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| L'articolo è interessante e vorrei contribuire alla critica della teoria neoclassica riportando gli ultimi capitoli del libro "L'attualità di Marx" di Giulio Sapelli (ex-marxista, ora cattolico).
5. La critica sraffiana
La critica di Sraffa alla teoria del valore neoclassica si compone di due momenti distinti: una prima critica effettuata negli anni 1925-32 e una seconda critica avanzata nel 1960. Tra le due critiche di Sraffa si situa la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta di Keynes, la cui critica della teoria neoclassica tocca anche la teoria del valore.
a. La prima critica di Piero Sraffa
Sraffa rileva come la teoria del valore neoclassica dipenda dalle relazioni funzionali stabilite fra prezzo e quantità domandata da un lato, e fra costo e quantità offerta dall’altro lato: dalla prima relazione discende la curva di domanda, dalla seconda la curva di offerta, il cui intersecarsi determina appunto la posizione di equilibrio del mercato e pertanto il valore “normale” delle merci, ovvero il loro prezzo d’equilibrio. Sraffa esamina quindi le condizioni di validità di tali relazioni, analizzando soprattutto la curva di offerta, e cioè il rapporto fra costo e quantità prodotta: perché, nella teoria neoclassica, a differenza di quanto avveniva nella teoria classica (dove il costo era indipendente dalla quantità prodotta), il costo è funzione, cioè varia al variare della quantità prodotta? E perché all’aumentare del prezzo della merce prodotta la quantità offerta aumenta? (Si noti che l’analisi viene svolta nel contesto di un mercato concorrenziale, in cui si suppone che i soggetti non possano influenzare singolarmente i prezzi delle merci.) Per spiegare queste relazioni, la teoria neoclassica invoca la cosiddetta “legge dei costi non proporzionali”: si suppone cioé che, normalmente, all’aumentare del livello di produzione, il costo di produzione sia dapprima decrescente (in virtù di un’altra “legge”, quella dei rendimenti crescenti) e quindi crescente (in virtù della simmetrica “legge dei rendimenti decrescenti”). A partire da un certo livello di produzione, la curva del costo (si tratta, più precisamente, della curva del costo marginale, cioè della curva che indica come varia il costo totale al variare della quantità prodotta) diviene pertanto crescente, e viene a coincidere con la curva di offerta del prodotto (la quale indica come varia la quantità offerta al variare del prezzo). Se, da un lato, queste “leggi” sembrano plausibili, in quanto corrispondono all’opinione del senso comune, secondo cui il produrre è un’attività “costosa” e che diventa sempre più costosa all’aumentare della produzione, dall’altro lato Sraffa mostra, e in questo sta il suo contributo scientifico più rilevante, come si tratti in verità di un insieme complesso di ipotesi la cui validità è assai dubbia, sia dal punto di vista teorico che da quello empirico. L’argomentazione di Sraffa, molto precisa e rigorosa, può essere qui soltanto richiamata nelle sue linee essenziali (v. Ingrao e Ranchetti, 1996, cap.12).
Secondo Sraffa, l’ipotesi di rendimenti crescenti (ovvero costi decrescenti) è un’ipotesi relativa alla scala della produzione, presuppone cioè che tutti i “fattori” della produzione siano simultaneamente e proporzionalmente aumentati; mentre l’ipotesi di rendimenti decrescenti (ovvero costi crescenti) è relativa a una variazione nelle proporzioni fra i fattori della produzione impiegati, presuppone cioè che almeno un fattore rimanga costante, al variare degli altri. (Il secondo caso, quello dei rendimenti decrescenti, dovrebbe essere più propriamente definito come l’ipotesi di produttività marginale decrescente di un fattore costante all’aumentare degli altri.) D’altra parte, se considerate storicamente, le due leggi o ipotesi erano state impiegate per spiegare fenomeni diversi: la prima (rendimenti crescenti) era stata avanzata da Adam Smith per spiegare i vantaggi della divisione del lavoro e si riferiva pertanto a un problema relativo alla produzione, mentre la seconda ipotesi (rendimenti decrescenti, o, meglio, produttività marginale decrescente) era stata avanzata da Ricardo in connessione con il problema della rendita, cioè in connessione con un problema relativo alla distribuzione. In nessuno dei due casi, tali (distinte) ipotesi venivano impiegate congiuntamente, come invece accade nella teoria neoclassica, per spiegare la determinazione del valore, ossia del prezzo relativo, delle singole merci prodotte. La critica di Sraffa non si limita a rilevare l’eterogeneità fra le due distinte leggi dei rendimenti, e pertanto la dubbia natura della legge in cui esse vengono riunite insieme dalla teoria neoclassica, cioè la legge dei costi non proporzionali. Sraffa mostra infatti l’incompatibilità fra tali leggi e l’ipotesi di concorrenza perfetta, su cui pure si basa la teoria neoclassica del valore. Per quanto riguarda i rendimenti crescenti (costi decrescenti), essi sono incompatibili con l’ipotesi di concorrenza perfetta, la quale implica che i prezzi siano dati e il numero delle imprese elevato, in quanto l’esistenza di rendimenti crescenti condurrebbe ogni singola impresa (che persegue la massimizzazione del profitto) a espandere senza limiti la sua dimensione e pertanto a produrre una quantità così grande di prodotto da poterne influenzare il prezzo. Per quanto riguarda i rendimenti decrescenti (costi crescenti), essi sono a loro volta incompatibili con l’ipotesi di concorrenza perfetta, la quale implica che nella posizione di equilibrio gli extraprofitti siano nulli, in quanto l’esistenza di rendimenti decrescenti condurrebbe ogni impresa a ridurre sempre più la propria dimensione e a ottenere pertanto un extraprofitto positivo. Un’ulteriore grave difficoltà in cui si scontra la teoria neoclassica del valore è costituita dal metodo del ceteris paribus, in virtù del quale le condizioni di produzione di una merce vengono considerate dalla teoria indipendenti da quelle delle altre merci. Sraffa mostra infatti come le variazioni nelle condizioni di produzione di una merce, e pertanto nei costi, non possano, se non in casi del tutto eccezionali, non influire sui costi e sui prezzi delle altre merci prodotte; di qui l’infondatezza di tale metodo. Se, afferma Sraffa, in una curva di offerta, muta la quantità prodotta della merce considerata, “muteranno non solo il suo prezzo, ma anche quelli di molte altre merci; e la curva di offerta, basata sul ceteris paribus, viene a essere priva di validità” (v. Sraffa, lett. a Keynes, 6 giugno 1926, cit. in Roncaglia 1981). Da questa lucida e rigorosa critica Sraffa trae le seguenti due principali conclusioni. La prima è che “se il costo di produzione di ogni unità della merce considerata non variasse col variare della quantità prodotta [fosse cioè costante], la simmetria [fra curva di domanda e curva di offerta] sarebbe spezzata, il prezzo sarebbe determinato esclusivamente dalle spese di produzione e la domanda non potrebbe affatto influire su di esso” (v. Sraffa 1986, p.18). In altre parole, una variazione della curva di domanda non avrebbe, al contrario di quanto affermato dalla teoria neoclassica, alcuna influenza sul prezzo (valore) della merce. La seconda conclusione è che, se le cose stanno così, allora, ai fini della determinazione del valore delle merci, “la vecchia teoria, ormai fuori di moda, che lo fa dipendere solo dal costo di produzione, sembra che sia ancora la migliore” (v. Sraffa 1986, p.74). La “vecchia teoria ormai fuori di moda” è la teoria classica, alla cui ripresa sarà dedicato il secondo momento dell’impresa scientifica di Sraffa. Prima di parlarne, è tuttavia opportuno esaminare brevemente la critica di Keynes.
b. La critica di John Maynard Keynes
Si è visto sopra come la teoria neoclassica del valore sia sostanzialmente riconducibile alla legge della domanda e dell’offerta e pertanto a una teoria dell’equilibrio. Nella sua opera più famosa, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, apparsa nel 1936, Keynes non critica direttamente ed esplicitamente la teoria del valore neoclassica, ma, esaminando due punti cruciali della costruzione neoclassica – la determinazione del livello dell’occupazione e la determinazione del tasso di interesse – viene implicitamente a minare gravemente le basi di tale teoria.
Per quanto riguarda il livello dell’occupazione, Keynes mostra come esso non sia determinato nel mercato del lavoro dall’operare congiunto di due funzioni, una di domanda e una di offerta, così come affermava la teoria neoclassica, bensì da altre forze che agiscono su altri mercati (mercati della moneta, dei capitali, dei beni), dei quali si deve tener necessariamente conto (superando pertanto il metodo neoclassico del ceteris paribus). In particolare, secondo Keynes, e di nuovo a differenza di quanto affermato dalla teoria neoclassica, non vi sarebbe necessariamente una relazione inversa fra il salario e l’occupazione: una diminuzione del salario potrebbe anche non condurre a un aumento dell’occupazione. Per quanto riguarda il tasso di interesse, Keynes mostra come esso, a differenza di quanto affermato dalla teoria neoclassica, non sia il prezzo che equilibra domanda e offerta di beni capitali, cioè investimenti e risparmi, in un determinato mercato. Secondo Keynes, per spiegare la determinazione di questo prezzo particolare (il tasso di interesse) si deve fare riferimento a elementi diversi dal mero interagire delle forze della domanda e dell’offerta; in particolare, bisogna riferirsi alla preferenza per la liquidità dei soggetti che operano in un contesto caratterizzato da incertezza. L’implicazione critica dell’analisi keynesiana, nei confronti della teoria del valore neoclassica, risulta chiarissima: i movimenti del salario e del tasso di interesse, ovvero l’operare spontaneo nel mercato della legge della domanda e dell’offerta, non sono in grado di far raggiungere necessariamente al sistema economico la configurazione di equilibrio di piena occupazione di tutti i fattori.
c. La seconda critica di Sraffa
Produzione di merci a mezzo di merci, l’opera principale di Sraffa, pubblicata nel 1960, si presenta come una ripresa della teoria classica e, nello stesso tempo, una critica della teoria moderna del valore e della distribuzione. Sraffa riprende l’impostazione classica nel senso che concepisce il sistema economico come un “processo circolare della produzione sociale, nel quale le stesse merci che compaiono come prodotti sono presenti anche come mezzi di produzione impiegati per la loro produzione” (v. Sraffa, 1960). Inoltre, proprio come nell’economia politica classica, la teoria di Sraffa ha per oggetto principale la distribuzione del sovrappiù fra profitti e salari e perciò la determinazione dei prezzi relativi delle merci che, corrispondentemente a ogni possibile e differente situazione distributiva, permettono la riproduzione della configurazione produttiva data (cioè la quantità dei prodotti e dei mezzi di produzione, nonché le tecniche di produzione).
Sviluppando una linea di pensiero già affacciatasi nel primo decennio di questo secolo (v. Dmitriev e Bortkiewicz), Sraffa mostra come, al contrario di quanto sostenuto dai teorici neoclassici, sia possibile determinare in modo logicamente ineccepibile i prezzi e le variabili distributive (saggio del profitto e salario) sulle base di queste ipotesi classiche e, ecco il punto rilevante, completamente al di fuori della teoria del valore-utilità. In altre parole, da uno stretto punto di vista logico e scientifico e ai fini della determinazione dei prezzi relativi, non è affatto necessario abbandonare la teoria classica e sposare la nuova teoria del valore-utilità, come invece abbiamo visto affermare dai teorici neoclassici. Senza entrare nei dettagli del procedimento analitico, la soluzione del problema classico secondo l’impostazione sraffiana può così essere sintetizzata. Data una certa configurazione produttiva e una delle due variabili distributive, poniamo il salario, si determinano mediante un sistema di equazioni simultanee i prezzi che assicurano il pareggio del bilancio nelle diverse industrie e l’altra variabile distributiva, cioè il saggio del profitto. (Viceversa, se si ponesse come dato il saggio del profitto, si determinerebbero i prezzi e l’altra variabile distributiva, cioè, in questo caso, il salario.) Ma qual è il significato teorico di questa semplice ed elegante operazione? È davvero la soluzione del problema lasciato aperto e irrisolto da Ricardo e da Marx (e che, come si è visto, aveva motivato la fuoriuscita del pensiero economico dalla strada classica a favore dell’alternativa neoclassica)?
A questo proposito, la prima cosa che si può dire è che si tratta innegabilmente di una operazione di critica radicale alla teoria neoclassica. Infatti, poiché a seconda del valore dato a una variabile distributiva, differente sarà il valore dell’altra variabile distributiva, lo schema di Sraffa mostra come non vi sia un unico salario o profitto di equilibrio, ma vi siano, dal punto di vista logico, “infiniti” valori di equilibrio del sistema economico. Questa è una profonda differenza con la teoria tradizionale. Per la teoria tradizionale, la distribuzione del reddito non è che la conseguenza necessaria delle dotazioni iniziali dei soggetti e delle scelte che essi hanno compiuto relativamente al consumo e alla produzione; pertanto, non vi può essere che una, e una sola, distribuzione del reddito compatibile con l’(unico) equilibrio economico generale. Secondo la concezione neoclassica, vi sarebbero dunque delle leggi immanenti all’economia e inerenti al mercato, che dettano necessariamente e univocamente quale debba essere la distribuzione di equilibrio. Nella concezione di Sraffa, invece, e proprio come nella concezione di Ricardo, la distribuzione del reddito non dipende soltanto dalle condizioni della produzione: vi è anche, come si dice con linguaggio tecnico, una componente “esogena” (rispetto allo schema teorico). Si potrebbe pensare, per esempio, che il livello del salario dipenda essenzialmente dai rapporti di forza tra i soggetti economici. È questo un risultato molto importante della ricerca di Sraffa. Affermare che la remunerazione dei “fattori” della produzione, lavoro e capitale, ovvero la distribuzione del reddito tra salario e profitto, è “esterna” alle condizioni della produzione significa negare che esistano “leggi del mercato” che univocamente e necessariamente stabiliscano quale sia la “giusta” retribuzione dei fattori, quale sia cioè il prezzo di equilibrio del salario e del profitto. Come non ci sono leggi della produzione (le cosiddette “leggi dei rendimenti variabili”), così non ci sono leggi della distribuzione (le cosiddette “leggi della distribuzione in base alla produttività marginale decrescente”), e tanto meno le seconde si possono dedurre meccanicamente dalle prime.
Ma, in Produzione di merci a mezzo di merci, che ne è della teoria del valore, e in particolare della teoria del valore-lavoro? In verità, nell’impostazione di Sraffa, il problema classico (e marxiano) di quale sia l’origine e la sostanza del valore delle merci, e con esso il problema marxiano della trasformazione, vengono risolti in un modo che taluni giudicano equivalente a una soppressione o rimozione del problema stesso. Nello schema teorico di Sraffa, infatti, i coefficienti del sistema di equazioni simultanee da cui si ottengono i prezzi e il saggio del profitto, dato il salario (o il salario, dato il saggio del profitto) possono essere espressi in quantità di lavoro: “in questo senso, ma solo in questo senso, si può anche dire che i prezzi vengono ricavati a “partire” dai valori. È anche vero però che tali valori non sono in alcun modo necessari né per la definizione né per la comprensione né per la determinazione dei prezzi e del saggio del profitto” (v. Vicarelli, 1981, p. 101). L’abbandono della teoria marxiana del valore-lavoro, la quale implica un concetto di valore assoluto, è d’altronde implicita nella posizione stessa del problema, come problema di determinazione simultanea dei prezzi e del saggio del profitto. In altre parole, per quanto riguarda la teoria classica e marxiana del valore, l’implicazione fondamentale del metodo e dei risultati di Sraffa è questa: non è vero, come vorrebbe Böhm Bawerk, che nel Capitale vi sia contraddizione; ma non è nemmeno vero, come vorrebbe Marx, che il capitalismo sia contraddittorio; né è vero, come sempre Marx vorrebbe, che la sfera centrale, prioritaria, del processo capitalistico, sia quella della produzione: che il plusvalore venga prima del profitto, che i rapporti di scambio vadano analizzati in termini di rapporti di produzione.
È bensì vero che il sistema dei prezzi di Sraffa può essere interpretato come quel sistema di prezzi atto a garantire la riproduzione del sistema economico nel tempo (anziché come strumento capace di allocare in maniera efficiente risorse scarse in un dato istante di tempo, così come vuole l’ottica neoclassica della scarsità). Nulla ci dice lo schema di Sraffa, tuttavia, di quanto avviene nell’ambito della produzione. D’altra parte Sraffa ci dice che per determinare i prezzi e il saggio del profitto, così come non occorre riferirsi a quantità di lavoro (e quindi una teoria del valore-lavoro diventa superflua), nemmeno occorre riferirsi a utilità soggettive (e quindi diventa superflua anche una teoria del valore-utilità). La teoria dei prezzi è divenuta così completamente autonoma, da un punto di vista logico, da qualsiasi teoria del valore.
6. Conclusioni
Dopo la seconda critica di Sraffa, e dopo un breve e straordinario periodo di discussione animata (v. Harcourt, 1972), nei confronti della teoria del valore si è oggi ristabilita una veduta riposante, curiosamente analoga a quella rilevata dallo stesso Sraffa nel 1926: “Un fatto che colpisce nella posizione attuale della scienza economica è il quasi unanime accordo che si è formato fra gli economisti intorno alla teoria del valore di concorrenza che trae ispirazione dalla fondamentale simmetria delle forze della domanda e di quelle dell’offerta ed è basata sull’ipotesi che le cause essenziali della determinazione del prezzo di particolari merci possano essere semplificate e raggruppate in modo da venire rappresentate da una coppia di curve intersecantisi di domanda e di offerta collettiva. Questo stato di cose è in così marcato contrasto con le controversie sulla teoria del valore le quali hanno caratterizzato l’economia politica del secolo scorso, che quasi si crederebbe che da quegli urti di pensiero sia finalmente sprizzata la scintilla di una verità definitiva. Gli scettici potrebbero forse pensare che l’accordo sia dovuto, più che alla convinzione di ciascuno, all’indifferenza che i più sentono oggi di fronte alla teoria del valore; indifferenza giustificata dal fatto che questa, più che ogni altra parte della teoria economica, ha perduto molta della sua importanza diretta per la politica pratica, e specialmente in rapporto a dottrine di cambiamenti sociali, che in altri tempi le era stata data da Ricardo, e poi da Marx, e contro di essi dagli economisti borghesi; essa si è trasformata sempre più in ‘una tecnica del pensiero’ che non fornisce alcun ‘risultato concreto immediatamente applicabile alla pratica’” [Sraffa rinvia qui alla Introduzione di Keynes ai Cambridge Economic Handbooks] (v. Sraffa, 1986).
La teoria del valore, tuttavia, non è una parte della teoria economica come le altre, poiché costituisce il momento in cui si decide l’oggetto e lo scopo del ragionamento economico Senza una qualche inclinazione, l’economia politica davvero si riduce a “uno strumento pedagogico che, un poco come lo studio dei classici, e al contrario dello studio delle scienze esatte o del diritto, ha scopi esclusivamente formativi della mente, e perciò è poco atto a suscitare le passioni degli uomini, anche se uomini accademici, e rispetto al quale non val la pena di dipartirsi da una ormai accettata tradizione” (v. Sraffa, ibid).
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