MES. Non farsi illudere dalle apparenzeNei giorni scorsi Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, ha rilasciato dichiarazioni al Financial Times che hanno destato scalpore in chi ha seguito la cronaca politica negli ultimi anni. Nell’intervista si dice:
“La sfida che affrontiamo è quella sul come agire con sufficiente forza e velocità per evitare che la recessione si trasformi in una depressione prolungata, resa più profonda da una pletora di fallimenti aziendali che lascerebbero danni irreversibili. È evidente che la risposta deve comportare un aumento significativo del debito pubblico. La perdita di reddito sostenuta dal settore privato deve alla fine essere assorbita, in tutto o in parte, dai bilanci pubblici. Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica (1) permanente delle nostre economie e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato” .
Suonano strane queste parole dette da chi ha occupato posizioni di massimo rilievo nelle istituzioni dell’Unione Europea, fondata ideologicamente su una delegittimazione del ruolo di intervento dello Stato nell’economia di mercato e su basi reazionarie che hanno favorito la concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi grandi gruppi finanziari. In pratica, le parole Draghi sembrano annunciare il fallimento del “neoliberismo”, cioè dell’impianto teorico su cui l’Unione Europea è stata costruita. Peraltro, questo non è un segnale isolato: l’assegnazione dei premi Nobel negli ultimi dieci anni, la promozione di economisti eterodossi come De Grauwe e Minsky, e la diffusione di nuove teorie economiche (legittimate anche da Draghi stesso in una delle ultime dichiarazioni rilasciate da presidente della BCE (2), vanno nella direzione di criticare aspramente ciò che conosciamo come neoliberismo. Tutto questo viene fatto nell’ottica di rivalutare le vecchie teorie keynesiane che, in poche parole, ammettono che l’intervento statale nell’economia (attraverso l’uso della spesa pubblica, anche in deficit) può essere un buon modo per stabilizzare un sistema economico – il capitalismo – che di per sé è instabile e generatore di crisi.
Chi, come i comunisti, per decenni ha combattuto il neoliberismo (cioè la corrente di pensiero economico che predica la ritirata dello Stato dall’economia, fatta attraverso privatizzazioni, liberalizzazioni e deregolamentazioni), si espone al rischio di affiancarsi ai keynesiani. Questa, però, sarebbe una strategia fallimentare. La risposta alle privatizzazioni non può limitarsi a chiedere “più Stato”, ciò che bisogna realizzare è il socialismo.
Le idee keynesiane non sono né nuove né politicamente vergini. Esse sono state il faro che ha orientato la politica economica nei primi decenni del dopoguerra, quando le aziende a partecipazione statale giocavano un ruolo di primo piano nell’economia italiana e non solo, e quando si era dato vita al sistema di welfare pubblico che oggi viene scarnificato. I comunisti, però, non si sono mai fatti ingannare dalle apparenze idilliache di questo sistema, addirittura prevedendone la fine e denunciando il fatto che il peso di queste politiche – anche se indirettamente – sarebbe comunque gravato sulle spalle dei lavoratori. L’intervento statale, in un’ottica keynesiana, non è mai diretto a garantire i diritti sociali delle classi popolari. È sempre diretto a garantire la salvaguardia dell’economia di mercato capitalista, secondo la vecchia formula del “privatizzare gli utili e socializzare le perdite”. Fino ad adesso, l’intervento pubblico è stato sempre l’ancora di salvataggio del capitalismo.
Quello che la politica keynesiana propone è il sostegno alla domanda di mercato, sfruttando anche la leva del debito pubblico. Sicuramente l’utilizzo del debito pubblico permetterebbe un più ampio margine di intervento diretto dello Stato nell’economia, con qualche beneficio per i lavoratori, ma con la finalità di proteggere le aziende e il sistema economico che genera inevitabilmente crisi come quella odierna dovuta al Covid-19. Inoltre, il debito pubblico è detenuto, in grossa quota e sottoforma di titoli di Stato, da parte delle banche e degli istituti finanziari in generale: aumentare il debito pubblico rimanendo nell’ottica del capitalismo significa quindi rafforzare il potere di ricatto del capitale finanziario, e quindi il capitalismo stesso. Non a caso Lenin, nel 1917, ripudiò il debito pubblico russo contratto dal regime zarista con i grandi banchieri dell’epoca.
Per contenere l’espansione eccessiva del debito pubblico si potrebbe ricorrere alla monetizzazione del deficit (come proposto dalla FED – la banca centrale americana – negli scorsi giorni). Monetizzazione del deficit significa, in pratica, contenere l’espansione del debito pubblico dovuta al deficit di bilancio attraverso l’immissione di moneta nel sistema. Questo è un rimedio lungamente utilizzato anche in Italia prima del divorzio tra Tesoro e Banca Centrale, ed è vietato esplicitamente dai trattati europei. L’uso di questa tattica, però, ha come effetto collaterale l’aumento dell’inflazione oltre livelli critici, e ciò ha come conseguenza l’erosione del potere d’acquisto dei comuni cittadini e il gonfiarsi dei profitti delle imprese (se il tasso di inflazione si mantiene nettamente positivo per abbastanza tempo, le imprese sono in grado di vendere ad un prezzo più alto ciò che hanno iniziato a produrre a prezzi più bassi), causando una ridistribuzione in negativo della ricchezza e del reddito e quindi l’aumento della disuguaglianza.
Da comunisti, dobbiamo prendere le distanze da dichiarazioni come quelle di Draghi che rimandano soltanto ad una modalità di gestione della crisi capitalistica un po’ più equa e con l’effetto di rimandare di qualche tempo l’emergere inevitabile di grosse contraddizioni proprie dell’instabilità del capitalismo. Il nostro orizzonte non è né il neoliberismo né le idee di Keynes.
Il nostro orizzonte è il socialismo – che è oggi più che mai necessario.
Non basta far intervenire lo Stato nell’economia di mercato, è necessario ribaltare totalmente il paradigma dell’economia di mercato e sostituirla con il socialismo, bisogna dare i mezzi di produzione in mano ai lavoratori, per organizzare l’economia in base alle necessità collettive, e non in base ai profitti privati.
Per fare questo abbiamo bisogno di uno strumento politico: il nostro compito è quello di costruire il Partito Comunista come l’avanguardia della classe lavoratrice, far sì che si abbattano tutte le istituzioni al servizio del capitale e che i lavoratori si facciano Stato, per gestire democraticamente l’economia.
Pragmaticamente, è necessario nazionalizzare i settori chiave dell’economia, a partire dalle banche e dalle infrastrutture e dalle produzioni strategiche, per riportare la sanità completamente in mano pubblica espellendo i privati, lanciando un piano di assunzioni nel settore pubblico, dalla scuola alla sanità, fino alle grandi opere per la messa in sicurezza del nostro Paese dal punto di vista idrogeologico.
È soltanto attraverso un’economia nazionalizzata e gestita da uno Stato socialista che si riuscirà a mettere la parola fine alle crisi cicliche e tipiche del capitalismo, che in un modo o nell’altro gravano sulle spalle del popolo, e a garantire una vita dignitosa a tutti i lavoratori.
1
https://www.corriere.it/economia/finanza/2...6ba22fce7.shtml2
https://www.bloomberg.com/news/articles/20...-ideas-like-mmtIl desiderio dell’uomo decisivoChe Mario Draghi trovi sostegno in un certo ambiente economico, è nelle cose. Che su Mario Draghi stia convergendo tutta la politica italiana, è un’altra cosa. Dal Pd alla Lega al vasto mondo della critica keynesiana, il quadro politico sembra chiudersi attorno alla soluzione migliore per tutti (o quasi: l’unico a rimanere col cerino in mano sarebbe Conte, e con lui il M5S). I motivi di questo interesse sono facilmente intuibili. Meno i problemi politici che verrebbero a generarsi dall’unità nazionale attorno all’uomo delle banche.
La crisi economica, già in corso e che seguirà la fine o il contenimento dell’epidemia, sarà di vaste proporzioni. Tutti i paesi, nessuno escluso, subiranno il contraccolpo dell’arresto dei flussi commerciali misurandolo in vari punti percentuali di calo del Pil. Per l’Italia, questo non potrà non aggirarsi in una forbice che va dal -5 al -15%. Percentuali da economia di guerra, come evidente e come stanno dicendo un po’ tutti, Draghi per primo. Se in tempo di pace la questione poteva essere affrontata (e aggirata) attraverso l’accelerazione export oriented dell’economia del paese, dinamica che ha portato l’Italia alla ventennale stagnazione economica, le soluzioni per questa crisi non potranno replicare quanto è stato fatto fino ad ora. Per risollevare un paese in profonda recessione è inevitabile stimolare la domanda interna, rafforzando il mercato domestico di produzione e circolazione di beni e servizi. Altrimenti quel -15% lo recuperiamo nel 2050, come infatti (non) è avvenuto con la crisi scoppiata nel 2008: il Pil dell’Italia nel 2019 non ha ancora raggiunto i livelli a cui era arrivato nel 2007. Ci stiamo rimpicciolendo drasticamente e troppo velocemente nel tempo, e questo è uno dei motivi dello scarso peso politico dei nostri governi in Europa.
Stimolare la domanda interna è possibile solo attraverso la leva degli investimenti pubblici, da un lato, e tramite una politica di moderazione fiscale per le imprese, dall’altro. L’insieme di questi due interventi dovrebbe servire ad aumentare l’occupazione e il livello medio dei salari. Questa è la dinamica keynesiana classica, ed è questo che Draghi ha aleggiato nel suo intervento sul Financial Times lo scorso mercoledì. Si capisce dunque perché tutti vogliano salire sul carro del dopo-crisi: Draghi non è Monti, non verrebbe a commissariare l’Italia per imporre politiche d’austerity; al contrario, è l’uomo della provvidenza, il gestore di una pioggia di finanziamenti pubblici, italiani ed europei, che pioveranno a dirotto una volta che si assesterà l’epidemia e la Ue troverà l’accordo per finanziare la riscossa economica del continente.
Peraltro, Draghi assomiglia sempre più alla “contropartita” per azionare il Meccanismo europeo di stabilità. Invece di imporre condizioni capestro in cambio di aiuti finanziari, come ad esempio “riformare” il mercato del lavoro o perseguire il pareggio di bilancio, la condizione politica in cambio degli aiuti economici è che a gestirli non sia Conte e il suo precario governo. Draghi, da una parte, è garanzia di prudente gestione dei fondi europei; dall’altra, il sostegno trasversale che lo accompagnerebbe al governo renderebbe lo stesso più solido e deciso. Si capisce, da tutto ciò, perché Pd, Renzi, Forza Italia e Lega stiano tentando il colpo di mano: il governo Draghi non è un governo che farà perdere voti ai protagonisti. Per il Pd, si tratterebbe di garantirsi al governo e al tempo stesso anestetizzare l’opposizione della Lega; per la Lega, tornare al governo raccogliendo i frutti dell’apertura dei cordoni della borsa. Per i protagonisti minori, il solo tornare al governo è motivo di entusiasmo. Se questo è lo scenario “razionale” per “salvare il capitalismo” dal virus, si capirebbero le grida di giubilo che giungono dalle parti più impensabili. Ma tutto andrà come descritto?
In primo luogo, è tutto da vedere che la partita con la Ue termini con una “vittoria” italiana (che, tradotto, sarebbe l’approvazione degli “Eurobond”, cioè obbligazioni di debito pubblico emesse direttamente dalla Bce). Titoli di Stato, garantiti non da questo o quello Stato comunitario, ma dalla Ue nel suo complesso. Titoli senza spread dunque. Si capisce l’interesse dell’Italia all’introduzione di questa forma di condivisione del debito. Eppure lo scontro in corso per il momento non promette una soluzione di questo tipo. La mediazione verte su di un Mes “ammorbidito” nelle condizioni di apertura del credito, e dall’aumento dei fondi in dotazione al Mes stesso. Su di un altro piano, il proseguimento sine die e senza fondo del quantitative easing. L’Italia in questa battaglia ha al suo fianco altri paesi, tutti importanti ma nessuno decisivo: la Francia, che però è un non-alleato, visto il rapporto organico con la Germania; la Spagna, martoriata dal virus, ma anch’essa alleata organica della Germania; la Slovenia, paese dell’est – cioè del retroterra produttivo tedesco – ma Stato troppo piccolo; l’Irlanda, un paese del nord, ma anch’esso piccolo e periferico. Oltre questo fronte l’Italia non ha margini di contrattazione rilevanti. L’alternativa cinese è minacciata ma di fatto impraticabile: l’Italia non scinderà l’alleanza politico-economico-militare con la Nato e gli Usa, neanche per questa battaglia. Dunque, vedremo. Ma lo scenario più probabile, al momento, è una mediazione che rafforzi il Mes e disinneschi gli Eurobond. Anche perché l’Unione europea è un’associazione competitiva e non cooperativa. Questo significa che la crisi sarà anche generalizzata, ma il modo in cui uscirne è delegato ai singoli Stati. L’uscita dalla crisi avverrà cioè tentando di sottrarre quote di mercato, di produzione, di risorse agli altri Stati membri. Una debolezza italiana, in tal senso, consentirebbe scorrerie finanziarie a cui stanno guardando un po’ tutti, in Occidente. I “gioielli di famiglia” oggi sono scalabili, e il dopo-crisi aprirà all’economia di rapina continentale margini di conquista che saranno valutati attentamente dai nostri “partner”.
Draghi verrebbe dunque a gestire il Mes, non a governare un debito pubblico lasciato libero di crescere a dismisura per cause di forza maggiore (cosa che, in ogni caso, avverrà). E sarà proprio in questa fase, in cui la politica sarà decisiva, che si vorrebbe anestetizzare il confronto demandando il compito di allocare le risorse (eventuali e limitate) al “tecnico”. Lo stesso “tecnico” che ha commissariato l’Italia nel 2011 cacciando Berlusconi e imponendo Monti; lo stesso “tecnico” che ha istituito il Fondo salva-Stati e che ha gestito la “trattativa” con la Grecia sull’orlo del fallimento. Già oggi si condividono le ricette del mondo dell’imprenditoria, non a caso fatte proprie anche dal resto dell’arco parlamentare e non solo. “Abolire”, “sospendere” o “dilazionare” le scadenze fiscali, ad esempio. Tutti, anche a sinistra purtroppo, rincorrono le parole d’ordine imprenditoriali della moderazione fiscale. Al contrario, bisognerebbe ragionare su di una nuova leva fiscale progressiva, che diminuisca il peso fiscale sui redditi più bassi e su una determinata composizione lavorativa, e al contempo innalzi la pressione fiscale sui redditi maggiori, sui loro patrimoni immobiliari o finanziari, nonché sui patrimoni immobilizzati nelle banche.
Sciogliere le briglie dell’economia in una fase (possibile ma non per questo sicuramente probabile) di spesa in deficit porterebbe inevitabilmente a ripensare il mercato del lavoro. In quale direzione? Garantendolo attraverso migliori definizioni contrattuali? Oppure “liberalizzandolo” ulteriormente in senso anglosassone? E la vicenda dello smart working di massa come inciderà sulle coperture contrattuali e salariali dei lavoratori? Perché il processo di de-fiscalizzazione porterà, facile immaginarlo, allo scambio perverso tra busta paga leggermente più alta e minori garanzie contrattuali, abolendo la contrattazione nazionale in favore di quella aziendale. Processi che passerebbero indolori in una fase di crescita sostenuta del Pil, ma che ricadrebbero come macigni una volta esaurita la traiettoria di crescita drogata dal debito pubblico. Anche qui, dunque, ci vorrebbe la politica, non la pacificazione nazionale a sostegno del tecnico-salvatore della patria.
Se nei tempi brevi la ricostruzione dell’economia porterebbe a una condivisione di fatto delle urgenze, nei tempi medi – una volta passata la tempesta – uno come Draghi al governo sarebbe un problema di non poco conto. L’uomo di Goldman Sachs completerebbe l’opera di privatizzazione degli asset nazionali, a cominciare da quell’Alitalia che invece in questi giorni sembrerebbe sulla via della nazionalizzazione. Insomma, Draghi ha gioco facile, oggi, a imporsi quale uomo della provvidenza: l’orizzonte di ricostruzione dell’economia è delineato (non si trova più un liberista in giro, fateci caso…), ma è proprio nel momento in cui si allargano i cordoni della borsa che, al contrario, è necessaria la politica. Capire dove e come spendere i soldi della ricostruzione – se e quanti saranno – è il primo campo di battaglia nel confronto politico. Confronto che si vorrebbe sospendere, in nome di un obiettivo che è tutto fuorché “neutro”. Che questa sospensione venga richiesta dalla destra liberista o sovranista, non fa stupore. Che a richiederla sia anche una parte della “sinistra keynesiana” rischia di validare il sostegno unificato ad un personaggio, e a una politica, che si configura già oggi come anti-lavorativa, anti-sindacale e aperta a ogni sperimentazione repressiva, sul lavoro e nella società. Il virus, come ogni crisi, può essere anche un’opportunità. Facciamo in modo che a coglierla non sia solo il capitale organizzato attraverso le sue rappresentanze politiche.