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Il VII Congresso mondiale del Comintern e le sue conseguenze

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www.resistenze.org/sito/te/pe/dt/pedtml02-025563.htm

Il VII Congresso mondiale del Comintern e le sue conseguenze


Per una rivalutazione critica della politica antifascista del Comintern


Di Thanasis Spanidis, 6 Dicembre 2020
Traduzione a cura di Giaime Ugliano
Originale: https://kommunistische.org/diskussion/der-...ntern-undseine-
folgen/
Sommario:
Introduzione 1
Fronte Popolare e Fronte Unito: solo una nuova tattica o una nuova strategia? 2
Il VII CM come eredità problematica per il movimento comunista mondiale1 6
La "definizione dimitroviana del fascismo" 6
Fronte Unito e Fronte Popolare come movimenti di massa 8
Il bilancio della socialdemocrazia 10
L'obiettivo di un partito operaio unito 10
La partecipazione dei comunisti al governo 14
Forme e slogan di transizione 15
La polemica contro i "dottrinari dell'ultra-sinistra" 18
Lo scioglimento dell'Internazionale Comunista nel 1943 19
Gli effetti a lungo termine del VII Congresso mondiale del Comintern 20
Conclusioni 26
Bibliografia 28
Nota preliminare: rendiamo disponibile un articolo del compagno Thanasis Spanidis la cui
pubblicazione sulla homepage del DKP è stata impedita dai redattori.
1. Introduzione
"La strategia dei comunisti tedeschi è indiscutibilmente fortemente influenzata dal VII
Congresso mondiale fino ad oggi", scrive Hans-Peter Brenner, responsabile dell'educazione
della DKP, in un contributo di discussione (Brenner 2017). Con il VII Congresso mondiale
del Comintern (da qui in poi: VII CM), riunitosi a Mosca nel 1935, si può individuare un
punto storico nel lungo sviluppo del movimento comunista mondiale, che nella prospettiva
odierna può essere visto come una svolta. Da questo momento in poi, i concetti strategici dei
partiti comunisti si sono sviluppati in una certa direzione. Infatti, non solo per il KPD e il
DKP, ma anche per i PC di altri Paesi, il suddetto congresso ha avuto un'importanza
straordinaria nel loro sviluppo. Nei Paesi di lingua tedesca, questo sviluppo ha portato al
concetto di "democrazia antimonopolista" (DAM) e a una "strategia antimonopolista" (SAM)
alla ricerca di "fasi transitorie". In altri Paesi, i PC hanno adottato idee simili di una fase di
transizione.
I difensori di questi concetti strategici fanno sempre riferimento al VII CM e al famoso lungo
discorso di Georgi Dimitrov. Chi critica i concetti strategici della SAM e della DAM ha
quindi sostanzialmente solo due opzioni: può cercare di giustificare il motivo per cui questi
concetti si riferiscono erroneamente a Dimitrov - l'elaborazione di Hans-Christoph Stoodt
sembra puntare in questa direzione (Stoodt 2016); oppure deve affrontare la questione di ciò
che era eventualmente problematico nelle linee politiche di base stabilite dall'IC nel 1935.
In ogni caso, una domanda del genere è legittima. La storia del movimento comunista è
sempre stata una storia di errori. Non c'è motivo per cui il VII CM in particolare possa
affermare di aver elaborato orientamenti corretti e validi per tutti i tempi.
Eppure non c'è quasi mai stata una critica interna al movimento comunista internazionale a
questi orientamenti. Finora, la controversia si è limitata in gran parte all'interpretazione del
Congresso, che, ad esempio, nella figura del presidente della VVN (Associazione dei
perseguitati dal regime nazista – Lega degli Antifascisti, ndt) Ulrich Sander (dirigente del
DKP, ndt), è stata rivendicata dagli opportunisti di destra per giustificare una politica di
alleanze arbitraria e senza principi (Sander 2016). Stoodt, d'altra parte, mostra perché una tale
visione può essere sostenuta solo con la massima ignoranza della reale politica del
Comintern.
Nel mondo di lingua tedesca, un esame critico della VII CM è ancora largamente carente:
questo articolo vuole essere un tentativo in tal senso. Non è mia intenzione bandire in alcun
modo dalla storia comunista il congresso e la politica del fronte unito e popolare degli anni
Trenta, né discuterne dal punto di vista di un "tradimento della rivoluzione mondiale", come è
consuetudine nei circoli trotskisti. L'obiettivo è piuttosto quello di chiedersi quali elementi
della politica adottata in quell'occasione siano stati successivamente reinterpretati in modo
opportunistico, quali aspetti siano stati completamente ignorati nelle considerazioni
successive, e anche se alcuni dei nuovi orientamenti fossero già problematici e difettosi nel
1935.
L'indagine è supportata da documenti e analisi del Comintern, in particolare dai discorsi di
Dimitrov e Wilhelm Pieck, ma anche da documenti successivi della storia del movimento
comunista mondiale.
2. Fronte Popolare e Fronte Unito: solo una nuova tattica o una nuova
strategia?
Come esempio del "settarismo" ancora prevalente nel movimento comunista dopo il VII CM,
Reiner Zilkenat cita: "Era ancora molto diffusa anche l'opinione che la politica del fronte
unito e popolare adottata fosse una nuova tattica basata sulle decisioni prese al VI Congresso
dell'IC, ma non un concetto strategico" (Zilkenat 2015).
Hans-Christoph Stoodt controbatte a questa tesi: "Di conseguenza, il programma dell'IC
adottato nel 1928 non fu ritirato, né revocato o riformulato. Ha continuato ad applicarsi nel
suo orientamento strategico, ulteriormente sviluppato dalle discussioni successive - non è
stato deciso nient'altro". La base strategicamente più ampia era stata l'orientamento dell'unità
d'azione della classe operaia, già valido nel programma dell'IC, e solo su questa base si era
cercato di costruire fronti popolari. Nel 1939, poco dopo lo scoppio della guerra, la leadership
dell'IC decise di revocare la tattica del fronte popolare e di tornare all'offensiva diretta contro
ogni regime borghese (Stoodt 2016). All'ultima argomentazione di Stoodt si potrebbe
obiettare che ciò ha poco a che fare con le considerazioni concettuali dell'IC e molto di più
con le considerazioni di politica estera dell'Unione Sovietica, che aveva stipulato un trattato
di non aggressione con la Germania da diverse settimane. Questo può essere vero, ma
soprattutto la valutazione di Stoodt è sostanzialmente coerente, anche se con alcune riserve
(vedi sotto), con la logica della politica del Fronte Popolare rivelata dalle fonti precedenti.
La semplice osservazione che segue già depone contro l'idea che Dimitrov abbia voluto
stabilire una nuova strategia con il suo discorso: in esso, l'espressione "tattica del fronte
unito" viene citata tre volte. Il termine "tattica" ricorre in totale 13 volte nel discorso di
Dimitrov, spesso in forme come "tattica contro il fascismo". Il termine "strategia" (o
"strategico", ecc.), invece, non si trova nemmeno una volta nell'intero testo. Si può supporre
che se la leadership dell'IC fosse stata davvero interessata a un nuovo orientamento strategico
che sarebbe rimasto corretto a prescindere dalla congiuntura politica concretamente
prevalente, lo avrebbe chiamato così. Una nuova strategia avrebbe richiesto anche un nuovo
programma del Comintern. Sarebbe stata una procedura insolita e discutibile nel movimento
comunista limitarsi a registrare gli orientamenti strategici nei discorsi o nelle risoluzioni del
congresso.
Tuttavia, le argomentazioni dei protagonisti della discussione parlano anche del fatto che la
politica del Fronte Popolare e del Fronte Unito era essenzialmente intesa a introdurre una
nuova tattica, ma non una revisione della strategia esistente.
Così Dimitrov chiede la "creazione di un ampio fronte popolare antifascista sulla base (!) del
fronte unito proletario". Dalle sue osservazioni si evince che ciò non può che essere
logicamente così, perché il fronte popolare, secondo la concezione dell'IC di allora, è
essenzialmente l'alleanza della classe operaia, unita nell'azione, con gli altri strati operai
(vengono citati i contadini e la piccola borghesia urbana) e i loro partiti.
Anche Pieck, nel suo discorso alla Conferenza di Bruxelles del KPD nel 1935 (Pieck 1935),
parla del VII CM come di "un congresso di revisione dei principi tattici (!) dell'Internazionale
comunista in conformità con la mutata situazione mondiale", che porterà a una "svolta nel
lavoro dell'intero movimento comunista mondiale". Lungi dal rifiutare l'intera politica del
KPD nella Repubblica di Weimar, egli sottolinea la correttezza della lotta contro la
socialdemocrazia:
"Era necessario che conducessimo la lotta più aspra contro la politica di collaborazione di
classe della socialdemocrazia con la borghesia, contro la rinuncia agli interessi della classe
operaia a favore del mantenimento del dominio capitalista, contro il terrore che la
socialdemocrazia, come potere governativo, ha usato contro gli operai rivoluzionari per
sopprimere il loro movimento, dirigendo così la spinta principale contro questa politica (!),
avremmo dovuto notare, con una corretta analisi marxista della situazione e delle forze di
classe, i cambiamenti che stavano avvenendo in questo periodo in cui il pericolo fascista
stava venendo sempre più alla ribalta. Avremmo quindi dovuto mettere la nostra lotta contro
la socialdemocrazia in un rapporto corretto con la lotta contro l’aggressione fascista. Questo
non è accaduto, e qui sta il nostro più grave errore nell'elaborazione della nostra linea
politica".
Il saggio di Pieck lascia poco spazio alle interpretazioni: non solo la lotta contro la
socialdemocrazia era corretta. Per molto tempo è stato persino giusto dirigere la "spinta
principale" contro di essa. Solo quando il pericolo fascista divenne dominante, si sarebbe
dovuto riorientare la spinta principale verso il fascismo, continuando in secondo luogo la lotta
contro la socialdemocrazia. Non si è parlato da nessuna parte di un'alleanza fondamentale,
anche strategicamente significativa, con la socialdemocrazia. L'errore era consistito "solo" nel
fatto seguente: "Una tattica che era corretta in un certo momento è stata continuata anche
quando le condizioni della lotta sono diventate diverse". Ma: "Anche la nostra lotta contro la
Repubblica di Weimar, contro la democrazia borghese, era assolutamente necessaria e
corretta, perché non solo raccoglieva intorno a sé "l'intera controrivoluzione tedesca", ma
perché da essa partivano gli attacchi più gravi contro la classe operaia".
Pieck addirittura individua il momento esatto in cui il KPD ha commesso il suddetto errore,
ovvero il successo elettorale del NSDAP nel 1930: solo da quel momento in poi la tattica del
KPD si è rivelata sbagliata. Chi vuole invocare la svolta del 1935 per giustificare le tattiche di
oggi dovrebbe tenerlo a mente: secondo Pieck, di fronte a un'imminente presa di potere
fascista è giusto indebolire la lotta contro la socialdemocrazia (!) e concentrarsi sul fascismo
come principale avversario tattico del momento.
Questo dovrebbe in realtà dimostrare a sufficienza che, almeno agli occhi dei principali
dirigenti del Comintern, si trattava di una nuova tattica, ma sulla base della strategia
precedente. Però anche lo stesso Pieck è confuso su questo punto: improvvisamente si parla
che l'avanzata fascista aveva reso necessaria "una svolta nel nostro orientamento strategico in
direzione della spinta principale contro i fascisti". Il fatto che ciò non sia avvenuto è stato
"l'errore strategico" di quel periodo.
Questi due passaggi sono in diretta contraddizione con tutto ciò che è stato detto finora. È
possibile che si tratti di formulazioni create senza che il parlante sia consapevole delle loro
implicazioni. In ogni caso, furono queste ambiguità a rendere più facile far passare la politica
del Fronte Popolare non solo come risposta tattica limitata all'acuto pericolo fascista, ma
come concetto generale di politica comunista.
C'è anche una seconda obiezione alla mia tesi e a quella di Stoodt: nel suo articolo, Dimitrov
non solo parla di alleanze contro il fascismo, ma con riferimento a Lenin, invita a "trovare
forme di transizione o di avvicinamento alla rivoluzione proletaria". Non è una questione
strategica? Ebbene, senza dubbio queste forme di transizione riguardano l'obiettivo strategico
della rivoluzione proletaria. Ma non si deve leggere in Dimitrov più di quanto dica
effettivamente. Soprattutto, invita a rimanere flessibili su questa questione e a tenere gli occhi
aperti sulle possibilità di creare una coscienza rivoluzionaria tra le masse al di là dei soliti
metodi di agitazione e propaganda, e di essere in grado di sollevare gli slogan giusti nella
situazione decisiva, che dovrebbe preparare la coscienza di massa per la rivoluzione. Per
questo sono necessari anche i cosiddetti "slogan di transizione". Tuttavia, nulla di tutto ciò
viene spiegato in dettaglio. Dalle ulteriori spiegazioni risulta chiaro che si tratta soprattutto di
lottare per i governi del fronte unito antifascista anche da questo punto di vista, cioè non solo
come misura difensiva contro il fascismo, ma anche per aprire la strada al socialismo. La
questione della partecipazione del governo dovrà essere affrontata in seguito. In questo caso,
tuttavia, è importante notare che anche i governi a fronte unito sono descritti solo
"possibilmente" come una forma che potrebbe "rivelarsi una delle forme di transizione più
importanti in diversi Paesi" - vale a dire, in nessun modo come un orientamento strategico
generale, né come la forma di transizione per eccellenza. In definitiva, la questione di cosa si
intenda per "forme transitorie" è lasciata al caso concreto e quindi rientra nuovamente nel
campo della tattica.
Se, dunque, l'idea dominante nell'IC è che essa abbia semplicemente deciso un riorientamento
tattico nel VII CM, ciò significa niente di meno che l'interpretazione abituale del VII CM
deve essere messa seriamente in discussione. Un orientamento elaborato per una situazione
storica molto specifica non può essere elevato a base di una strategia generale verso il
socialismo senza una giustificazione molto profonda. Quando H.P. Brenner afferma
giustamente che il VII CM ha avuto un'influenza decisiva sulla strategia dei comunisti
tedeschi, sta sostanzialmente dicendo che la strategia del DKP è stata sviluppata almeno in
parte in contraddizione con lo spirito della politica del Comintern dell'epoca. Nel 1935 Pieck
considerava la lotta contro la socialdemocrazia un compito centrale dei comunisti e
addirittura l'orientamento centrale per la maggior parte della vita della Repubblica di Weimar.
Tuttavia, questa interpretazione non ha retto nei decenni successivi. Così, nel suo programma
del 1978, il DKP scriveva: "Il DKP si sforza di avere un rapporto di fiducia e di cameratismo
con i membri, i sostenitori e le organizzazioni (!) della socialdemocrazia. Guidato dagli
interessi della classe operaia, sostiene la cooperazione con la SPD" (DKP 1978, p. 259).
Ma anche sotto altri aspetti, la percezione del VII CM sembra essere molto selettiva. Ecco
altri due esempi:
in primo luogo, Dimitrov non parla di alleanze con settori della borghesia, come la borghesia
non monopolista. Ci sono considerazioni generali sulla politica di alleanza con gli strati al di
fuori del proletariato. Non si tratta di un'invenzione del 1935, ma è già contenuta nel
Manifesto del Partito Comunista. Che in condizioni di capitalismo monopolistico ciò possa
includere anche settori della borghesia è una tesi (problematica) che non può basarsi né su
Marx ed Engels, né su Lenin, né sul VII CM, ma che si è fatta strada nel movimento
comunista solo più tardi. Tuttavia, questa idea è parte integrante della concezione della DAM,
che si colloca nella tradizione del VII CM.
Il secondo punto è ancora più significativo: per lo più, in relazione all'autocritica dell'IC e del
KPD nel 1935, si parla sempre e solo di un regolamento di conti con gli errori "settari" nella
politica dell'alleanza. Questo è visto come la parte decisiva dell'analisi autocritica della
sconfitta, come il nucleo della spiegazione del perché non si è potuto impedire il fascismo in
Germania e l’annientamento del movimento operaio. Il saggio di Pieck, tuttavia, dà ampio
spazio a un aspetto piuttosto diverso dell'analisi della sconfitta. Egli afferma:
"Dobbiamo qui fare una seria critica a noi stessi, in particolare anche alla direzione del
partito, poiché non abbiamo preso sufficienti precauzioni per la protezione dei quadri, poiché
non abbiamo educato il partito in tempo e sufficientemente per il passaggio all'illegalità, e
poiché noi stessi siamo diventati vittima di una certa illusione di legalità dopo l'instaurazione
della dittatura hitleriana". E: "Ma sono state commesse gravissime violazioni delle regole
della cospirazione anche sotto altri aspetti, che ci hanno procurato gravissime perdite di
quadri in tutto il periodo successivo all'instaurazione della dittatura hitleriana".
Ovviamente, il KPD giunse alla conclusione che le sue organizzazioni lavoravano in modo
troppo aperto, troppo attaccabile, troppo poco cospirativo, trascurando così in modo criminale
l'elementare responsabilità di un partito bolscevico di essere pronto ad affrontare il caso di
illegalità in qualsiasi momento. Il pesante tributo che ha pagato per questo è ben noto.
Tuttavia, sembra che questa parte importante dell'autocritica del KPD sia andata in gran parte
perduta nella memoria storica, o almeno sia rimasta molto meno impressa nella memoria
collettiva. In Europa occidentale, in ogni caso, dopo il 1945 si è registrata una tendenza
opposta nella maggior parte dei PC verso strutture organizzative dei partiti comunisti sempre
più aperte e ampie - e questo, contrariamente ai fatti, spesso proprio invocando le "lezioni del
fascismo" degli anni Trenta.
3. Il VII CM come eredità problematica per il movimento comunista
mondiale1
Coloro che vogliono dichiarare l'orientamento verso le alleanze con la socialdemocrazia e le
altre forze borghesi come principio generale della strategia comunista, e che ritengono di
potersi riferire anche al VII CM, stanno in realtà distorcendo la storia. Non si tratta solo di
un'interpretazione selettiva del discorso di Dimitrov, che enfatizza arbitrariamente alcuni
aspetti e ne trascura altri, ma vengono completamente omessi alcuni passaggi del testo, che
altrimenti sarebbero adatti a dimostrare l'erroneità di questa interpretazione.
D'altra parte, non è nemmeno vero che la destra opportunista e altri sviluppi problematici nel
movimento comunista mondiale non abbiano nulla a che fare con il VII CM e con la politica
di alleanza decisa in quell'occasione. Anche se si deve convenire con Stoodt che Ulrich
Sander e soci sono impegnati in una falsificazione opportunistica dei risultati del VII CM, ciò
non significa che abbiano completamente torto a farvi riferimento. Il tentativo di assolvere la
politica del Comintern di allora da ogni responsabilità deve quindi fermarsi qui. Di seguito si
dimostrerà, sulla base di una serie di aspetti, che questa politica era certamente problematica,
in quanto il documento di Dimitrov conteneva già i semi delle successive deviazioni
opportuniste.
3.1. La "definizione dimitroviana del fascismo"
È nota la definizione di Dimitrov del fascismo al potere come "dittatura aperta e terroristica
degli elementi più reazionari, sciovinisti e imperialisti del capitale finanziario". In alcune
parti del movimento comunista, questa formulazione è stata elevata nei decenni successivi a
definizione del fascismo per eccellenza, citata ripetutamente come una dichiarazione di fede
in documenti, discorsi, discussioni e testi teorici. I suoi meriti sono evidenti: a differenza
delle varie teorie borghesi del fascismo, che presuppongono una rivolta della piccola
borghesia o addirittura delle "masse", il carattere del fascismo come forma di governo
capitalista è qui correttamente identificato. Inoltre, la differenza con altre varianti di governo
borghese è marcata sulla base di alcune caratteristiche (dittatura aperta, terrore di Stato,
reazione e sciovinismo, orientamento espansionistico).
Il modo in cui questa frase è stata elevata a dogma ha comunque danneggiato il movimento
comunista.
Come è noto, nella teoria marxista dello Stato, lo Stato borghese funziona come un
"capitalista collettivo ideale" - cioè non rappresenta gli interessi dei singoli capitalisti o delle
frazioni di capitale, ma cerca sempre di aggregare e far rispettare l'interesse totale della classe
dominante a questi interessi individuali, in caso di conflitti anche contro gli interessi
particolari di singole parti della classe. Nelle successive elaborazioni della teoria dello Stato,
si è poi precisato che i rapporti di forza concreti si esprimono sempre nello Stato borghese, in
modo che alcune frazioni della borghesia possano acquisire l'egemonia su altre. Tuttavia,
questo non cambia il carattere fondamentale dello Stato come capitalista collettivo ideale.
Nient'altro vale per il fascismo al potere che, in fondo, non è altro che una variante
particolarmente brutale dello Stato borghese. Anche lo Stato fascista deve organizzare
l'accumulazione del capitale e creare condizioni quadro adeguate: il successo
dell'accumulazione di capitale è la condizione di esistenza di ogni Stato capitalista. Tuttavia,
ciò esclude la possibilità che lo Stato possa avere in mente esclusivamente gli interessi di una
fazione della borghesia. Se così fosse, la base economica capitalista del fascismo
scomparirebbe rapidamente.
Quando Dimitrov caratterizza il fascismo al potere come il dominio della sola fazione più
reazionaria del capitale finanziario, si allontana da questa intuizione di base della teoria
marxista dello Stato. Il fatto che egli scriva in altre parti del documento "Il fascismo è il
potere del capitale finanziario stesso" e "la dittatura della grande borghesia" dimostra al
massimo la contraddittorietà e la mancanza di raffinatezza dell'analisi del fascismo da parte
del Comintern, ma non risolve in alcun modo il problema. Infatti, non solo le due
formulazioni si contraddicono a vicenda, ma anche la limitazione dello Stato fascista al
potere del capitale finanziario, cioè ai monopoli fusi dell'industria e delle banche, è fallace.
Lo Stato, anche nel capitalismo monopolistico, non è mai la rappresentazione esclusiva dei
monopoli, ma si basa sempre sul processo complessivo di accumulazione del capitale.
Questo non significa negare che il fascismo, come hanno dimostrato ad esempio le analisi sul
fascismo tedesco di Kuczynski, Gossweiler e altri, sia stato sostenuto in misura particolare da
alcune frazioni del capitale (soprattutto l'industria pesante) e che questo valga soprattutto per
la fase precedente al 1933. Tuttavia, tutti i settori del capitale erano allora coinvolti nel
fascismo al potere e tutti hanno tratto profitto, anche se in misura diversa, dalla
frantumazione del movimento operaio, dalla depressione dei salari reali, dalla guerra
predatoria fascista, ecc.
In effetti, soprattutto per quanto riguarda il fascismo tedesco, è discutibile che si sia trattato di
una forma di governo borghese con una "base di classe particolarmente ristretta" (Zilkenat
2015). Al contrario, si potrebbe addirittura sostenere che il nazifascismo abbia in un certo
senso unito politicamente la borghesia sotto una bandiera comune, eclissando
temporaneamente le sue contraddizioni interne. In ogni caso, la grande instabilità della
Repubblica di Weimar, che si espresse in vari colpi di Stato e in condizioni simili a una
guerra civile, si concluse con il fascismo.
Considerato che lo scritto di Dimitrov è oggi spesso considerato il classico per eccellenza
dell'analisi comunista del fascismo, va anche sottolineato che nel Comintern ci sono stati
certamente altri studi sul fascismo che hanno posto i loro accenti in modo diverso. Clara
Zetkin analizzò il carattere del movimento fascista e del fascismo al potere sulla base
dell'esempio italiano al plenum allargato del Comitato Esecutivo dell’Internazionale
Comunista del giugno 1923. In generale, intendeva il fascismo come un movimento e una
forma di governo nell'interesse della borghesia, che le forniva una base di massa contro il
movimento operaio organizzato (Zetkin 1923). Inoltre, va menzionata Rajani Palme Dutt, che
ha prodotto un'analisi dettagliata del fascismo in Fascismo e rivoluzione sociale. Per lui,
come per Zetkin, il fascismo era uno strumento e un rappresentante degli interessi della
grande industria, delle banche e dei proprietari terrieri nel loro complesso (cioè non solo di
una piccola frazione del capitale finanziario), sfruttando una base di massa prevalentemente
piccolo-borghese, ma anche in parte sottoproletaria (Palme Dutt 1934, p. 102). L'opera di
Palme Dutt, tra l'altro, rappresenta probabilmente la più profonda analisi comunista del
fascismo dell'epoca e non può che essere definita eccellente. Il fatto che oggi sia quasi
sconosciuto tra i comunisti ha a che fare con i cambiamenti politici del dopoguerra.
Che si tratti di qualcosa di più di una semplice discussione accademica è dimostrato dalle
conseguenze politiche degli errori di Dimitrov nella teoria dello Stato. Un esempio di ciò è
riportato in un articolo di Reiner Zilkenat: Dimitrov aveva "delineato la base di classe
oggettivamente insolitamente ristretta del fascismo al potere". I fascisti non hanno fatto
politica nemmeno per il capitale finanziario nel suo complesso, ma per le sue sezioni
particolarmente scioviniste e imperialiste. Questo non potrebbe portare a costellazioni di
alleanze che raggiungono alcuni settori della borghesia?" (Zilkenat 2015). Così, da una teoria
sbagliata segue una pratica corrispondente. Si dimentica il fatto che l'antifascismo è
innanzitutto un aspetto della lotta di classe lungo la contraddizione fondamentale capitalelavoro.
Le conseguenze opportunistiche di questa interpretazione sono particolarmente
drastiche in un contributo del leader del VVN Ulrich Sander (v. nota precedente, ndt): "Tutti
contro l'AfD! (...) questo deve essere lo slogan" (Sander 2016) (ndt: si riferisce al partito di
estrema destra tedesco Alternativa per la Germania). Il compito dei comunisti non è la lotta
contro il sistema che dà vita al fascismo, ma il fronte comune con "tutti i democratici",
comprese le associazioni imprenditoriali e i partiti di governo. La lotta per il socialismo è
rimandata a un futuro indefinito, quando il pericolo fascista sarà superato. Un futuro che in
realtà non si realizzerà mai, perché è il capitalismo stesso a tendere da solo verso la reazione
e il fascismo.
Ma non solo la lotta per il socialismo scompare con questo orientamento: anche la lotta
contro il fascismo non può essere condotta in modo efficace, perché la rinuncia alla lotta di
classe rende impossibile mettere le masse in posizione di contrasto al fascismo. Questo
"antifascismo" non è più orientato agli interessi di classe del proletariato, che sono
diametralmente opposti al programma fascista, ma al rifiuto puramente morale del fascismo.
L'orientamento del Comintern negli anni Trenta era, ovviamente, ben lontano da questa
degenerazione di destra del programma comunista. Tuttavia, ha contribuito a far sì che alcune
false idee potessero attecchire e svilupparsi nella coscienza collettiva del movimento.
3.2. Fronte Unito e Fronte Popolare come movimenti di massa
La politica del fronte unito non era un'invenzione del VII CM, ma era da anni uno degli
orientamenti centrali del Comintern. Tuttavia, l'interpretazione e l'enfasi del fronte unito
cambiarono significativamente con la Seconda Guerra Mondiale. Già nel 1931 il KPD
scriveva nell'appello "Formate il Fronte Unito Rosso!": "Noi diciamo agli operai che contro
una futura forma ancora più aperta e spregiudicata di dittatura capitalistica non si può
combattere risparmiando, tollerando, sostenendo il capitalismo di oggi, ma dirigendo la spinta
principale contro l'effettiva dittatura della borghesia e i suoi decisivi appoggi in ogni ora!". E
"sconfiggere il fascismo, cioè liberare la classe operaia dai vincoli della socialdemocrazia e
del riformismo!" (KPD 1931). La lotta contro il fascismo era quindi direttamente collegata
alla lotta contro la socialdemocrazia.
Dimitrov, invece, continua ad additare la pesante responsabilità della leadership
socialdemocratica per il fallimento del fronte unito antifascista e l'ascesa al potere del
fascismo. Tuttavia, egli sottolinea con maggior forza la necessità di avvicinare le
organizzazioni socialdemocratiche e di proporre loro azioni comuni al fine di costituire
questo fronte unito. Senza che il termine compaia nel documento, la posta in gioco è l'idea di
un fronte unito "dall'alto" che dovrebbe integrare e facilitare quello "dal basso".
Mentre la politica del fronte unito si riferiva alla creazione di un'unità d'azione della classe
operaia indipendente dalle affiliazioni e dalle simpatie di partito, il fronte popolare doveva
emergere sulla base del fronte unito e includere gli strati non proletari del popolo, in
particolare i contadini lavoratori e la piccola borghesia urbana. Partendo dalla dimensione
sociale del fronte popolare come alleanza di classe, tuttavia, la concezione prevedeva anche la
cooperazione con le organizzazioni e i partiti in cui sono rappresentate queste forze sociali.
Contraddicendo le affermazioni fatte altrove, secondo cui anche nella lotta difensiva
antifascista la lotta contro il riformismo continua ad avere un'importanza decisiva, Dimitrov
afferma ora: "non attaccheremo nessuno, né persone, né organizzazioni, né partiti, che siano a
favore del fronte unito della classe operaia contro il nemico di classe. Allo stesso tempo,
però, nell'interesse del proletariato e della sua causa, abbiamo il dovere di criticare quelle
persone, organizzazioni e partiti che disturbano l'unità d'azione dei lavoratori". In questo
modo, l'atteggiamento di un partito nei confronti del fronte unito (e non più quello nei
confronti del dominio di classe della borghesia) divenne il criterio decisivo con cui questo
partito doveva essere giudicato dai comunisti. La distanza fondamentale dalla
socialdemocrazia era quindi chiaramente ridotta. Sembra ragionevole interpretare che un
partito socialdemocratico disposto a collaborare con i comunisti non debba più essere
criticato.
Vengono poi portati alcuni esempi da diversi Paesi, il cui tenore è: la socialdemocrazia sta
perseguendo una politica reazionaria, ma tuttavia bisogna cercare di fare fronte comune con
essa e sostenere la parte progressista delle sue richieste per liberare i lavoratori dalla morsa
socialdemocratica.
È difficile fare una valutazione conclusiva di questa politica. Nel contesto dell'offensiva
fascista, era comprensibile e giustificabile. Probabilmente era anche giusto azzardare
un'avanzata in questa direzione: d'altra parte, però, ci si chiede quali fossero le condizioni per
il successo di tale politica. Nella Germania dei primi anni '30, la dirigenza della SPD aveva
successivamente rifiutato o ignorato quattro (!) offerte del KPD per una resistenza comune al
fascismo, due prima e due durante l'instaurazione della dittatura fascista. Ciò non fu dovuto
solo alla tanto bistrattata "tesi del socialfascismo", ma soprattutto all'atteggiamento della
dirigenza socialdemocratica, che pretese il rispetto della presa di potere legale di Hitler e in
alcuni casi dichiarò addirittura che il "nazionalsocialismo" era una variante del socialismo
che doveva essere sostenuta. Così il socialdemocratico "Quotidiano Sindacale" scriveva il 29
aprile 1933: "Non abbiamo davvero bisogno di "sforzarci" per confessare che la vittoria del
nazionalsocialismo, sebbene ottenuta contro un partito che consideravamo portatore dell'idea
socialista, è anche la nostra vittoria, nella misura in cui il compito socialista è ora fissato per
l'intera nazione". Dopo il passaggio di potere fascista, l'esecutivo socialdemocratico della
Confederazione Generale dei Sindacati Tedeschi (ADGB) si dichiarò pronto a collaborare
con lo Stato fascista e il 19 aprile 1933 accolse con favore la ridenominazione del 1° maggio
come "Giornata nazionale dei lavoratori" da parte dei nazisti (citato da: Schleifstein 1980,
116 e seguenti).
Ora, si potrebbe ipotizzare che, alla luce delle repressioni contro di loro, anche tra queste
forze sia avvenuto un processo di apprendimento (contro il quale, tuttavia, ampi settori della
dirigenza della SPD rimasero completamente immuni fino alla fine). In ogni caso, sarebbe
stato illusorio aspettarsi che abbandonassero il loro fondamentale carattere
controrivoluzionario e reazionario. Esempi di un fronte unito "dall'alto" realizzato con
successo si trovano soprattutto al di fuori della Germania negli anni successivi. In questo
caso, tuttavia, bisognerebbe esaminare attentamente se il Comintern abbia davvero mantenuto
la promessa di continuare a denunciare il carattere della socialdemocrazia, o se in realtà non
si sia in gran parte astenuto da tali critiche per considerazioni tattiche di alleanza.
Inoltre, a posteriori si può affermare che l'allontanamento da una critica di fondo della
socialdemocrazia e il passaggio a una prassi che la attacca più per le sue politiche concrete
che per il suo carattere controrivoluzionario e borghese di principio ha favorito lo sviluppo di
orientamenti problematici nella politica delle alleanze. Le sottosezioni seguenti illustrano
ulteriormente questo aspetto.
3.3. Il bilancio della socialdemocrazia
Come si è visto, i dirigenti dell'IC continuarono a sostenere la valutazione di base secondo cui
la socialdemocrazia era una forza politica contraria alla rivoluzione e favorevole al fascismo.
Questo aspetto merita di essere sottolineato perché, nelle varie interpretazioni sbagliate
opportuniste del VII CM, si finge spesso che essa abbia in qualche modo dato una
valutazione positiva della socialdemocrazia come forza democratica antifascista.
Al di là di questo, tuttavia, la valutazione della socialdemocrazia è diventata più differenziata.
La valutazione si stava ora dividendo ovunque in due campi principali: "accanto al campo
esistente degli elementi reazionari, che cercano in tutti i modi di mantenere il blocco della
socialdemocrazia con la borghesia e rifiutano furiosamente il fronte unito con i comunisti,
comincia a emergere il campo degli elementi rivoluzionari, che nutrono dubbi sulla
correttezza della politica di unità di lavoro con la borghesia, che sono favorevoli alla
creazione di un fronte unito con i comunisti e che cominciano a spostarsi sempre più verso il
punto di vista della lotta di classe rivoluzionaria".
Inizialmente si trattava solo di un bilancio, di una valutazione dello sviluppo interno di una
forza politica concorrente. Non c'è nulla di problematico nel fare questa valutazione.
Tuttavia, il fatto che in seguito si sia trasformato in una teoria e che la socialdemocrazia abbia
iniziato a dividersi ovunque in una "sinistra" e in una "destra" per poter lavorare insieme alla
presunta "sinistra" (come fece, ad esempio, il PC francese nei decenni del dopoguerra) è stato
molto problematico. L'articolo di Dimitrov potrebbe aver inavvertitamente incoraggiato
questa tendenza, soprattutto perché è discutibile se sia mai possibile parlare di un campo
rivoluzionario all'interno della socialdemocrazia - dopo tutto, l'essenza della
socialdemocrazia è proprio l'ostilità a qualsiasi seria aspirazione rivoluzionaria. Ciò non
esclude la possibilità che tra i lavoratori socialdemocratici vi fossero sincere simpatie per il
movimento rivoluzionario e le sue azioni. Ma questi sono stati probabilmente enfatizzati in
modo eccessivo perché la loro natura contraddittoria e l'ininterrotta influenza reazionaria dei
contesti organizzativi socialdemocratici sono stati di per sé sottovalutati.
3.4. L'obiettivo di un partito operaio unito
I punti citati finora sembrano relativamente poco importanti. Tuttavia, il discorso di Dimitrov
diventa estremamente problematico al più tardi con la proposta di un partito operaio unito.
Il fronte unito, secondo Dimitrov, "solleva anche la questione dell'unità politica, del partito
politico di massa unito della classe operaia". Ma non si limitò alla mera "questione": "Gli
interessi della lotta di classe del proletariato e il successo della rivoluzione proletaria rendono
imperativamente necessario (!) che in ogni Paese esista un partito unito del proletariato". Era
quindi compito del Comintern fare sua "la causa dell'unione delle forze della classe operaia in
un partito proletario rivoluzionario unito nel momento in cui il movimento operaio
internazionale entra nel periodo di superamento della scissione".
Va notato che il risultato dell'unificazione non dovrebbe essere un partito "di sinistra",
pluralista, ma un partito proletario rivoluzionario. Per l'unificazione politico-organizzativa
con la socialdemocrazia, Dimitrov indica quindi anche delle condizioni, che vengono qui
brevemente menzionate:
● La "completa indipendenza dalla borghesia" e l'abbandono del blocco della
socialdemocrazia con la borghesia;
● L'instaurazione preventiva dell'unità d'azione;
● L'obiettivo del rovesciamento rivoluzionario della borghesia e della dittatura del
proletariato;
● Nessun sostegno alla borghesia nella guerra imperialista;
● La costruzione del partito comune sulla base del centralismo democratico.
Ne emerge un quadro stranamente contrastante: da un lato, il Comintern richiedeva, come
condizione per la formazione di un partito proletario unito, l'ampio assoggettamento dei
partiti socialdemocratici all'ideologia, alla politica e ai principi organizzativi dei partiti
comunisti. D'altra parte, anche questo deve essere qualificato, poiché Dimitrov non dice nulla
di più preciso sulla base ideologica di un tale partito unito e nemmeno se debba essere o
meno un'organizzazione di quadri secondo il modello bolscevico o leninista. Pertanto, in
ultima analisi, non è del tutto chiaro se la proposta fosse quella di integrare le organizzazioni
socialdemocratiche in quelle comuniste, o di sciogliere i partiti comunisti in un partito ibrido
socialdemocratico-comunista senza una chiara base marxista-leninista, che in definitiva
sarebbe equivalso a disarmare la classe operaia. Il fatto che quest'ultimo, cioè un obiettivo
apertamente opportunista e liquidatorio, non sia categoricamente ed esplicitamente escluso da
Dimitrov è un problema importante.
Dimitrov cita anche un esempio che dovrebbe far suonare un campanello d'allarme: negli
Stati Uniti, la creazione di "un partito di massa del popolo lavoratore, un 'partito dei
lavoratori e dei contadini'" come baluardo contro il fascismo era un possibile compito
successivo. Questo partito non sarebbe né comunista né socialista, ma antifascista, diretto
contro i monopoli e non anticomunista. Così, le intuizioni corrette già acquisite dai comunisti
sono state nuovamente buttate a mare. Thälmann aveva scritto nel 1932: "Il carattere di un
partito operaio non deriva solo dalla sua composizione sociale, dal numero di lavoratori che
ne fanno parte (...) Il carattere di un partito operaio è determinato dal suo programma, dalla
sua politica, dal suo pensiero di classe e dalla sua coerente azione rivoluzionaria. (...) Da tutti
questi fatti, noi dichiariamo inequivocabilmente che esiste un solo partito dei lavoratori, cioè
il Partito Comunista" (Thälmann 1932).
All'improvviso, si è tornati a una concezione secondo la quale anche i partiti non socialisti,
purché organizzassero i lavoratori e perseguissero un ampio programma progressista,
potevano essere partiti operai. Un tale partito è considerato da Dimitrov solo dal punto di
vista della lotta difensiva antifascista. Il fatto che al di là di questo, per l'assenza di un
programma e di una pratica organizzativa comunista, sarebbe diventato con ogni probabilità
un meccanismo di integrazione del sistema politico capitalista-imperialista degli Stati Uniti
non viene problematizzato e apparentemente non viene nemmeno previsto.
Dimitrov chiede anche una "unificazione" di tutte le associazioni giovanili "non fasciste" (!)
fino alla costruzione di organizzazioni antifasciste comuni. Se questa "unificazione" possa
significare anche una fusione organizzativa delle associazioni giovanili, cioè uno
scioglimento delle associazioni comuniste, non lo dice o lo lascia aperto. Tuttavia, la pratica
degli anni successivi dimostrò che questo poteva essere certamente inteso: la fondazione della
FDJ da parte degli esuli tedeschi a Parigi e Praga (1936-38), che sostituì la KJVD come
associazione giovanile "antifascista-democratica" di ampia portata, fu il risultato di queste
considerazioni. I problemi nello sviluppo della gioventù comunista (in particolare il suo
orientamento troppo stretto alla pratica del partito) furono così colti come un'opportunità per
mettere fondamentalmente in discussione la concezione leninista di un'associazione giovanile
comunista. Il problema principale non è l'impossibilità di formare quadri comunisti senza
un'associazione giovanile comunista. A questo scopo, una federazione giovanile comunista è
utile e di solito da perseguire, ma non necessariamente indispensabile. Il problema principale
è piuttosto che l'idea di una federazione "antifascista-democratica" si basa su un fondamento
ideologico assolutamente non chiaro. Che cosa significa, ad esempio, "democratico"?
Significa democrazia borghese o proletaria? Un "democratico" borghese non può essere allo
stesso tempo anche un ardente anticomunista, non può persino collaborare oggettivamente
con il fascismo? La necessità di una cooperazione tattica con le forze borghesi non fasciste
divenne così l'idea di un'ampia comunanza di contenuti tra comunisti e altri "non fascisti".
Ma torniamo alla questione del partito operaio unito: supponiamo che l'IC intendesse
qualcosa di diverso da quanto qui ipotizzato. In altre parole, si trattava solo di un tentativo di
integrare la socialdemocrazia nei partiti comunisti. Anche questo sarebbe abbastanza
problematico.
Dimitrov considera le condizioni poste come prerequisiti di principio - questo può essere
inteso come una garanzia che l'unificazione su base socialdemocratica è stata rifiutata. È
anche possibile che l'IC fosse più interessata a un mezzo di agitazione con cui sperava di
conquistare i lavoratori socialdemocratici alla politica comunista. Tuttavia, l'idea rimane
problematica: si crea l'idea illusoria che non esista un'opposizione diametrale tra la politica
socialdemocratica e quella comunista. Chiedendo non la conquista delle masse
socialdemocratiche alle posizioni comuniste attraverso il loro distacco dalla dirigenza
socialdemocratica (la prassi precedente), ma ora, tutto in una volta, l'unificazione con le
organizzazioni socialdemocratiche, avrebbe dovuto essere chiaro che anche queste ultime
avrebbero voluto contribuire con la loro parte, cioè con le loro opinioni, pratiche ed
esperienze. La distinzione tra le masse socialdemocratiche da un lato e la loro dirigenza
dall'altro, di per sé corretta, viene così resa assoluta - come se le masse non seguissero anche
la loro dirigenza perché hanno accettato almeno in parte il revisionismo e l'opportunismo, e
forse lo hanno anche sostenuto.
La richiesta che la socialdemocrazia rinunci al blocco con la borghesia è, inoltre, in ultima
analisi, identica alla richiesta che essa rinunci a se stessa come socialdemocrazia; dopo tutto,
il "blocco con la borghesia" è inseparabilmente parte dell'essenza del socialdemocratismo.
Fare comunque questa richiesta impossibile, fingere che una cosa del genere sia ora
improvvisamente possibile, doveva alimentare le illusioni sul carattere della
socialdemocrazia.
Il problema successivo: da un lato, si chiede un "partito politico di massa unito della classe
operaia", ma dall'altro, la necessità di un "partito di lotta, un partito rivoluzionario". Ciò è in
diretta contraddizione, perché l'esistenza dell'opportunismo nel movimento operaio è un
fenomeno necessario nel capitalismo imperialista e nel capitalismo in generale, finché esiste
un movimento operaio. Un partito unito di tutta la classe operaia, che sia allo stesso tempo un
partito rivoluzionario di lotta, può ovviamente significare solo che non può più esistere un
partito riformista accanto a quello comunista. Questo ignora il fatto che il riformismo appare
con una necessità oggettiva, perché la coscienza rivoluzionaria non sorge spontaneamente e
perché la classe dominante ha interesse alla sua esistenza. Dopo tutto, la storia ha dimostrato
che anche nelle situazioni storiche eccezionali in cui non c'è stato temporaneamente un forte
partito socialdemocratico accanto al Partito Comunista (ad esempio in Francia e soprattutto in
Italia dopo la Seconda Guerra Mondiale), questa situazione è stata di solito accompagnata dal
fatto che il socialdemocratismo ha trovato la sua strada all'interno del PC stesso e alla fine ha
ottenuto il controllo al suo interno. Ciò si sarebbe potuto certamente evitare con una politica
comunista coerente, ma avrebbe probabilmente aperto lo spazio politico per la nascita di un
partito socialdemocratico.
E infine: si parla chiaramente di un partito di massa. Ma un partito marxista-leninista non è di
per sé un partito di massa, è un'organizzazione di quadri. Accetta nuovi membri solo dopo
un'attenta verifica e un lungo processo di inserimento. Si basa su un alto grado di serietà e
dedizione di tutti i suoi membri alla causa comune. Al meglio, è un grande partito con molti
membri. Tuttavia, non è mai un partito di massa in termini di carattere organizzativo. È
possibile che si tratti solo di un'ambiguità concettuale, ma il fatto che Dimitrov chieda
l'apertura del partito alle masse lavoratrici socialdemocratiche fa pensare che si intenda una
relativizzazione del concetto di partito dei quadri. Nel 1937, Pieck dichiarò inoltre: "Il KPD
non persegue l'obiettivo di un'ulteriore divisione della socialdemocrazia, ma si adopera per la
creazione di un partito di massa rivoluzionario unificato e potente del proletariato" (Pieck
1937).
Nel migliore dei casi, si potrebbe obiettare che Dimitrov ha usato il termine "partito di
massa" in modo sconsiderato, riferendosi solo all'allargamento della base del partito
attraverso l'unificazione con la socialdemocrazia, ma non a un cambiamento del suo carattere.
Ma, come si è detto, nemmeno questo risolve realmente il problema. In ogni caso, le sue
osservazioni significano un ammorbidimento del carattere leninista dell'organizzazione
rivoluzionaria del proletariato.
Riassumiamo: in una forma o nell'altra, l'IC si è battuta per l'unificazione dei partiti comunisti
con quelli socialdemocratici. In questo contesto, si parla addirittura di "movimento operaio
internazionale che entra ora nel periodo di superamento della scissione". La conquista
essenziale del movimento operaio dopo la prima guerra mondiale, l'emancipazione dei partiti
comunisti dai partiti socialdemocratici opportunisti, viene qui improvvisamente dichiarata un
problema da "superare". Nel pensiero della dirigenza dell'IC, tutto si concentrava ora sulla
necessità di un'organizzazione più ampia possibile, che almeno in parte ammorbidiva e
sostituiva la precedente idea leninista di un partito di quadri rivoluzionari disciplinati. Questo
può anche fornire una prima risposta alla domanda sul perché l'autocritica del KPD sulla
questione dell'organizzazione e della cospirazione sia stata dimenticata, o almeno non abbia
avuto un impatto decisivo sulla pratica. Un ampio partito di massa della classe operaia è in
diretta contraddizione con la necessità di una cospirazione rivoluzionaria, perché la
cospirazione richiede requisiti elevati a ogni membro del partito e presuppone una politica di
ammissione cauta e ponderata in ogni singolo caso.
Tuttavia, questa contraddizione non è stata sufficientemente presa in considerazione, almeno
non nei documenti centrali dell'IC. Sotto la pressione degli eventi - l'ulteriore avanzata del
fascismo e la crescente minaccia all'Unione Sovietica - la decisione fu probabilmente presa,
per così dire tacitamente, a favore di un obiettivo a scapito dell'altro.
Lo slogan del partito operaio unito si pone in definitiva in diretta contraddizione con gli
appelli di Dimitrov a continuare la lotta contro il socialdemocratismo anche nelle condizioni
della lotta antifascista. Preso in considerazione fino alla sua logica conclusione, questo slogan
non significava altro che era possibile l'unità politica e organizzativa con l'opportunismo.
Pertanto, questo slogan è una ragione essenziale per cui il VII CM deve essere valutato come
uno spostamento a destra del movimento comunista mondiale.
3.5. La partecipazione dei comunisti al governo
Rosa Luxemburg aveva affermato: "Nella società borghese, il ruolo di partito di opposizione
è preordinato per la socialdemocrazia; come partito di governo, può apparire solo sulle rovine
dello Stato borghese". Allo stesso tempo, però, aveva citato alcune eccezioni, "in particolare
quando si tratta della libertà del Paese o delle conquiste democratiche, come la repubblica"
(Luxemburg 1899) (ndt: la Luxemburg parla di "socialdemocrazia" riferendosi ai partiti
operai rivoluzionari del tempo, che si chiamavano in questo modo come ad es. il POSDR,
non ai partiti riformisti che sono stati oggetto dell’analisi fin qui condotta. La crisi della II
Internazionale è avvenuta molti anni dopo la data della citazione).
Da questo punto di vista, l'orientamento del VII CM su questa questione non era nuovo.
Dimitrov parla del caso "in cui la formazione di un governo del fronte unito proletario o del
fronte popolare antifascista sarà non solo possibile ma anche necessaria nell'interesse del
proletariato", che sarebbe quindi "soprattutto un governo di lotta contro il fascismo e la
reazione". Tuttavia, anche in questo caso cita alcune condizioni che dovrebbero essere
soddisfatte per formare un tale governo:
● una profonda disorganizzazione e paralisi dell'apparato statale borghese, in modo che
un governo contro la reazione e il fascismo non possa più essere impedito dalla
borghesia;
● lotte di massa dei lavoratori contro il fascismo e la reazione;
● una scissione della socialdemocrazia e degli altri partiti in modo che alcuni settori
chiedano misure coerenti contro i fascisti e vogliano il fronte unito con i comunisti.
Fornisce anche esempi concreti in cui un governo borghese potrebbe essere sostenuto o in cui
le forze comuniste dovrebbero entrare in tale governo. Nel caso del governo laburista in
Inghilterra, egli ritiene possibile tale sostegno, "sebbene entrambi i precedenti governi
laburisti non abbiano mantenuto le promesse fatte dal Partito Laburista ai lavoratori". Per
quanto riguarda la Francia, annuncia che un futuro governo del Fronte Popolare dovrebbe
essere sostenuto. Viene anche valutata (criticamente) l'esperienza tedesca dei "governi
operai" del 1923 in Turingia e Sassonia, in quanto i ministri della destra deviata del KPD
dell'epoca non avevano svolto il compito previsto di armare il proletariato rivoluzionario.
La questione della partecipazione al governo è un altro punto del discorso di Dimitrov
difficile da valutare. Da un lato, va sottolineato che Dimitrov si opponeva chiaramente alla
partecipazione al governo "a prescindere" da parte dei comunisti; dall'altro, indicava
importanti prerequisiti per un tale passo. È anche difficile negare in linea di principio che in
alcune (rarissime) situazioni eccezionali la partecipazione dei comunisti al governo fosse
effettivamente giusta, o almeno potesse esserlo.
D'altra parte, sarebbe necessario esaminare più da vicino se queste condizioni sono state
davvero osservate in modo coerente. Ad esempio, il governo del "Front Populaire" in Francia
nel 1936-37 si formò sulla base di un apparato statale "disorganizzato" e "paralizzato" e le
altre condizioni menzionate erano soddisfatte? Qual era la situazione del poco conosciuto
governo del Fronte Popolare in Cile nel 1938-41? Come si può giustificare che le azioni di
massa della classe operaia siano state fermate o contenute per non compromettere la
prospettiva dei governi del Fronte Popolare?
In ogni caso, è anche un fatto che tutti i partiti comunisti che hanno partecipato a governi di
fronte popolare si sono sviluppati massicciamente a destra negli ultimi decenni: i PC francesi
e spagnoli sono stati (insieme a quello italiano) i principali rappresentanti
dell'"eurocomunismo", cioè della socialdemocratizzazione aperta dei partiti comunisti. Anche
il PC cileno ha perseguito un programma revisionista di transizione parlamentare pacifica al
socialismo, con il quale ha notoriamente fallito nel 1973.
È quindi ovvio che l'orientamento verso la politica del fronte popolare ha lasciato in questi
partiti comunisti illusioni durature di tipo legalista e parlamentare. È probabile che sia stato
significativo per l'emergere di queste illusioni il fatto che la parola d'ordine del governo del
fronte popolare fosse già collegata alla lotta per le "forme transitorie verso il socialismo"
nell'opera di Dimitrov in modo poco chiaro e con molto spazio per l'interpretazione.

3.6. Forme e slogan di transizione
Dimitrov fa riferimento a Lenin, che invitava a cercare "forme di transizione o di
avvicinamento alla rivoluzione proletaria". Questa chiamata è, ovviamente, tanto corretta
quanto aperta all'interpretazione. Chi vuole fare la rivoluzione dovrebbe pensare al modo
migliore per arrivarci. Questo non vuol dire nulla sulle possibili forme di tale "approccio" o
su cosa si possa intendere per "forme di transizione".
Dimitrov ora concretizza questo concetto: "Forse il governo del fronte unito si rivelerà una
delle forme di transizione più importanti in diversi Paesi". Si tratta di un ampliamento
dell'obiettivo dei governi del fronte unito. Mentre inizialmente la presentazione riguardava
solo un governo contro il fascismo e la reazione, qui si apre esplicitamente la possibilità che
si sviluppi ulteriormente in direzione della rivoluzione proletaria.
Dimitrov rifiutava chiaramente qualsiasi nozione di "stadio intermedio democratico" tra la
dittatura della borghesia e la dittatura del proletariato; una nozione che implicava "l'illusione
di un cammino parlamentare pacifico". Naturalmente Dimitrov non ci credeva: "Questo
governo non può portare alla salvezza finale. Non è in grado di rovesciare il dominio di
classe degli sfruttatori e quindi non può eliminare definitivamente il pericolo della
controrivoluzione fascista. Di conseguenza, bisogna prepararsi alla rivoluzione socialista. La
salvezza sarà portata solo dal potere sovietico!"
Il governo del fronte unito, secondo Dimitrov, dovrebbe comportarsi in modo completamente
diverso dai falliti "governi operai e contadini" in Germania, vale a dire "realizzando alcune
richieste rivoluzionarie di base adeguate alla situazione, come il controllo della produzione, il
controllo delle banche, lo scioglimento della polizia, la sua sostituzione con una milizia
operaia armata, ecc".
Questo dato di per sé solleva la questione di come la leadership dell'IC abbia immaginato una
simile pratica governativa nella realtà. Ha ipotizzato che fosse realistico che un governo di
coalizione socialdemocratico-comunista realizzasse tali misure? Su quale esperienza si è
basata questa idea? Negli ultimi anni la socialdemocrazia non si era mai comportata in modo
tale da far sembrare realistica una simile visione del futuro. Al contrario, aveva risposto a
ogni passo del proletariato rivoluzionario con estrema ostilità e repressione. Inoltre, la
leadership della SPD aveva dimostrato inequivocabilmente di preferire la dittatura dei nazisti
a un rafforzamento dei comunisti. Sulla base di queste esperienze, sarebbe stato più
comprensibile dubitare della possibilità di un governo di unità piuttosto che farsi illusioni
sulla possibilità di "avvicinarsi alla rivoluzione" attraverso l'armamento delle milizie operaie
e delle nazionalizzazioni.
Tali idee ebbero la massima possibilità di realizzarsi in Spagna, ma nel contesto della guerra
civile, che rese un'economia di guerra centralizzata e milizie popolari armate una necessità
vitale per la repubblica borghese. In generale, un'idea di transizione legata all'assunzione del
governo da parte di un fronte unito sembra più concepibile in condizioni di guerra civile, cioè
di crollo dello Stato borghese. Purtroppo non sappiamo come sarebbe andata a finire
l'esperienza spagnola se l’intervento fascista non l’avesse fermata con le bombe.
Purtroppo, le riflessioni di Dimitrov sulla questione delle "soluzioni transitorie", delle "forme
transitorie" o dell'"avvicinamento alla rivoluzione proletaria" sono relativamente superficiali,
non approfondiscono molto e non sollevano i problemi in questione. La domanda che sorge
automaticamente è: cosa sono le "forme di transizione"? Non è chiaro se si intenda una
situazione rivoluzionaria (disintegrazione e delegittimazione del governo con apertura delle
masse alle alternative rivoluzionarie) o qualcosa che possa portare a tale situazione. Non è
chiaro se il governo del fronte unito fosse solo uno dei tanti esempi, o se con "forme di
transizione" si intendesse riferirsi in generale alla partecipazione al governo sul terreno della
società borghese. Non è chiaro cosa si possa intendere per "slogan di transizione". Sono solo
slogan che nella situazione rivoluzionaria sono particolarmente adatti a radunare le masse e a
spingerle alla rivolta? Oppure si tratta, ad esempio, di richieste che non sono realizzabili nel
capitalismo, ma che vengono comunque avanzate come richieste allo Stato borghese? Queste
ultime sono ovviamente problematiche, in quanto favoriscono la creazione di illusioni (per
una critica di tali "slogan transitori" si veda Spanidis/Textor 2016).
Queste domande aperte sono seguite da una serie di problemi. Ad esempio, l'importante
questione se, sullo sfondo della nostra esperienza storica, si possa ipotizzare che le situazioni
rivoluzionarie possano essere determinate da una politica specifica del partito comunista o se
non siano piuttosto determinate essenzialmente da sviluppi oggettivi (ad esempio, guerre
imperialiste, profonde crisi economiche, crisi politiche del regime borghese, ecc.) Oppure la
questione se, o a quali condizioni, l'ingresso dei comunisti nel governo non impedisca di
fatto, anziché promuovere, uno sviluppo rivoluzionario.
Tutto questo non è il tema principale del discorso di Dimitrov, ma egli solleva queste
domande senza poi affrontarle adeguatamente. Ciò ha aperto la porta a interpretazioni di ogni
tipo nel movimento comunista mondiale - non ultime le idee illusorie sulla possibilità di una
"democrazia antimonopolista" che sono emerse nel mondo di lingua tedesca e che modellano
fortemente il programma del partito DKP in vigore oggi (Spanidis 2016).
Strettamente legato all'idea di "forme transitorie" era anche lo slogan della "repubblica
democratica", che fu sollevato in Germania poco più tardi dal KPD (Pieck 1937). Il pensiero
comprensibile che sta alla base di tutto ciò: le masse non potevano ancora essere conquistate
al socialismo, ma potevano essere conquistate al rovesciamento del fascismo. Questo
migliorerebbe in modo decisivo le condizioni di lotta per i comunisti. Da questo punto di
vista, era certamente corretto fare della riconquista delle libertà democratiche borghesi un
obiettivo centrale della lotta.
Tuttavia, l'idea della "repubblica democratica" si spingeva oltre: questa repubblica non
avrebbe dovuto "in nessun caso essere una ripetizione della Repubblica di Weimar" e avrebbe
"portato avanti un'eradicazione completa del fascismo". A condizione di "lotte di massa più
forti", un governo di fronte popolare in questa repubblica potrebbe anche attuare misure
drastiche come l'esproprio di grandi proprietà terriere e la nazionalizzazione di industrie e
banche chiave.
Lo slogan fu ripreso nell'appello di fondazione del KPD dell'11 giugno 1945. Si legge:
"Siamo del parere che il modo di imporre il sistema sovietico alla Germania sarebbe
sbagliato, perché questo modo non corrisponde alle attuali condizioni di sviluppo della
Germania. Siamo piuttosto del parere che gli interessi decisivi del popolo tedesco nella
situazione attuale impongano una strada diversa per la Germania, vale a dire la strada
dell'instaurazione di un regime antifascista e democratico, una repubblica democraticoparlamentare
con tutti i diritti e le libertà democratiche per il popolo" (KPD 1945).
Ora, è ovviamente vero che nel 1945 in Germania non esistevano immediatamente le
condizioni soggettive per una rivoluzione socialista e che quindi sarebbe stato sbagliato
"imporre" ai tedeschi il "sistema sovietico", cioè la dittatura del proletariato. In questo caso,
tuttavia, il KPD confonde due punti molto diversi: costringere il socialismo al popolo contro
la sua volontà è una cosa e in effetti è sbagliato. Esigere il socialismo nel programma di un
PC come obiettivo immediatamente successivo è qualcosa di molto diverso e l'unico
orientamento strategico corretto per un partito comunista in condizioni di capitalismo
sviluppato.
L'appello prosegue con una breve caratterizzazione della repubblica desiderata, che dovrebbe
basarsi sulla "liquidazione dei resti del regime hitleriano", sull'esproprio della grande
proprietà terriera, sulle conquiste sociali dei lavoratori, ma per il resto sui rapporti di
proprietà capitalistici: si chiede "uno sviluppo completamente libero del libero commercio e
dell'iniziativa imprenditoriale privata sulla base della proprietà privata". Questo programma
d'azione dovrebbe poi servire come "base per la creazione di un blocco di partiti antifascisti e
democratici (il Partito Comunista, il Partito Socialdemocratico, il Partito di Centro e altri)".
La politica di alleanze del settimo conflitto mondiale viene qui estesa al periodo successivo
alla liberazione dal fascismo: anche in condizioni di democrazia borghese, si ritiene possibile
un'alleanza stabile (non si intende altro con la parola "blocco") con i partiti borghesi (tutte le
citazioni da: KPD 1945).
È importante distinguere tra due cose: una cosa è preferire un regime borghese meno
repressivo e reazionario, come una democrazia borghese, al fascismo. Altra cosa è dichiarare
l'idea di una tale democrazia borghese come una tappa intermedia (forse addirittura
necessaria) sulla strada del socialismo. Nelle osservazioni di Pieck, la tendenza è verso la
seconda ipotesi: l'idea di una democrazia in cui il fascismo sarà "completamente" sradicato,
in cui sono possibili anche interventi profondi nei rapporti di proprietà, suggerisce che già qui
si intendono passi preparatori verso il socialismo. Idee successive come quelle della
"democrazia antimonopolistica" (nel DKP, nel Partito Comunista e nel Partito del Lavoro
austriaci) o della "democrazia avanzata" (nel PC portoghese) sono molto simili a queste linee
di pensiero.
Anche in questo caso occorre chiedersi quanto siano realistiche queste idee. Fino a che punto
è possibile "sradicare completamente il fascismo" in condizioni capitalistiche? Certamente,
sarebbe stato concepibile sostituire i funzionari nazisti nella RFT invece di lasciarli tornare in
carica. Ma ciò che è più decisivo, il sostegno al fascismo da parte della borghesia, il profondo
radicamento dell'ideologia e della politica fascista nelle diverse varianti del pensiero borghese
e nelle pratiche del dominio capitalista, sarebbe rimasto. Anche se sono necessarie delle
differenziazioni, si può affermare in generale che il capitalismo, soprattutto nella sua fase
imperialista, non può perdere le sue caratteristiche reazionarie e parassitarie, ma al contrario
le intensifica.
Bisogna quindi chiedersi se queste idee di transizione siano mai state realistiche. In sostanza,
si tratta della stessa critica che deve essere mossa alla "democrazia antimonopolista" o alla
sua idea strettamente correlata di una "svolta verso il progresso sociale e democratico"
(Spanidis 2016).
3.7. La polemica contro i "dottrinari dell'ultra-sinistra"
Un altro aspetto del discorso di Dimitrov degno di nota è la sua retorica e il cambiamento di
enfasi delle "immagini del nemico" nell'IC. Il discorso è costellato di aspre polemiche contro
gli "ultrasinistri", i "dottrinari", contro un "settarismo compiacente" e formulazioni simili.
Anche se in alcuni punti ci sono anche attacchi contro le deviazioni della destra, il contesto
generale del discorso mostra che il colpo principale deve essere sferrato contro "la sinistra".
"Nella situazione attuale, è soprattutto il settarismo, il settarismo autocompiaciuto, come lo
definiamo nel progetto di risoluzione, a ostacolare la nostra lotta per la realizzazione del
fronte unito. Il settarismo, che si compiace della sua ristrettezza dottrinaria, del suo distacco
dalla vita reale delle masse", dice Dimitrov.
Naturalmente, non è problematico parlare contro le "ultra-sinistre", cioè le distorsioni
opportuniste della politica comunista, che, ad esempio, si limitano a rifiutare le
considerazioni tattiche in nome di obiettivi astratti e lontani. Lenin aveva ragione a criticare
questo dogmatismo.
Alla luce del quadro generale, tuttavia, bisogna chiedersi a chi sia realmente rivolta la
polemica di Dimitrov. Ad esempio, descrive come "dottrinari di sinistra" quei compagni che
si sono preoccupati troppo poco delle "forme di transizione". Ma ora abbiamo stabilito che lo
stesso discorso di Dimitrov è ben lontano dal presentare un concetto convincente di tali
"forme transitorie".
Dimitrov ha continuato: "Ora, compagni, ci sono ancora pochi dottrinari nelle nostre file che
sentono sempre e ovunque il pericolo della politica del fronte unito? Per questi compagni,
l'intero fronte unito è un unico pericolo. Ma questa settaria 'fermezza di principio' non è altro
che impotenza politica di fronte alle difficoltà di dirigere la lotta delle masse".
Come è stato dimostrato, un grande scetticismo nei confronti di molte delle considerazioni
che andavano sotto il titolo di "fronte unito" è appropriato e necessario. Tuttavia, Dimitrov
sembra non ritenere necessario affrontare le argomentazioni di questi critici (di cui purtroppo
non veniamo a conoscenza). Inoltre, non sappiamo se egli stesso fosse del tutto convinto che
il nuovo orientamento fosse associato a dei rischi o se lo considerasse del tutto privo di
problemi. Si limita invece a polemiche superficiali (insinuazione di "impotenza politica",
ecc.) e a giudizi di condanna. A questo contribuisce anche il linguaggio marziale: bisogna
"sradicare il settarismo autocompiaciuto".
Purtroppo, Dimitrov non fornisce molte informazioni concrete su cosa sarebbe consistito
questo "settarismo", anche se tutto il suo lungo scritto ha il carattere di una polemica contro
l'"ultra-sinistra". Egli si limita a fornire i due esempi di non aver cercato seriamente la
formazione di un governo operaio nel 1923 e di aver poi considerato "sostanzialmente tutti i
socialdemocratici come controrivoluzionari" (l’autore si riferisce alla situazione politica in
Germania, ndt). Quest'ultima sarebbe senza dubbio un'esagerazione della sinistra radicale, ma
nel caso della prima, la caratterizzazione come "ultra-sinistra" non è affatto ovvia. A parte
questo, però, non apprendiamo nulla su cosa si debba intendere per "ultra-sinistra".
Questo era destinato a creare un clima in cui ogni sorta di critica al VII CM da parte della
"sinistra", compresi molti punti di critica giustificati, poteva essere bollata come eretica.
Dubbi giustificati e forse anche ingiustificati sono dichiarati illegittimi da questo stile di
discussione. Una volta Stalin aveva chiesto "che anche le critiche che contengono solo il 5-10
per cento di verità devono essere accolte, ascoltate con attenzione e il loro nocciolo sano deve
essere preso in considerazione" piuttosto che soppresso (Stalin 1928, p. 24). La polemica di
Dimitrov non ha più molto a che fare con questo corretto atteggiamento marxista.
Naturalmente, va tenuto presente che il Comintern era all'epoca sottoposto a enormi pressioni
per dare maggiore efficacia alla sua politica antifascista. Era letteralmente una questione di
vita o di morte.
Tuttavia, ciò non cambia l'analisi che questo modo di discutere o, più specificamente, la
polemica indifferenziata contro la "sinistra" è stata molto dannosa per il movimento
comunista nel lungo periodo. Mettere in discussione le decisioni del VII CM è considerato un
sacrilegio "settario" in gran parte del movimento comunista mondiale di oggi. Tendenze
simili si riscontrano anche nelle discussioni odierne del DKP e dell'SDAJ, quando, ad
esempio, senza ulteriori argomentazioni, le posizioni della parte avversa su questioni di
strategia o di forma organizzativa vengono denunciate come "non scientifiche", "non
dialettiche", "estremismo di sinistra" e simili.
Va da sé che tale dogmatismo funge oggettivamente sempre da precursore dell'opportunismo
di destra.
3.8. Lo scioglimento dell'Internazionale Comunista nel 1943
Ovviamente, si tratta di un evento che non ha un legame diretto con il VII CM, almeno non
dalle sue decisioni. Tuttavia, ha senso parlarne brevemente in questo contesto, anche perché il
Comitato esecutivo del Comintern (CEIC) fa esplicitamente riferimento al settimo congresso
nella sua decisione.
L'argomentazione è la seguente: il settimo congresso aveva già richiesto flessibilità e
indipendenza alle sezioni dell'IC e aveva stabilito la necessità di "procedere in base alle
circostanze concrete e alle peculiarità di ogni singolo Paese e, di norma, evitare l'intervento
diretto negli affari organizzativi interni dei partiti comunisti" (Comintern 1943). In questo
senso, la decisione del PC degli USA di ritirarsi dall'IC era già stata approvata nel novembre
1940.
Per questo motivo, l'IC sarebbe stata sciolta, le sue sezioni sollevate da ogni obbligo nei suoi
confronti e tutte le forze sarebbero state concentrate sul sostegno alla guerra contro il
fascismo.
La problematica tendenza del VII CM ad assolutizzare la lotta contro il fascismo, a
subordinare ad essa tutto il resto, persino l'esistenza di organizzazioni comuniste in generale,
continua con questa devastante decisione. La decisione stessa ha privato i partiti comunisti
del loro strumento più importante per trovare uno sviluppo strategico comune: si esprime nel
fatto che non solo prima e durante la guerra, ma anche dopo, i partiti comunisti non hanno
saputo approfittare della situazione rivoluzionaria per prendere il potere.
La logica di dichiarare le specificità nazionali dei diversi Paesi un ostacolo a una strategia
comune dei partiti comunisti è stata la stessa utilizzata in seguito dall'eurocomunismo e da
altre tendenze opportuniste (ad esempio, il maoismo) per legittimare la loro mancata
solidarietà con gli Stati socialisti e il loro allontanamento dalle posizioni rivoluzionarie
marxiste-leniniste: ancora oggi, questa eredità pesa come un macigno. Molti partiti comunisti
ancora oggi vietano la discussione critica delle loro politiche e dei loro programmi,
adducendo la "non ingerenza" negli affari di ciascun PC e le "specificità nazionali". Questo si
rivela un enorme ostacolo al necessario riorientamento rivoluzionario e al rafforzamento del
movimento comunista mondiale.
3.9. Gli effetti a lungo termine del VII Congresso mondiale del Comintern
Diversi esempi sono già stati utilizzati nel capitolo precedente per evidenziare come gli
orientamenti del VII CM siano proseguiti in modo sempre più problematico nel dopoguerra.
É già stato menzionato l'appello fondativo del KPD nel 1945 per una Germania democratica
antifascista e un blocco di tutti i "partiti democratici". Utilizzando generosamente il termine
"democrazia", includendo anche il KPD insieme ai partiti borghesi (che dopo tutto erano stati
in parte responsabili del fascismo) sotto l'ombrello del termine "partiti democratici", si è
persa la differenza e la contrapposizione essenziale tra la democrazia socialista e la
"democrazia" borghese. Ciò si inseriva in un'interpretazione della Seconda guerra mondiale
secondo cui le forze della "democrazia" avevano sconfitto congiuntamente quelle della
reazione: "con l'Unione Sovietica, l'Inghilterra e gli Stati Uniti in testa, la causa della
giustizia, della libertà e del progresso era uscita vincitrice" (KPD 1945). Che la guerra tra
Stati Uniti e Inghilterra da un lato, Giappone e Germania dall'altro, fosse una guerra
interimperialista tra potenze i cui punti in comune erano più fondamentali delle loro
differenze viene omesso: le potenze imperialiste vincitrici appaiono invece come salvatori
disinteressati. In realtà, la Gran Bretagna aveva già iniziato a combattere il movimento di
liberazione con l'aiuto delle forze fasciste in Grecia nel 1944. Pochi anni dopo seguirono la
guerra civile greca, le criminali guerre coloniali di Inghilterra e Francia e, con la guerra di
Corea, una nuova guerra di sottomissione e sterminio dell'imperialismo statunitense, che
costò milioni di vite.
Tuttavia, la democrazia borghese non era più vista principalmente come una forma meglio
mascherata di governo capitalista, ma come un quadro progressivo in cui la lotta per il
socialismo poteva essere meglio condotta. L'opposizione ai partiti che sostengono il sistema è
passata in secondo piano e in ogni caso non dovrebbe ostacolare un'alleanza strategica con
loro.
Anche l'orientamento del VII CM verso un "partito dei lavoratori" unito si realizzò in modo
problematico. In un certo senso, si può considerare un colpo di fortuna storico il fatto che
l'unificazione nella SED sia avvenuta nella SBZ (zona di occupazione sovietica, ndt) sotto la
supervisione sovietica e che quindi le tendenze reazionarie e filoimperialiste della
socialdemocrazia siano rimaste sotto controllo: in Occidente, una simile unificazione sarebbe
probabilmente equivalsa alla liquidazione del partito comunista. Un KPD gravemente
indebolito dopo il fascismo e non del tutto coerente nei suoi contenuti si sarebbe unito a
molte migliaia di socialdemocratici che, pur essendo diventati più aperti alle posizioni
anticapitaliste in seguito alle esperienze degli anni precedenti, non avevano certo sviluppato,
nella loro grande maggioranza, nemmeno la comprensione marxista rudimentale richiesta ai
membri di un partito rivoluzionario.
Ma anche nella Germania dell'Est c'è stata una significativa opposizione all'unificazione:
ovunque i compagni hanno rifiutato di aderire al Partito dell'Unità Socialista perché giudicato
opportunista. Solo per Berlino conosciamo l'entità di questo rifiuto, che in quel caso
comprendeva il 10% dei membri. Georg Fülberth suggerì nel 1990 che il KPD "venne messo
in secondo piano" dalla SPD nel 1946, perché nella SED "il comportamento
socialdemocratico era stato praticato più di quello comunista nel corso dei decenni". Ma
sebbene le preoccupazioni degli "scettici dell'unità" nel KPD fossero probabilmente
giustificate, o comunque almeno degne di considerazione, Walter Ulbricht non trovò niente di
meglio da dire al riguardo che riferire a Pieck, nella peggiore tradizione, che la maggioranza
dei compagni di Berlino era "settaria" (tutte le citazioni da: Schwarz 2016).
Il KPD in Germania Ovest ha continuato a svilupparsi in modo molto problematico anche
dopo la sua messa al bando nel 1956. Nel 1968 presentò una bozza di programma, che il
leader del KPD Max Reimann spiegò in un'intervista. Reimann: "Noi sosteniamo un percorso
pacifico e democratico di rivolgimento socialista nella Repubblica Federale. (...) Ci è chiaro
che un percorso pacifico di sviluppo della rivoluzione socialista richiede il raggiungimento di
una tale preponderanza di forze dalla parte del popolo lavoratore che sia impossibile per la
reazione usare la violenza contro il popolo. (...) Vogliamo rendere possibile un percorso
pacifico e democratico di trasformazione socialista proprio impegnandoci per un'ampia
alleanza delle forze democratiche di tutte le classi lavoratrici del popolo già in lotta per i
cambiamenti democratici e antimonopolistici". In generale, solo la CDU/CSU è stata
identificata come il partito del capitale e quindi come un avversario, mentre la SPD è stata
vista in modo ambivalente e come un potenziale partner di alleanza. Reimann ha affermato
che "il nostro partito sviluppa le sue politiche e le sue lotte sulla base della Costituzione", in
quanto ritiene che "la Costituzione offre ai lavoratori e a tutti i democratici spazio per la
realizzazione delle loro idee democratiche e dei loro obiettivi socio-politici". Si indica qui
una concezione borghese dello Stato, secondo la quale lo Stato e le sue istituzioni, come il
parlamento e la Costituzione, erano semplicemente dirottati dalle macchinazioni di gruppi di
interesse privati, ma in realtà potevano anche essere utilizzati nell'interesse della classe
operaia e della trasformazione al socialismo. La lettera della legge è stata presa in parola,
nello spirito delle illusioni giuridiche borghesi, a prescindere dai reali rapporti di forza. Di
conseguenza, il socialismo era immaginato anche come una variante riformata della
democrazia borghese: "Dichiariamo espressamente di lottare per una maggioranza
parlamentare socialista e progressista, un ordine socialista basato su un sistema multipartitico
in cui una minoranza parlamentare possa esercitare i diritti costituzionali" (citato da
Steigerwald 1968). Viene così negato il carattere qualitativamente nuovo della democrazia
proletaria, caratterizzata appunto non dalla contrattazione tra le parti di classe ma
dall'esercizio del potere a partire dalle unità produttive e dai luoghi di residenza della classe
operaia.
Non si può nemmeno ipotizzare che lo sviluppo programmatico di destra del KPD sia stato
semplicemente una manovra tattica per eliminare il divieto del KPD, anche se sarebbe
discutibile. In realtà, questo sviluppo era solo un aspetto della diffusione dell'opportunismo
nel movimento comunista mondiale. I partiti comunisti dell'Europa occidentale, la maggior
parte dei quali si era rafforzata enormemente durante la guerra, si spostarono costantemente a
destra nel loro programma e nella loro pratica, verso una riconciliazione pratica, e poi anche
teorica, con il capitalismo. L'emergere dell'"eurocomunismo" come corrente apertamente
opportunista o socialdemocratica, anticomunista e filoimperialista, sotto le vesti del
comunismo, è stato il triste culmine e punto di arrivo di questo sviluppo. L'eurocomunismo"
non è certo il tema centrale dell'articolo, ma è comunque necessario dire alcune cose. Spesso
si diffonde il mito che la socialdemocratizzazione "eurocomunista" dei grandi PC europei (in
particolare quelli francesi, spagnoli e italiani) sia avvenuta come una rottura improvvisa e un
tradimento. Il 1968, anno in cui i suddetti partiti presero apertamente le distanze dall'Unione
Sovietica quando questa, insieme agli Stati del Patto di Varsavia, schiacciò la
controrivoluzione in Cecoslovacchia, è spesso considerato il momento di questa rottura. Ma
chi cerca un singolo evento in cui i partiti comunisti "ortodossi" sono diventati entità
riformiste è destinato a fallire.
La verità è che si tratta di uno sviluppo graduale, che non inizia assolutamente nel 1968, ma
ha una preistoria lunga decenni. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, i PC francesi e
italiani (rispettivamente PCF e PCI) avevano aderito ai governi di unità nazionale nel 1945,
così come altri PC dell'Europa occidentale e orientale. In entrambi i Paesi i risultati sono stati
molto negativi.
Il comando generale dei partigiani italiani si era già accordato col comandante supremo delle
forze alleate in Italia nel dicembre 1944 con il "Protocollo di Roma". Come parte del
governo, il PCI fece poi una concessione dopo l'altra, senza alcuna sostanziale contropartita
da parte dei partiti borghesi. Nel giugno 1945, in qualità di Ministro della Giustizia, Togliatti
cedette alla richiesta di concedere un'amnistia per i crimini commessi dai fascisti: 20-30.000
procedimenti contro i fascisti furono archiviati, oltre 11.000 sentenze già emesse vennero
annullate o terminate con la grazia, alcune contro i più sanguinari criminali di guerra. Nel
frattempo, numerosi antifascisti continuavano a rimanere in carcere. I Patti Lateranensi con il
Vaticano, che erano stati conclusi sotto Mussolini e prevedevano la stretta alleanza tra lo
Stato e la Chiesa cattolica, il riconoscimento del Vaticano come Stato a sé stante e un elevato
finanziamento alla Chiesa, furono confermati con i voti del PCI all'Assemblea Costituente.
La cosa più grave, tuttavia, fu la decisione del PCI di acconsentire al disarmo e allo
scioglimento delle diverse centinaia di migliaia di associazioni partigiane e alla liquidazione
dei comitati di liberazione locali: in questo modo, il PCI ha esautorato il movimento popolare
rivoluzionario che spingeva verso il socialismo. I partigiani rifiutarono in larga misura questo
passo e in molti casi si rifiutarono di consegnare le armi, tanto che secondo una stima fu
consegnato solo il 60% circa delle armi e del materiale bellico. Nel luglio 1948, un attentato
fascista colpì Togliatti, che sopravvisse gravemente ferito: a quel punto scoppiò
un'insurrezione popolare armata spontanea, con decine di migliaia di partigiani che tirarono
fuori le armi dalla clandestinità. La dirigenza del PCI riuscì a evitare la rivolta e quindi il
passaggio alla guerra civile rivoluzionaria.
Le concessioni alla borghesia in campo tattico furono accompagnate da un crescente
opportunismo teorico del PCI. All'inizio del 1945 dichiarò che "oggi non lottiamo per una
dittatura del proletariato, ma per una democrazia progressiva che si differenzia da
quest'ultima non tanto per la sua sostanza democratica quanto per il suo contenuto sociale". Si
intendeva una repubblica borghese che sarebbe stata politicamente democratica quanto la
dittatura del proletariato, ma non avrebbe "eliminato radicalmente il principio dello
caso, la questione del potere e della democrazia è stata separata dalla questione dei rapporti di
proprietà, abbandonando così una concezione marxista dello Stato. Il crescente opportunismo
si fece sentire anche nel rapporto con la socialdemocrazia: nell'aprile del 1945, Togliatti
propose al PSI socialdemocratico una fusione con il PCI per formare un partito operaio
comune, che però i socialdemocratici rifiutarono (Feldbauer 2012). Anche dal punto di vista
economico la situazione della classe operaia cambiò in modo quasi catastrofico: durante il
periodo del governo di unità nazionale il costo della vita è aumentato di 23 volte, ma i salari
solo di 1,5 volte (Skolarikos 2015, 45).
Il PCI non decise di non intraprendere l'offensiva rivoluzionaria verso la fine della guerra,
sebbene gli Stati Uniti fossero in una fase di debolezza militare e, in generale, le condizioni
per il successo fossero più favorevoli che mai o da allora. Il motivo era che, sulla scia delle
decisioni del VII CM (e della loro falsificazione opportunista di destra), l'alleanza con i partiti
borghesi, in particolare con i socialdemocratici e i cristiano-democratici, era considerata
strategicamente centrale ed essi erano disposti a fare concessioni estremamente ampie per la
continuazione di questa cooperazione (Feldbauer 2012).
Il Segretario Generale Palmiro Togliatti arrivò a giustificare alla fine in modo coerente la
possibilità di una via pacifica al socialismo all'8° Congresso del PCI. Si indicano "importanti
conclusioni per la strategia e la tattica del movimento comunista": L'affermazione della
possibilità di evitare la guerra a causa della mutata costellazione del mondo, il
riconoscimento della possibilità di una transizione al socialismo che escluda l'insurrezione
armata e proceda nel quadro della legalità democratica, utilizzando anche istituzioni
democratiche" (citato in Skolarikos 2015, 75). Sulla base della sua strategia sempre più
apertamente riformista, negli anni Ottanta il PCI si è trasformato in un partito classicamente
socialdemocratico. Già negli anni Settanta ha lavorato a stretto contatto con il governo
cristiano-democratico, sostenendo la sua politica di consolidamento del bilancio e di
riduzione dei salari: il PCI svolse un ruolo importante in questo senso, poiché godeva ancora
di un'ottima reputazione tra la classe operaia. Nel 1976 Napolitano, uno dei suoi leader,
spiegò ai lavoratori che serviva una svolta verso politiche di austerità a causa delle loro
eccessive richieste salariali del passato (Skolarikos 2015, 90). Al congresso del partito del
1989, la base degli iscritti era già ampiamente socialdemocratizzata: secondo un sondaggio
condotto tra i delegati, solo un quarto credeva ancora nella possibilità di una società senza
classi, solo il 10% riteneva necessaria l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di
produzione e solo il 3% la scomparsa dello Stato (Skolarikos 2015, 94).
La storia del PC francese non è meno tragica. Come il PC italiano, si rafforzò massicciamente
durante la guerra, ottenne un quarto dei voti nel dopoguerra ed era fortemente ancorato al
proletariato industriale, partecipò anche ad un governo di unità nazionale con i partiti
borghesi. Anche in questo caso, le conseguenze per la classe operaia furono negative, in
quanto il PCF diede la massima priorità alla ricostruzione economica e convinse i sindacati a
moderare le loro richieste (Skolarikos 2015, 106). Anche il PCF non perseguì più una chiara
linea rivoluzionaria a partire dal 1945: il suo segretario generale Maurice Thorez, una figura
del movimento comunista mondiale importante quasi quanto Palmiro Togliatti, dichiarò in
un'intervista del 1946: "Il progresso della democrazia in tutto il mondo, con le rare eccezioni
che esistono e che confermano la regola, ci fanno sperare che ci siano altre strade verso il
socialismo rispetto a quella scelta dai comunisti russi. (...) Il partito francese dei lavoratori,
che speriamo di creare attraverso l'unione di comunisti e socialisti, guiderà la strada verso
questa nuova democrazia del popolo" (Skolarikos 2015, 107). Al 14° Congresso del PCF, nel
1956, elaborò questa idea. La situazione in Francia apriva nuove possibilità per il
proletariato: "Essa racchiude la possibilità dell'unificazione (...) della maggioranza del popolo
francese, e grazie a questa alleanza, il parlamento stesso si trasformerà da organo della
dittatura della borghesia in un autentico organo della volontà popolare. Anche ora i comunisti
e i socialisti non sono lontani dal raggiungere la maggioranza nell'Assemblea Nazionale".
(ibidem, 115). Qui, dunque, molto prima della presunta "rottura" del 1968, l'idea di una
trasformazione dell'apparato statale borghese con mezzi istituzionali "democratici", cioè
legali, si trova già nel PCF. Per rendere possibile questo percorso evolutivo verso il
socialismo, è dichiarata decisiva la ferma alleanza con la socialdemocrazia.
L'idea di un ampio blocco di forze politiche e sociali, comprendente anche parti della
borghesia, compare anche in Thorez. Così, al plenum del CC del PCF del 14 ottobre 1960,
affermò: "L'alleanza che vogliamo va molto al di là di quella che normalmente viene
chiamata sinistra. Deve includere tutti gli strati sociali oppressi dai monopoli: la classe
operaia, i contadini lavoratori, gli intellettuali, i piccoli commercianti e artigiani, e anche i
piccoli capitalisti schiacciati dalla concorrenza delle grandi imprese" (Skolarikos 2015, 110).
Alla base c'è l'idea illusoria che il dominio del capitalismo monopolistico sia in realtà molto
debole, poiché non ha una vera base di classe e che tutti, tranne una minuscola minoranza (i
monopoli, l'influenza esterna dell'imperialismo statunitense, i fascisti), abbiano
effettivamente interesse al socialismo. Il capitale non era più inteso in senso marxista come
un rapporto sociale globale, l'imperialismo era inteso come un fenomeno esterno al
capitalismo italiano o addirittura francese. Il risultato fu un'idea idealistica di una presa di
potere delle forze progressiste sulla base di una presa di coscienza degli strati più ampi in
direzione antifascista-democratica.
Anche il PCF, con le sue politiche, si è portato nell'abisso della socialdemocrazia. Già nel
1965 sostenne la candidatura di Mitterand alle presidenziali, senza porre condizioni
preliminari. Georges Marchais, segretario generale del PCF dal 1972 al 1994, ha spiegato
così il programma "Il socialismo nei colori della Francia" del 1976: "Permettetemi di
affermare che la politica dell'unità è innanzitutto una politica di principio per il nostro partito,
perché l'unità del popolo lavoratore, l'unità del popolo francese è una condizione di successo
nella lotta per la trasformazione democratica e socialista della società francese. L'accordo tra
comunisti e socialisti deve essere il fondamento, il polo per questo. Proprio per questo,
vogliamo realizzare una collaborazione stabile e duratura tra il partito socialista e il nostro
partito, non solo nell'attuale fase di lotta, ma anche in futuro, quando sarà in gioco la
costruzione del socialismo." (ibidem, 152). Così ora si è arrivati a credere che il socialismo
potesse essere raggiunto e costruito insieme al nemico di classe.
Queste brevi osservazioni sull'"eurocomunismo" erano necessarie perché dimostrano che non
è stato il risultato di un insidioso tradimento delle idee comuniste da parte di una piccola
cricca, ma è avvenuto come una strisciante presa di distanza dall'analisi marxista e dai
principi della politica comunista.
La politica opportunista dei PC nel dopoguerra si configurava come una coerente
continuazione del fronte unito e popolare antifascista, cioè, in ultima analisi, come un
ulteriore sviluppo delle tesi del VII CM. Ciò poteva avvenire solo ignorando selettivamente
alcuni elementi della politica del Comintern degli anni Trenta, come la critica alla mancanza
di cospirazione e l'adesione alla valutazione negativa della socialdemocrazia. Allo stesso
tempo, però, i comunisti dopo il 1945 si sono riferiti in parte giustamente al VII CM - il che,
ovviamente, non rende la loro politica più corretta. Furono abbandonati i molti approcci
corretti della politica di unità d'azione del Comintern prima del 1935, che si sforzava di
sottrarre le masse lavoratrici all'influenza di tutte le forze borghesi, e in particolare della
socialdemocrazia, e di organizzarle sulla base della lotta di classe contro il fascismo. Così
come molte delle ricche esperienze fatte nell'organizzazione della classe operaia per i suoi
interessi, non da ultimo dal KPD.
Tutto ciò avvenne nel contesto di uno sviluppo problematico anche del PCUS e questi
processi si svolsero in stretta interazione tra loro.
Le letture maoiste e hoxhaiste (basate su Enver Hoxha, leader del Partito del Lavoro
d'Albania dal 1944 al 1985) hanno datato la svolta opportunista del PCUS al XX Congresso
del Partito del 1956: questo punto di vista si è diffuso anche tra i marxisti-leninisti. Tuttavia,
è problematico perché non rende giustizia al carattere processuale dello sviluppo
dell'opportunismo ed esclude arbitrariamente tutto ciò che precede questa data (a parte le
errate analisi maoiste che hanno poi assolutizzato le tendenze opportuniste e messo in
discussione il carattere socialista della società sovietica). Gravi problemi teorici erano già
presenti nella linea del PCUS al 19° Congresso del Partito (1952), in cui Stalin era ancora
coinvolto. Il dominio dell'imperialismo statunitense fu assolutizzato e di conseguenza le
politiche di tutti gli altri Paesi capitalisti, anche dei principali Stati imperialisti come
l'Inghilterra, la Francia e i Paesi Bassi, furono interpretate come "dettate dagli imperialisti
americani" (PCU(b) 1952, p. 2687). Ciò si è accompagnato a un'analisi che non ha più
interpretato coerentemente le guerre come un fenomeno dell'imperialismo come sistema, ma
come una conseguenza dell'aggressiva politica estera statunitense. La logica conseguenza fu
la politica di coesistenza pacifica con l'imperialismo che, contrariamente a un'idea sbagliata
diffusa, non fu adottata al XX Congresso del Partito ma già al XIX (ibid., p. 2693). Nel
complesso, tuttavia, il XIX Congresso del Partito può essere giudicato in modo ambivalente,
poiché da un lato ha anche sottolineato la necessità di un forte potere statale socialista e la
continua lotta ideologica di classe contro l'ideologia borghese.
Tuttavia, il XX Congresso del Partito del 1956 non è arrivato all'improvviso, ma è stato in
grado di basarsi sulle valutazioni errate del precedente Congresso del Partito. Per molti
aspetti, si trattava di una svolta verso una politica estremamente problematica e opportunista.
Questa inizia con il famoso discorso segreto di Krusciov "Sul culto della personalità e le sue
conseguenze", in cui costruì un culto negativo della personalità contro Stalin, che era anche
costruito su una moltitudine di bugie e distorsioni, come è stato poi dimostrato (Furr 2014).
La resa dei conti di Krusciov con Stalin, tuttavia, non aveva solo lo scopo di nascondere la
propria responsabilità per i crimini commessi, ma costituiva anche il preludio a una svolta
politica. Con il XX Congresso del Partito, la coesistenza pacifica con l'imperialismo e la non
ingerenza in altri paesi furono elevati a principio "leninista" e l'"instaurazione di salde
relazioni amichevoli tra (...) l'Unione Sovietica e gli Stati Uniti d'America" fu dichiarata
l'obiettivo della politica estera (Krusciov 1956, pag. 34) - è ovvio che "l'amicizia" con uno
Stato che pochi anni prima aveva bombardato la Grecia e condotto una guerra di sterminio
genocida in Corea è qualcosa di diverso dall'impegno per prevenire una guerra nucleare.
Ma il XX Congresso del Partito si spinse oltre: dalla posizione rafforzata del socialismo, si
dedusse che era possibile introdurre il socialismo con mezzi parlamentari e pacifici e fare del
parlamento borghese "un organo di autentica democrazia, la democrazia del popolo
lavoratore" (ibid., p. 45 e seguenti).
Ci sarebbe molto altro da scrivere sui due congressi del PCUS sopra citati, ma questo è un
compito per un altro testo. A questo proposito va solo notato che la continuità delle
valutazioni problematiche e delle conclusioni opportunistiche mostrate sopra si ritrova anche
nel PC sovietico.
Non è quindi storicamente corretto limitarsi a sottolineare, come fa Stoodt, che la politica del
Fronte Popolare fu ritirata nel 1939. Ciò ignora il fatto che in realtà questa politica fu ripresa
in forma modificata e ancora più problematica a partire dal 1941 - il fatto che questo processo
sia stato ufficialmente contrassegnato come tale o no dall'IC non è il fattore decisivo. Per il
periodo della guerra, questa politica può essere ancora relativamente facile da giustificare,
perché a quel tempo il movimento comunista mondiale concentrò correttamente tutte le sue
energie sulla lotta difensiva militare e politica contro gli invasori fascisti. Tuttavia, al più
tardi per il periodo dal 1945 in poi - o piuttosto anche prima - questa eredità pone un
problema reale al movimento comunista mondiale.
Non c'è dubbio che anche nel dopoguerra l'Unione Sovietica sia stata oggettivamente
costretta a una posizione difensiva, nonostante (e in parte proprio a causa) dei notevoli
guadagni di terreno ottenuti nel corso della guerra. Da questa situazione, la dirigenza di
Mosca orientò i partiti fratelli europei a non sfruttare la condizione di instabilità del
capitalismo postbellico per la conquista rivoluzionaria del potere, ma a contribuire alla
stabilizzazione dell'ordine appena stabilito in Europa. Non si trattava di una valutazione del
fatto che le condizioni per una rivoluzione di successo non esistessero da nessuna parte: senza
dubbio esistevano almeno in Grecia nel 1944, probabilmente in Italia nella primavera del
1945 e forse anche in Francia, ma non furono utilizzati nel senso di una rivoluzione socialista
perché il movimento comunista mondiale di allora non riteneva di poter condurre la lotta
antifascista come aspetto della lotta per il potere.
Il VII Congresso dell’Internazionale Comunista è stato un evento chiave per tutti questi
sviluppi negativi: non solo i comunisti da quel momento storico in poi hanno potuto
affermare di stare sul terreno delle sue risoluzioni, per molti aspetti lo hanno anche messo in
pratica.
4. Conclusioni
Il VII CM ha posto correttamente alcune questioni e ha criticato giustamente alcune cose
sulla pratica dei comunisti negli anni precedenti: dovrà essere esaminato più da vicino in altra
sede dove si trovino esattamente gli aspetti problematici della politica del KPD prima del
1935. Tuttavia, come è stato sottolineato in questa sede, rappresenta, nel complesso, una
svolta politica verso destra. È vero che la maggior parte delle sue risoluzioni non
rappresentavano ancora una svolta verso l'opportunismo aperto o il revisionismo, anche se le
considerazioni sul "partito operaio unito", ad esempio, tendevano già in questa direzione.
Ciononostante, comprensibilmente nel contesto storico dell'epoca, sono state fatte alcune
valutazioni problematiche, che si sono radicate nel bagaglio strategico comunista, sono
diventate teoria e quindi rappresentano ancora oggi una porta d'accesso permanente
all'opportunismo.
Questi punti sono: un'analisi di classe del fascismo parzialmente falsa; la ridefinizione del
rapporto con la socialdemocrazia come forza alleata in cui sono presenti anche tendenze
"rivoluzionarie"; l'obiettivo di un partito operaio unito, cioè l'abbandono dell'indipendenza
dei partiti comunisti; la difesa della partecipazione dei comunisti al governo nel contesto di
una teorizzazione generale e non specifica sulle "forme di transizione", che arrivava a
concepire la stessa democrazia borghese, in determinati rapporti di forza, già come una
possibile forma di transizione verso il socialismo; infine anche la polemica non obiettiva,
distruttiva e dogmatica contro i "settari dell'ultrasinistra" e i "dottrinari".
Da qui si sviluppò una linea politica in cui la partecipazione al governo da parte dei comunisti
non era più vista come un raro e ben giustificato caso eccezionale, ma sempre più come una
tattica legittima e abituale nella lotta di classe; secondo la quale la socialdemocrazia e altre
forze borghesi presumibilmente "progressiste" erano viste come alleati strategici, in parte
anche nella costruzione socialista; secondo cui l'attenzione si concentrava sulle "più ampie
alleanze" di tutto il popolo, che sminuivano la centralità della classe operaia e dovevano
includere anche parti della borghesia; secondo cui il socialismo non era più visto come un
obiettivo immediato della lotta, ma era considerato possibile solo dopo profonde riforme nel
quadro di una fase di transizione; secondo cui, di conseguenza, i PC non si preparavano più al
confronto diretto con gli apparati statali e si organizzavano di conseguenza, ma fungevano
piuttosto da punto di raccolta per tutti i tipi di progressisti. Questa continua evoluzione verso
l'opportunismo di destra non era ovviamente inevitabile: certamente si sarebbe potuto
correggere. Tuttavia, poiché anche l'opportunismo di destra cresceva continuamente nel
PCUS e anche il PC cinese perseguiva un percorso barcollante tra l'opportunismo di "estrema
sinistra" e quello di destra (con la sua falsa tesi di "socialimperialismo", il riavvicinamento
con gli Stati Uniti l'imperialismo, la visione nazionalista della storia, l'alleanza con la
"borghesia nazionale", le tendenze di estrema sinistra della Rivoluzione culturale) e poi dal
1978 è passato a una linea apertamente opportunista e filocapitalista di destra, l'equilibrio di
potere per tale correzione era estremamente sfavorevole.
Nelle discussioni tra i comunisti, spesso si avverte di non "rimanere indietro" rispetto le
intuizioni del VII CM. Naturalmente, si può parlare di arretramento solo se si parte dal
presupposto che il VII CM sia il metro di misura della correttezza della strategia e della
tattica comunista in generale. Un simile atteggiamento, tuttavia, è semplicemente dogmatico
e contrario all'essenza del marxismo-leninismo, che presuppone la necessità di un costante
sviluppo e revisione.
In definitiva, non resta che riproporre la questione sollevata da Stoodt: dove ha mai avuto
successo il Fronte Popolare? Il punto non è negare che possa essere stato corretto.
Presumibilmente, ad esempio, al più tardi dopo il colpo di Stato dei generali in Spagna nel
1936, non ci sarebbero state comunque alternative serie a qualsiasi forma di cooperazione con
la Repubblica. Così, la resistenza militare contro il fascismo poté essere mantenuta almeno
per due anni, ma, come è noto, non poté impedirne la vittoria. I risultati della politica del
Fronte popolare, nel migliore dei casi scarsi e nel peggiore (e più spesso) devastanti,
dovrebbero fornire ragioni sufficienti per limitare la validità di questo orientamento a casi
molto specifici. E anche in questi casi specifici è indispensabile legare tale politica alla
massima chiarezza ideologica e politica del Partito Comunista - un prerequisito che
storicamente non è stato imposto chiaramente dall'IC, come è stato mostrato qui.
Non è affatto convincente trasportare gli stessi orientamenti tattici alla situazione odierna, che
differisce notevolmente da quella della Repubblica di Weimar dal 1930 in poi. Un
orientamento verso le cosiddette "larghe alleanze" con tutti i tipi di forze borghesi non può
aiutare a costruire un fronte di resistenza veramente ampio contro il fascismo, la guerra e il
capitalismo, ma contribuisce oggettivamente all'offuscamento della coscienza, allo
smorzamento degli impulsi radicali spontanei nelle masse, al mascheramento della linea di
demarcazione tra forze rivoluzionarie e forze che preservano il sistema, alla mancanza di
credibilità dei comunisti e, in ultima analisi, alla loro integrazione nello Stato borghese e nei
suoi strumenti di governo, che comprendono anche gli apparati sindacali. Una delle
differenze decisive della situazione odierna rispetto a quella del 1930 è che la reazione oggi
non avanza come movimento di massa apertamente fascista, ma come interazione tra
ristrutturazione reazionaria-autoritaria dello Stato e populismo razzista-nazionalista. D'altra
parte, la funzione oggettiva della socialdemocrazia è diversa, perché non è più in grado di
legare direttamente a sé la maggioranza della classe operaia a livello organizzativo.
L'argomento secondo cui il fronte unito proletario può essere costruito solo attraverso la
cooperazione con la socialdemocrazia perde così (ancora di più) la sua forza persuasiva.
Il fatto che in molti partiti comunisti, tra cui il DKP, negli ultimi anni siano stati compiuti
passi per sviluppare un atteggiamento storico-materialista nei confronti della persona di
Stalin, che il significato del contributo positivo dato sotto la guida di Stalin alla costruzione
socialista e al rafforzamento del movimento comunista sia ora valutato più correttamente, è
da accogliere con favore. Il dogmatismo anticomunista dell'"antistalinismo" è rimasto
appiccicato al movimento per troppo tempo. Tuttavia, non bisogna permettere che questo si
trasformi in un dogmatismo al contrario che ci rende ciechi di fronte agli sviluppi
problematici che ebbero luogo in quel periodo, compresi quelli di cui Stalin fu
corresponsabile. In particolare, lo scioglimento dell'Internazionale Comunista nel 1943 getta
ancora oggi la sua ombra e ha causato danni duraturi al movimento. Ma anche la svolta del
1935 sul VII CM appartiene in gran parte all'eredità problematica di questo periodo. Il
risultato di questo sviluppo complessivo è l'odierna crisi ideologica e politica del movimento
comunista mondiale. Pertanto, un esame storico critico di essa è un prerequisito assoluto per
superare questa crisi.
Nota a piè di pagina:
1. Tutte le citazioni, salvo diversa indicazione, sono tratte dal discorso di Dimitrov.
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