Comunismo - Scintilla Rossa

La controversia del capitale

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Yenan
view post Posted on 5/4/2019, 12:11




La controversia del capitale

La precarietà del lavoro, la rimozione dei diritti non sono scelte inevitabili dettate delle “leggi dell’economia”. Si tratta di un attacco ai lavoratori, un tentativo di riappropriazione capitalistica.


Riflettere di teoria economica viene bollato nel migliore dei casi come un “ragionare dei massimi sistemi”, inutile. Niente di più falso perché è proprio dalle teorie e dalla visione di mondo che esse incorporano, l’ideologia, che derivano le scelte politiche siano esse in ambito economico, istituzionale e politico.

L’incapacità di analizzare le ricadute politiche di certe teorie rende difficile squarciarne il velo più profondo. Negli ultimi decenni, si è affermata egemonicamente una ben precisa teoria, quella neoclassica o marginalista, adottata come unica teoria, naturale e quindi incontestabile. Eppure non è affatto così: questa è solo una delle teorie economiche ed è anche fallace sia dal punto di vista teorico sia da quello empirico, cioè della capacità di realizzarsi ed essere verificata nei fatti.

Esempio più lampante è la riforma delle riforme: quella del mercato del lavoro, il lungo processo di flessibilizzazione e liberalizzazione avvenuto in Europa negli ultimi due decenni, in Italia a partire dal Pacchetto Treu del 1997 che introdusse il lavoro interinale. Queste riforme sono state giustificate dai governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni dall’idea che alla base dell’elevata disoccupazione italiana ci fosse un’eccessiva rigidità del lavoro, in ossequio ai dettami dell’Ocse. In questo contesto le tutele sindacali, così come qualsiasi norma a difesa dei lavoratori, impedirebbero il “corretto” funzionamento del mercato del lavoro. L’idea per cui la rigidità del mercato del lavoro costituirebbe un problema ha progressivamente monopolizzato il dibattito pubblico e l’agenda politica della maggioranza dei partiti dell’arco parlamentare, almeno in Italia.

Tutte queste misure si ispirano, più o meno esplicitamente, alla teoria economica dominante (neoclassica o marginalista) per cui la rimozione delle “frizioni” e delle “rigidità” del mercato del lavoro favorirebbe il raggiungimento della piena occupazione. Reso libero il mercato la disoccupazione sarebbe soltanto un espediente volontario. Una costruzione teorica fortemente ideologica che già negli anni Sessanta e Settanta fu fatta a pezzi durante quel lungo dibattito che porta il nome di “Controversia del capitale” o fra le “due Cambridge”, che vedeva contrapposti economisti che all’epoca lavoravano presso l’università di Cambridge in Inghilterra e, dall’altro, economisti del Mit, a Cambridge in Massachusetts.

Un dibattito che dal piano teorico entra direttamente nell’agenda politica, determinando quella svalutazione del lavoro di cui è vittima la maggioranza della società. Avallando la teoria neoclassica e considerando lavoro e capitale come fattori di produzione tecnici e neutrali, e non invece fondamento ed espressione dei rapporti di forza interni al capitalismo, la resistenza all’attacco spregiudicato del capitale è stata quando non nulla, orientata a limitarne i danni più estremi, a smussarne gli angoli, come fossero semplici sbavature.

Ci si chiederà allora perché è importante ricordare oggi un dibattito che ha avuto luogo fra gli anni Sessanta e Settanta. La risposta è semplice: senza una base teorica solida le battaglie politiche sono destinate ad infrangersi nel vuoto. RIfondare il discorso politico è necessario per proporre un’alternativa, così come essere in grado di smascherare gli errori e i limiti del discorso dominante. In particolare, i risultati della controversia stabiliscono che dal punto di vista teorico non è possibile stabilire una corrispondenza univoca fra saggio d’interesse e quantità di capitale e, soprattutto, una corrispondenza inversa fra livello salariale e quantità di lavoro impiegata nell’economia. Questa constatazione invalida teoricamente i meccanismi che sostengono che una diminuzione salariale (o del costo del lavoro nel suo complesso) spingerà le aziende ad aumentare la loro domanda di lavoro. In sostanza, non è possibile sostenere che una maggiore flessibilità (ovvero minori salari) avrà effetti positivi sull’occupazione. Viene così a mancare una delle giustificazioni teoriche alla base delle riforme del mercato del lavoro degli ultimi anni.

Ma andiamo con ordine. Secondo la teoria neoclassica, il salario, come qualsiasi altra merce, è un fenomeno di mercato determinato dal livello di offerta e domanda di lavoratori nell’economia. Nel nostro quotidiano, questo aspetto si traduce in misure politiche ben note: se un paese registra un alto tasso di disoccupazione è perchè esistono delle costrizioni che non consentono alle forze del libero mercato e della concorrenza di operare. Una delle principali barriere al raggiungimento dell’equilibrio sarebbe rappresentata da quelle istituzioni: sindacati, tutele del lavoro, redditi da disoccupazione che contribuiscono a mantenere troppo “rigido” (leggasi troppo elevato) il costo del lavoro. Eliminandole o riducendole drasticamente, le imprese troverebbero più conveniente assumere e quindi anche la disoccupazione diminuirebbe. Così l’economia si ritroverebbe di nuovo nel suo equilibrio: tutti quelli che sono disponibili a lavorare al salario più basso troverebbero un’occupazione, liberamente. Tutti coloro che rimangono disoccupati lo saranno per propria volontà e quindi potranno essere definiti dei “lazzaroni” o più elegantemente choosy. Ma soprattutto alle imprese sarebbe garantito di sfruttare al meglio le condizioni di mercato, aumentando i propri profitti. Quindi, i lavoratori risulterebbero “più economici” rispetto agli altri fattori produttivi (principalmente i macchinari) e questo favorirebbe l’assorbimento della forza lavoro. Questi meccanismi rispondono al chiamato “principio di sostituzione fattoriale”.


Il principio di sostituzione fattoriale

Esistono due meccanismi di sostituzione fattoriale. Il primo, chiamato “diretto”, è abbastanza intuitivo e può sembrare ragionevole a un primo sguardo. In un’economia in un cui i fattori produttivi sono capitale (ovvero i macchinari) e forza lavoro, gli imprenditori impiegheranno tecniche di produzione che coinvolgono un mix di questi due fattori retribuiti, rispettivamente, col saggio di interesse e col salario, che quindi rappresentano i rispettivi costi per l’imprenditore.Più il costo del lavoro (il salario) è alto, più gli imprenditori tenderanno ad utilizzare tecniche che richiedono meno lavoratori, mentre contemporaneamente aumenterà la richiesta di macchinari. E viceversa. Capitale e lavoro sono assunti come due fattori tecnici non come due aspetti antitetici del processo di produzione capitalistica, in cui il capitale è politicamente lo strumento di dominio di una parte di società sull’altra, quella che non lo possiede.

Teoricamente, il principio di sostituzione fattoriale esisterebbe anche se non esistessero metodi di produzione alternativi e che ogni bene si produce unicamente con una tecnica. A questo scenario fa riferimento il meccanismo di sostituzione “indiretto”. In questo caso, supponiamo che è possibile distinguere i processi produttivi in funzione della loro intensità di uso dei fattori produttivi, capitale e lavoro, e non sia possibile modificarli. Per esempio, l’industria tessile è un settore a più alta intensità di manodopera rispetto all’industria automobilistica, in quanto impiega più lavoratori per unità di capitale utilizzato. Riducendo il livello salariale allora automaticamente anche il prezzo dei prodotti tessili diminuirà e i consumatori vorranno acquistare più abbigliamento. A sua volta, il maggior consumo di prodotti tessili farà aumentare la domanda di lavoro nel settore in relazione al volume di capitale esistente. Anche in questo caso estremo sarebbe possibile derivare una relazione inversa fra il livello salariale e quello di occupazione.

Dal punto di vista politico, questo equivale a dire che, se il tasso di disoccupazione è troppo elevato, la flessibilizzazione del mercato del lavoro rappresenta quel meccanismo necessario che riducendo i salari fa riassorbire la disoccupazione (involontaria). Solo così, cioè svalutando il prezzo del lavoro, gli imprenditori avrebbero incentivo a specializzarsi in settori che richiedono più forza lavoro. Come disse l’ex-Ministro Calenda per l’Italia: investite perché i nostri lavoratori sono competitivi, costano meno che i loro colleghi Europei!

Un ragionamento analogo vale per il mercato di capitale, ovvero per la richiesta di macchinari da parte degli imprenditori. Maggiore sarà il tasso di interesse, minore la domanda di macchinari e maggiore l’offerta, e viceversa.

È importante tenere a mente questi meccanismi perché la capacità di raggiungere la piena occupazione di lavoro e capitale, secondo la teoria marginalista, si basa sulla possibilità di poter derivare il punto di equilibrio fra i due fattori produttivi grazie al meccanismo di sostituzione fattoriale appena descritto. Se non fosse possibile derivare questa relazione univoca fra offerta e domanda di lavoro e capitale, questo meccanismo verrebbe meno e con lui il corollario politico per cui una maggiore flessibilità del lavoro crea più occupazione. In altre parole, una diminuzione dei salari potrebbe portare all’uso di meno lavoratori (e non più lavoratori, come previsto dalla teoria neoclassica) e viceversa.


Quando la Cambridge britannica fece scacco matto ai marginalisti

Nonostante il livello di analisi sia divenuto via via più sofisticato nel tempo, il principio di sostituzione fattoriale costituisce una delle fondamenta su cui poggia tuttora la teoria economica dominante. Questo principio e la natura stessa del capitale furono al centro della “controversia del capitale”. Il detonatore del dibattito fu la pubblicazione, nel 1960, del libro Produzione di merci a mezzo di merci dell’economista Piero Sraffa. A partire da quel momento seguì un acceso dibattito fra economisti. Da un lato, troviamo studiosi quali Luigi Pasinetti (1930) e Pierangelo Garegnani (1930-2011) che all’epoca lavoravano presso l’università di Cambridge in Inghilterra. Dall’altro, economisti quali Paul Samuelson (1915-2009), presso la Cambridge statunitense.

Gli economisti della Cambridge britannica dimostrarono come la misurazione stessa del capitale è problematica. Mentre l’unità di misura del lavoro può essere facilmente misurata tramite il numero di persone occupate o di ore lavorate , la quantità di capitale ha bisogno di essere espressa in unità monetarie.

Il capitale impiegato dagli imprenditori è un insieme di merci molto diverse fra loro utilizzate per la produzione di beni finali. Per conoscere la “quantità di capitale” impiegata nella produzione l’imprenditore dovrà valutare i diversi macchinari a sua disposizione in base al loro prezzo. Il problema sorge nel momento in cui il prezzo dei beni che formano il capitale sono dipendenti dal livello del tasso di interesse. Così un cambiamento del livello del tasso d’interesse modifica i prezzi dei beni di capitale, senza che però cambi la loro composizione. In altre parole, il valore del capitale non è indipendente dalla distribuzione del reddito, ovvero da come il prodotto nazionale viene suddiviso fra lavoratori salariati e i redditi da capitale (profitti, rendite e interessi) che ne permettono l’accumulazione, cioè il suo incremento: non è possibile calcolare il prezzo del capitale senza conoscere il tasso di interesse, ma a sua volta, il tasso di interesse dipende dalla quantità di capitale impiegato il quale dipende dal suo prezzo. Si entra così in un circolo vizioso che pone serie complicazione alla costruzione delle curve di domanda e di offerta di capitale previste dai neoclassici.

La Cambridge inglese dimostra allora che, vista la dipendenza tra il prezzo dei beni di capitale e la distribuzione del reddito, non c’è nulla che impedisca che la quantità di capitale domandata aumenti con l’aumentare del tasso di interesse. Questo fenomeno si conosce con il termine di “inversione dell’intensità capitalistica” (reverse capital deepening) e si riferisce alla possibilità di avere una curva di domanda di capitale che prende forme diverse da quelle concepite dagli economisti neoclassici, dove si stabilisce un unico equilibrio. Per esempio, la curva di domanda di capitale potrebbe avere la forma esposta nel grafico 1. Questa curva è problematica per teoria neoclassica, perché non è possibile trovare un unico punto di equilibrio fra domanda ed offerta.

grafico1

Grafico 1: Possibile curva di offerta e domanda di capitale con inversione dell’intensità capitalista

Il secondo grande contributo delle controversie riguarda la possibilità che una tecnica produttiva sia la più redditizia (e quindi quella scelta dagli imprenditori) sia a livelli elevati che ridotti del tasso d’interesse. Si ricorderà che, secondo il principio di sostituzione fattoriale, l’economia si sposta verso tecniche a minore intensità di capitale (e quindi con più elevata intensità di lavoro) a misura in cui il tasso d’interesse diminuisce e viceversa. In teoria, a misura in cui diminuiscono i salari maggiore sarà l’uso relativo di manodopera. Le tecniche di produzione possono essere ordinate in base alla loro intensità di manodopera e capitale: per ogni livello salariale una determinata industria impiegherà un certa quantità di lavoratori e macchinari. Il mix di lavoratori e macchinari impiegato è tale da permettere la massimizzazione dei profitti. Per esempio, se i salari diminuiscono l’industria tessile adotterà tecniche di produzione che impiegano più lavoratori e meno macchinari. La teoria neoclassica non prevede che un metodo di produzione utilizzato per un determinato livello salariale venga impiegato anche per retribuzioni più basse. Se fosse così infatti verrebbe annullata la generalità della teoria neoclassica, dato che a un cambiamento del livello salariale non sarebbe possibile aspettarsi un movimento inverso ed univoco della quantità di lavoro domandata. È proprio questo che gli economisti legati a Sraffa dimostrarono. La stessa tecnica produttiva può essere impiegata sia a livelli salariali elevati che a livelli più bassi, confutando il principio di sostituzione fattoriale neoclassico. Questa possibilità si conosce come “ritorno delle tecniche” (reswitching).


Oltre domanda e offerta: la politica e il conflitto

Inoltre, la controversia muove scacco matto alla teoria della retribuzione del lavoro e del capitale basata sull’offerta e la domanda dei fattori produttivi. Il livello salariale non riflette né la produttività marginale del lavoro né i gusti e le preferenze della società. Rimane così aperta la questione riguardante le modalità di determinazione del livello salariale. Riconoscere che il salario, e la distribuzione del reddito, non sono un fenomeno strettamente di mercato porta con sé due grandi considerazioni. In primis, non esiste un livello “naturale” tale che permette che tutti i lavoratori siano occupati ricevendo la “giusta” retribuzione per il loro lavoro. Il livello salariale dipende così da fattori politici e istituzionali, in sintesi dai rapporti di forza interni alla società. Per ottenere una spiegazione più efficace è conveniente tornare agli economisti classici, da Smith a Marx che fin troppo bene, specie il secondo, hanno spiegato come il salario è determinato da una serie di fattori socio-culturali, di carattere storico e politico. I salari possono aumentare o diminuire in funzione della forza delle rivendicazioni dei lavoratori. L’altra faccia della medaglia è che un salario più alto implica un saggio di profitto più basso per gli imprenditori. Nel capitalismo, esiste quindi un conflitto insito alla distribuzione del reddito. Non si tratta di gioco imparziale: se aumenta la quantità di torta appropriata dagli imprenditori, diminuisce quella percepita dai lavoratori. Dobbiamo quindi aspettarci che anche gli imprenditori si organizzino per difendere i propri redditi, ovvero i profitti. Ed è quello che hanno sempre fatto, come dimostrano le riforme del mercato del lavoro degli ultimi decenni. Il lungo processo di flessibilizzazione e liberalizzazione va letto in quest’ottica, non come l’applicazione di principi oggettivi e scientificamente incontrastati e neutrali. Non sono né l’uno, né l’altro. Da qui bisogna partire per rifiutare i molti che costantemente provano a spacciarci la precarietà del lavoro, la rimozione dei diritti, come tasselli inevitabili dettati delle “leggi dell’economia”. Si tratta piuttosto di un attacco ai lavoratori, un tentativo di riappropriazione di una fetta sempre più grande di torta.


Quando avere ragione non basta

Infine, ci sono altre riflessioni, di più ampio respiro, che si possono trarre da questo dibattito. Dal punto di vista strettamente scientifico, i dibattiti del capitale minano le fondamenta del paradigma economico neoclassico. Come abbiamo accennato, la controversia è stata tutt’altro che secondaria e coinvolse i maggiori economisti dell’epoca. Ad oggi, le conclusioni raggiunte non sono state messe in discussione efficacemente, ed è possibile continuare ad affermare che la Cambridge inglese avesse ragione. Eppure, la portata di una simile contesa non ha investito con le dovute proporzioni né il dibattito pubblico, né quello accademico. Al contrario, dagli anni Settanta in poi, il mainstream economico, basato sul marginalismo, non ha fatto che rafforzarsi nelle università. Oggigiorno, la stragrande maggioranza degli studenti di economia non si imbatte minimamente nei dibattiti del capitale. Nella maggior parte dei casi, nelle facoltà di economia l’approccio marginalista è presentato come l’unico esistente.

Dal punto di vista più strettamente politico, invece, nulla è cambiato rispetto ai precetti tradizionali dell’economia neoclassica. Anche al di fuori dell’accademia il paradigma marginalista è di gran lunga dominante e si fa portatore di alcuni valori portanti della società. Secondo questa prospettiva, la società è un insieme di individui che cercano di soddisfare il proprio interesse personale e così facendo aumentano il benessere generale. Si tratta di un mondo teoricamente “meritocratico”, nel quale il mercato “premia” coloro che hanno idee brillanti, ovvero gli imprenditori, e nel quale tutti i volenterosi troverebbero un’occupazione. Non importa a quali condizioni, non importa se gratuitamente. Da questo punto di vista, l’organizzazione dei lavoratori è da considerarsi dannosa per il benessere generale. Questo leit motiv ha abbagliato anche parte dei sindacati nostrani che si sono progressivamente spostati da un sistema conflittuale a uno concertativo. Certo, non mancano segnali incoraggianti e che vanno nella direzione contraria, dimostrando che è sempre possibile invertire la tendenza. I dibattiti del capitale costruiscono uno strumento teorico per contrastare il monolito culturale neoliberista in cui siamo cresciuti. Nonostante l’indiscussa rilevanza delle conclusioni della controversia di Cambridge, è necessario sottolineare però come la sola rigorosità teorica non sia stata sufficiente a sconfiggere la visione di mondo neoliberale. È necessario opporre una narrativa alternativa che vada oltre la sola costruzione teorica di un approccio diverso da quello dominante. E’ questo che hanno fatto i neoliberisti a partire dalla fine della seconda guerra mondiale: si trattò di un processo lento, che si estese a tutti gli aspetti della vita quotidiana, ma che alla fine riuscì a contendere il senso comune che fondava lo stato sociale e il paradigma keynesiano. Non basta “avere ragione”. A volte non è neanche necessario, come dimostra l’ascesa dell’ideologia neoliberale. Il rigore accademico è inservibile se non si inserisce negli ingranaggi che formano il consenso, che creano egemonia. Teniamolo a mente.
 
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view post Posted on 11/1/2022, 16:55

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L'articolo è interessante e vorrei contribuire alla critica della teoria neoclassica riportando gli ultimi capitoli del libro "L'attualità di Marx" di Giulio Sapelli (ex-marxista, ora cattolico).


5. La critica sraffiana

La critica di Sraffa alla teoria del valore neoclassica si compone di due momenti distinti: una prima critica effettuata negli anni 1925-32 e una seconda critica avanzata nel 1960. Tra le due critiche di Sraffa si situa la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, la cui critica della teoria neoclassica tocca anche la teoria del valore.


a. La prima critica di Piero Sraffa

Sraffa rileva come la teoria del valore neoclassica dipenda dalle relazioni funzionali stabilite fra prezzo e quantità domandata da un lato, e fra costo e quantità offerta dall’altro lato: dalla prima relazione discende la curva di domanda, dalla seconda la curva di offerta, il cui intersecarsi determina appunto la posizione di equilibrio del mercato e pertanto il valore “normale” delle merci, ovvero il loro prezzo d’equilibrio. Sraffa esamina quindi le condizioni di validità di tali relazioni, analizzando soprattutto la curva di offerta, e cioè il rapporto fra costo e quantità prodotta: perché, nella teoria neoclassica, a differenza di quanto avveniva nella teoria classica (dove il costo era indipendente dalla quantità prodotta), il costo è funzione, cioè varia al variare della quantità prodotta? E perché all’aumentare del prezzo della merce prodotta la quantità offerta aumenta? (Si noti che l’analisi viene svolta nel contesto di un mercato concorrenziale, in cui si suppone che i soggetti non possano influenzare singolarmente i prezzi delle merci.) Per spiegare queste relazioni, la teoria neoclassica invoca la cosiddetta “legge dei costi non proporzionali”: si suppone cioé che, normalmente, all’aumentare del livello di produzione, il costo di produzione sia dapprima decrescente (in virtù di un’altra “legge”, quella dei rendimenti crescenti) e quindi crescente (in virtù della simmetrica “legge dei rendimenti decrescenti”). A partire da un certo livello di produzione, la curva del costo (si tratta, più precisamente, della curva del costo marginale, cioè della curva che indica come varia il costo totale al variare della quantità prodotta) diviene pertanto crescente, e viene a coincidere con la curva di offerta del prodotto (la quale indica come varia la quantità offerta al variare del prezzo). Se, da un lato, queste “leggi” sembrano plausibili, in quanto corrispondono all’opinione del senso comune, secondo cui il produrre è un’attività “costosa” e che diventa sempre più costosa all’aumentare della produzione, dall’altro lato Sraffa mostra, e in questo sta il suo contributo scientifico più rilevante, come si tratti in verità di un insieme complesso di ipotesi la cui validità è assai dubbia, sia dal punto di vista teorico che da quello empirico. L’argomentazione di Sraffa, molto precisa e rigorosa, può essere qui soltanto richiamata nelle sue linee essenziali (v. Ingrao e Ranchetti, 1996, cap.12).

Secondo Sraffa, l’ipotesi di rendimenti crescenti (ovvero costi decrescenti) è un’ipotesi relativa alla scala della produzione, presuppone cioè che tutti i “fattori” della produzione siano simultaneamente e proporzionalmente aumentati; mentre l’ipotesi di rendimenti decrescenti (ovvero costi crescenti) è relativa a una variazione nelle proporzioni fra i fattori della produzione impiegati, presuppone cioè che almeno un fattore rimanga costante, al variare degli altri. (Il secondo caso, quello dei rendimenti decrescenti, dovrebbe essere più propriamente definito come l’ipotesi di produttività marginale decrescente di un fattore costante all’aumentare degli altri.) D’altra parte, se considerate storicamente, le due leggi o ipotesi erano state impiegate per spiegare fenomeni diversi: la prima (rendimenti crescenti) era stata avanzata da Adam Smith per spiegare i vantaggi della divisione del lavoro e si riferiva pertanto a un problema relativo alla produzione, mentre la seconda ipotesi (rendimenti decrescenti, o, meglio, produttività marginale decrescente) era stata avanzata da Ricardo in connessione con il problema della rendita, cioè in connessione con un problema relativo alla distribuzione. In nessuno dei due casi, tali (distinte) ipotesi venivano impiegate congiuntamente, come invece accade nella teoria neoclassica, per spiegare la determinazione del valore, ossia del prezzo relativo, delle singole merci prodotte. La critica di Sraffa non si limita a rilevare l’eterogeneità fra le due distinte leggi dei rendimenti, e pertanto la dubbia natura della legge in cui esse vengono riunite insieme dalla teoria neoclassica, cioè la legge dei costi non proporzionali. Sraffa mostra infatti l’incompatibilità fra tali leggi e l’ipotesi di concorrenza perfetta, su cui pure si basa la teoria neoclassica del valore.
Per quanto riguarda i rendimenti crescenti (costi decrescenti), essi sono incompatibili con l’ipotesi di concorrenza perfetta, la quale implica che i prezzi siano dati e il numero delle imprese elevato, in quanto l’esistenza di rendimenti crescenti condurrebbe ogni singola impresa (che persegue la massimizzazione del profitto) a espandere senza limiti la sua dimensione e pertanto a produrre una quantità così grande di prodotto da poterne influenzare il prezzo. Per quanto riguarda i rendimenti decrescenti (costi crescenti), essi sono a loro volta incompatibili con l’ipotesi di concorrenza perfetta, la quale implica che nella posizione di equilibrio gli extraprofitti siano nulli, in quanto l’esistenza di rendimenti decrescenti condurrebbe ogni impresa a ridurre sempre più la propria dimensione e a ottenere pertanto un extraprofitto positivo.
Un’ulteriore grave difficoltà in cui si scontra la teoria neoclassica del valore è costituita dal metodo del ceteris paribus, in virtù del quale le condizioni di produzione di una merce vengono considerate dalla teoria indipendenti da quelle delle altre merci. Sraffa mostra infatti come le variazioni nelle condizioni di produzione di una merce, e pertanto nei costi, non possano, se non in casi del tutto eccezionali, non influire sui costi e sui prezzi delle altre merci prodotte; di qui l’infondatezza di tale metodo. Se, afferma Sraffa, in una curva di offerta, muta la quantità prodotta della merce considerata, “muteranno non solo il suo prezzo, ma anche quelli di molte altre merci; e la curva di offerta, basata sul ceteris paribus, viene a essere priva di validità” (v. Sraffa, lett. a Keynes, 6 giugno 1926, cit. in Roncaglia 1981). Da questa lucida e rigorosa critica Sraffa trae le seguenti due principali conclusioni.
La prima è che “se il costo di produzione di ogni unità della merce considerata non variasse col variare della quantità prodotta [fosse cioè costante], la simmetria [fra curva di domanda e curva di offerta] sarebbe spezzata, il prezzo sarebbe determinato esclusivamente dalle spese di produzione e la domanda non potrebbe affatto influire su di esso” (v. Sraffa 1986, p.18). In altre parole, una variazione della curva di domanda non avrebbe, al contrario di quanto affermato dalla teoria neoclassica, alcuna influenza sul prezzo (valore) della merce. La seconda conclusione è che, se le cose stanno così, allora, ai fini della determinazione del valore delle merci, “la vecchia teoria, ormai fuori di moda, che lo fa dipendere solo dal costo di produzione, sembra che sia ancora la migliore” (v. Sraffa 1986, p.74). La “vecchia teoria ormai fuori di moda” è la teoria classica, alla cui ripresa sarà dedicato il secondo momento dell’impresa scientifica di Sraffa. Prima di parlarne, è tuttavia opportuno esaminare brevemente la critica di Keynes.


b. La critica di John Maynard Keynes

Si è visto sopra come la teoria neoclassica del valore sia sostanzialmente riconducibile alla legge della domanda e dell’offerta e pertanto a una teoria dell’equilibrio. Nella sua opera più famosa, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, apparsa nel 1936, Keynes non critica direttamente ed esplicitamente la teoria del valore neoclassica, ma, esaminando due punti cruciali della costruzione neoclassica – la determinazione del livello dell’occupazione e la determinazione del tasso di interesse – viene implicitamente a minare gravemente le basi di tale teoria.

Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Keynes mostra come esso non sia determinato nel mercato del lavoro dall’operare congiunto di due funzioni, una di domanda e una di offerta, così come affermava la teoria neoclassica, bensì da altre forze che agiscono su altri mercati (mercati della moneta, dei capitali, dei beni), dei quali si deve tener necessariamente conto (superando pertanto il metodo neoclassico del ceteris paribus). In particolare, secondo Keynes, e di nuovo a differenza di quanto affermato dalla teoria neoclassica, non vi sarebbe necessariamente una relazione inversa fra il salario e l’occupazione: una diminuzione del salario potrebbe anche non condurre a un aumento dell’occupazione. Per quanto riguarda il tasso di interesse, Keynes mostra come esso, a differenza di quanto affermato dalla teoria neoclassica, non sia il prezzo che equilibra domanda e offerta di beni capitali, cioè investimenti e risparmi, in un determinato mercato. Secondo Keynes, per spiegare la determinazione di questo prezzo particolare (il tasso di interesse) si deve fare riferimento a elementi diversi dal mero interagire delle forze della domanda e dell’offerta; in particolare, bisogna riferirsi alla preferenza per la liquidità dei soggetti che operano in un contesto caratterizzato da incertezza. L’implicazione critica dell’analisi keynesiana, nei confronti della teoria del valore neoclassica, risulta chiarissima: i movimenti del salario e del tasso di interesse, ovvero l’operare spontaneo nel mercato della legge della domanda e dell’offerta, non sono in grado di far raggiungere necessariamente al sistema economico la configurazione di equilibrio di piena occupazione di tutti i fattori.


c. La seconda critica di Sraffa

Produzione di merci a mezzo di merci, l’opera principale di Sraffa, pubblicata nel 1960, si presenta come una ripresa della teoria classica e, nello stesso tempo, una critica della teoria moderna del valore e della distribuzione. Sraffa riprende l’impostazione classica nel senso che concepisce il sistema economico come un “processo circolare della produzione sociale, nel quale le stesse merci che compaiono come prodotti sono presenti anche come mezzi di produzione impiegati per la loro produzione” (v. Sraffa, 1960). Inoltre, proprio come nell’economia politica classica, la teoria di Sraffa ha per oggetto principale la distribuzione del sovrappiù fra profitti e salari e perciò la determinazione dei prezzi relativi delle merci che, corrispondentemente a ogni possibile e differente situazione distributiva, permettono la riproduzione della configurazione produttiva data (cioè la quantità dei prodotti e dei mezzi di produzione, nonché le tecniche di produzione).

Sviluppando una linea di pensiero già affacciatasi nel primo decennio di questo secolo (v. Dmitriev e Bortkiewicz), Sraffa mostra come, al contrario di quanto sostenuto dai teorici neoclassici, sia possibile determinare in modo logicamente ineccepibile i prezzi e le variabili distributive (saggio del profitto e salario) sulle base di queste ipotesi classiche e, ecco il punto rilevante, completamente al di fuori della teoria del valore-utilità. In altre parole, da uno stretto punto di vista logico e scientifico e ai fini della determinazione dei prezzi relativi, non è affatto necessario abbandonare la teoria classica e sposare la nuova teoria del valore-utilità, come invece abbiamo visto affermare dai teorici neoclassici. Senza entrare nei dettagli del procedimento analitico, la soluzione del problema classico secondo l’impostazione sraffiana può così essere sintetizzata. Data una certa configurazione produttiva e una delle due variabili distributive, poniamo il salario, si determinano mediante un sistema di equazioni simultanee i prezzi che assicurano il pareggio del bilancio nelle diverse industrie e l’altra variabile distributiva, cioè il saggio del profitto. (Viceversa, se si ponesse come dato il saggio del profitto, si determinerebbero i prezzi e l’altra variabile distributiva, cioè, in questo caso, il salario.) Ma qual è il significato teorico di questa semplice ed elegante operazione? È davvero la soluzione del problema lasciato aperto e irrisolto da Ricardo e da Marx (e che, come si è visto, aveva motivato la fuoriuscita del pensiero economico dalla strada classica a favore dell’alternativa neoclassica)?

A questo proposito, la prima cosa che si può dire è che si tratta innegabilmente di una operazione di critica radicale alla teoria neoclassica. Infatti, poiché a seconda del valore dato a una variabile distributiva, differente sarà il valore dell’altra variabile distributiva, lo schema di Sraffa mostra come non vi sia un unico salario o profitto di equilibrio, ma vi siano, dal punto di vista logico, “infiniti” valori di equilibrio del sistema economico. Questa è una profonda differenza con la teoria tradizionale. Per la teoria tradizionale, la distribuzione del reddito non è che la conseguenza necessaria delle dotazioni iniziali dei soggetti e delle scelte che essi hanno compiuto relativamente al consumo e alla produzione; pertanto, non vi può essere che una, e una sola, distribuzione del reddito compatibile con l’(unico) equilibrio economico generale. Secondo la concezione neoclassica, vi sarebbero dunque delle leggi immanenti all’economia e inerenti al mercato, che dettano necessariamente e univocamente quale debba essere la distribuzione di equilibrio. Nella concezione di Sraffa, invece, e proprio come nella concezione di Ricardo, la distribuzione del reddito non dipende soltanto dalle condizioni della produzione: vi è anche, come si dice con linguaggio tecnico, una componente “esogena” (rispetto allo schema teorico). Si potrebbe pensare, per esempio, che il livello del salario dipenda essenzialmente dai rapporti di forza tra i soggetti economici. È questo un risultato molto importante della ricerca di Sraffa. Affermare che la remunerazione dei “fattori” della produzione, lavoro e capitale, ovvero la distribuzione del reddito tra salario e profitto, è “esterna” alle condizioni della produzione significa negare che esistano “leggi del mercato” che univocamente e necessariamente stabiliscano quale sia la “giusta” retribuzione dei fattori, quale sia cioè il prezzo di equilibrio del salario e del profitto. Come non ci sono leggi della produzione (le cosiddette “leggi dei rendimenti variabili”), così non ci sono leggi della distribuzione (le cosiddette “leggi della distribuzione in base alla produttività marginale decrescente”), e tanto meno le seconde si possono dedurre meccanicamente dalle prime.

Ma, in Produzione di merci a mezzo di merci, che ne è della teoria del valore, e in particolare della teoria del valore-lavoro? In verità, nell’impostazione di Sraffa, il problema classico (e marxiano) di quale sia l’origine e la sostanza del valore delle merci, e con esso il problema marxiano della trasformazione, vengono risolti in un modo che taluni giudicano equivalente a una soppressione o rimozione del problema stesso. Nello schema teorico di Sraffa, infatti, i coefficienti del sistema di equazioni simultanee da cui si ottengono i prezzi e il saggio del profitto, dato il salario (o il salario, dato il saggio del profitto) possono essere espressi in quantità di lavoro: “in questo senso, ma solo in questo senso, si può anche dire che i prezzi vengono ricavati a “partire” dai valori. È anche vero però che tali valori non sono in alcun modo necessari né per la definizione né per la comprensione né per la determinazione dei prezzi e del saggio del profitto” (v. Vicarelli, 1981, p. 101). L’abbandono della teoria marxiana del valore-lavoro, la quale implica un concetto di valore assoluto, è d’altronde implicita nella posizione stessa del problema, come problema di determinazione simultanea dei prezzi e del saggio del profitto. In altre parole, per quanto riguarda la teoria classica e marxiana del valore, l’implicazione fondamentale del metodo e dei risultati di Sraffa è questa: non è vero, come vorrebbe Böhm Bawerk, che nel Capitale vi sia contraddizione; ma non è nemmeno vero, come vorrebbe Marx, che il capitalismo sia contraddittorio; né è vero, come sempre Marx vorrebbe, che la sfera centrale, prioritaria, del processo capitalistico, sia quella della produzione: che il plusvalore venga prima del profitto, che i rapporti di scambio vadano analizzati in termini di rapporti di produzione.

È bensì vero che il sistema dei prezzi di Sraffa può essere interpretato come quel sistema di prezzi atto a garantire la riproduzione del sistema economico nel tempo (anziché come strumento capace di allocare in maniera efficiente risorse scarse in un dato istante di tempo, così come vuole l’ottica neoclassica della scarsità). Nulla ci dice lo schema di Sraffa, tuttavia, di quanto avviene nell’ambito della produzione. D’altra parte Sraffa ci dice che per determinare i prezzi e il saggio del profitto, così come non occorre riferirsi a quantità di lavoro (e quindi una teoria del valore-lavoro diventa superflua), nemmeno occorre riferirsi a utilità soggettive (e quindi diventa superflua anche una teoria del valore-utilità). La teoria dei prezzi è divenuta così completamente autonoma, da un punto di vista logico, da qualsiasi teoria del valore.


6. Conclusioni

Dopo la seconda critica di Sraffa, e dopo un breve e straordinario periodo di discussione animata (v. Harcourt, 1972), nei confronti della teoria del valore si è oggi ristabilita una veduta riposante, curiosamente analoga a quella rilevata dallo stesso Sraffa nel 1926: “Un fatto che colpisce nella posizione attuale della scienza economica è il quasi unanime accordo che si è formato fra gli economisti intorno alla teoria del valore di concorrenza che trae ispirazione dalla fondamentale simmetria delle forze della domanda e di quelle dell’offerta ed è basata sull’ipotesi che le cause essenziali della determinazione del prezzo di particolari merci possano essere semplificate e raggruppate in modo da venire rappresentate da una coppia di curve intersecantisi di domanda e di offerta collettiva. Questo stato di cose è in così marcato contrasto con le controversie sulla teoria del valore le quali hanno caratterizzato l’economia politica del secolo scorso, che quasi si crederebbe che da quegli urti di pensiero sia finalmente sprizzata la scintilla di una verità definitiva. Gli scettici potrebbero forse pensare che l’accordo sia dovuto, più che alla convinzione di ciascuno, all’indifferenza che i più sentono oggi di fronte alla teoria del valore; indifferenza giustificata dal fatto che questa, più che ogni altra parte della teoria economica, ha perduto molta della sua importanza diretta per la politica pratica, e specialmente in rapporto a dottrine di cambiamenti sociali, che in altri tempi le era stata data da Ricardo, e poi da Marx, e contro di essi dagli economisti borghesi; essa si è trasformata sempre più in ‘una tecnica del pensiero’ che non fornisce alcun ‘risultato concreto immediatamente applicabile alla pratica’” [Sraffa rinvia qui alla Introduzione di Keynes ai Cambridge Economic Handbooks] (v. Sraffa, 1986).

La teoria del valore, tuttavia, non è una parte della teoria economica come le altre, poiché costituisce il momento in cui si decide l’oggetto e lo scopo del ragionamento economico Senza una qualche inclinazione, l’economia politica davvero si riduce a “uno strumento pedagogico che, un poco come lo studio dei classici, e al contrario dello studio delle scienze esatte o del diritto, ha scopi esclusivamente formativi della mente, e perciò è poco atto a suscitare le passioni degli uomini, anche se uomini accademici, e rispetto al quale non val la pena di dipartirsi da una ormai accettata tradizione” (v. Sraffa, ibid).
 
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