane paziente li blocca urlando di farla finita con la prostituzione. Pavka approva. Le danze giuste sono quelle tradizionali russe. Lo strumento appropriato è la fisarmonica, che Pavel sa ben suonare. Nelle campagne dovranno tornare il collettivismo e le requisizioni forzate. Pavka è allineato al realismo socialista e alla politica di Giuseppe Stalin.

Con l'aggravarsi della malattia, la volontà di vivere di Pavka assume toni eroici. Alla fine, mentre avanzano cecità e paralisi, il ventenne rivoluzionario accetta la pensione d'invalidità. Si fa costruire una radio per aumentare via audio i contatti col mondo. Decide di dare il proprio contributo alla causa raccontando la propria avventurosa storia. Per continuare a scrivere, nonostante la perdita della vista, usa come fogli dei cartoni ondulati che gli permettono di tenere il testo su una riga. Poi trova una segretaria a cui dettare il testo.

In questo periodo conosce e sposa Taja Kjutzan, una cameriera più giovane di lui, che introduce alla militanza politica e alla carriera nel partito. Si spostano a Mosca, coi trentadue rubli al mese della pensone di Pavel e il salario di Taja.

Tutte le energie di Pavka, il senso stesso della sua vita si condensa nell'impresa della stesura del libro, che con gran fatica, completa e spedisce. La storia termina con l'arrivo di un telegramma del Comitato regionale del partito “Il romanzo calorosamente approvato e dato alla stampa. Congratulazioni per la vittoria”.

qua il romanzo integrale, edito dalla "Red Star Press":
https://drive.google.com/file/d/1EtNSojbTQ...iew?usp=sharing
view post Posted: 29/7/2020, 18:55 Ucraina, scendono in campo gli Stati Uniti - Esteri

KIEV STRACCIA DI FATTO GLI ACCORDI DI MINSK SUL DONBASS



Ancora una volta, segnali contraddittori per la soluzione del conflitto in Donbass, ma che, in ogni caso, sfociano nella continuità dell'aggressione terroristica seguita da Kiev e dai suoi mandanti, sia che sulla poltrona presidenziale sieda il businessman Petro Porošenko o che, come dall'aprile 2019, l'amico dell'oligarca Igor Kolomojskij, l'attore Vladimir Zelenskij.
Ancora una volta, segnali contraddittori per la soluzione del conflitto in Donbass, ma che, in ogni caso, sfociano nella continuità dell’aggressione terroristica seguita da Kiev e dai suoi mandanti, sia che sulla poltrona presidenziale sieda il “biznessmen“[1] Petro Porošenko o che, come dall’aprile 2019, l’amico dell’oligarca Igor Kolomojskij, l’attore Vladimir Zelenskij.

Il 22 luglio il servizio stampa del Ministero degli esteri della Repubblica popolare di Donetsk ha annunciato una “svolta”: i delegati del gruppo di contatto ai colloqui di Minsk hanno approvato un pacchetto di misure aggiuntive per il controllo sul cessate il fuoco. Ciò è stato possibile, hanno detto a Donetsk, grazie alla “nostra ferma posizione e al sostegno di principio da parte della Russia. Speriamo che Kiev mostrerà volontà politica e osserverà rigorosamente il regime del cessate il fuoco a tempo indeterminato in vigore dal 21 luglio 2019, insieme alle misure di controllo concrete firmate oggi”.

Misure che, secondo l’agenzia EADaily, dovrebbero entrare in vigore il 27 luglio: questo almeno è quanto ha dichiarato Boris Gryzlov, plenipotenziario russo al gruppo di contatto, che ha espresso la soddisfazione di Mosca per l’accordo.

E, sempre per il 27 luglio, Petro Porošenko ha indetto una manifestazione a Kiev contro Vladimir Zelenskij, accusato di “tradimento della patria” per la prevista entrata in vigore dell’accordo. Mentre l’ex capo nazista di “Pravyj sektor” e attuale comandante dell'”Esercito volontario ucraino”, Dmitro Jaroš, ha esortato i suoi compari a non rispettare “l’ordine criminale” sul cessate il fuoco, definendo “capitolazione di fronte al Cremlino” la rinuncia a dirette azioni di guerra.

Il fatto è che, nei 12 mesi trascorsi dalla firma del cessate il fuoco, non sono mai cessati i bombardamenti ucraini sul Donbass. Secondo le ultime informazioni del 25 luglio, le forze di Kiev, facendosi scudo dei villaggi nelle regioni di Donetsk e di Lugansk sotto controllo ucraino, hanno bersagliato con tiri di mortaio e razzi anticarro i territori delle Repubbliche popolari. Nella DNR, colpite la periferia di Donetsk e il villaggio di Petrovskij. Tiri di mortaio si sono ripetuti il 26 luglio contri i villaggi della DNR di Kominternogo, Krutaja Balka, Vasil’evka e Kaštanovoe. I reparti ucraini continuano a dislocare artiglierie e mezzi corazzati nella cosiddetta “zona grigia”, la striscia lungo tutta la linea del fronte che, in base agli accordi di Minsk, dovrebbe essere smilitarizzata per una profondità di alcuni chilometri.

Nel corso dell’ultima settimana, secondo le informazioni diffuse dalle milizie della Repubblica popolare di Donetsk, le forze ucraine hanno martellato circa 50 volte la DNR, esplodendo poco meno di 200 proiettili di mortai e lanciagranate, sparando su 17 centri abitati della Repubblica. In un anno di “cessate il fuoco”, le forze di Kiev lo hanno violato circa 4.000 volte, ai danni della DNR, esplodendo qualcosa come 35.000 proiettili di vario calibro. Come risultato, 5 civili sono rimasti uccisi e una settantina feriti; 37 abitazioni sono andate distrutte e circa 800 danneggiate, insieme a 121 infrastrutture. Nell’ultima settimana, anche la Repubblica popolare di Lugansk è stata colpita sette volte: tiri di mortai da 120 mm e di artiglierie da 122 mm sono stati esplosi contro i villaggi di Logvinovo, Kalinovka, Sanžarovka. Bersagliate anche Donetskij, Frunze, Znamenka; vari edifici sono rimasti danneggiati.

Il fatto è che, nei 12 mesi trascorsi dalla firma del cessate il fuoco, non sono mai cessati i bombardamenti ucraini sul Donbass. Secondo le ultime informazioni del 25 luglio, le forze di Kiev, facendosi scudo dei villaggi nelle regioni di Donetsk e di Lugansk sotto controllo ucraino, hanno bersagliato con tiri di mortaio e razzi anticarro i territori delle Repubbliche popolari.In effetti, se sul piano militare Kiev non ha mai rispettato il cessate il fuoco, anche sul piano politico non ha mai adempiuto alcuna delle disposizioni degli “accordi di Minsk”, sottoscritti nel febbraio 2015 da Berlino, Parigi, Mosca e Kiev. Ora, anche sul piano formale, Kiev si è, di fatto, ritirata da quell’intesa. Lo ha fatto il 15 luglio, allorché la Rada ha adottato una risoluzione per l’indizione di elezioni locali al prossimo 25 ottobre, escludendone le Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk. Tanto che, il 23 luglio, il Ministero degli esteri russo ha chiesto di chiarire la decisione al riguardo: gli accordi di Minsk prevedono infatti proprio elezioni nelle Repubbliche popolari. Il 26 luglio, in un colloquio telefonico con Vladimir Zelenskij, Vladimir Putin ha ribadito che la risoluzione del 15 luglio è in contrasto con gli accordi di Minsk e mette in pericolo le prospettive di accordo. Ma Kiev ha deciso che le elezioni nella DNR e nella LNR si terranno quando “verranno ritirati tutti i gruppi armati illegali, controllati e finanziati dalla Russia; verrà ripristinato il pieno controllo dell’Ucraina sul confine statale, tutti i gruppi armati illegali e i mercenari che operano nei territori temporaneamente occupati dell’Ucraina saranno disarmati, l’ordine costituzionale e la legge saranno ripristinati”.

Da Lugansk sottolineano che la decisione della Rada testimonia “ufficialmente e in maniera documentata che Kiev rifiuta di adempiere gli obblighi derivanti dalla risoluzione 2202 ONU e dai paragrafi 9, 11 e 12 degli accordi di Minsk, che prevedono il trasferimento della frontiera solo dopo le elezioni e solo dopo una soluzione politica globale, la creazione di una milizia popolare in alcune aree e lo svolgimento di elezioni locali secondo una legge speciale ucraina”.

A parere degli osservatori di Russkaja Vesna, dopo il passo ucraino, la Russia potrebbe ora prendere l’iniziativa. Tra gli errori della diplomazia russa, scrive l’agenzia, c’è l’ignoranza dei valori europei e occidentali, che si basano sempre sul denaro. È inutile, scrive Rusvesna, inserire nell’agenda negoziale valori “astratti”, quando dall’altra parte “siede un imbroglione i cui antenati si sono arricchiti scambiando perline di vetro con oro indiano. Si ha l’impressione che la diplomazia russa abbia timore a parlare di soldi”. Le sanzioni adottate “aggirando ONU e OMC sono illegali. La distruzione delle infrastrutture civili nel Donbass a opera di Kiev è un crimine. Occorre intentare milioni di cause per quanto sofferto dai cittadini del Donbass a causa degli arbitrii di UE e USA e dei crimini di Kiev”. Di fronte al ritiro unilaterale ucraino dagli accordi di Minsk, scrive Rusvesna, Mosca dovrebbe “convocare il Consiglio di sicurezza ONU e dichiarare il diritto della Russia, paese garante, a condurre un’operazione di pace in caso di aggravamento del conflitto”. È necessario dichiarare l’Ucraina colpevole del mancato rispetto degli accordi di Minsk, sin dalla loro adozione; istituire “un tribunale internazionale per i crimini di guerra dei militari ucraini e dei mercenari ucraini e stranieri in Donbass; occorre che UE, Canada, Australia e USA” – tra i maggiori, anche se non unici, sponsor militari di Kiev – finanzino il “reinsediamento degli abitanti del Donbass, con non meno di 100.000 euro a persona; si deve obbligare Kiev a pagare i compensi sociali ai profughi del Donbass, per circa 12 miliardi di euro. Si deve inoltre inserire nella Costituzione ucraina lo status di paese neutrale, col rifiuto di schierare truppe straniere”. Ciò è necessario, conclude Rusvesna, dal momento che gli europei e gli occidentali “sanno che ogni guerra si fa per soldi ed essa scoppia quando la pace è più costosa della guerra. La somma di 1,3 trilioni di euro da richiedere alla UE è di diverse volte inferiore alle perdite umane e materiali subite dal Donbass in questi sei anni di guerra”.

Difficilmente, almeno per il momento, Mosca farà proprie queste proposte.

Intanto a est ha fatto notizia – per la verità, più in Russia che in Ucraina – un video-messaggio con cui uno degli ex alleati di Petro Porošenko, il “biznessmen”[1] David Žvania (georgiano; cittadino ucraino dal 1999) si definisce “ex membro del gruppo criminale” che, con a capo l’ex presidente ucraino, ha alimentato e sfruttato le proteste di majdan per il rovesciamento violento del potere e l’arricchimento personale dei membri del gruppo.
David Zhvania. David Žvania (georgiano; cittadino ucraino dal 1999) si definisce "ex membro del gruppo criminale" che, con a capo l'ex presidente ucraino, ha alimentato e sfruttato le proteste di majdan per il rovesciamento violento del potere e l'arricchimento personale dei membri del gruppo.

“Sono stato anche io membro del gruppo criminale”, ha detto Žvania, “insieme a Vitalij Kličkò, Arsenij Jatsenjuk, Aleksandr Turčinov (nell’ordine: sindaco di Kiev, ex Primo ministro ed ex primo Presidente ad interim dell’Ucraina golpista) e altri”. Abbiamo finanziato majdan, alimentato gli umori di protesta sui media, contrastato le iniziative di pacificazione del governo di Nikolaj Azarov, condotto “negoziati separati con i deputati del Partito delle Regioni, negoziato con ambasciate straniere”, ha detto l’ex deputato.

Io e Pavel Klimkin (ambasciatore in Germania dal 2012 al 2014 e poi fino al 2019 Ministro degli esteri) abbiamo “organizzato il trasferimento di 5 milioni di euro, attraverso l’ambasciata ucraina a Berlino, a un funzionario europeo di alto livello, perché fosse garantito il sostegno UE a Porošenko come candidato alla presidenza”. Žvania si è detto pronto a testimoniare contro l’ex presidente, nel processo che vede quest’ultimo accusato di corruzione, anche se ha dichiarato di non credere che Zelenskij riesca a far condannare Porošenko e anzi ne prevede il ritorno in grande stile ai vertici ucraini. Anche perché, dice Žvania, la squadra di Zelenskij si sta sgretolando sotto i nostri occhi: l’attuale presidente non si è rivelato all’altezza delle aspettative di Kolomojskij, l’oligarca concorrente di Porošenko che lo aveva sostenuto alle presidenziali.

Žvania ha anche citato la somma di 3,4 miliardi di dollari dirottata dall’ex presidente verso proprie società offshore. “Siamo riusciti a intimidire Azarov, primo ministro sotto Viktor Janukovič, e lui ha rassegnato le dimissioni”, ha detto Žvania. Dopo le dimissioni di Azarov, “ci si è aperta la strada per il potere”, aggiungendo che l’ex presidente Janukovič, riparato in Russia a inizio 2014, è “un codardo che ha ceduto alle intimidazioni; eravamo sicuri che non avrebbe resistito alla pressione e sarebbe fuggito”. Secondo le sue parole, inizialmente l’obiettivo del gruppo era solo quello di “controllare i flussi di denaro e non quello di rovesciare il governo”. Ma, poi, “nel gennaio 2014, abbiamo sentito la debolezza del governo e ci siamo avviati alla completa eliminazione del presidente eletto. Volevamo ottenere tutto, realizzare un colpo di stato. E l’abbiamo fatto”.

In effetti, nulla di sensazionale; nulla che non si sappia ormai da almeno sei anni: le ruberie dei golpisti, ansiosi di intascare anch’essi una parte dei soldi che entravano nel clan Janukovič; le lotte a coltello tra raggruppamenti criminali-oligarchici, ognuno forte della propria banda nazista. Žvania non ha detto nulla di clamoroso e, in fondo, ha condiviso fino in fondo la politica di Porošenko e non è detto che le sue attuali esternazioni non nascondano dispute nient’affatto “ideali”, come quando, una quindicina di anni fa, aveva rotto col suo precedente patron, il defunto oligarca russo Boris Berezovskij, per questioni di “vil valsente”. Žvania non ha detto nulla sulla ex premier Julija Timošenko – di cui era stato Ministro per le situazioni d’emergenza nel 2005 – che nel 2014 voleva bombardare il Donbass con le atomiche; nulla sull’oligarca Igor Kolomojskij, che finanziava le bande neonaziste che hanno terrorizzato e martirizzato i civili nel Donbass; nulla dei nazisti ucraini che, quando il Caucaso russo era sconvolto dai raid terroristici islamisti, esortavano a unire le forze contro Mosca, così come oggi arruolano “volontari” per dar man forte agli azeri contro gli armeni; poco o nulla del sostegno UE ai golpisti; soprattutto: nulla dei maggiori burattinai di majdan e dei loro obiettivi geo-strategici nell’area a ridosso della Russia. Nulla, su una guerra terroristica d’aggressione che Kiev non ha alcuna intenzione di cessare. In fondo, Žvania ha ridotto tutta la questione a una fame di soldi criminali; che c’è stata, sicuramente, e c’è tuttora; come c’è stata e c’è tuttora anche da parte di quei burattinai d’oltreoceano – basti ricordare solo gli affari della famiglia Biden: padre Joe, ex vice presidente USA sotto Obama e attuale candidato alla presidenza; e il figlio Hunter, legato alla società di estrazione del gas “Burisma” in Ucraina – che, mentre dirigono la guerra per procura, si preoccupano di imporre a Kiev la privatizzazione delle terre, a vantaggio delle multinazionali alimentari ed energetiche americane ed europee.

Tutte cose che si sanno; e che sanno anche tutti quegli esponenti liberal-fascisti del PD che, per anni, a partire da quando incitavano nazionalisti e nazisti dai palchi di majdan Nezaležnosti, hanno urlato alla “svolta democratica” intrapresa a Kiev nel 2014 e che continuano a sostenere il corso golpista dell’Ucraina post-majdan. Ma, quantomeno, un “pentito di mafia” ha ricordato loro il vile prezzo del sostegno “ideale”, niente affatto interessato, per carità, a quella “svolta”: “5 milioni di euro, attraverso l’ambasciata ucraina in Germania, a un funzionario europeo di alto livello”. Chissà se gli euro-deputati del PD ne avessero sentito l’odore.
view post Posted: 17/7/2020, 10:46 L'imperialismo italiano in Africa e dintorni - Esteri
alcuni numeri e dati sull'imperialismo italico, nell'articolo vi sono anche riferimenti ad altre zone d'interesse degli imperialisti.

Le missioni militari italiane tra nuovi impegni e ritiro dall’Afghanistan


[...] Il dato saliente per il 2020 è costituito dall’avvio di 5 nuove missioni mentre per i mancati rinnovi ci si ferma a 2: più precisamente, la “Temporary International Presence in Hebron” (TIPH2) in Cisgiordania e il dispositivo “NATO Support to Turkey – Active Fence” a difesa dei confini sud-orientali dell’Alleanza, cioè la batteria SAMP-T schierata in Turchia.

Ne risulta che, sommando quanto previsto per le vecchie e per le nuove si raggiungono le 41 missioni con un impegno complessivo di 8.613 militari come consistenza massima e 6.494 come consistenza media contro i 7.358 e 6.290 militari del 2019.In realtà solo 17 di queste missioni possono essere considerate tali a tutti gli effetti, dotate cioè di un contingente numericamente significativo e di proprie strutture di Comando ugualmente rilevanti.

Le nuove missioni del 2020

Come anticipato in precedenza, sono le 5 le nuove missioni per le quali si chiede l’avvio nel 2020. Un paio di queste, anche solo per il numero di militari impiegati, appaiono di ridotta rilevanza. Si tratta della “European Union Advisory Mission” o EUAM Iraq (con appena 2 militari e 0,3 milioni di euro di spesa) e dell’iniziativa della NATO denominata “Implementation of the Enhancement of the Framework for the South” (con 6 militari e 0,4 milioni in termini di fabbisogno). Di ben altro “spessore” invece le altre.

La prima, infatti, è la “European Union Military Operation in the Mediterranean – EUNAVFOR MED Irini”, cioè la forza navale UE subentrata a “EUNAVFOR MED Sophia” e il cui compito principale è (o sarebbe…) quello di far rispettare l’embargo sulle armi imposto alla Libia.

Qui l’Italia mette a disposizione un mezzo navale, 3 aeromobili e 517 militari come numero massimo (338 in media), per una spesa di 21,3 milioni. Una missione teoricamente importante per il nostro Paese, visto che il Comando ha sede a Roma ed è guidata dall’ammiraglio Fabio Agostini. La realtà però è ben diversa, come testimoniato anche su queste stesse pagine più e più volte.

Inadeguata di fronte alla gravità e alla complessità della crisi libica nonchè drammaticamente superata dagli eventi, di “Irini” oggi si fa davvero fatica a comprenderne appieno la ragion d’essere. Nel segno della grande attenzione per l’Africa anche gli altri 2 nuovi impegni.

In primo luogo per il Sahel, dove si richiede l’invio di un contingente da schierare nell’ambito della Task Force “Takuba”; una forza multinazionale a guida Francese, composta da Forze Speciali e il cui compito principale sarà quello di fornire attività di consulenza, assistenza, addestramento e “mentorship” a supporto delle Forze Armate e delle Forze Speciali locali. Tale Task Force si inserisce in un più ampio sforzo in atto nella regione, posto sotto il “cappello” della “Coalizione per il Sahel” che a sua volta comprende l’”Opération Barkhane” e la “Force conjointe du G5 Sahel” (FC-G5S).

Per questa missione, l’Italia mette a disposizione 200 militari come consistenza massima, 20 mezzi terrestri e 8 aeromobili per un costo di 15,6 milioni; con lo schieramento previsto a partire da questa estate e raggiungimento della capacità operativa di Task Force nella primavera prossima.

Un dispositivo dunque non esattamente “banale”, anche se (come sempre) la differenza la farà la modalità d’impiego dello stesso; che peraltro, come anticipato dal Ministro della Difesa in fase di dibattito Parlamentare, alla fine si configurerà in modo simile a quello schierato in Iraq (forze speciali ed elicotteri NH-90 e A-129 Mangusta) a supporto delle forze curde, con reparti impegnati in funzione di advise /mentoring a favore delle forze locali e una componente elicotteristica in funzione di supporto anche MEDEVAC.

A margine, si osserva che questa regione è oramai diventata una delle più importanti frontiere nella lotta al jihadismo di matrice Islamica. In questa ottica dunque, appare perfino obbligato un maggiore impegno dell’Italia nell’area, per i suoi riflessi su questioni e aree di nostro interesse strategico. Anzi, sarebbe perfino auspicabile un ulteriore incremento, in modo da acquisire una maggiore voce in capitolo nella regione sia per riequilibrare il preponderante ruolo della Francia, sia in funzione di una possibile razionalizzazione delle varie e “frammentate” missioni già presenti nell’area.

Senonché, per ottenere anche solo una minima parte di quanto appena detto, sarebbe per l’appunto necessario un deciso salto di qualità dello sforzo militare Italiano nel Sahel che però non sembra certo all’ordine del giorno.

Da ultimo, una novità del tutto inattesa: l’invio di un dispositivo aeronavale nel Golfo di Guinea, destinato ad attività di presenza, sorveglianza, e sicurezza. In particolare, per il contrasto di fenomeni di pirateria, delle attività di organizzazioni criminali ma anche per proteggere gli asset estrattivi dell‘ENI presenti nell’area. Un intervento “pesante”, destinato a operare in una zona di mare che negli ultimi anni ha registrato una preoccupante crescita dei fenomeni sopra descritti e che per il nostro Paese (proprio per effetto delle attività estrattive dell’ENI), riveste un’importanza crescente.

[...] All’appello delle nuove missioni manca però qualcosa; il Ministro della Difesa aveva infatti annunciato a suo tempo, proprio in Parlamento, l’intenzione di aderire anche alla “European Maritime Awareness in the Strait of Hormuz” (EMASOH).

Ennesima operazione a guida Francese…, essa nasce allo scopo di garantire la funzione di sorveglianza/protezione al traffico mercantile nel Golfo Persico e, più in particolare, in quel “choke-point” strategico rappresento dallo Stretto di Hormuz.

[...] Le missioni in Africa

L’Africa sta gradualmente conquistando un sempre maggiore interesse per il nostro Paese come testimoniato da gran numero di missioni militari e civili (in totale, 18) lì schierate.

Oltre infatti alle 3 già ricordate (“Implementation of the Enhancement of the Framework for the South”, Task Force “Takuba” e Golfo di Guinea), nel 2020 proseguono ovviamente le diverse missioni in Libia. Limitandosi a quelli di natura militare, la “United Nations Support Mission In Libya” (UNSMIL) in ambito ONU (1 militare) e la “Missione Bilaterale di assistenza e supporto In Libia” (MIBIL) su base nazionale (400 militari, 142 mezzi terrestri e 2 aerei). Il costo totale è di 48 milioni di euro.

Ora, se da una parte è comunque doveroso sottolineare come una presenza militare costante in questo Paese possa essere considerato un elemento utile per continuare a rivestire un qualche ruolo nella gestione della crisi lo attraversa ormai da anni (per la presenza dell’ospedale da campo dell’Esercito a Misurata, della Marina Militare e per le varie attività svolte, quali l’assistenza alla Guardia Costiera locale e alle attività di sminamento), dall’altra è evidente che la recente e violenta accelerazione di questa stessa crisi ha chiaramente determinato la predominanza di nuovi protagonisti.

Il rischio però evidente è che l’Italia, con il suo atteggiamento non particolarmente “incisivo” in tutti gli ultimi anni possa ritrovarsi a dover affrontare uno scenario profondamente mutato e sfavorevole.

Sempre con riferimento alla Libia, per la sua natura parzialmente militare, occorre tenere conto anche della missione mista tra Guardia di Finanza e Arma dei Carabinieri, che impegna 39 unità di personale della prima e 8 unità della seconda per un costo totale di 10,1 milioni di euro.

Ricordata la “Missione bilaterale di cooperazione in Tunisia” con 15 militari (1 milione di euro), come già detto piuttosto articolato si presenta ormai l’impegno militare italiano nel Sahel. Si parte infatti dalla missione ONU “Multidimensional Integrated Stabilization Mission in Mali” (MINUSMA) con 7 militari, poi la missione UE denominata “European Union Training Mission” (EUTM Mali) con 12 militari, la “EUCAP Sahel Mali” con 16 militari, la “EUCAP Sahel Niger” con 14 militari e infine, la “Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger” che presenta un leggerissimo aumento in termini d’impegno, ora stabilizzato su 295 militari, 160 mezzi terrestri e 5 aerei.

Il costo complessivo dello sforzo in atto nel Sahel è dunque di 46,9 milioni di euro; ai quali aggiungere per l’appunto i 15,6 di “Takuba”.

Quindi, ci sono le missioni dell’ONU: “Mission for the Referendum in Western Sahara” (MINURSO) con 2 militari e “Multinational Force and Observers” (MFO) in Egitto con 75 militari e 3 mezzi navali. In ambito UE invece l’impegno nella Repubblica Centrafricana (EUTM RCA) con 3 militari. Di queste, ovviamente, quella più importante da un punto di vista economico è la MFO con i suoi 6,5 milioni.

Un’altra area di storico interesse per il nostro Paese è il Corno d’Africa; che vede infatti schierate le missioni UE “EUNAVFOR Atalanta” (407 militari, 2 mezzi navali e 2 aerei), “EUTM Somalia” (con 148 militari, e 20 mezzi terrestri), EUCAP Somalia (15 militari), la missione bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane (53 militari e 4 mezzi terrestri) e, infine, il personale schierato presso la base militare nazionale di Gibuti (117 militari e 18 mezzi terrestri). Per EUTM, EUCAP e la base di Gibuti si registrano anche lievi incrementi del Personale impiegato. Il costo tale di questi impegni nel Corno d’Africa è pari a 54,7 milioni di euro; con “EUNAVFOR Atalanta”, “EUTM Somalia” e la base di Gibuti a incidere in maniera più rilevante.
view post Posted: 14/7/2020, 09:56 L'imperialismo italiano in Africa e dintorni - Esteri
L'imperialismo straccione de noantri si riposiziona in Africa a rimorchio dei francesi.

DUE NUOVE MISSIONI MILITARI DELL’IMPERIALISMO ITALIANO IN AFRICA



Come di consueto, il parlamento italiano ha approvato il tradizionale decreto di rifinanziamento delle missioni internazionali. Riconfermate le oltre 40 missioni dello scorso anno, distribuite in 3 continenti (Africa, Asia e Europa – Mediterraneo), tra cui spiccano quelle in Libia, Iraq, Niger, Afghanistan, Libano, Balcani e Lettonia, per una cifra complessiva che, in linea con gli anni precedenti, supera ampiamente il miliardo di euro. Ma ci sono anche alcune importanti novità che portano a 47 (+3 rispetto al 2019)1 il numero complessivo delle missioni all’estero2 e a 8.613 le unità di personale militare coinvolte.

Sono cinque, infatti, le nuove missioni decise dal Consiglio dei Ministri e approvate dal parlamento, per un ulteriore costo di 47.417.373 euro3 e 1.125 unità impiegate4 nei nuovi teatri operativi: tra queste, troviamo la già nota missione navale dell’UE, Irini, nel Mediterraneo al largo delle coste della Libia, che abbiamo già trattato in precedenti articoli5. Il costo complessivo di questa missione fino al 31 marzo 2021 sarà di 21 milioni di euro e coinvolgerà un contingente italiano composto da un’unità navale, tre mezzi aerei e 517 militari.

Sul terreno libico, dove infuria una lunga guerra di spartizione, l’imperialismo italiano riconferma anche le 4 missioni già in corso, tra cui la missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIBIL), in cui rientra l’ospedale da campo a Misurata, con 400 unità di personale militare, 142 mezzi terrestri e 2 mezzi aerei, per un costo pari a 47.856.596 euro.
La Libia si conferma, quindi, al centro dei piani strategici dell’imperialismo italiano. Significative a riguardo sono le parole del Ministro degli Esteri Di Maio6 che individua i possibili scenari “da evitare” per l’Italia, ossia “un’escalation militare con gli interventi diretti di attori esterni; un congelamento della situazione che si traduca in una spartizione di fatto tra le parti”, in particolare tra Russia e Turchia, che potrebbe portare ad una redistribuzione di influenze, delle riserve di idrocarburi e delle aree estrattive penalizzante per gli interessi dei monopoli italiani7, principalmente dell’ENI, che tutt’ora rimane il principale monopolio energetico nel paese, insediato nella regione della Tripolitania. Parlando nell’aula di Montecitorio lo scorso 26 giugno, il Ministro della Difesa Guerini ha affermato che è “quanto mai importante e necessario mantenere la nostra presenza sul terreno e tenerci pronti, in caso la situazione precipiti, a proteggere i nostri interessi”.8

Direttamente connessa al Nord Africa e, quindi, alla Libia, c’è l’area del Sahel, dell’Africa sub-sahariana e del Corno d’Africa, un’ampia e strategica regione in cui la presenza militare italiana si rafforza con altre due missioni di notevole portata: una nel Golfo di Guinea e l’altra nel Sahel dove già era presente un contingente militare italiano in Niger.
Il decreto approvato dal parlamento afferma la necessità di un ulteriore coinvolgimento militare dell’Italia nel Sahel, considerata “area strategica prioritaria per gli interessi nazionali”, che si esplicita con l’adesione alla missione Takuba, nata su iniziativa francese, con il dispiegamento di 200 militari italiani e 20 mezzi terrestri nella regione di confine tra Mali (sede del comando), Niger e Burkina Faso con compiti di addestramento e supporto agli eserciti della forza multinazionale G5 Sahel (Mali, Niger, Ciad, Mauritania e Burkina Faso) e delle Forze Speciali nel cosiddetto “contrasto al terrorismo di matrice jihadista”. La task force europea Takuba9 agirà nella recentemente istituita “Coalizione per il Sahel” nell’operazione sotto comando francese Barkhane10, presente sul terreno dal 2014 in un’area grande quanto l’intera Europa sulla quale l’imperialismo francese concentra forti interessi e il ruolo di potenza preponderante. Una convergenza che arriva dopo che nella stessa area, come già citato, è presente anche una missione bilaterale italiana in Niger (con area geografica di intervento allargata anche a Mauritania, Nigeria e Benin), riconfermata con il dispiegamento di 295 unità di personale militare (erano 290 nel 2019), oltre all’impiego di 5 mezzi aerei (convenzionali e a pilotaggio remoto) e 160 mezzi terrestri per un costo di quasi 44 milioni di euro, missione con cui l’Italia si è insediata in quest’area in competizione con la Francia.

Entrambe le missioni indicano come quest’area, connessa alla Libia, assuma una rinnovata centralità strategica, estesa ad un’area contigua e complementare con la missione nel Golfo di Guinea, nelle acque internazionali tra Nigeria, Ghana e Costa d’Avorio, volta – come dichiarato da Guerini – “a tutelare i nostri interessi energetici e commerciali, che constano nella presenza di imprese e di vettori navali nazionali”. In quest’area si trovano due dei maggiori produttori africani di petrolio, ossia Nigeria e Angola, paesi nei quali ENI è presente, come anche in Ghana e Costa d’Avorio.11

L’obiettivo di “assicurare la tutela degli interessi strategici nazionali nell’area, con particolare riferimento alle acque prospicienti la Nigeria” si esplicita nell’impiego di 400 unità di personale militare, 2 mezzi navali (fregata FREMM, cacciatorpediniere classe Orizzonte) e 2 mezzi aerei, per un costo pari a 9.810.838 euro, con cui il governo italiano vuole assicurare la protezione delle piattaforme offshore e degli impianti di estrazione di ENI – come esplicitamente dichiarato al primo punto del decreto sulla missione -, garantire la sicurezza delle rotte commerciali marittime nell’area contro gli attacchi della “pirateria”, rafforzare la relazione con gli stati africani che affacciano sul Golfo, fornendo un’attività di sorveglianza navale per ora non continuativa ma, come emerso nel dibattito parlamentare, con la “volontà italiana di garantire in futuro una presenza continuativa nell’area”.

Nel lato opposto del continente africano si rafforza anche la presenza nella base militare di Gibuti, con il compito di assicurare supporto logistico alla partecipazione italiana alle missioni nell’area del Corno d’Africa e zone limitrofe. Saranno impiegate 117 unità militari (erano 92 unità nel 2019) e 18 mezzi terrestri, per un costo di oltre 11 milioni di euro. Anche in quest’aerea è notevole la presenza di missioni e personale italiano: nella missione UE denominata EUNAVFOR Atalanta tra lo strategico Golfo di Aden e al largo della Somalia, con un contingente di 407 unità di personale militare e l’impiego di due mezzi navali e due mezzi aerei, per un costo che sfiora i 27 milioni di euro; nella missione di addestramento in ambito PSDC della UE denominata EUTM in Somalia12, a cui l’Italia partecipa con 148 unità di personale militare (erano 123 nel 2019) e 20 mezzi terrestri; nella missione bilaterale di addestramento delle forze di polizia somale e gibutiane con il dispiegamento di 53 unità e 4 mezzi terrestri a Gibuti.

Altre missioni, come ad es. in Egitto, Tunisia e Mali (vedi infografica), insistono in questa particolare area del continente africano in cui ENI è il principale monopolio energetico operante in 14 paesi, verso i quali l’Italia è tra i principali esportatori di capitali13. Non a caso, quindi, si concentra qui il maggior numero delle missioni all’estero (21 complessivamente), con il consistente dispiegamento di oltre 2.000 militari, a testimonianza delle ambizioni e degli interessi geo-strategici dell’imperialismo italiano.

Come scritto in precedenti articoli, l’area di cui sopra è connessa anche con il Mediterraneo centrale e orientale e con il Vicino e Medio Oriente, dove complessivamente sono dispiegati, in varie missioni di terra e di mare, oltre 3.000 militari.
Infografica Asia

In quelle aree sono state riconfermate principalmente la missione Resolute Support Mission in Afghanistan, con 800 soldati, 145 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, analogamente a quanto previsto nel 2019, per un costo di circa 160 milioni di euro, la missione UNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon) in Libano, con un contingente di 1.076 militari, 278 mezzi terrestri e 6 unità aeree, per un costo di oltre 150 milioni di euro14; e la missione Prima Parthica in Iraq, con un contingente di 1.100 militari, 270 mezzi terrestri e 12 mezzi aerei e un costo di circa 263 milioni di euro. L’Iraq, secondo i dati 2019 dell’Unione Petrolifera, è il primo fornitore di petrolio dell’Italia, con una copertura del 20% dell’import nazionale di greggio e una consolidata e rilevante presenza dell’ENI nel grande giacimento di Zubair e nei nuovi giacimenti di Nahr Bin Umar e Artawi.15 Qui si registra un significativo incremento di 200 unità rispetto al 2019, con l’aggiunta di una batteria missilistica Samp-T che sarà schierata in Kuwait per proteggere gli assets nazionali “a seguito dell’evoluzione dello scenario geo-politico nell’area d’operazioni”. In Iraq è operativa anche un’altra missione sotto egida della NATO, a cui l’Italia partecipa con 46 unità di personale militare per un costo di circa 3 milioni di euro. Nel 2019 l’Italia partecipava a questa missione con 12 unità e adesso si candida per il suo comando dal 2021, in previsione del potenziamento del dispositivo NATO rispetto alla parallela missione della cosiddetta “coalizione internazionale anti-ISIS” a guida USA.

Rinviata, invece, la partecipazione alla missione Emasoh, a guida francese, nello stretto di Hormuz (tra Iran, Oman e EAU), strategico crocevia per il passaggio delle rotte mercantili e petrolifere a cui l’Italia ha pubblicamente dichiarato il suo appoggio politico; “tuttavia – ha dichiarato Guerini -, ritengo che sia un’opportunità da esplorare nel corso del 2021″.

Infografica EuropaAnche in Europa e soprattutto nel Mediterraneo non mancano certo le missioni che coinvolgono forze militari italiane. Le principali missioni a terra rimangono quella NATO in Lettonia (Enhanced Forward Presence) con 200 unità e 57 mezzi terrestri schierati alle porte della Russia per un costo di oltre 24 milioni di euro e quelle nei Balcani, in particolare la NATO Joint Enterprise con 628 unità di personale militare per un costo di oltre 80 milioni di euro. Nel Mediterraneo centrale e orientale sono operative 5 missioni navali: oltre alla già citata missione navale UE Irini, si segnala quella di sorveglianza navale dell’area sud dell’Alleanza NATO, che si estende dal Mediterraneo al Mar Nero con il coinvolgimento di 259 unità di personale militare, 2 mezzi navali e 1 aereo per un costo di oltre 16 milioni di euro e l’operazione NATO “Sea Guardian” nel Mediterraneo orientale, cui l’Italia partecipa con 280 militari, un sottomarino, un mezzo navale e due unità aeree, per un costo di circa 15 milioni di euro. Significativo l’incremento di quest’ultima rispetto al 2019, con il coinvolgimento di 221 militari in più riferiti ad obiettivi – come si legge nel decreto – concernenti “l’incremento di un assetto navale per l’attività di raccolta dati e l’attività di presenza e sorveglianza navale nell’area del Mediterraneo Orientale”. Un’area, ricordiamo, dove sono in corso le dispute sulla spartizione delle ZEE, dei gasdotti, dei diritti di esplorazione e sfruttamento di ricchi giacimenti di idrocarburi con la presenza, tra gli altri, dell’ENI.16 Nell’area del Mediterraneo centrale, l’Italia è presente con la cosiddetta “Operazione Mare Sicuro”, con il dispiegamento di 754 unità di personale militare, 6 mezzi navali e 8 mezzi aerei.

In totale, di queste missioni 12 sono in ambito UE, 9 in ambito NATO e 7 in ambito ONU, ma in questa classificazione il dato più interessante è che altre 13 si svolgono o in ambito di coalizioni internazionali “ad hoc” o ad iniziativa nazionale, con il maggior numero di militari complessivamente impegnati.
In questa fase si può notare la tendenza ad una maggiore ricerca di “autonomia” da parte di diverse potenze rispetto ai conglomerati imperialistici di cui fanno parte, come risultato dell’intensificarsi degli antagonismi e delle contraddizioni interimperialiste che si sviluppano non solo tra blocchi contrapposti, ma anche al loro interno. Questo vale in parte anche per la borghesia italiana, nello sviluppo della sua azione sia diplomatico-politica, sia militare, naturalmente inserita all’interno delle alleanze imperialiste di cui fa parte. Come abbiamo avuto già modo di vedere, infatti, nell’articolo di Domenico Moro17, l’economia italiana occupa una posizione rilevante e ben integrata nel sistema imperialista mondiale, seppure con alcune “debolezze” nei rapporti di interdipendenza con altre potenze più forti che ricoprono posizioni superiori nella piramide imperialista, debolezze che, però, non si possono certamente confondere con forme di “subalternità e dipendenza”. Quanto fin qui evidenziato osservando le varie missioni italiane ne è ulteriore conferma.

In conclusione, queste missioni si concentrano in quell’ampia e strategica regione del mondo, densa di tensioni e pericoli, che si estende dal Mediterraneo centrale e orientale ai Balcani, dall’Africa settentrionale e sub-sahariana fino al Corno d’Africa e al Vicino e Medio Oriente, dal Mar Rosso, dal Canale di Suez e dallo stretto di Bab el-Mandeb al Golfo di Aden e allo stretto di Hormuz, alla quale stiamo dedicando particolare attenzione con diversi articoli su L’Ordine Nuovo.

Qui si scontrano gli interessi di potenze imperialiste globali e regionali per ridisegnare questa ricca area del mondo e spartire le zone d’influenza in base ai rapporti di forza economici, militari, politico-diplomatici, per il saccheggio e il controllo delle risorse naturali, delle rotte di trasporto di merci e energia, delle quote di mercato, dei punti geo-strategici cruciali.
Conflitti, interventi, dispute, ingerenze, accordi e negoziazioni che si giocano sulla pelle dei popoli e nell’esclusivo interesse dei monopoli capitalistici, mentre si accumulano i fattori di rischio di una nuova conflagrazione mondiale.

Osservando le aree e paesi dove sono principalmente schierati i militari italiani, si individua facilmente la corrispondenza con le aree su cui si concentrano i considerevoli interessi economici e energetici dell’imperialismo italiano e dei suoi monopoli. Il coinvolgimento militare italiano nelle varie operazioni, missioni e guerre della NATO e dell’UE18, la cessione di parti di territorio alle basi militari USA/NATO e l’elevata spesa militare (12esima posizione mondiale)19 corrispondono all’ambizione della borghesia italiana di accrescere il proprio peso internazionale e garantire la partecipazione del capitale italiano alla spartizione del bottino in proporzione alla sua forza economica, politica e militare, promuovendo gli interessi e i profitti dei propri monopoli nel contesto della famelica competizione interimperialista in atto in tutto il mondo, ulteriormente intensificata dalla nuova crisi dell’economia capitalistica, al fine di estendere o difendere la propria quota di mercato e la propria posizione nella piramide imperialista.

Queste missioni, che si svolgono sotto il pretesto della “stabilità”, della “pace” e dell’ingannevole richiamo “all’interesse nazionale”, rispondono agli interessi di classe della borghesia e ai suoi obiettivi, coinvolgono il nostro paese in pericolose avventure imperialiste a solo beneficio dei profitti dei capitalisti, seminando morte, distruzione e saccheggio per i popoli delle regioni colpite e imponendo ulteriori sacrifici e politiche antioperaie e antipopolari ai lavoratori del nostro paese. Mentre si prepara una nuova stagione di macelleria sociale, di tagli e licenziamenti, di compressione dei diritti e dei salari, ingenti risorse economiche continuano ad esser destinate agli armamenti e alle missioni all’estero invece che alla spesa sociale, nonostante sia ben evidente tutta l’inadeguatezza di questo sistema, non ultima la sua incapacità di affrontare efficacemente la pandemia e garantire la salute e la vita delle persone.

Non si tratta di “incapacità” di un governo “supino ad interessi stranieri”, bensì di precise volontà e scelte della borghesia italiana, tese a conservare il sistema di sfruttamento e a promuovere i propri interessi nella competizione internazionale.
Più le contraddizioni di questo modo di produzione diventano evidenti, più la sua crescente obsolescenza mette in pericolo il futuro della società, degli ecosistemi e dell’Umanità. Oggi più che mai, la lotta per la pace, contro il coinvolgimento del nostro paese nei piani di guerra imperialista, contro le basi militari USA/NATO, per il rientro di tutti i militari italiani in missioni all’estero e il taglio delle spese militari, deve tornare ad essere parte centrale e fondamentale della lotta di classe del movimento operaio italiano contro la borghesia del nostro paese, contro le sue alleanze imperialiste come l’UE e la NATO e contro qualsiasi altro conglomerato imperialistico, nella consapevolezza che una pace duratura e il progresso sociale possono essere garantite solo in una società liberata dal giogo capitalista.

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1 Sono giunte al termine senza riconferma la “Temporary International Presence in Hebron” (TIPH2) in Cisgiordania e il dispositivo “NATO Support to Turkey – Active Fence” ai confini sud-orientali dell’Alleanza NATO, cioè la batteria SAMP-T schierata in Turchia.

2 Comprendendo anche le missioni di polizia, cosiddette “civili”, di cooperazione ecc.

3 Di cui: € 35.417.373 nel 2020 e € 12.000.000 nel 2021.

4 Che si aggiungono alle 7.488 unità militari riferite alle missioni riconfermate (+145 rispetto al 2019)

5 Per approfondire leggi: https://www.lordinenuovo.it/2020/05/19/alt...rtizione-libica

https://www.lordinenuovo.it/2020/04/08/con...sta-targata-ue/

6 https://www.agi.it/estero/news/2020-06-26/...one-ue-8994462/

7 Per approfondire leggi: https://www.lordinenuovo.it/2020/04/09/con...targata-ue-2-2/

8 https://www.agenzianova.com/a/5f096f2137b4...lia-sul-terreno

9 A cui partecipano anche Belgio, Danimarca, Estonia, Paesi Bassi, Portogallo e Svezia

10 Composta da 5.100 unità militari, cui si aggiungono 3 droni, 7 caccia, 22 elicotteri, tra 6 e 10 aerei di trasporto, 290 blindati pesanti, 240 blindati leggeri e 380 mezzi logistici.

11 Oltre ENI sono presenti altre aziende italiane:

Nigeria – www.infomercatiesteri.it/presenza_italiana.php?id_paesi=23

Ghana- www.infomercatiesteri.it/presenza_italiana.php?id_paesi=13

Guinea – www.infomercatiesteri.it/presenza_italiana.php?id_paesi=147

Angola – www.infomercatiesteri.it/presenza_italiana.php?id_paesi=4

Costa d’Avorio – www.infomercatiesteri.it/presenza_italiana.php?id_paesi=9

12 Un’altra missione italiana nell’ex colonia somala è la EUCAP Somalia con 15 unità di personale militare (erano 3 nel 2019), per un costo di 514.604€.

13 https://www.infoafrica.it/2020/01/29/afric...opeo-in-africa/

14 L’Italia è per il 14esimo anno consecutivo primo contributore a questa missione. Inoltre, in Libano è presente un’altra missione denominata MIBIL (missione bilaterale di addestramento delle Forze di sicurezza libanesi) consistente in 140 unità di personale militare, 7 mezzi terrestri, 1 mezzo navale, per un costo pari a 6.704.811 €

15 Per l’ENI In progetto anche la costruzione di due pipeline sottomarine. Diverse altre aziende italiane sono presenti in Iraq: www.infomercatiesteri.it/presenza_italiana.php?id_paesi=105. La presenza ENI in Iraq inoltre è strategica per la sua espansione in Medio Oriente, in Bahrein, Oman e EAU. Un’area in cui è presente anche un’altra missione che coinvolge 136 militari italiani tra EAU, Qatar e Bahrein.

16 Per approfondire: https://www.lordinenuovo.it/2020/04/09/con...targata-ue-2-2/

https://www.lordinenuovo.it/2020/06/13/fir...l-mediterraneo/

http://www.senzatregua.it/2019/12/22/sui-p...aneo-orientale/

17 https://www.lordinenuovo.it/2020/06/03/ita...e-imperialista/

18 L’Italia è 4° paese contributore alle missioni NATO e si colloca nella prima fascia di Stati membri contributori alle missioni dell’Unione Europea. Inoltre è 1° paese occidentale contributore alle missioni dell’ONU (19esimo in assoluto)

19 https://www.lordinenuovo.it/2020/04/29/for...ultimi-30-anni/
view post Posted: 10/7/2020, 17:32 Le news di Putin - Esteri

LA COSTITUZIONE RUSSA E LA “MINA” DI LENIN





E così, in Russia sono state approvate le modifiche alla Costituzione eltsiniana, rimasta comunque immutata nella sua matrice borghese. Nell’insieme del paese, l’affluenza alle urne è stata del 65% del corpo elettorale, con un voto favorevole al “pacchetto completo” degli emendamenti del 77,92%, contro un 21,27% di no. In alcune regioni (Cecenia, Tuva, Crimea) i Sì hanno superato il 90%; in altre (dal Circondario autonomo dei Nenets, alla regione di Arkhangelsk, passando per Jakutija, Kamčatka, Magadan, Omsk, ecc.) hanno raccolto tra il 55 e il 65%. A Mosca, con un’affluenza del 55,93%, i Sì sono stati il 65,29% e i No 33,98%.

L’opposizione comunista ha registrato (e in vari casi filmato) pacchi di schede elettorali inserite nelle urne di seggi che solerti “scrutatori”, col pretesto del virus, avevano allestito nei luoghi più impensati: persino nei bagagliai delle auto.

Secondo l’opinione comune a tutte le organizzazioni comuniste e di sinistra, il voto elettronico, per di più diluito dal 25 giugno al 1 luglio, ha consentito le più svariate trovate di alterazione dei risultati, come era del resto ampiamente previsto.
Qualche conoscente, esempi concreti alla mano, ci ha confermato che il “signori si allotta” (bonus spesa, lotterie su beni di lusso, ecc.) con cui varie amministrazioni locali avevano cercato di incentivare la partecipazione, in molti casi ha effettivamente funzionato: data la drammatica situazione sociale (la media degli stipendi, secondo il KPRF, è inferiore ai 20.000 rubli), un paio di migliaia di rubli in regalo hanno fatto gola a molti.

Congratulandosi con i russi – sia con chi ha detto No, sia coi favorevoli – per il voto, Vladimir Putin ha sottolineato i punti più rilevanti delle modifiche costituzionali. Tra questi, è tornato su un suo vecchio cavallo di battaglia che, tra l’altro, gli permette di raccogliere l’approvazione anche di quei settori della cosiddetta “sinistra” nazional-patriottica, che vede in Stalin solo l’artefice della “potenza sovietica”, in chiave grande-russa, ignorandone o respingendone la politica bolscevica leninista.
Secondo Putin, l’aver inserito, tra gli emendamenti costituzionali, anche quello sulla integrità delle frontiere russe, col divieto di sottrarne aree territoriali, eviterà al paese di ripetere l’errore delle Costituzioni sovietiche che, da Lenin in poi, prevedevano l’adesione all’URSS di Repubbliche e regioni che lo desiderassero, ma, soprattutto, consentivano anche la loro libera uscita dall’Unione: un elemento che, a detta di Putin, aveva posto una “mina a scoppio ritardato” alle basi del paese.
Naturalmente, Putin ha evitato di dire che la corsa al separatismo è iniziata nel periodo finale dell’Unione Sovietica, quando il primo slogan dei liberali gorbačëviani, “Più socialismo”, nascondeva la definitiva disintegrazione dell’URSS, costata oltre 20 milioni di popolazione persa, tra morti e non nati, per le condizioni sociali ed economiche in cui era stato ridotto il paese. Ha evitato di dire che il Partito bolscevico e la dittatura del proletariato erano garanzia di unità del paese, di una unità basata sulla comunanza di interessi del proletariato di tutta l’Unione, mentre l’ingordigia delle élite borghesi formatesi negli anni ’70 e ’80, bramose di arraffare industrie, beni, risorse del paese, ha portato a guerre, conflitti “territoriali”, per la spartizione del patrimonio sovietico.

Putin non ha detto che le contraddizioni e gli scontri nazionali sono scoppiati proprio a fine anni ’80 e negli anni ’90, così come si erano avuti nei primissimi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, fomentati dalle potenze straniere, che foraggiavano i gruppi semi-feudali locali.
È stata davvero la formula leniniana a scatenare gli odi nazionali, o non sono stati piuttosto gli interessi di classe delle nuove borghesie “sovietiche” e gli appetiti imperialistici internazionali a minare lo stato plurinazionale dell’URSS? Non a caso, nei primissimi anni ’30, quando si riconosceva la permanenza, se non di classi vere e proprie, quantomeno di strati e settori sociali, legati alle vecchie classi borghesi, si ammetteva che, proprio da quelle venivano ancora i pericoli di separatismo.
I bolscevichi affermavano che la questione nazionale fosse strettamente legata alla lotta di classe all’interno dei singoli paesi, e alla lotta contro l’imperialismo, su scala mondiale. Stalin rimarcava come solo il socialismo e la dittatura del proletariato potessero risolvere il problema nazionale, unendo le lotte del proletariato delle nazioni oppresse con quelle degli operai dei paesi avanzati e, negli stati plurinazionali, e le rivendicazioni dei lavoratori delle nazionalità sottomesse con quelle della classe operaia della nazione dominante. Vladimir Putin ha evitato di dire che, nel cosiddetto “spazio post-sovietico”, i conflitti nazionali, fino alle guerre più sanguinose, sono scoppiati quando ha cominciato a venire meno la funzione politica del partito comunista, già prima del definitivo crollo dell’URSS.

In effetti, come ricordava qualche anno fa lo storico Vladislav Grosul, il progetto di formazione dell’URSS, nel 1922, prevedeva “l’inclusione delle altre repubbliche nella RSFSR, con diritti di autonomia, il che avrebbe significato la fine della loro sovranità. Erano contrari al piano sia i comunisti del Transcaucaso, sia Ucraina e Bielorussia. Ciò allarmò Lenin, che quindi propose un piano di federazione, con diritto di libera separazione dall’URSS. Quando fu fatto notare il pericolo di disfacimento, Lenin osservò che c’era il partito e, se necessario, avrebbe corretto tutto. Il Partito comunista era cioè il fulcro del paese e i distruttori dell’Unione Sovietica lo sapevano bene quando portarono il loro attacco contro di quello”.

Ancora Grosul notava che “fino alla rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917 la politica nazionale del POSDR(b) si basava su due principi: diritto delle nazioni all’autodeterminazione e internazionalismo proletario. I bolscevichi erano unitari, esortavano all’unità dei lavoratori. Solo in questo contesto, davano la preferenza ai federalisti, che erano la maggioranza nei movimenti nazionali, e il partito più numeroso, i socialisti-rivoluzionari (SR), puntava al federalismo, per cui i movimenti nazionali avrebbero potuto seguire i SR”, voltando le spalle ai comunisti.

Nel novembre 1918, in “La Rivoluzione d’Ottobre e la questione nazionale”, Stalin affermava: “Essendo solo una parte della questione generale della trasformazione del sistema esistente, la questione nazionale è interamente determinata dalle condizioni della situazione sociale, dal carattere del potere nel paese”. E, nel 1923: “Un gruppo di compagni, con a capo Bukharin e Rakovskij, ha gonfiato troppo l’importanza della questione nazionale… E invece, per noi comunisti, è chiaro che la cosa principale nel nostro lavoro, è l’opera di rafforzamento del potere operaio e, dopo di questo, abbiamo di fronte un’altra questione, molto importante, ma subordinata alla prima, la questione nazionale”. In “Sui principi del leninismo”, Stalin ricorda come la questione nazionale debba esser affrontata in connessione “con la questione generale del rovesciamento dell’imperialismo, della rivoluzione proletaria”. Non c’è bisogno di ricordare quale ruolo abbia giocato l’imperialismo internazionale nel soffiare sul fuoco del separatismo delle élite locali nelle varie periferie dell’URSS.

In generale, non si sono fatti attendere i commenti in rete alle esternazioni di Putin: non c’è bisogno di essere dei geni per comprendere, ha scritto un lettore del gruppo facebook “Stalin e Berija”, che “la RSFSR e poi l’URSS poterono formarsi sui frammenti dell’impero russo, dopo che le sue periferie avevano acquisito una completa o parziale indipendenza, nel periodo dell’intervento dell’imperialismo mondiale, solo sulla base del principio di autodeterminazione di quelle periferie nazionali”.

Inoltre, il principio leninista del diritto delle nazioni all’autodeterminazione, aveva come condizione la libera volontà di unirsi in un’unica entità da parte di tutti gli Stati operai che avrebbero dovuto sorgere sulle rovine degli imperi europei dopo la prima guerra mondiale.

Rispetto all’oggi, “secondo il borghese e antisovietico Putin, popoli e nazioni dovrebbero rimanere in silenzio nella compagine dell’impero, non muovere un passo e accontentarsi di quanto concesso dal potere centrale. Le vecchie ricette dei capitalisti, così care al presidente (zar) sono quelle della pacificazione degli scontenti, per mezzo della corruzione delle élite nazionali e dell’incitamento all’odio tra nazioni e nazionalità”.
Già poco meno di un anno fa, allorché Putin si era espresso negli stessi termini a proposito del principio leninista dell’autodeterminazione, e aveva dichiarato che, prima che Lenin andasse al potere, la Russia “si era sviluppata nel corso di mille anni”, il politologo e leader del socialdemocratico “Movimento per un nuovo socialismo”, Nikolaj Platoškin, aveva ironizzato sul “coraggioso Vladimir Vladimirovič Putin”, che non teme di “avventarsi su Lenin, morto nel 1924. Che uomo impavido! Non mi sembra però di aver mai udito che il membro del PCUS e ufficiale del KGB dell’URSS, Putin, avesse mai così arditamente criticato Lenin nelle riunioni di partito prima del 1985”.
Lo scorso dicembre, su Svobodnaja Pressa, Andrej Zakharčenko ricordava altre esternazioni di Vladimir Putin a proposito della storia sovietica. Nel 2012, ad esempio, aveva dichiarato che la Russia era stata sconfitta nella Prima guerra mondiale a causa del tradimento nazionale dei primi leader sovietici. Nel 2013, aveva definito la guerra con la Finlandia del 1939, come un tentativo dell’URSS di correggere gli errori storici commessi nel 1917. Nel 2016, aveva esternato ancora la sua “idea” originaria, paragonando le idee di Vladimir Lenin a una “bomba atomica sotto l’edificio chiamato Russia”.
E Zakharčenko si chiedeva “come mai e a che scopo una persona uscita da quella potente struttura sovietica creata proprio dai bolscevichi, si esprima così negativamente sui padri fondatori del sistema socialista? Con quale obiettivo l’ex čekista va a riempire le fila di coloro che compiangono la “Russia che abbiamo perso”, cioè l’impero zarista?”.
Si può ipotizzare che l’inserimento nell’attuale Costituzione eltsiniana dell’emendamento sulla integrità territoriale, risponda a precisi interessi di classe. Se nel 1993, quando lo slogan lanciato a tutte le regioni della Federazione russa, era “Prendetevi quanta più sovranità potete”, serviva a soffocare gli ultimi bagliori dell’unità del paese mantenuta dall’ormai traballante Partito comunista, oggi, al contrario, la perdurante e perenne lotta a coltello tra clan capitalistici, esige che si metta per iscritto la proibizione, per remoti raggruppamenti di periferia, di intascare per sé quanto di spettanza degli oligarchi “centrali”. Dopotutto, Vladimir Putin, è il loro rappresentante politico e la sua indefinita permanenza al potere, fissata ora nella Costituzione, risponde proprio al bisogno di stabilità di quelle élite centrali.
A parere del politologo Sergei Vasil’tsov, le critiche al bolscevismo da parte delle autorità attuali costituiscono un tema abbastanza vecchio e ripetuto, nonostante la Russia, oggi, di altri problemi ne abbia più che a sufficienza.

Da una parte, Putin proclama i principi del patriottismo, difendendoli nella politica estera; dall’altra, il governo continua il corso liberale. E allora, ecco che si incolpano Lenin e Stalin della “divisione” del paese, per tacere sullo smembramento di classe della società russa e la riduzione in miseria dei lavoratori.
view post Posted: 6/7/2020, 07:08 PRESENTAZIONE - Presentazioni
Benvenuto. Gloria imperitura al compagno Zachariadis!
view post Posted: 3/7/2020, 09:54 Perché siamo passati da Gramsci al PD? - Storia
CITAZIONE
Da quel momento in poi fare la rivoluzione in Italia rischia di portare ad una crisi di carattere internazionale. Nonostante nel 1945 e nel periodo successivo si assista a tentativi rivoluzionari in decine di paesi del mondo, compresa la vicina Grecia, l'Italia rimane immobile. Si poteva forse agire diversamente nel periodo che va dall'aprile all'agosto del 1945, ma oggettivamente era logico tentare di consolidare il proprio riconoscimento popolare attraverso una libera elezione democratica. Non potevano immaginare Togliatti e il resto del gruppo dirigente tutti i trucchetti della “guerra psicologica” che avrebbero usato gli USA, alleati della grande borghesia nostrana (si vedano gli elenchi della P2) per impedire ai comunisti di andare al potere. Migliaia di vittime di stragi mafiose e del “terrorismo di Stato” stanno lì a dimostrarlo.

mi pare la solita tendenza, di "criticare Togliatti...ma non troppo". Così si perde il nocciolo della questione non affondando la critica, si "giustifica" di fatto tutto. I comunisti non si devono aspettare che la borghesia sia pronta a tutto pur di mantenere il potere? decenni di regimi e guerre non avevano insegnato nulla allora. Forse c'era chi si aspettava un pranzo di gala, magari imbandito sugli scranni del parlamento borghese. Poi è giusto ragionare anche al di fuori dell'"ortodossia", considerare il contesto storico e tutto quello che si vuole, ma mantenere punti chiari di partenza è fondamentale per non finire in bocca all'eclettismo del revisionismo moderno, il quale è stato causa delle nostre disfatte storiche e con il quale è necessario fare veramente i conti, al di là di sentimentalismi cristiani:

CITAZIONE
Bordiga, Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer, Natta sono giganti che dobbiamo continuare a studiare, traendone ispirazione per la nostra prassi quotidiana. Qualsiasi critica possiamo fare al loro operato, ce li portiamo tutti nel cuore, perché pur facendo molti errori, credevano nei nostri stessi ideali.
view post Posted: 29/6/2020, 13:36 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE
Qua mi pare che sia PC che FGC abbiano gli stessi problemi e si rimbalzino le colpe l'un l'altro in uno squallido teatrino.

Concordo. Un suicidio politico collettivo.
view post Posted: 28/6/2020, 10:25 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
Dalla pagina ufficiale di Marco Rizzo, in risposta a questo articolo di "la repubblica" dove si parla della scissione dei giovani www.repubblica.it/politica/2020/06...izzo-260357558/

La borghesia ci si è buttata a pesce, come c'era da aspettarsi.


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Marco Rizzo:

Ho provato ad approfondire perchè ultimamente gli attacchi al Partito ed al sottoscritto aumentano. Per carattere mi sento sempre a mio agio nella battaglia, questa volta però non ammicchiamo all’ego del sottoscritto. Cerchiamo di capire perchè oltre all’attenzione dei trotzkisti vecchi (e nuovi) si muova, con un doppio articolo dello stesso giornalista (tal Pucciarello, una sorta di cremlinologo de’ noantri) la nuova REPUBBLICA, quella di Casa Agnelli -Elkann. Mica sarà per replicare all’unica forza politica che più volte ha toccato il tasto sul mega finanziamento da 6.3 miliardi di euro? Oppure perchè la nostra linea politica (No Ue, No Nato, unione tra classe operaia e ceto medio proletarizzato, centralità del conflitto tra capitale e lavoro e dei diritti sociali, recupero delle masse popolari che hanno abbandonato la politica o che guardano a destra) comincia a dare fastidio? In entrambi i casi possiamo dire che stiamo lavorando bene. Il Partito cresce, si amalgama meglio e potrà affrontare il congresso al massimo delle potenzialità, facendo riflettere i tanti bravi compagni che, specie per la loro giovane età, non conoscono i “mezzi” mediatici -e non- del capitale. Appunto perchè siamo forti e la nostra linea è giusta, vorrei qui sottoporre un brano integrale di critica contro di noi. Credo che vada letto, studiato ed approfondito. Si capirà perchè dico e diciamo: NON SIAMO DI SINISTRA. SIAMO COMUNISTI. Buona lettura : «Rizzo ama ripetere, soprattutto ai compiacenti giornalisti di destra, che lui “non è di sinistra”; subito dopo precisa che è “comunista”. Annovera nel calderone della “sinistra” anche il Pd. Potremmo discutere a lungo se sia lecito o meno utilizzare il termine “sinistra”, ormai radicato nel linguaggio politico. Se per “sinistra” intendiamo riferirci ai partiti e alle organizzazioni che conservano un legame col movimento operaio e la sua tradizione, una cosa è certa: il Pd, il principale partito della borghesia italiana, non è un partito della “sinistra”. Ma l’insistenza di Rizzo nel sottolineare il fatto che lui “non è di sinistra” lascia pensare a uno scaltro gioco retorico: dice di non essere di sinistra per catturare i favori dell’elettorato (e dei giornalisti) di destra.
Ritornando alla prova che suggerivamo di fare all’inizio di questo articolo, è proprio vero che spesso le frasi di Rizzo sono indistinguibili da quelle del destrorso di turno. Quando parla di immigrazione, Rizzo lo definisce un “problema enorme” o un “fenomeno complesso”; contemporaneamente si rivolge, come suoi interlocutori, “agli italiani”. Quando parla dei movimenti femministi, di quelli a difesa dell’ambiente o lgbt, diventa strafottente (e volgare) alla maniera di un Vittorio Feltri o di un Diego Fusaro: deride la “sinistra fucsia” (sic!) che difende i diritti civili, denigra Greta Tumberg per la sua malattia (“ha la faccia giusta, le treccine giuste, la malattia giusta”), umilia le grandi mobilitazioni delle donne riducendole a una macchietta (sei femminista? Allora difendi Teresa May contro “i maschietti capitalisti”!), difende e pubblica sul sito del suo partito la dichiarazione del partito stalinista greco Kke (a cui è legato) contro le unioni civili perché “diritti e doveri della famiglia… biologicamente sono il risultato del rapporto tra un uomo e una donna”. Se associamo tutto questo al fatto che, mentre precisa di non essere di sinistra, è timidissimo nella critica a Salvini, facendolo passare anche come intelligente perché attacca “la sinistra dei comunisti col rolex”, viene veramente il dubbio che Rizzo voglia assecondare le coscienze più arretrate e reazionarie.»

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view post Posted: 26/6/2020, 19:39 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE
Ma i delegati vengono decisi dagli iscritti, non solamente dal Commissario.

sì, quando ho chiesto numi mi è stato detto che praticamente il commissario - che fa le veci del dirigente locale - decide gli iscritti, cioè che da questa famosa tessera, che pare, dal post di Mustillo, essere arrivata solo di recente.
view post Posted: 26/6/2020, 19:29 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
sì, concordo assolutamente sul discorso social.

CITAZIONE
se si fosse voluto veramente discutere seriamente, si sarebbe dovuto fare nel Congresso. E' lì che caso mai dovevano darsele di santa ragione.

Però il punto che denuncia lui è proprio questo; cioè che dal commissariamento, pretestuoso a loro dire, della federazione romana (e poi anche di altre) la dirigenza abbia tentato proprio di evitare questa discussione negli organi dirigenti, che abbia voluto risolvere "dall'alto" la questione, facendo si che poi al Congresso praticamente i "dissidenti" non avrebbero avuto delegati. Insomma accusa un gioco sporco interno da quello che è emerso dalle loro stesse pubbliche diatribe. Boh, vabbé poi i loro cazzi interni li sapranno loro, però, mannaggia.
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