CONTRO LA CRISI DEL CAPITALE, ACCENDIAMO IL CONFLITTO DI CLASSE
Virus (del capitale) ed economia
Stando alle tempistiche dettate dal governo, siamo passati dalla fase 1 dell’emergenza, causata dal Covid-19, alla fase 2. Secondo la propaganda dell’esecutivo, ci troveremmo di fronte ad una vittoria sull’epidemia. In realtà, basta confrontare i dati di inizio del “coprifuoco sanitario” e quelli attuali per rendersi conto che questa versione non regge. Sarà pur vero che c’è una curva tendenzialmente discendente dei contagi e della mortalità, ma la gente continua pur sempre ad infettarsi e a morire e questo, come ormai emerso da ogni dove, per due sostanziali motivi: uno, la sanità negli ultimi anni è stata sacrificata e depotenziata ferocemente per destinare risorse agli armamenti e al grande capitale industriale e finanziario in crisi, e gli ospedali da luoghi di cura sono divenuti covi di infezione e di morte; due, i lavoratori sono stati costretti ad andare nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro nonostante la martellante propaganda governativa contrassegnata dalla litania “io resto a casa”. Basti vedere che, anche secondo l’Istat, più del 55% degli addetti all’industria e ai servizi ha continuato a lavorare uscendo di casa.
Una fase 1 segnata dal carattere criminale di questa classe dominante che ha sacrificato tanti lavoratori e loro familiari sull’altare del dio profitto, mentre nel territorio è stato imposto uno stato da coprifuoco in cui la sbirraglia ha avuto modo di scorrazzare libera, macchiandosi di ogni angheria e sentendosi completamente padrona del territorio.
La cosiddetta fase 2 c’entra molto relativamente con il calo dell’emergenza sanitaria. C’entra principalmente con il calo pauroso dei profitti e con la crisi economica che si è già avviata. Questa è la realtà. Confindustria, in particolare, ha premuto per il suo avvio, ma, in generale, la prosecuzione della fase 1 rischiava di rappresentare un insostenibile peso economico per il sistema e per la cosiddetta tenuta sociale. Pensiamo agli operai rimasti senza salario e con la cassa integrazione che non arriva, ai tanti proletari che sbarcano il lunario lavorando in nero, alla piccola borghesia costretta a sospendere le attività, ma sul cui groppone pesano affitti, tasse e prestiti bancari che non si fermano. Ma anche all’insostenibilità morale e psicologica dei domiciliari di massa imposti al popolo, privato persino della possibilità di fare una passeggiata, con le case divenute una sorta di prigione, con un terrorismo mediatico di massa che ha raggiunto livelli parossistici. Va detto peraltro che il governo si è tenuto il potere di reintrodurre lo stato d’emergenza fino a gennaio 2021, ponendo dunque una pericolosa ipoteca sulle libertà individuali e collettive.
Sul piano della concorrenza internazionale fra capitalisti, la rincorsa alle fase 2 è stata lanciata unicamente allo scopo di non perdere mercati e far ripartire l’economia con tutto ciò che comporta in termini di sfruttamento, rincorsa forsennata ai margini di profitto, devastazione ambientale, smantellamento di conquiste del passato ecc. Vale a dire tornare alla “normalità”, così come può essere sotto un regime di stampo capitalistico in crisi e cioè in condizioni più aggravate di sfruttamento e repressione, come ci stanno facendo già ampiamente vedere la ripresa dei morti sul lavoro e gli “incidenti” come quello gigantesco alla 3V Sigma di Marghera.
E poiché il capitalismo è intrinsecamente caratterizzato dalla dinamica spietatamente concorrenziale, chi riprende a produrre a pieno ritmo, chi riavvia per primo gli ingranaggi dello sfruttamento, chi riesce per primo a scaricare la crisi sulle altre formazioni, otterrà il beneficio di ritrovarsi rafforzato e in grado di sottrarre fette di mercato a chi riparte in ritardo. Di qui la fretta del dare avvio alla fase 2 che dal 1 giugno è stata anticipata al 18 maggio.
Dal punto di vista economico il Covid-19 si sta rivelando come un detonatore di una crisi che dopo il 2008 si era solo allentata, ma mai risolta, restando sempre in stato latente.
Stando ai dati forniti dal Fmi (Sole 24 ore 14 aprile) esiste una stima, a loro detta ottimistica, di una contrazione del Pil mondiale del 3% per il 2020. La previsione per le grandi formazioni imperialistiche danno dati pesantissimi: -7,5% Ue, – 5,9 % Usa, +1,2 Cina. La disoccupazione in Ue e in Usa è in aumento, al 10% e, a marzo, le ore di lavoro perse sono state pari a 200 milioni di posti di lavoro e questo, a breve, si tramuterà quasi sicuramente in licenziamenti. Il tasso d’inflazione va verso il congelamento: +0,2 Ue, +0,6 Usa. Per dare un dato di paragone, la crisi nel 2009 era caratterizzata da una crescita del Pil mondiale del -0,1%. Siamo cioè di fronte ad una crisi mondiale del sistema capitalistico di portata epocale, forse superiore a quella del 1929.
Per quanto riguarda l’Italia, sempre il Fmi, fornisce una previsione di crescita del -9%. Il ministero dello sviluppo economico ha fornito alcuni dati secondo i quali nel mese di aprile il mercato dell’auto ha avuto una battuta d’arresto pari al 98%, la produzione industriale ha subito un calo del 55% e le previsioni su base annua danno un calo della produzione pari a 400/500 mld di euro.
A subire le conseguenze della crisi saranno in primis i lavoratori dipendenti, ai quali si va prospettando l’orizzonte dei licenziamenti per il momento solo attenuato dalla proroga di altri tre mesi del divieto di licenziamento inserito nel dl “Rilancio” del governo. Ma lo saranno anche le fasce della piccola e media borghesia legate al commercio e alla piccola produzione che già ora sono in preda a fallimenti e impossibilità di far fronte ai pagamenti e destinate quindi a subire un forte processo di proletarizzazione. Uno schiacciamento verso il basso dell’intera società che crea allarmi nelle teste d’uovo della borghesia imperialista, per quanto riguarda la tenuta del conflitto di classe e della pace sociale fin qui ottenuta. Non a caso, dunque, Conte continua a sperticarsi sulle misure tampone che il governo sta prendendo, tentando di gettare acqua sul fuoco del malcontento popolare.
Le previsioni di crisi hanno inoltre rimesso in moto i bazooka delle banche centrali che ai primi di aprile avevano già sparato nel sistema finanziario ben 8mila mld di dollari nel tentativo di creare un polmone creditizio che desse ossigeno ad un sistema in totale affanno. Con il risultato che, sommando questa massa di denaro a quella già iniettata dai quantitative easing degli ultimi anni, ci si ritrova con una tale mole di capitale fittizio in circolazione che l’acuirsi della contraddizione tra economia reale e finanziaria attende solo un nuovo pretesto per esplodere.
Ed è qui che si riscaldano i motori del conflitto tra formazioni economiche sia a livello mondiale sia all’interno di alcune formazioni. Lo scambio continuo di accuse tra Usa e Cina sull’origine della cosiddetta pandemia e la sentenza del 6 maggio della corte suprema tedesca contro le politiche espansive della Bce indicano come il livello conflittuale tra formazioni sia destinato ad acuirsi. Nel primo caso con l’obiettivo di contendersi i mercati mondiali, nel secondo con l’obiettivo di affossare il ricorso ai Recovery Bond e imporre il prestito capestro legato al Mes seguendo le note politiche di austerità (su base nazionale), tanto care al capitale tedesco, che non vede l’ora di depauperizzare interi paesi, per concentrare e centralizzare a sé i grandi gruppi industriali europei come già sperimentato con l’esperienza della Grecia.
Il grande capitale italiano è inoltre perfettamente consapevole che l’attuale crisi accelera le dinamiche della guerra imperialista. Basti vedere la riconversione attuata da Fincantieri dalla produzione di navi da crociera a quelle militari per il Pentagono, il recentissimo rinnovarsi dei rapporti tra Finmeccanica e l’industria bellica israeliana e il fatto che, ovviamente, le produzioni di armi e armamenti siano state da subito classificate come essenziali e dunque non abbiano subito nessuna interruzione durante il coprifuoco. Alla tendenza guerra imperialista bisogna opporre la mobilitazione reale. Ciò deve avvenire sia nei territori colpiti dalle installazioni militari, come insegna il movimento No Muos e quello contro le basi in Sardegna, sia in tutti gli altri ambiti concreti dove gli interessi della guerra imperialista sono presenti, come con il boicottaggio dei legami tra istituti universitari e di ricerca italiani e israeliani.
Scontro di classe
La fase 2, quindi, si concretizza nella principalità della crisi economica su quella sanitaria e in questo quadro il padronato, con in testa gli assassini di Confindustria, passa all’attacco. Le dichiarazioni del neo presidente Bonomi sono chiare: mettere mano a “turni, orari di lavoro, numero di giorni di lavoro settimanali e di settimane in questo 2020”… “da definire in ogni impresa e settore al di là delle norme contrattuali”. Un attacco diretto ai contratti nazionali che si inserisce nel tentativo, che va avanti da anni, di ridurre questo istituto sempre più all’osso con accordi al ribasso.
In questi giorni, ad esempio, è stato approvato un accordo sindacale tra i sindacati confederali e Unionfood, Assobirra e Ancit (itticoltori) in rappresentanza di aziende strutturate come Barilla e Ferrero. L’accordo mette le aziende facenti parte di queste corporazioni fuori dal contratto nazionale alimentaristi, sulla scia della Fiat di Marchionne, togliendo così grossi pezzi di classe operaia dalla mobilitazione in corso per il rinnovo. L’accordo separato, il primo della fase 2, vede un aumento su base mensile di 20 euro lordi rispetto ai 205 euro netti chiesti in partenza; una elemosina se pensiamo che le aziende coinvolte fanno parte di uno dei settori che ha accusato meno il colpo, sia prima sia durante l’emergenza. Un altro esempio è quello della Sittel che da qualche settimana ha disdetto unilateralmente il contratto nazionale dei metalmeccanici per imporre quello delle telecomunicazioni, più favorevole alle tasche dei padroni e dell’ospedale San Raffaele di Milano che vede i lavoratori in lotta contro il tentativo di passaggio da pubblico a privato che ne peggiorerebbe le condizioni economiche e lavorative.
Le trattative di tutti gli altri Ccnl in scadenza sono bloccate e riguardano oltre dieci milioni di lavoratori, tre quarti dei quali del settore privato. È sul terreno del salario, delle conquiste, dei tempi e dei ritmi che si giocherà gran parte della partita.
Se Bonomi punta probabilmente al modello tedesco, dove l’istituto principale è il contratto autonomo aziendale rispetto ai contratti di settore, i sindacati confederali lanciano la proposta di un nuovo“patto sociale”. A quest’ultima fa eco lo stesso premier Conte che si pone l’obiettivo di aprire un “tavolo volto a definire forme contrattuali innovative e adeguate a nuove forme di lavoro, a ragionare sui modelli di sviluppo e formazione per rilanciare la crescita, tanto nel privato quanto nella pubblica amministrazione”. L’unica certezza è che sui rinnovi i padroni cercheranno di scaricare le loro perdite sui lavoratori, il governo cercherà di mettere delle pezze facendo ricorso alla fiscalità generale per alleviare le perdite salariali e i sindacati confederali daranno copertura in nome della “responsabilità”.
La questione principale diventa quindi quella di socializzare le perdite facendo ricorso alle risorse economiche statali in deficit, accumulando debiti che andranno necessariamente ripagati ricorrendo a tagli, privatizzazioni e aggravi fiscali. Sempre Confindustria anche su questo punto è chiara, il decreto Salva Imprese, che vedeva centinaia di miliardi di prestiti alle aziende garantiti dallo Stato, è stato aspramente criticato, i padroni vogliono soldi, li vogliono subito e a fondo perduto. Ma qualcuno anche qui dovrà pagare il conto.
L’ultimo dl Rilancio è esemplificativo in questo senso, il taglio dell’Irap per circa 4 miliardi alle imprese, comprese quelle che hanno continuato a fare profitto anche in piena emergenza, è un regalia che avrà una ricaduta diretta sulla sanità ad esempio, la quale si finanzia proprio grazie all’Irap; d’altra parte il governo si fa bello con un finanziamento alla sanità stessa di 3 miliardi e 250 milioni, di fatto con un saldo negativo di 750 milioni rispetto a quanto tolto proprio con il taglio dell’Irap. Le varie misure previste dall’inizio dell’emergenza ad oggi seguono lo schema che vede misere briciole alle classi subalterne, bonus miseri che non garantiscono la sopravvivenza così come il Rem appena previsto. Dall’altra invece si finanzia direttamente o indirettamente i padroni e soprattutto il grande capitale con immissioni di liquidità che nel breve termine danno una boccata di ossigeno, ma che sul lungo periodo vanno solo ad approfondire la crisi già esistente incrementando di fatto il debito pubblico che peserà sulla testa dei lavoratori.
Nello specifico sotto l’occhio del ciclone potrebbe esserci il mondo dell’istruzione, dove l’introduzione della didattica a distanza, osannata da destra a sinistra, può diventare strumento grazie al quale tagliare e aumentare il carico di lavoro a insegnanti e personale Ata, oltre che investire le famiglie di un altro peso economico e dello stress di un ruolo semiscolastico, da far quadrare con il lavoro salariato e domestico.
Se questi sono gli indirizzi da parte dei padroni e dei loro lacchè, la classe lavoratrice e i proletari non sono stati a guardare nella fase 1 e non lo faranno ora. La grande mobilitazione in difesa della salute che ha coinvolto il comparto della logistica e gli operai di aziende di tutti i settori, con scioperi, blocchi e astensioni di massa ha fatto sì che venisse messo in campo il lockdown nelle imprese, contro la linea di Confindustria (praticata in modo criminale in Lombardia) di tenere tutto aperto. Questa è stata una mobilitazione di massa e autonoma della classe rispetto alla stessa triplice che aveva firmato i protocolli per tenere aperte le aziende. Un risultato importante che ha riportato la classe operaia e i suoi rapporti di forza protagonisti, anche se per poco, sulla scena pubblica dopo tanto tempo.
Non è un caso, quindi che proprio in funzione preventiva la norma anti assembramento e il divieto di sciopero, quest’ultimo prolungato sino a giugno, siano in vigore e usati principalmente contro chi oggi si sta mobilitando dentro i posti di lavoro. Un esempio lampante è quanto avvenuto ai magazzini della Tnt di Peschiera Borromeo, dove, per sgomberare l’occupazione del magazzino in corso contro i licenziamenti operati dalla cooperativa, sono stati impiegati oltre duecento poliziotti, camionette e in altri magazzini addirittura l’esercito. Questi sono tutti esempi di come la borghesia imperialista e il suo governo siano in stato di allerta sulla possibilità che salti il tappo delle contraddizioni sociali e cerchino di capitalizzare in termini repressivi le norme di contenimento dell’emergenza sanitaria. In fabbrica si lavora ammassati, ma nelle piazze non puoi stare nemmeno distanziati ad un metro senza incorrere in multe o violenze della polizia, come avvenuto anche per il Primo Maggio a Trieste.
Nel quadro che va delineandosi va colto il peggioramento drastico e l’estensione del lavoro precario, a cottimo, dei finti lavoratori autonomi e dei parasubordinati. Questa selva di forme di sfruttamento, con contratti già privi di diritti e nate proprio per dribblarli, è e sarà sempre di più incrementata. Grazie al protagonismo dei lavoratori coinvolti da qui sono emersi alcuni esempi positivi di lotta proprio durante il lockdown, come lo sciopero del Primo Maggio dei riders. In particolare a Torino è stata espressa una notevole capacità organizzativa con lo svolgimento di una vera e propria “ronda” capace di eludere la sbirraglia e bloccare, posto dopo posto, i tablet da dove partivano gli ordini. Una lotta che insegna come, anche in periodi di massimo controllo e repressione, se ci si organizza con volontà di vincere i risultati non mancano. Inoltre una dimostrazione che è possibile, nella lotta, costruire momenti di ricomposizione del proletariato giovanile urbano proprio in un settore dove i padroni hanno puntato al massimo dell’individualizzazione. È una mobilitazione che va promossa e sostenuta come va sostenuta ogni lotta del mondo del precariato e dei contratti atipici.
A pagare il prezzo più alto della crisi saranno inoltre le donne proletarie che, già nella cosiddetta fase 1, hanno dovuto sobbarcarsi ulteriori carichi di lavoro produttivo e riproduttivo. Da un lato si sono registrati aumenti di turni e ritmi alle casse e tra gli scaffali dei supermercati, nelle fabbriche che non hanno mai chiuso, tra le corsie degli ospedali da sanificare, nelle comunità residenziali, nello smartworking e in tante altre attività. Dall’altro lato, se già la “normalità” capitalista vedeva un doppio o triplo sfruttamento a danno delle donne proletarie, alla sospensione di scuole, asili, centri diurni e sostegni domiciliari è corrisposto un enorme sovraccarico di lavoro di cura rivolto a bambini, anziani e disabili. In particolare, la didattica a distanza ha aumentato quel carico di lavoro mentale di cui principalmente le madri si sobbarcano per l’aiuto e l’invio dei compiti, le connessioni alle lezioni e le conferme delle comunicazioni online.
Inoltre, i diritti delle donne – come quello all’interruzione volontaria di gravidanza – sono ulteriormente attaccati. Già prima della pandemia, l’Italia si collocava al 26esimo posto su 45 stati dell’Europa geografica per gli accessi ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva e alla contraccezione (con un tasso del 58%). [1] Ora le chiusure di centri, ambulatori e consultori sono state un ulteriore colpo al diritto alla salute e all’informazione delle donne. Mentre i movimenti proLife della destra fascioclericale hanno lanciato una petizione per vietare gli aborti durante l’emergenza Covid19, in molte strutture ospedaliere le interruzioni volontarie di gravidanza sono state sospese, o trasferite in altri centri sanitari, complicando ancora una procedura già resa difficoltosa dalle alte percentuali di medici obiettori, con il rischio concreto di un aumento degli aborti clandestini che mettono in pericolo la salute e la vita stessa delle donne. Una questione che ha visto una grande attivazione dei movimenti e delle organizzazioni femministe a favore dell’aborto farmacologico, dell’accessibilità e della capillarità delle informazioni per la salute delle donne.
[1] Fonte: obiezionerespinta.info
Cosa fareFatte queste premesse è necessario ragionare sul che fare nella pratica, soprattutto in vista dello scontro di classe principale che riguarderà il salario, il posto di lavoro e le conquiste materiali e di agibilità dei lavoratori. Le mobilitazioni del proletariato in Italia hanno senz’altro segnato la via da seguire e sulla quale marciare. L’arma dello sciopero, dell’interruzione della produzione e del blocco della distribuzione di beni non necessari rappresentano ad oggi un mezzo necessario per danneggiare dal punto di vista puramente materiale gli interessi dei padroni al fine di rallentarne l’attacco verso i lavoratori, tanto più se la rincorsa alle riaperture e alla ripresa della produzione si farà serrata.
Altrettanto importante risulterà la solidarietà a tutti i lavoratori e le lavoratrici in lotta affinché gli episodi come quello della TNT di Peschiera Borromeo non passino inosservati e non cadano nel silenzio. Tuttavia le questioni che si stanno dipanando all’orizzonte politico sono molteplici e non riguardano solamente il settore produttivo e logistico. A subire il peggioramento delle condizioni economiche e la scure dei tagli al welfare, ai diritti e ai salari sarà, infatti, anche tutto il proletariato urbano e non, costituito da precari del terzo settore, lavoratori pubblici, studenti, inquilini e pensionati così come una larga fascia della piccola borghesia in via di proletarizzazione. Risulterà perciò fondamentale mettere in campo parole d’ordine e pratiche volte ad unire tutta quella galassia che il grande capitale deciderà di sacrificare sull’altare della propria sopravvivenza e del proprio profitto.
Già da ora la destra reazionaria è alla caccia delle carcasse che questa crisi lascerà dietro di sé, strumentalizzando il malcontento per racimolare voti dando false speranze, estremizzando la guerra tra poveri e dividendo la classe degli sfruttati. Molti proletari si faranno ammaliare, se i movimenti di massa saranno incerti nel fare quadrato contro gli attacchi del grande padronato o se si ammiccherà alle strategie della sinistra borghese. L’esperienza della quarantena ha visto anche l’attivarsi di una fitta rete di solidarietà popolare in moltissimi territori, sia dove esperienze di lotta erano già attive sia in nuovi territori. Queste rappresentano importanti forme di resistenza che occorrerà mantenere, rafforzare e diffondere nei territori, per affrontare uniti i colpi che verranno e rinsaldare quel sentimento di unione che in altri tempi ha permesso alla classe di marciare unita e strappare anche notevoli vittorie, ma che gli attacchi padronali, da quarant’anni a questa parte, ha sfibrato e logorato. Va detto che il lavoro dei compagni e delle compagne in questo campo è prezioso poiché permette di sottrarre questi ambiti al controllo diretto e indiretto della classe dominante, sia della sinistra borghese che della chiesa e dei gruppi fascisti e reazionari, che puntano a porre sotto la propria egemonia la solidarietà popolare, per rafforzarsi nella crisi.
In questa situazione viene in primo piano la questione di riconquistare quegli spazi di agibilità politica che i padroni, con la scusa della quarantena, hanno sottratto e che continuano e continueranno a chiudere. Mentre le limitazioni sulla mobilità vengono meno se la meta da raggiungere è la produzione e il consumo, non è altrettanto garantito che la stessa cosa avverrà per manifestazioni, presidi, assemblee e tutto ciò che concerne l’attività politica e sindacale. Questo fenomeno è in realtà già in atto e verrà cavalcato il più a lungo possibile. La carta della pandemia continuerà ad essere sbandierata, finché ce ne sarà la possibilità, come deterrente “legittimo” da parte delle istituzioni per impedire ogni sorta di contestazione e organizzazione e in una situazione di crescente malcontento generalizzato, le istituzioni sanno che le strategie adottate durante la quarantena potrebbero risultare comode anche successivamente. Solo la lotta potrà garantire nuovamente quegli spazi a cui le persone hanno rinunciato per la salvaguardia della salute collettiva, ma se ,come è chiaro, la fase 2 si apre nella corsa al rilancio va da sé che lo slogan comparso a Genova “se possiamo lavorare possiamo anche scioperare” sintetizza a pieno l’intento da porsi e la strada da percorrere.
Va considerato che la giustissima intenzione di far pagare la crisi ai padroni non può limitarsi alla sola (per altro importante) individuazione di piattaforme sindacali e rivendicative, ma creando dei reali rapporti di forza sui luoghi di lavoro, nei territori, nelle scuole, nelle università e nei quartieri. Diciamo questo perché da una parte è lo stesso capitale che, adottando politiche keynesiane di affrontamento della crisi e di pacificazione sociale tende a sussumere parole d’ordine come il reddito per tutti trasformandolo come meglio gli è compatibile (vedi il reddito di emergenza e i bonus per le partite IVA, trasformate in misere elemosine) o che tende a gestire rivendicazioni come quelle della patrimoniale nell’ennesimo attacco (come ha cercato e cerca di fare il PD ) a fasce sociali comunque subordinate come quelle dei lavoratori autonomi e della piccola borghesia urbana cui viene imposto un feroce processo di pauperizzazione/proletarizzazione. Dall’altra perché il tentativo che come compagni dobbiamo essere in grado di compiere è quello di produrre quei rapporti di forza e quelle rivendicazioni che contengano in essere la rottura dei rapporti sociali capitalistici. Ad esempio crediamo che un contenuto centrale dello scontro di classe che evidenzierà in modo ulteriormente efficace, oltre a quanto successo fin qui nella fase 1, la necessità del superamento/distruzione del modo di produzione capitalistico si darà nella battaglia a difesa dei posti di lavoro quando cesserà l’ulteriore proroga al bando licenziamenti del dl Rilancio verso metà agosto e, stante l’avvitarsi così pesante della crisi, ci saranno migliaia e migliaia di licenziamenti in tutti i settori produttivi. La barriera che come classe e come compagni dovremo essere in grado di porgere si scontrerà pesantemente con le esigenze del capitale di rigenerarsi e dovrà necessariamente manifestarsi la questione del potere politico e di chi lo detiene.
Se promuovere, praticare, organizzare e sostenere la lotta di classe è il compito immediato dei comunisti e delle comuniste, il compito principale rimane quello di portare avanti una linea e dei contenuti politici che indichino la necessità della rottura rivoluzionaria con il capitalismo gravato dalla crisi. Nell’azione politica di massa, bisogna affermare l’alternativa del socialismo, difronte all’attuale barbarie del capitalismo, corroborata appieno dalla gestione borghese dell’attuale epidemia. Rispetto alle masse popolari in lotta, va affermata la prospettiva dello sviluppo della lotta di classe in lotta rivoluzionaria, grazie al ruolo cosciente e organizzato dei comunisti. Rispetto ai compagni e alle compagne più avanzate, è importante costruire rapporti e ambiti di discussione e di azione politica finalizzati all’organizzazione dei comunisti. Senza dogmatismi, ma nella pratica delle lotte, imparando dalle lotte stesse e dialettizzando questa pratica con il patrimonio del movimento comunista.
Organizzare la resistenza e trasformare la fase due dei padroni in scontro di classe!
Ogni posto di lavoro va difeso, no a decurtazioni salariali!
Se possiamo lavorare possiamo anche lottare e scioperare!
Lavoro e reddito per tutti!
Mai più tagli alla sanità e all’istruzione, no alle spese militari!
Nessuno sfratto deve passare, organizzare la lotta contro caro affitti e bollette!
Riprendiamoci gli spazi di lotta e agibilità politica!
Morte al capitalismo, lottiamo per il socialismo!
Collettivo Tazebao