Comunismo - Scintilla Rossa

Repressione e dintorni

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view post Posted on 2/3/2019, 13:57
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addàrivenì baffone

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L’occhio “malevolo” dei servizi segreti su antifascismo militante e mobilitazioni ambientali




L’Italia è un paese ormai pacificato e privo di conflitti “sovversivi”? Scorrendo la relazione annuale che i servizi segreti consegnano al Parlamento sembrerebbe di sì. Diversamente dagli anni scorsi, dove i conflitti sociali legati all’impoverimento generale, alla crisi e alle conseguenze delle misure antipopolari facevano drizzare le antenne e le azioni degli apparati repressivi (e l’alto numero di denunce, arresti, misure di sorveglianza speciale contro gli attivisti e i militanti lo certificava), l’analisi dei servizi di sicurezza presentata quest’anno pare preoccuparsi solo di quello che si è visto, in particolare le iniziative antifasciste e le mobilitazioni ambientali sui territori.

L’immagine di un paese socialmente pacificato indurrebbe a ritenere che per gli apparati repressivi non ci sia più lavoro da fare. Il modello di repressione preventiva dell’epoca Minniti sembra aver funzionato e il modello repressivo contundente dell’epoca Salvini (galera per chi occupa edifici o fa blocchi stradali) vorrebbe aver chiuso il cerchio. In realtà l’aria che si respira tra le righe di una relazione dei servizi di sicurezza, che pare preoccupata solo degli scontri con i fascisti o delle mobilitazioni popolari/ambientali, emette un odore di “accanimento terapeutico” contro i punti di resistenza e attività dell’antagonismo politico e di classe nel nostro paese.

Se è vero che gran parte della relazione è dedicata più alle minacce esterne che a quelle sul fronte interno, è bene che nessuno sottovaluti questa apparente ammortizzazione della visione degli apparati repressivi. Hanno ripulito il campo del conflitto di classe, ma vogliono impedire con qualsiasi mezzo che qualcuno torni a ingaggiare la partita della rottura e del cambiamento del quadro esistente. In questo senso comincia a delinearsi uno scenario repressivo in cui non sarà più “la commissione di reato” ad essere sanzionata, ma il soggetto politico in quanto tale (militanti, attivisti etc), per il fatto stesso di esistere e ritenere il conflitto sociale il motore del cambiamento necessario, soprattutto di fronte ad una crisi economica che presenta tutti indicatori di pesante peggioramento.

Infine occorre tenere sempre a mente che una “pacificazione” penale del fronte interno è stata sempre funzionale alla riapertura di proiezioni militari offensive sul fronte esterno.

Del resto il cinismo istituzionale e “sociale” che abbiamo visto sugli orrori nei lager in Libia, nel Mar Mediterraneo e nelle nostre strade, sta già abituando la società a convivere con tutto questo. Meglio impedire che qualche soggetto politico e sociale rompa questo incantesimo.

Qui di seguito una decostruzione dei capitoli della Relazione annuale dei servizi segreti, in fondo il testo integrale della Relazione (124 pagine) che resta sempre una lettura interessante.

Lo spettro dei marxisti-leninisti


La relazione dei servizi di sicurezza, da tempo inquadra come capitolo specifico quelli che definisce i “circuiti marxisti-leninisti”, definito ancora con quel trattino in mezzo che, come noto, ha provocato interminabili discussioni nel movimento comunista internazionale se dovesse essere mantenuto o sostituito da una “e”.

“I ristretti circuiti dell’estremismo marxista-leninista hanno continuato ad evidenziarsi per l’impegno propagandistico-divulgativo della stagione brigatista, inteso ad accreditarne l’attualità e a promuovere l’indottrinamento di “nuove leve”. Questo, come di consueto, facendo perno soprattutto su una lettura in chiave rivoluzionaria dei più recenti sviluppi della congiuntura interna e internazionale. In tale quadro, sono rimasti centrali la lotta alla “repressione”, l’“antifascismo”, l’“antimperialismo” e l’esteso panorama delle istanze sociali, a partire dall’emergenza abitativa e dalle vertenze occupazionali.

Il tema forte è sempre quello della solidarietà ai “prigionieri politici”, anche stranieri, che ha animato iniziative contro il “carcere duro”, quali i presidi del 4 maggio e del 28 settembre presso il Tribunale dell’Aquila in occasione di scadenze processuali a carico di Nadia Desdemona Lioce, ristretta nel capoluogo abruzzese e leader delle “Nuove Brigate Rosse” responsabili degli omicidi di Massimo D’Antona e Marco Biagi”.

Dopo questo preambolo volto a segnalare una certa continuità sui temi tradizionali (spesso “gonfiati” per scopi abbastanza evidenti), l’attenzione dei servizi di sicurezza allarga il monitoraggio giungendo a conclusioni che mostrano una preoccupazione piuttosto originale. Scrivono infatti che:

“Nella prospettiva della “lotta di classe” hanno continuato a trovare spazio i richiami, a fini di proselitismo, ad un “nuovo proletariato urbano” composto da lavoratori immigrati, precari, disoccupati e “senza casa” – e fin qui potremmo dire che siamo nella norma della visione questurina. Sorprende, invece, quando nella relazione si indica che tra i soggetti eversivi “si inscrivono nel filone internazionalista ed “antimperialista” le manifestazioni in appoggio alla resistenza palestinese ed in chiave “anti-israeliana”, come la protesta in occasione del Giro d’Italia, che per l’edizione 2018 ha preso il via da Gerusalemme Ovest”.

Avevamo fino ad oggi ritenuto che manifestazioni e contestazioni all’occupazione coloniale israeliana della Palestina fossero una “preoccupazione” relativa solo per il Mossad, scopriamo invece che lo sono anche per i servizi segreti italiani.

Il movimento antagonista

C’è poi il capitolo specifico su quello viene definito come il movimento antagonista. Un universo politico a geometria variabile per il numero di collettivi e reti in cui si aggrega, disgrega e ricompone e che rappresenta un po’ il rompicapo nel monitoraggio dei servizi di sicurezza.

Di tutto quello che si muove sul piano dei conflitti sociali – purtroppo non particolarmente vivace nell’ultimo anno – gli apparati repressivi sembrano preoccupati soprattutto dalle lotte ambientaliste e dalle vertenze a difesa del territorio, quest’anno senza però l’ossessiva – e sgradita – attenzione particolare al movimento No Tav.

Nella relazione si scrive che: “L’eterogenea galassia dell’antagonismo si è distinta soprattutto per il tentativo di superare una persistente tendenza alla “parcellizzazione delle lotte”, così da dare maggiore compattezza al fronte della contestazione. Ancorché declinato su specifiche realtà del territorio nazionale, il dinamismo antagonista sul versante delle proteste ambientaliste ha ricercato convergenze e sinergie, con l’obiettivo di strumentalizzare in chiave oltranzista l’attività dei cd. “Fronti del No”, che si oppongono alla realizzazione di infrastrutture di vario genere (grandi opere, installazioni energetiche e militari, ripetitori, inceneritori etc.)

Tra le preoccupazioni “sovversive” che spiccano nella relazione di quest’anno c’è quella dell’antifascismo militante al quale viene riservata anche una scheda particolare (vedi più avanti). E’ scritto: “Gli attivisti hanno provato a serrare i ranghi concentrando la protesta antisistema sull’“antifascismo” e sull’“antirazzismo”, come testimoniato dalla manifestazione nazionale di Macerata del 10 febbraio, organizzata all’indomani del raid omicida a sfondo razzista compiuto nella città marchigiana da un simpatizzante di estrema destra ed indicata, nella propaganda d’area, come punto di partenza per favorire il rilancio di un percorso di mobilitazione il più possibile comune e condiviso.

Anche l’organizzazione degli immigrati su vari terreni di lotta inerenti i propri bisogni materiali sembra provocare particolare attenzione da parte dei servizi di sicurezza. “In tale quadro, ha assunto specifico rilievo strategico, nelle progettualità antagoniste, il coinvolgimento nelle mobilitazioni della popolazione straniera, ritenuta, in particolare dai segmenti più oltranzisti, un bacino di reclutamento “capace di produrre conflitto” – è scritto nella relazione annuale – “Una linea, questa, evidenziatasi anche a livello locale, ove i vari “movimenti per l’abitare” hanno mostrato interesse verso la “propensione ribellistica” delle fasce più disagiate e precarie, pure attraverso appelli ad una ripresa delle occupazioni abusive, intese quale “pratica militante di riappropriazione del reddito”. L’impegno antagonista sulla tematica migratoria ha continuato a qualificarsi come un ambito sensibile per l’ordine pubblico in ragione del concorrente attivismo di componenti della destra radicale, con il rischio di un’intensificazione di episodi di conflittualità fra opposti estremismi.

La mobilitazione “antifascista”

L’affrontamento sui territori dei tentativi dei fascisti di strumentalizzare l’emergenza migranti ha visto materializzarsi una pratica antifascista militante che è ora entrata nel mirino degli apparati di sicurezza, che a questo tipo di mobilitazione dedicano un’apposita scheda nella relazione. Colpisce l’attenzione e la finta preoccupazione dei servizi segreti sul fatto che l’antifascismo abbia fatto un piccolo “salto di qualità”, passando da un antifascismo sostanzialmente costituzionale e culturale al piano militante. Una sottolineatura che pare funzionale a preparare una legittimazione alla repressione della mobilitazione antifascista di fronte – invece – al pieno sdoganamento dei fascisti che mostrano ormai apertamente le evidenti coperture fornite dagli apparati repressivi e istituzionali: “Nell’ambito della mai sopita ostilità tra estremismi di opposta matrice, l’”antifa” definisce la posizione più avanzata e intransigente dell’antagonismo di sinistra nel contrasto alla destra, consistente in un impegno militante che privilegia la “dimensione combattiva” rispetto al confronto politico-culturale. Nel 2018, la propaganda e le pratiche della mobilitazione “antifa” hanno evidenziato una rinnovata radicalizzazione in reazione ad una percepita crescita di visibilità e protagonismo dell’estrema destra su questioni riguardanti la sicurezza, l’immigrazione e il disagio sociale. In questo quadro sembrano inserirsi taluni episodi di aggressione contro attivisti della destra radicale, danneggiamenti a sedi aggregative nonché la divulgazione sul web di documenti e “dossier” dai toni istigatori. L’accentuata propensione allo scontro rischia di aggravare la conflittualità tra i due fronti, con una possibile intensificazione di provocazioni, aggressioni e reazioni in grado di generare criticità sul piano dell’ordine pubblico.



Gli internazionalisti in Rojava e in Donbass


Colpiscono infine due schede dedicata a chi è andato in questi anni a dare sostegno internazionalista in Rojava e in Donbass. E’ la prima volta che si dedica a questo una attenzione così esplicita. Nel primo caso, il Rojava, la relazione scrive che: “Spunti di attivazione sono stati colti anche negli ambienti dell’estremismo marxista, tradizionalmente sensibili alla causa curda, che, in collaborazione con omologhi circuiti esteri, sono stati impegnati a sostenere le formazioni combattenti attraverso specifiche campagne finalizzate alla spedizione di materiale medico”.

Nel secondo caso, il Donbass, i servizi segreti scrivono che: L’operazione “Ottantotto” del luglio 2018 coordinata dalla Procura della Repubblica di Genova, che ha coinvolto diversi soggetti accusati di “associazione a delinquere, aggravata dalla transnazionalità, finalizzata al reclutamento di mercenari e al combattimento in un conflitto in un territorio controllato da uno Stato estero”, ha riportato all’attenzione generale il tema della presenza nel teatro di crisi ucraino di cittadini italiani o di stranieri residenti in Italia”.

Ma sul Donbass, diversamente che in Rojava, per i servizi di sicurezza il monitoraggio verso il sostegno internazionalista si complica per la diversificazione dei soggetti attivizzatisi (militanti della sinistra ma anche gruppi di destra) e della diversità di collocazione “sul fronte”. Nella relazione è scritto infatti che: “Sin dal principio, infatti, la crisi ucraina ha suscitato l’interesse dell’estrema destra, scatenando però un vivace dibattito interno che ha determinato il formarsi di due fronti: l’uno, favorevole alle istanze nazionaliste di Kiev; l’altro, solidale con gli indipendentisti delle regioni orientali dell’Ucraina, sostenuti da Mosca. Tale contrapposizione si è tradotta nella rilevata presenza in entrambi gli schieramenti di militanti dell’ultra-destra italiana, spinti da motivazioni tanto ideologiche quanto economiche. Più nel dettaglio, mirati approfondimenti informativi hanno rilevato che: a favore dei lealisti ucraini si è mobilitata una parte della destra radicale nazionale, in considerazione del ruolo di rilievo ricoperto dai movimenti ultranazionalisti nel corso delle note proteste di piazza del novembre 2013 (cd. Euromaidan); a sostegno dei separatisti si è invece schierata una componente di estrema destra più numerosa, d’impronta più propriamente identitaria, che sostiene le posizioni russe in chiave anti-USA e anti-UE”.

A complicare il lavoro dei servizi di sicurezza italiani emerge poi un altro dato che gli ha scombinato lo schema: “Accanto ai filo-russi, peraltro, si è registrata anche una non irrilevante presenza di militanti dell’antagonismo di sinistra che, dal canto loro, interpretano la resistenza contro il Governo di Kiev in chiave antifascista e antimperialista. Nella maggior parte dei casi, i soggetti spinti da motivazioni politico-ideologiche si sono recati nel Donbass per iniziative propagandistiche, allo scopo dichiarato di documentare quella “esperienza di lotta” e portare sostegno alla popolazione locale, mentre solo una parte, più consistente per gli elementi di destra, risulta coinvolta nei combattimenti. Accanto ai soggetti caratterizzati politicamente, figurano poi quei profili “ibridi” che vantano anche esperienze nel circuito dei contractors. Come per analoghe mobilitazioni, anche in questo caso il web si è rivelato uno strumento di comunicazione e propaganda in grado di favorire contatti e adesioni. Sebbene il fenomeno risulti numericamente contenuto e, per evidenti ragioni, non paragonabile a quello dei foreign fighters jihadisti, esso presenta comunque potenziali criticità, correlate soprattutto all’esperienza e alle competenze di natura militare che, al rientro in territorio nazionale, potrebbero essere riversate negli ambienti di riferimento”. Dunque le carovane di solidarietà con le Repubbliche del Donbass non sono state gradite nè sono passate inosservate.

“L’allarme sugli anarchici”, come sempre, da sempre

Nella relazione, ovviamente e come è ormai consuetudine, ci sono diverse pagine dedicate agli anarchici, in particolare “sull’anarco-insurrezionalismo, confermatosi come l’espressione più insidiosa, capace di tradurre in chiave offensiva gli appelli istigatori della propaganda d’area, specie quella riconducibile alla Federazione Anarchica Informale/Fronte Rivoluzionario Internazionale (FAI/FRI).Nonostante l’incisiva azione di contrasto degli ultimi anni e le divergenze tra le varie componenti, il movimento si è reso protagonista di numerose sortite, rivendicate e non, che hanno preso di mira obiettivi riferibili ai tradizionali fronti di attivazione libertaria: “lotta alla repressione”, non solo nella consueta accezione di “solidarietà rivoluzionaria ai compagni prigionieri”, ma sempre più anche in chiave “antifascista” e “antirazzista”; campagna contro le grandi opere (Trans Adriatic Pipeline-TAP in primis); antimilitarismo; opposizione al “dominio tecno-scientifico”. Sembra quasi la descrizione di una imbarcata di “Unabomber” da film statunitense. Ma i recenti arresti di Torino e lo sgombero del centro sociale Asilo occupato, confermano come, per gli apparati repressivi, gli anarchici-insurrezionalisti siano oggetto di una attenzione particolare, da giocarsi poi su mass media compiacenti per seminare allarme sociale. Insomma siamo ancora nella visione da “deep state” nel paese della Strage di Piazza Fontana, di Valpreda e degli anarchici usati come depistaggio e capri espiatori rispetto alla strage di Stato.

Il capitoletto sui fascisti

I fascisti sono un problema per la sicurezza? No, lo sono solo se cercano di federarsi, dismettono la “casacca dei bravi ragazzi” e fingono di contestare Nato e Usa, Ue.

Negli anni scorsi, l’attenzione degli apparati repressivi colpiva per la scarsissima attenzione/documentazione sui gruppi neofascisti (nonostante emergessero spesso i loro legami con la malavita e il traffico di droga, ndr). Una disattenzione qualitativa e quantitativa leggibile anche nella descrizione di “bravi ragazzi impegnati nel sociale” emersa nelle relazioni dei servizi di sicurezza e nei rapporti di polizia negli scorsi anni. Quest’anno c’è un po’ di attenzione in più, ma soprattutto sulla dimensione internazionale, specie sulla frazione disallineata rispetto al dogma atlantista ed europeista dentro cui si colloca l’Italia.

“Costante attenzione informativa è stata riservata al panorama dell’ultradestra che, caratterizzatosi per una pronunciata vitalità, ha riproposto, specie con riguardo alle formazioni più strutturate, alcune consolidate linee di tendenza: competizioni “egemoniche” e fluidità di rapporti, interesse ad accreditarsi sulla scena politica mantenendo uno stretto ancoraggio alla “base”, propensione ad intensificare le relazioni con omologhe formazioni estere. Le strategie d’inserimento nel tessuto sociale hanno fatto leva su iniziative propagandistiche e di protesta, soprattutto in talune periferie urbane, centrate sull’opposizione alle politiche migratorie, nell’ambito di una più ampia mobilitazione su tematiche sociali di forte presa (sicurezza, lavoro, casa, pressione fiscale). Tale attivismo, di impronta marcatamente razzista e xenofoba, si è accompagnato ad una narrazione dagli accenti di forte intolleranza nei confronti degli stranieri che, al di là del richiamato omicidio di Macerata, potrebbe aver concorso ad ispirare taluni episodi di stampo squadrista, oltre che gesti di natura emulativa, e potrebbe conoscere un inasprimento con l’approssimarsi dell’appuntamento elettorale europeo. Le varie campagne propagandistiche hanno tradito l’intento di coniugare l’esigenza di proiettare un’immagine “moderata” con la determinazione a preservare, per ragioni di proselitismo, i rapporti con quel variegato sottobosco comprendente anche segmenti politicizzati delle tifoserie calcistiche, nonché sigle di matrice neonazista, antisemita e skinhead. In quest’ultimo ambito, si è registrato un rimarchevole fermento organizzativo e programmatico da parte di componenti hammerskin attestate nel Nord Italia, interessate ad espandere il proprio raggio d’azione a livello nazionale attraverso un ambizioso “progetto federativo” rivolto a gruppi minori. Strumenti privilegiati di proselitismo sono la promozione di concerti d’area e di manifestazioni di carattere sia politico-culturale sia commemorativo-nostalgico, nonché di iniziative a sfondo sociale. La determinazione di tali ambienti ad acquisire peso ne ha influenzato i rapporti con altre compagini nazionali, in alcuni casi portando alla ricerca di sinergie, in altri accentuando la concorrenzialità. In Alto Adige i tradizionali contatti tra gruppi skinhead germanofoni e circuiti neo-nazisti tedeschi si sono ulteriormente rafforzati, facendo registrare la presenza di militanti altoatesini ad iniziative di protesta d’impronta xenofoba svoltesi in Germania”.

Fin qui l’attenzione è alla geometria variabile nelle aggregazioni dei gruppi neofascisti, soprattutto nell’Italia del Nord. Qualche preoccupazione in più emerge invece quando si guarda alle relazioni e alla visione internazionale dei gruppi neofascisti: “Si è confermata, più in generale, la spiccata proiezione internazionale delle principali formazioni d’area, con assidui e stretti rapporti con i maggiori gruppi stranieri dell’ultradestra, funzionali all’affermazione di un “fronte identitario paneuropeo”, a difesa delle radici etnico-culturali dell’Europa, di orientamento filorusso e pro-Assad e in contrapposizione alla UE, agli USA e alla NATO. Un contesto, questo, che ha confermato l’interesse dell’area nei confronti della crisi ucraina, anche in termini di sostegno attivo ai due schieramenti contrapposti. “iniziative propagandistiche e di protesta centrate sull’opposizione alle politiche migratorie”.

Insomma antifascismo militante e mobilitazioni popolari/ambientali sembrano essere le aree più attenzionate dai servizi di sicurezza. Ma, come detto sopra, guai ad abbassare la guardia sul fronte della risposta repressiva ai conflitti sociali, soprattutto se l’evidente avvitarsi della crisi economica accentuerà una crisi sociale nei settori popolari. A quel punto per gli apparati repressivi, tutto quello che si metterà di traverso avrà un suo potenziale sovversivo da colpire, anche quando si muove sul terreno della lotta “legale”. Non sarà la commissione del reato l’oggetto delle misure repressive, ma il soggetto “sovversivo” in quanto tale.

Il testo integrale della Relazione annuale: www.sicurezzanazionale.gov.it/sisr.nsf/Relazione-2018.pdf
 
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view post Posted on 4/4/2019, 23:36
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SGOMBERATA LA MENSA MARZOLO A PADOVA
UNO SPAZIO RESTITUITO, IN QUESTI ANNI, AGLI STUDENTI E AI PROLETARI DALLA DETERMINAZIONE DELLE COMPAGNE E COMPAGNI PADOVANI
SOLIDARIETA' AI COMPAGNI E ALLE COMPAGNE DI PADOVA! RESISTERE ALLE POLITICHE REPRESSIVE, RAZZISTE E ANTIPROLETARIE DEL GOVERNO CONTE!
NESSUN PASSO INDIETRO!

per ulteriori informazioni:
https://www.facebook.com/marzolo.occupata/...meJVmj4&fref=nf

Attached Image: sgombero marzolo padova

sgombero marzolo padova

 
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view post Posted on 22/12/2019, 11:49
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Quasi 40 anni di carcere comminati in appello, spalmati su 9 persone in totale. E' il bilancio dell'ennesima vendetta a mezzo giudiziario nei confronti di quanto rappresentato dall'esplosione di rabbia sociale del 15 Ottobre 2011 a Roma. In questo caso, si tratta del terzo troncone processuale, che si conclude come era purtroppo facile aspettarsi.
Continua su Infoaut https://www.infoaut.org/precariato-sociale/15-ottobre-2011-continua-la-vendetta-delle-istituzioni
 
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view post Posted on 28/12/2019, 18:37
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view post Posted on 29/12/2019, 21:34
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Ferrara, Cgil denuncia maggiore Carabinieri: “Ha impedito cure a un arrestato”. Anselmo: “Ragazzo trovato in ginocchio dai sanitari”

Giorgio Feola è accusato di aver impedito il trasporto del 30enne al pronto soccorso, interrotto la terapia e firmato al posto del paziente il foglio di rinuncia al ricovero. Il verbale dei sanitari visionato dal Fatto.it racconta le intimidazioni nei loro confronti: "Qui comando io”. Del caso, oltre all'avvocato Anselmo, si occupa anche Ilaria Cucchi: "Erano convinti che il 118 non si sarebbe ribellato"

di Paola Benedetta Manca | 29 Dicembre 2019
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L'arresto di Nicoletta Dosio



Una storia sbagliata, fin dall’inizio e oggi più che mai: Nicoletta Dosio, 73 anni, condotta in carcere per una condanna definitiva ad un anno di reclusione per una delle manifestazioni “No Tav” più comprensibile a tutti —del 2012!— dopo che un altro attivista (Luca Abbà) era rimasto folgorato nel corso di una pacifica protesta su di un traliccio, manifestazione assolutamente non violenta.

Dall’altra parte, un cantiere infinito di un’opera mastodontica, inutile per i più e dannosa secondo molti, la linea per il Treno ad Alta Velocità che un giorno (forse) collegherà un po’ più velocemente Torino a Lione, dopo che tutti i decisori (da cui, in origine, sono stati escluse legislativamente, con la legge grandi opere, le comunità interessate) avranno completato la militarizzazione dell’area del mega cantiere, diventata, con le disposizioni introdotte furtivamente nella legge “antifemminicidio” del 2013, “sito sensibile” la cui violazione comporta pene aggravate e dopo la conclusione dei lavori (oggi difficilmente immaginabile) a opera delle aziende incaricate, di cui buona parte fallite in corso d’opera e/o in odor di mafia.

La critica ad una simile opera appare del tutto legittima e la repressione di eventuali reati dovrebbe avvenire con lo stesso metro di valutazione utilizzato per altri settori.

Questa mega opera, contestatissima, costosissima e che, se e quando sarà mai ultimata sarà già superata, è costata al territorio su cui insiste decine e decine di processi (più o meno “maxi” e conosciuti, ma comunque pesantemente incidenti sulla libertà delle persone e sulla possibilità di prosecuzione pacifica della protesta) contro chi vi si oppone, misure cautelari, condanne pesanti in procedimenti “simbolici”, su cui la Cassazione è intervenuta ripetutamente negandone, in alcuni casi, la legittimità.

Anni di attività giudiziaria dedicata quasi esclusivamente a punire con condanne esemplari ogni singolo comportamento ostativo a una scelta giustamente criticata da più parti, incluse forze oggi al governo del paese. Una giustizia orientata, “forte con i deboli e debole con i forti”, indifferente alle legittime ragioni di una protesta con caratteri larghi e popolari. Un uso della giustizia in cui non ci riconosciamo.

In questa lotta, Nicoletta ha fatto la sua parte con coerenza e dignità e intende dimostrare, con il suo rifiuto di misure alternative al carcere, l’ingiustizia di una repressione contro il movimento No Tav a un livello che non si riscontra in altri settori.

Chiediamo con forza che le sia riconosciuto, come segnale di cambiamento nei rapporti con il conflitto sociale, un provvedimento d’ufficio di concessione della grazia.

I Giuristi Democratici confermano il loro impegno a difesa del sacrosanto diritto alla protesta contro la regina delle grande opere inutili, chiedendo un radicale cambio di rotta nella gestione dei conflitti sociali e ambientali, quale è certamente quello relativo al progetto Tav, che dovrebbe tornare a essere materia di un serio, civile, realistico e produttivo confronto tra comunità e governi locali e centrali, anziché materia di giudizi penali e ostentazione di potere militare e di ordine pubblico.

________________

Nicoletta ci scrive dal carcere

Sto bene, sono contenta della scelta che ho fatto perché è il risultato di una causa giusta e bella, la lotta NoTav che è anche la lotta per un modello di società diverso e nasce dalla consapevolezza che quello presente non è l’unico dei mondi possibili.

Sento la solidarietà collettiva e provo di persona cosa sia una famiglia di lotta. L’appoggio e l’affetto che mi avete dimostrato quando sono stata arrestata, e le manifestazioni la cui eco mi è arrivata da lontano, confermano che la scelta è giusta e che potrò portarla fino in fondo con gioia.

Parlo di voi alle altre detenute e ripeto che la solidarietà data a me è per tutte le donne e gli uomini che queste mura insensate rinchiudono.

In questo stesso carcere ci sono anche altri cari compagni, Giorgio, Mattia e Luca che sento più che mai vicini ed abbraccio.

Un abbraccio ed un bacio a tutte e tutti voi.

Siamo dalla parte giusta.

Avanti NoTav!

__________

Solidarietà in tutta Italia contro l'arresto di Nicoletta: gli appuntamenti

https://www.infoaut.org/no-tavbeni-comuni/...li-appuntamenti
 
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view post Posted on 2/1/2020, 16:42
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Consigli (o sconsigli) per gli acquisti: Vademecum per la difesa legale, DeriveApprodi, Roma, 2019
Un tempo non troppo lontano, trovarsi con un manualetto di questo genere tra le mani era l’eventualità più naturale e scontata per qualsiasi militante. Purtroppo, ad oggi, dobbiamo invece constatare che con il progressivo affievolirsi del conflitto attraverso il paese, anche un certo tipo di cultura militante, di sovrastruttura difensiva ad uso dei compagni, ha seguito la medesima traiettoria discendente puntando dritto all’estinzione.


Sono oramai un ricordo i tempi in cui la circolazione di manuali di auto-difesa legale, semplici libretti compilati da compagni più “accorti” o generosi manualetti di guerriglia urbana costituivano il pane quotidiano di una certa letteratura di movimento. Eppure, a fronte di simile inflessione, non sembra corrispondere una sostanziale diminuzione di quell’infame operazione che garantisce lo stipendio a una massa di lavoratori improduttivi e una pioggia di pene a una massa di sfruttati che prende il nome di repressione.

Ovviamente, anche la repressione ha mutato forma e armamentario, e non ci sogniamo di dire che è rimasto tutto tale e quale a vent’anni fa. Talvolta ha scelto strade più avvedute, più subdole, come le scorciatoie amministrative non meno dannose delle canoniche vie penali e, diciamo così, si è messa al passo con i tempi, soprattutto quelli tecnologici.

Ma la sostanza di quest’operazione caratterizzante, dell’atto che forse più di ogni altro rivela la natura politica dello Stato, non sembra aver subito flessioni di sorta.

A queste tendenze si aggiunge, come automatico corrispettivo discorsivo, un dibattito sostanzialmente incentrato sul senso comune – alimentato quotidianamente da una cappa mediatica in tutto e per tutto funzionale a veicolare determinati paletti ideologici nella società – che non riesce più a valutare l’operazione repressiva alla luce di una distinzione di classe. Qualsiasi sia l’operazione, il caso, il fatto repressivo in esame sembra ormai esser passata l’essenza della più infima delle fantasie liberali ovvero la sostanziale estraneità dello Stato di fronte alle classi, la sua, tutto sommato, posizione neutrale rispetto alla società, alla politica, alla Storia. Insomma, quando si parla di Stato, oggi, si ammette implicitamente come prerequisito discorsivo che questo sia il rappresentante dell’interesse comune di tutta la società. Dall’idealizzazione dello Stato etico all’insulsa retorica delle “mele marce” (con un non indifferente salto qualitativo, certo), passano gli anni e mutano i linguaggi ma la merce contrabbandata è sempre la solita favoletta della democrazia borghese: lo Stato è al di sopra delle classi.

Inscrivendosi in un simile orizzonte, appare naturale come qualsiasi tentativo di strappare la questione della repressione a questa retorica sia una fatica di Sisifo, e che sia possibile assistere – dopo che la morte di Cucchi è stata intenzionalmente provocata dal pestaggio di due agenti e che la complessa macchina dell’arma si sia mossa all’unisono per far si che non una verità emergesse da quella storia – a paradossi come il “baciamano del carabiniere” ad Ilaria Cucchi senza che venga battuto ciglio.

Certo, a sfatare questo mito e a riaffermare il principio per cui gli Stati rappresentano il predominio di una classe, anche se non sempre nella forma semplificata e propagandistica di un “comitato di affari” ed eccezione fatta per determinate congiunture storiche in cui si crea un equilibrio tra le classi, basterebbe rivolgere l’attenzione alla storia recente e recentissima del movimento rivoluzionario italiano. Ma dato che questo oggetto misterioso è il gran rimosso della memoria collettiva, non resta che armarsi di buona volontà e combattere le ricadute teoriche e pratiche di questa favola con vecchi e nuovi strumenti.

In questo senso un manualetto come quello che abbiamo sotto gli occhi appare come uno strumento utile, figlio di un’operazione in controtendenza e pertanto primo passo verso una nuova accumulazione difensiva.

Appare tanto più utile perché aggiornato a un momento in cui il paese, soggetto a una smania giustizialista e a un potenziamento dei poteri coercitivi, conosce una nuova accelerazione securitaria generalizzata.

Un’accelerazione che, in modo selettivo, non ha mai smesso di essere esercitata nel momento in cui l’annientamento delle avanguardie politiche di questo paese è apparso necessario agli occhi del potere, dall’omicidio di Carlo Giuliani all’infame operazione messa in moto dalla Questura e la Procura di Torino pochi giorni fa, ma che vive sottotraccia nelle continue operazioni di contenimento cui sono soggette le masse popolari e di cui i tragici casi delle morti in caserma sono solo la punta di un iceberg.
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view post Posted on 9/1/2020, 10:11
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Decreti sicurezza e l’ipocrisia del Governo: la propaganda non nasconde la continuità


Redazione Senza Tregua 21 febbraio 2020


di Alessandro Mustillo

Poche ore fa la ministra dell’Interno Lamorgese, ha presentato in Consiglio dei Ministri le linee guida della modifica dei decreti sicurezza varati dal precedente Governo su proposta dell’allora ministro Salvini. Una semplice modifica dunque e non l’abrogazione, con un impianto generale che mira a attenuare le sanzioni previste dal decreto e non a cancellarle, con una trattativa in corso tra le forze di maggioranza sulla portata effettiva delle correzioni da apportare. Una partita politica quindi, nel contesto di un esecutivo traballante impegnato a trovare una sintesi tra le posizioni delle forze più a sinistra che vorrebbero la cancellazione, il Movimento Cinque Stelle che difende l’operato del governo con la Lega, la volontà di non fornire a Salvini un argomento di propaganda sul tema immigrazione, e la posizione del PD intenta a salvare il governo a tutti i costi.

Anche il movimento delle Sardine si è spaccato sul tema: i decreti sicurezza rappresentano l’essenza stessa delle contestazioni mosse a Salvini e la base giustamente preme per l’abrogazione. I vertici, telecomandati dal PD, invece sono cauti e cercano di evitare qualsiasi sgambetto o pressione sull’esecutivo. Dietro queste contraddizioni e i giochi politici c’è una partita reale che si gioca sulla sopravvivenza o meno nell’ordinamento italiano dei decreti sicurezza. Ma soprattutto c’è l’ipocrisia di un Governo che va a braccetto con la Confindustria e con i grandi poteri capitalistici che il decreto sicurezza lo vogliono eccome. Una questione che non riguarda solo i salvataggi in mare e la gestione dell’immigrazione e dei porti, ma che tocca anche e soprattutto le lotte dei lavoratori e in generale le lotte sociali, fortemente criminalizzate dai decreti di Salvini.

Fin da subito noi comunisti denunciammo il carattere classista e antipopolare dei decreti sicurezza, mentre in troppi si limitavano a formulare – pur giuste – denunce sulle norme relative ai salvataggi in mare. L’intera informazione focalizzò l’attenzione solo ed esclusivamente sulla parte dei decreti sicurezza relativi alle Ong, dimenticando le norme che riguardano il trattamento successivo degli immigrati, e quelle di aperto contrasto alle lotte operaie e popolari. L’impianto repressivo dei decreti sicurezza infatti non sta solo nelle multe alle Ong, ma anche nel durissimo colpo al diritto di sciopero e di manifestazione, con aumenti delle pene per i blocchi stradali, i picchetti, resistenza a pubblico ufficiale, occupazioni abitative, travisamento e uso dei caschi, utilizzo di fumogeni nelle manifestazioni. D’altronde l’impianto dei decreti sicurezza era già stato tracciato proprio dal precedente governo di centrosinistra con le misure volute dall’allora Ministro Minniti.

Sempre allora, avevamo messo in evidenza come, alla prova dei fatti nei Tribunali, le questioni relative all’immigrazione avrebbero potuto essere temperate da altri principi giuridici prevalenti nei casi concreti, mentre la parte di repressione delle lotte non avrebbe trovato argomenti altrettanto facili da poter utilizzare in favore degli imputati per i reati previsti dai decreti.

Sanzioni alle Ong, il punto alla luce della sentenza della Cassazione

Recentemente la Corte di Cassazione ha chiuso la vicenda Rackete con un’assoluzione, dimostrando la correttezza di questa nostra previsione, che peraltro era già stata messa in evidenza dai primi provvedimenti del Gip di Agrigento. Nell’ordinamento penale esistono norme cosiddette “scriminanti”. Nel linguaggio giuridico si dice che le scriminanti escludono l’antigiuridicità del fatto: in poche parole escludono che un fatto astrattamente previsto come reato sia da considerarsi tale nel caso concreto, trasformando una condotta normalmente antigiuridica e quindi punibile in una condotta ammessa e quindi non punibile. La più nota e conosciuta da tutti è la legittima difesa, ma ne esistono anche altre che si adattano perfettamente al caso dei salvataggi in mare. L’art. 54 del Codice Penale prevede che «non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé od altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona…». L’art. 51 invece afferma che «l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica […] esclude la punibilità». Nel caso in specie l’obbligo di salvataggio delle persone in mare discende da una serie di norme nazionali previste dal Codice della Navigazione e internazionali, tra cui diverse convenzioni firmate dal nostro Paese. Quindi la previsione dei decreti sicurezza entra in contraddizione con questi principi divenendo nella maggioranza dei casi inapplicabile nel caso concreto. Lo stesso vale anche per le sanzioni amministrative, dal momento che la legge di depenalizzazione, la 689/81 all’art. 4 prevede le stesse scriminanti. Di conseguenza anche le “multe” previste, e spesso irrogate – solo pochi giorni fa una nave ha subito 300mila euro di multa – possono in molti casi essere revocate per le stesse ragioni previste dalle norme penali.

La Cassazione nelle motivazioni della sentenza Rackete ha affermato l’esistenza delle scriminanti indicate, assolvendo la giovane tedesca per aver operato in adempimento di un dovere, sancito dal diritto internazionale e quindi protetto costituzionalmente dall’art. 10 della Costituzione. Ha affermato inoltre che il dovere di soccorrere chiunque si trovi in difficoltà in mare non si esaurisce nell’atto del soccorso, ma solo quando le persone sono state trasferite in un luogo sicuro, dove possano esercitare i propri diritti fondamentali. La sentenza è una vera e propria pietra tombale sulle norme che riguardano la criminalizzazione dei salvataggi in mare previste dai decreti sicurezza.

Il punto sui reati sociali

Nulla di simile è accaduto, o potrebbe accadere, per quanto riguarda i provvedimenti che reprimono le lotte dei lavoratori e le varie forme di conflittualità sociale. Da Prato a Tortona, passando per Roma sono già decine i casi di multe e rinvii a giudizio per applicazione delle norme dei decreti sicurezza in tema di blocco stradale. Hanno coinvolto operai e i settori più conflittuali del movimento sindacale, ma anche lotte di quartiere per servizi e diritti rivendicati attraverso manifestazioni in strada, come avvenuto recentemente a Casal Bruciato a Roma. Migliaia di euro di multe e pene spropositate richieste dalle Procure in applicazione dei decreti Salvini.

Per il blocco stradale oggi le pene vanno da uno a sei anni, da aumentare fino al doppio in caso di reato commesso da più persone. Per un blocco stradale si rischia quindi fino a 12 anni di carcere, se commesso – come non potrebbe accadere altrimenti – in concorso. Per avere un paragone il sequestro di persona prevede come pena massima 10 anni di reclusione, per truffa aggravata fino a 3 anni, violenza sessuale fino a 10 anni. Reati di allarme sociale ben più grave per la vita collettiva hanno pene edittali inferiori rispetto a quelle previste. Non sfugge poi che astrattamente ogni manifestazione non preavvisata, che crei inevitabilmente un qualche intralcio alla circolazione è astrattamente configurabile come blocco stradale, quindi con un margine di discrezionalità ad uso e consumo della repressione delle lotte. Il decreto sicurezza bis ha previsto anche che non sarà più possibile chiedere l’archiviazione per «lieve tenuità del fatto» per chi commette reati di violenza, oltraggio o resistenza a pubblico ufficiale. Insomma un impianto repressivo che supera addirittura il Codice fascista e le leggi speciali degli anni ’70-’80, in cui gli strumenti difensivi sono molto più spuntati e il rischio che le denunce si convertano in condanne molto più reale.

Quest’ultima parte dell’impianto salviniano è in realtà quello più condiviso dalle forze politiche di maggioranza e opposizione, e quello che si svolge in maggiore continuità. È anche quello che incontra il favore implicito dei capitalisti italiani, perché idoneo a prevenire sul nascere ogni forma di conflitto sociale e punire aspramente chi osa alzare la testa, come lotte nel settore della logistica, particolarmente problematiche per il capitale in un settore tanto determinante e centrale. Ecco spiegata l’ipocrisia di una maggioranza che fa riferimento agli interessi di quei settori, e il silenzio totale dei media sulla questione.

I decreti sicurezza vanno abrogati.

Qualche osservatore disattento, limitandosi a commentare la vulgata mediatica ha ritenuto erroneamente che la battaglia contro i decreti sicurezza fosse una questione perbenista da sinistra borghese e radical chic. Chiunque lo pensi non conosce la realtà del conflitto di classe in questo Paese, contribuisce a alimentare la narrazione della propaganda mediatica, non comprendendo in realtà che i provvedimenti contro l’immigrazione e contro le lotte sono strettamente connessi. L’impatto dei decreti di Salvini sulle lotte sociali deve richiedere un’azione risoluta senza cedere a tentennamenti o ipocrisie con la convinzione che “le classi popolari non capirebbero”.

Proprio un’azione risoluta può rovesciare la propaganda fatta da Salvini portando i lavoratori italiani a guardare ai decreti sicurezza non come provvedimenti contro l’immigrazione ma come provvedimenti contro i propri diritti sindacali e politici, minando almeno in alcuni settori, quelle forme di sostegno implicito popolare che la propaganda reazionaria ha artificiosamente costruito. Una battaglia per incalzare anche le contraddizioni di quella parte di forze di sinistra e la base delle forze sindacali confederali, scontente delle modifiche di facciata che promuoverà il governo, chiedendo scelte di campo nette. L’esito delle modifiche promesse dal Governo segnerà quindi solo il punto da cui partire per lanciare con forza iniziative politiche e ipotesi di lotta congiunta tra forze politiche e sindacali più avanzate, che si muovano sul terreno del conflitto di classe utilizzando ogni mezzo e spazio. Non c’è spazio per ambiguità o tentennamenti.
 
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Resistere per vincere

Il contenuto politico della lotta alla repressione

Con questo articolo vogliamo sviluppare una riflessione sulla necessità della comprensione, e della conseguente presa di responsabilità politica dei comunisti, della dialettica antagonistica tra movimento di classe e repressione: il processo di sviluppo del primo è in relazione all’evoluzione della seconda. Da questo nesso ne discende la nostra necessità di portare nella resistenza alla repressione e nella solidarietà di classe i contenuti politici adeguati a smascherare, da un lato, come la classe dominante faccia politica attraverso la repressione e per affermare, dall’altro, come dentro alle lotte economiche e di difesa i lavoratori, le donne e i giovani possano crescere politicamente trovandosi a dover resistere ai colpi della repressione.
Iniziare l’analisi da una lotta recente e concreta ci sembra un buon modo per capire come possiamo sviluppare il contenuto politico da porre, cercando di applicare la linea di massa [1] a partire da un esempio pratico, la lotta alla Toncar di Muggiò.
I lavoratori della Toncar, tutti immigrati e organizzati nel Si Cobas, sono in lotta da mesi dopo che l’azienda, attraverso il meccanismo del cambio d’appalto, ha iniziato un piano di licenziamenti nella totale illegalità, colpendo i lavoratori sindacalizzati. La Toncar è una fabbrica nel settore della stampa che opera da circa cinquant’anni con due siti produttivi, uno in Italia a Muggiò (Monza) e uno in Cina. La cooperativa One job tramite il cambio appalto, illegale, è stata sostituita da un’altra cooperativa con a capo gli stessi padroni. Senza nessuna comunicazione al sindacato, la nuova cooperativa voleva assumere tutti i lavoratori a tempo determinato e, violando le normative previste dal Ccnl, intendeva escludere i lavoratori a tempo indeterminato che lavoravano lì da anni. La Toncar, come molte altre aziende, si può permettere di fare queste operazioni perché gode di impunità e di connivenza da parte delle istituzioni e degli organi preposti al controllo, compresi i comandanti locali dei carabinieri. Dopo una prima vittoria siglata in Prefettura a Monza, dovuta alla lotta unita e determinata dei lavoratori con l’occupazione della fabbrica, sono ripresi gli scioperi e i presidi fuori dai cancelli contro il mancato rispetto degli accordi di riassumere tutti i licenziati. La Toncar voleva infatti imporre, come clausola vincolante per la riassunzione, la rinuncia all’adesione al Si Cobas. Contro questa lotta si sono schierati la polizia e i carabinieri a suon di manganellate, fermi, denunce, processi e minacce di rimpatrio, la stampa, le istituzioni e i sindacati di regime, in particolare la Uil, che ha lavorato alacremente per dividere i lavoratori siglando i nuovi contratti a tempo determinato. Di tutto ciò i lavoratori del Si Cobas hanno scritto: “Ancora una volta lo Stato dei padroni mostra gli artigli da leone contro i lavoratori che lottano per i loro diritti e fa la pecora servile di fronte ai padroni, assecondandone i soprusi e ponendosi quale suo “distaccamento militare” anche quando questi vengono meno agli accordi presi nelle “solenni” sedi istituzionali”.
Nell’Italia del DL Salvini, l’unico imperativo per chi ha a cuore gli interessi immediati e futuri dei lavoratori, è quello di resistere un minuto in più dei padroni e della repressione.” [2]
Questi fatti, simili a quelli che succedono in altre lotte, mostrano con tutta evidenza il vero volto dello Stato e delle sue istituzioni, ma anche la crescita della coscienza di classe da parte degli operai se, quando vengono colpiti dalla repressione, non arretrano. I lavoratori nelle assemblee si esprimono con chiarezza e ascoltandoli si ha la misura di come per essi, attaccati pesantemente dalla repressione, ma rafforzati da una lotta ideologica condotta da un sindacato conflittuale che spiega loro perché le cose succedono diventi sempre più chiaro che appartengono a una classe, riconoscano il nemico e il ruolo dello Stato e di tutti i suoi apparati.
“Lavoro qui da quasi 10 anni, per pagare il mutuo, mantenere i miei figli. Un giorno mi dicono che mi cambiamo contratto, quello nuovo è solo di sei mesi e senza molti diritti che nel vecchio c’erano. Il Si Cobas ci spiega che è tutto illegale e scendiamo in lotta. E quando vedo arrivare i carabinieri in forza penso che vengano ad arrestare il padrone che è nell’illegalità, invece ci aggrediscono e finisco io arrestato…Dopo lo spavento iniziale ho capito che non devo più avere paura, che sono nel giusto, che siamo lavoratori e che dobbiamo resistere tutti assieme.” Così si è espresso un lavoratore in un’assemblea di sostegno alla lotta in corso.
Prefettura, carabinieri, polizia, sindacati confederali, tribunali, giornalisti di regime si sono mobilitati all’unisono: un perfetto esempio di attacco reazionario dello Stato che ha mosso tutti i suoi apparati, compresi i corpi intermedi e, al tempo stesso, un’occasione di crescita della coscienza di classe in una lotta economica che, nel suo incedere, unisce alle rivendicazioni specifiche il contenuto politico della lotta contro il governo dei padroni e le sue leggi antioperaie. Qui emerge la relazione dialettica che possiamo sviluppare tra i due campi della lotta, quello economico e quello politico: relazione che può divenire esplicita se conquistiamo la capacità di sviluppare, al contempo, una lotta ideologica.
A fronte di questo esempio risulta importante, per chi si pone nella prospettiva di cambiamento radicale della società, formare dentro alle lotte, intese concretamente come scuole di comunismo, una nuova leva di compagni capaci di condurre dall’interno di esse la lotta ideologica, soprattutto quando si viene attaccati perché, paradossalmente, è un momento propizio per i comunisti: “Perché, in tutto il mondo, e anche in Russia, è spesso la polizia stessa che comincia ad imprimere un carattere politico alla lotta economica; gli operai cominciano a comprendere da che parte è il governo”. [3]
Per i compagni la questione non è quella “di imprimere alla lotta economica stessa un carattere politico”. Essa spesso – come scrive lo stesso Lenin – assume spontaneamente un carattere politico. Il compito dei comunisti è invece quello di “approfittare delle faville di coscienza politica che la lotta economica ha acceso negli operai per elevare gli operai fino alla coscienza politica socialdemocratica”. [4]
Quali elementi ideologici dobbiamo imparare e fornire ai lavoratori, alle donne e ai giovani dentro alle lotte economiche per fare questo? E con quale metodo? Ci rifacciamo a questo proposito a quanto scrisse lucidamente Lenin: “…La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se gli operai non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe colpita… se non imparano ad applicare in pratica l’analisi e il criterio materialistico a tutte le forme di attività e di vita di tutte le classi….La coscienza delle masse operaie non può essere una vera coscienza di classe se gli operai non imparano ad osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi sociali in tutte le manifestazioni della vita intellettuale, morale e politica se non imparano ad applicare in pratica l’analisi e il criterio materialistico a tutte le forme d’attività e di vita di tutte le classi, strati e gruppi della popolazione… Per diventare socialdemocratico, l’operaio deve avere una chiara visione della natura economica, della fisionomia politica e sociale del grande proprietario fondiario e del prete, dell’alto funzionario e del contadino, dello studente e del sottoproletario, conoscerne i lati forti e quelli deboli, saper discernere il significato delle formule e dei sofismi di ogni genere con i quali ogni classe e ogni strato sociale maschera i propri appetiti egoistici e la propria vera sostanza, saper distinguere quali interessi le leggi e le istituzioni rappresentano, e come li rappresentano. Ma non si potrà trovare in nessun libro questa ‘chiara visione’: la potranno dare solo gli esempi tratti dalla vita…”. [5]
Oggi, per applicare questa concezione, vanno analizzati ed elaborati alla luce della situazione concreta alcuni concetti fondamentali da trasmettere ai lavoratori:

lo Stato e i suoi apparati sono nemici, dal fascismo non è tornato indietro;
la legge non è uguale per tutti, ma è di classe; i tribunali sono un campo nel quale l’iniziativa è in mano al nemico;
ogni vittoria della lotta economica è temporanea fino a quando esisterà lo Stato borghese;
la lotta di classe si può rafforzare anche nel confronto/scontro con la repressione solo se la risposta è politica.
E il metodo che i comunisti devono apprendere e verificare nella loro militanza è quello di partire dalle esperienze concrete dei lavoratori, delle donne e dei giovani che si mobilitano a difesa delle proprie condizioni di vita, per accompagnarli nella comprensione generale della natura della società attuale e dello Stato, fino a renderli consapevoli, per esperienza diretta, della loro appartenenza ad una classe che per vincere deve organizzarsi e opporsi irriducibilmente ai padroni e al loro Stato, fino a strappare il potere dalle mani della borghesia. Non sono utili allo scopo lezioni intellettuali di tipo accademico e intrise di dogmatismo, ma elaborazioni e riflessioni sulla pratica di chi lotta oggi, rifacendosi ad insegnamenti di lotte grandi e piccole passate. È essenziale che la teoria non sia percepita come esercizio astratto, ma per come deve realmente essere: pratica elaborata attraverso la concezione politica del proletariato, il materialismo dialettico. Vediamo di capire meglio i concetti chiave espressi precedentemente.

Lo Stato e i suoi apparati sono nemici, dal fascismo non è tornato indietro


L’apparato statale (che comprende esercito, polizia e tribunali) è lo strumento di una classe per opprimere un’altra classe, è lo strumento per l’oppressione di classi antagoniste… (Mao Tse Tung, Sulla dittatura democratico popolare, 1949) Dove ha origine il legame indissolubile tra lotta economica, politica e lotta alla repressione? Nella società divisa in classi nella quale viviamo il potere politico è in mano alla borghesia imperialista, pur nelle acute contraddizioni che la attraversano. Lo Stato ne garantisce il dominio: è lo strumento dell’oppressione politica che questa classe esercita sulle altre, la sua funzione e forma sono in continuo sviluppo e rimodellamento, in dialettica con il movimento degli antagonismi nella società, per contenerli o annientarli. La sua essenza è la controrivoluzione preventiva6. In esso si sommano i caratteri economico, politico ed ideologico. Nella democrazia borghese lo Stato è il punto d’arrivo di un concreto processo storico, un risultato degli antagonismi tra le classi sociali, di fatto un processo del continuo sviluppo e rimodellamento in relazione all’evolversi delle contraddizioni sociali. Lo Stato si trasforma in relazione alle formazioni economico-sociali dell’epoca a cui appartiene, non è immutabile, ma risponde alle necessità che la classe dominante ha per rimanere tale. La sua naturale essenza è la controrivoluzione preventiva, figlia della necessità di prevenire e stroncare gli antagonismi: una natura assunta e sviluppata dallo Stato borghese dopo la Rivoluzione d’ottobre per impedire sul nascere un’esperienza simile negli altri paesi. La borghesia imperialista rispose con il volto crudo della dittatura, in Italia con il fascismo a livello di potere politico e con lo Stato corporativo sul piano delle relazioni economico-sociali.
Il volto autoritario dello Stato, terminata la necessità imposta dal momento storico della dittatura terroristica, ha indossato la maschera della cosiddetta democrazia, mantenendo, però, inalterata la sua natura di controrivoluzione preventiva. Lo Stato ha modificato se stesso, ma gli strumenti attraverso cui la classe dirigente esercita il potere sulle altre classi rimangono invariati.
Ancora citando Lenin “la repubblica democratica è il miglior involucro politico per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito (…) di questo involucro, che è il migliore, fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, ne di persone, ne di istituzioni, ne di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo”. [7] Gramsci ha arricchito la teoria sullo Stato analizzando la situazione italiana ed europea della sua epoca, quella del disfacimento del vecchio Stato liberale che ha portato al regime fascista. Questo passaggio ha reso evidente come la borghesia abbia dovuto rafforzare anche un’egemonia culturale per poter mantenere il proprio potere politico. Infatti, lo Stato nel suo complesso è sorretto dalla dittatura e dall’egemonia: una combinazione che al giorno d’oggi trova espressione nella “democrazia governante”, ossia una forma di governo che all’accentramento del potere fa corrispondere il massimo possibile della democrazia formale, rafforzando la dittatura mantenendo intatte le forme e i canali dell’egemonia “democratica”, concentrando maggiori poteri possibili nell’esecutivo. [8] La tendenza alla democrazia governante è in atto nella deriva autoritaria dello Stato borghese degli ultimi anni che, pur mantenendo la forma democratica esteriore, rafforza con l’autoritarismo la strategia della controrivoluzione preventiva. Abbiamo visto la democrazia governante all’opera in questi anni fino ai giorni nostri, quelli dei decreti sicurezza targati Salvini che mirano alla distruzione progressiva del ruolo dei corpi intermedi come i sindacati e all’annullamento dei rapporti di forza che le masse possono esprimere lottando.
E qui spendiamo poche parole per vedere come, con il primo decreto sicurezza e il decreto sicurezza bis, lo Stato dei padroni abbia affinato nuove armi per reprimere le lotte proletarie, in particolare quelle dei lavoratori e attaccare i sindacati conflittuali. Il decreto-Salvini bis è un attacco frontale in questo senso e dà il via libera alle aggressioni poliziesche, padronali e fasciste. Voluto dalla Lega, sottoscritto dai Cinque Stelle, e firmato da Mattarella l’11 giugno e divenuto legge lo scorso agosto, completa e indurisce la normativa anti-proletaria contenuta nel primo decreto-sicurezza. Se il primo decreto-Salvini, del giugno 2018, aveva come bersaglio anzitutto i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati, ma colpiva con altrettanta durezza i picchetti e le occupazioni di case, il decreto bis, invece, attacca direttamente le proteste e le manifestazioni. Ogni forma di opposizione e di resistenza diventa reato e come tale viene punita, non più solo come violazione amministrativa. L’uso di caschi, fumogeni, petardi e materiali “imbrattanti” è punito con l’arresto, se in flagranza, fino a 3 anni (anziché 2) e con l’ammenda fino a 6.000 euro (anziché 2.000). Sono inasprite tutte le sanzioni per danneggiamenti compiute nel corso di manifestazioni e anche manifestare senza preavviso diventa, da atto punibile con contravvenzione, reato. La pena prevista per interruzione, o anche solo ostacolo, di pubblico servizio nel corso di manifestazioni o eventi pubblici, come ad esempio un intervento durante un consiglio comunale, può arrivare a 2 anni e l’oltraggio a pubblico ufficiale è ora punibile con pene fino a 3 anni e sei mesi. Tali misure aggravano le pene previste dalla legislazione fascista (T.U. sulla pubblica sicurezza del 1931), dai decreti di emergenza del 1944 in periodo di guerra, e dalla liberticida Legge Reale del 1975. Queste misure preventive servono per scoraggiare ogni protesta di fronte alla crisi prossima ad una nuova e pesante impennata: le vertenze aperte, secondo i dati forniti dai sindacati, sono 160 (in crescita dai 138 tavoli aperti al Mise a inizio anno) e coinvolgono un numero compreso tra 80 mila e 280 mila lavoratori. Nel contempo viene ulteriormente militarizzato il Mediterraneo, favorendo così una selezione di classe degli emigranti dall’Africa: i padroni oggi hanno bisogno di lavoratori con istruzione e professionalità, di altri ne hanno già a sufficienza ad alimentare l’esercito industriale di riserva e a tenere bassi i salari.
Con i decreti Salvini il contrasto alle lotte degli sfruttati, specie se immigrati e organizzati in sindacato conflittuale, ha fatto un deciso passo avanti e così mafiosi e fascisti, da sempre vicini ai padroni, si sono sentiti legittimati ad attaccare con le loro squadracce i lavoratori in lotta.
In conclusione possiamo dire che la borghesia, pur ammantandosi della facciata democratica, dal fascismo non è mai tornata indietro. L’esempio italiano è chiaro sia per quel che vediamo succedere ai nostri giorni, che a livello storico: dopo la vittoria della Resistenza la continuità con il fascismo si è data sia a livello di figure chiave, sia di strutture. Il riciclo di personale fascista all’interno degli apparati statali e l’utilizzo della manovalanza fascista contro le lotte sono aspetti noti: basti pensare alle stragi di Stato e alla strategia della tensione e, oggi, all’utilizzo come mazzieri dei fascisti contro i picchetti dei lavoratori, alla loro legittimazione come promotori della divisione della classe e della mobilitazione reazionaria sul tema dell’immigrazione.

La legge non è uguale per tutti, ma è di classe, i tribunali sono un campo nel quale l’iniziativa è in mano al nemico

Lo Stato, di fronte alle lotte, quando tutti gli altri strumenti non sono sufficienti a controllarle, interviene con la legge, con i tribunali, il carcere, le denunce, gli arresti. I lavoratori comprendono dalla loro esperienza che la legge non è uguale per tutti e che la risposta, per non essere schiacciati, deve essere politica. Accettare il terreno della repressione come fatto politico fa parte degli insegnamenti della storia del movimento comunista. Contro gli attacchi alla classe lavoratrice, dai licenziamenti politici agli arresti, si sono sviluppati storicamente organismi di solidarietà come le Casse di resistenza e il Soccorso Rosso. Nella repressione della lotta economica la risposta spontanea è la solidarietà, ma essa va organizzata e diviene centrale la lotta ideologica per l’unità e per l’individuazione del nemico di classe. Ciò permette il salto politico per tracciare una linea di demarcazione importante tra gli sfruttati e la borghesia (sottraendo i primi all’influenza ideologica della seconda), per riconoscersi come classe, per affermare che non si deve avere paura della repressione in quanto essa è parte della lotta.
Il terreno della repressione è una cartina di tornasole, un banco di prova, per capire se siamo nella strada giusta, per crescere, per sviluppare la coscienza di classe: è un momento nel quale la lotta ideologica è fondamentale. È il terreno nel quale appare più chiara e concreta la concatenazione dei tre piani della lotta del proletariato – ideologico, politico ed economico – mentre cadono le mistificazioni messe in campo dalla borghesia e diviene trasparente quello che Gramsci efficacemente affermò: “La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica e ne l’una ne l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica…”. [9]
La repressione si smaschera e mostra il suo carattere politico se c’è determinazione politica da parte di chi viene represso.
A questo proposito citiamo una sagace riflessione di Mao: “Per quel che ci riguarda, si tratti di un individuo, di un partito, di un esercito o di una scuola, io credo che la mancanza di attacchi da parte del nemico contro di noi sia una cattiva cosa, poiché significa che noi facciamo causa comune col nemico. Se siamo attaccati dal nemico, è una buona cosa, poiché ciò dimostra che abbiamo tracciato una linea di demarcazione nettissima tra noi e il nemico. Se esso ci attacca violentemente, dipingendoci con i colori più cupi e denigrando tutto quello che facciamo, si tratta di una cosa ancora migliore, poiché ciò dimostra non solo che abbiamo stabilito una linea di demarcazione netta tra il nemico e noi, ma anche che abbiamo conseguito notevoli successi nel nostro lavoro”. [10]
L’uso dei tribunali e del carcere anche per le lotte economiche e sindacali non è esclusiva del ventennio, ma cosa che accade sempre più spesso ai nostri giorni. Non si tratta solo di una questione di rapporti di forza, ma anche di condizioni della fase storica che si attraversa. Oggi, nella profonda e irreversibile crisi che scuote il capitalismo, lo Stato borghese sempre più vi ricorre. Nella crisi, con un rapporto di forza sfavorevole alla nostra classe, e sotto i suoi effetti, gli attacchi sono pesantissimi. Questo per la necessità impellente da parte dei padroni di mantenere le condizioni compatibili con il profitto capitalista. Sono in continua diminuzione gli spazi di mediazione e la repressione verso la lotta economica della classe è in aumento. Assistiamo così a continui attacchi alle lotte anche sindacali dei lavoratori, ma anche alla lotta per la casa, per l’ambiente (si pensi alle lotte No Tav, No Tap, No Muos…).
Il binomio lotte/repressione va comunque sempre contestualizzato per non cadere nella diffusa convinzione che più forte è la lotta, meno forte sia la repressione e che la risposta conseguente debba essere la radicalizzazione della lotta. Va lottato sia contro la linea opportunista che diffonde paura e scoraggiamento, sia contro quella estremista che non tiene conto delle condizioni oggettive e soggettive nelle quali è maturata la mobilitazione. Abbiamo assistito negli ultimi anni ad un attacco alla lotta economica, ad esempio a quella sulla casa, con i reati associativi, in questo caso l’associazione a delinquere. Di solito i reati associativi sono stati usati contro determinazioni politiche o criminali soggettive, ma oggi la contingenza è diversa e ci troviamo di fronte ad attacchi spietati alle lotte, anche se non pongono la questione del potere. Questo accade perché i capitalisti e i loro Stati dentro alla crisi hanno la necessità impellente di inasprire lo sfruttamento per aumentare il saggio di profitto e di conseguenza di impedire tutte le lotte che richiedono anche solo migliori condizioni economiche e di distruggere sul nascere aree di movimento che potrebbero partorire determinazioni politiche. Vanno qui presi in considerazione lo scopo preventivo dell’uso di questi reati e il concetto che la repressione delle lotte e la repressione politica sono distinte e allo stesso tempo unite e in ogni momento va capita la dialettica che le lega per agire di conseguenza.
I reati associativi sono il perfetto esempio del fatto che lo Stato borghese dal fascismo non è tornato indietro. Coniati durante il ventennio, nati per perseguire comunisti e anarchici, gli articoli del famigerato Codice Rocco, nel corso degli anni, sono stati “ammodernati”, come ad esempio il noto art. 270 c.p. che da associazioni sovversive è divenuto 270 bis c.p., associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico negli anni Settanta e, infine, ai giorni nostri associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico. In questa ultima modifica, corrispondente al periodo storico del rilancio della guerra imperialista e dell’attacco spietato alle organizzazioni di appoggio alla resistenza dei popoli oppressi, l’articolo si è sviluppato con numerosi commi 270-ter, 270-quater, 270-quater.1, 270-quinquies, 270-sexies. Naturalmente, oltre che ad allargare il raggio repressivo, sono aumentate le pene minime e massime.
Quando si ha a che fare con gli arresti e i processi come difendersi?
Il tribunale non è un luogo di lotta come gli altri, siamo in casa del nemico che detta le regole del gioco. Solidarietà, unità, continuità della lotta sono regole importanti, ma la cosa fondamentale è segnare una chiara linea di demarcazione: stabilire la nemicità. Con questo atteggiamento si smaschera il fatto che il processo condotto dalla classe dominante è politico, non è politico in base al reato contestato, ma alla linea di difesa processuale e alla condotta dell’imputato.
Stabilire la nemicità non si riduce ad estremizzarne il concetto rifiutando la difesa offerta dal diritto borghese, ma significa comprendere la distinzione tra lotta economica e politica e attaccare, con armi politiche, anche la giustizia borghese. Trasformare il processo alla lotte in processo di lotta, questa è la linea di condotta. E fare questo rifiutando il piano esclusivamente processuale, intessendo la relazione tra linea in aula degli imputati e mobilitazione esterna di denuncia.

Ogni vittoria della lotta economica è temporanea fino a quando esisterà lo Stato borghese

Ogni conquista della classe, fino a quando la borghesia avrà in mano il potere, è solo temporanea come mostra l’attacco di questi ultimi decenni a tutte le formidabili conquiste operaie strappate con anni di lotta. Lo Stato borghese con tutti i suoi apparati non va considerato solo come espressione dei rapporti di forza tra le classi, ma anche come entità da attaccare per strappare il potere dalle mani dei padroni. Citando Gramsci: “(…) dopo l’espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico-private, di partiti e sindacati) e le trasformazioni avvenute nell’organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell’insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo”. [11]
Contrastare e combattere tutto ciò e mantenere le conquiste è in rapporto strettamente dialettico con la costruzione e la lotta per l’autonomia politica del proletariato, con il lavoro per dare vita alla sua organizzazione politica rivoluzionaria. Come comunisti che oggi si formano alla scuola delle lotte dobbiamo riporci e riporre il problema della lotta per il potere e per questo la lotta ideologica diviene importante sconfiggendo gni tabù e demonizzazione che ha preso piede su questo termine.
Il dibattito sulla questione del potere non è novità: è uno scontro ideologico da sempre aperto dentro al movimento comunista, di classe e antagonista. Già Lenin scriveva che gli anarchici, sostenitori accaniti della lotta contro ogni autorità, potevano essere considerati alla stregua degli estremisti di ogni tempo, noncuranti delle condizioni oggettive e sociali del presente, senza considerazione alcuna del rapporto mezzi-tattica-obiettivi, in buona (e cattiva) fede degli idealisti. Le idee di uguaglianza, fraternità e giustizia, senza una concezione politica della realtà nella quale dovevano essere calate, sono rimaste, e sempre lo saranno, astratte concezioni etiche.

La lotta di classe si può rafforzare anche nel confronto/scontro con la repressione solo se la risposta è politica

E qui possiamo trarre delle conclusioni. La repressione diviene un ottimo crogiuolo per rafforzare la lotta, pena la sua sconfitta, ma soprattutto per formare e consolidare la coscienza di classe. Della repressione non bisogna avere paura e bisogna attrezzarsi per affrontarla non solo nel momento nel quale la si subisce, ma anche organizzandosi meglio per evitarla. La nostra classe oggi è profondamente debole nei rapporti di forza e subisce attacchi repressivi su tutti i piani, tra loro concatenati: va capito come lavorare per riprendere in mano la questione su tutti tre i fronti, soprattutto quando veniamo attaccati. Va risposto prendendo il toro per le corna, quindi sul piano politico, lo sviluppo della solidarietà va accompagnato con la lotta ideologica e politica dei comunisti.
In prospettiva la lotta rivoluzionaria si affermerà solo sconfiggendo la controrivoluzione che essa stessa ha suscitato. L’uso della repressione non è una dimostrazione di forza dello Stato borghese, ma al contrario della sua crisi e della sua debolezza, una dimostrazione del fatto che essa non è in grado di risolvere “pacificamente” le contraddizioni che il suo dominio produce.
Come per la borghesia “dal fascismo non si torna indietro”, così anche per i compagni non si deve tornare indietro dagli insegnamenti della Resistenza e da quelli delle esperienze rivoluzionarie degli anni Settanta e Ottanta. Il patrimonio di conoscenze e pratiche va trasmesso: dalla Resistenza impariamo che nemmeno la repressione più brutale ha potuto fermare le masse in mobilitazione sotto la guida dei comunisti. Essa è stata allora scuola di solidarietà di classe e si sono sviluppate organizzazioni come Soccorso Rosso, reti di solidarietà per esiliati e latitanti che sono divenute strumenti di appoggio alla guerra di Resistenza partigiana. Anche oggi ogni episodio di repressione può, anziché indebolire la lotta di classe in generale, rafforzarla. Ogni attacco può essere trasformato in promozione e allargamento della solidarietà proletaria e soprattutto può essere una scuola per la formazione di nuovi comunisti se si impara ad agire dialetticamente sui diversi piani della lotta: ideologico, politico ed economico.

Note:

[1] vedi nel glossario: LINEA DI MASSA
www.tazebao.org/glossario-antitesi-n-7/

[2] https://sicobas.org/2019/03/14/comunicatot...ggia-i-padroni/

[3] Lenin, Che Fare?, Opere Scelte vol.1 p. 301 Editori Riuniti

[4] Ibid p. 302 Editori Riuniti

[5] Ibid p. 209

[6] Vedi Antitesi n°0
Sezione 4: Controrivoluzione, repressione e solidarietà di classe
Articolo: “Cosa intendiamo per controrivoluzione preventiva”
https://www.tazebao.org/cosa-intendiamo-pe...one-preventiva/

[7] Lenin, Stato e rivoluzione, www.marxists.org/italiano/lenin/1917/stat-riv/index.htm

[8] Vedi Antitesi n° 3
Sezione 4: Controrivoluzione, repressione e solidarietà di classe
Articolo: “La democrazia governante”
www.tazebao.org/controrivoluzione/

[9] Gramsci, Necessità di una preparazione ideologica di massa, 1925, in Scritti politici, Editori Riuniti, 1971 p. 600.

[10] Mao Tse Tung, Essere attaccati dal nemico è un bene e non un male, in Opere di Mao Tse Tung in 25 volumi, versione cd rom, vol 7, p. 58.

[11] Gramsci, Il moderno principe, il partito e la lotta per l’egemonia: Quaderno 13, Donzelli, 2012, p. 208

www.tazebao.org/resistere-per-vincere/
 
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view post Posted on 23/2/2020, 10:31
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torino. per la verità: lettera dell’assemblea dottorand*, precar* e docenti del campus luigi einaudi (da proletari comunisti)
Pubblicato il 22/02/2020di pennatagliente

corteo_antifascista

Il testo della lettera dell’Assemblea dottorand*, precar* e docenti del Campus Luigi Einaudi in merito alle provocazioni poliziesche della scorsa settimana al Campus di Torino, e alla campagna diffamatoria verso alcuni lavoratori dell’università.
PER LA VERITA’
Da molti anni alcune rumorose forze politiche e culturali, caratterizzate da un nazionalismo grottesco, usano le vicende storiche che attraversarono il cosiddetto confine orientale dell’Italia nei primi anni quaranta del Novecento per rivalutare il ventennio fascista e le figure che lo incarnarono: Mussolini, in primo luogo. Intorno al “giorno del ricordo”, si gioca una partita ideologica che punta a rimuovere il collaborazionismo del regime fascista con il nazismo e nascondere i crimini contro l’umanità compiuti dall’esercito italiano. È invece in tale contesto che la questione delle Foibe andrebbe inserita.
Tuttavia, in una città come Torino, insignita molti anni fa di una medaglia al valore per ricordarne l’impegno antifascista nelle Resistenza, sono ormai frequenti le aggressioni di stampo neofascista e antisemita, con scritte ingiuriose e minacciose sotto le abitazioni dei discendenti di alcuni dei protagonisti di quella stagione antica e degli antifascisti di oggi. Aggiungiamo l’aggressione allo storico Eric Gobetti, autore di ricerche solide e riconosciute nel mondo scientifico su temi ai quali la Regione Piemonte si accosta invece annunciando il proposito di diffondere nelle scuole pubblicheun fumetto piuttosto volgare e di stampo fascistoide, intitolato Foiba rossa.
In questo contesto, giovedì 13 febbraio, mentre al Campus Einaudi dell’Università si svolgeva un convegno con l’intenzione di affrontare la complessità e piglio critico il tema Fascismo, colonialismo e foibe, il gruppo Fuan distribuiva un volantino, colmo della solita retorica nazionalista, attaccando l’Anpi, tra i promotori dell’iniziativa.
Il gruppetto, protetto come accade da molti anni da poliziotti in tenuta antisommossa, si è in verità dileguato dopo pochi minuti: nessuno “scontro” con i numerosi studenti che li contestavano. E i momenti di contatto tra antifascisti e polizia avrebbero potuto essere derubricati a poca cosa, a essere onesti: invece interviene la decisione delle forze dell’ordine di operare un fermo.
Non ci rivolgiamo alla Questura, la cui gestione delle piazze torinesi negli ultimi mesi è stata quanto meno discutibile, all’insegna di una aggressività troppo spesso ingiustificata; non ci rivolgiamo ai giornali, i cui resoconti, salvo poche eccezioni, sono tutti convergenti per non dire artificiosi, troppo uguali nei toni di un racconto dei fatti, cui probabilmente nessun giornalista ha potuto davvero assistere; in questo frangente denunciamo i ripetuti attacchi personali alla Professoressa Raffaella Ferrero Camoletto, le cui parole sono state distorte dai giornali e interpretate ottusamente dal sindacato di polizia. Non ci rivolgiamo nemmeno alla Magistratura, in particolare ai frettolosi uffici che convalidano arresti e dispensano poi condanne e lezioni di morale con una leggerezza inquietante.
Ci rivolgiamo alla comunità universitaria, ai cittadini del quartiere in cui ha sede il Campus, a ogni spirito libero e critico: la contestazione al Fuan non è stata organizzata ma spontanea; la resistenza alle pressioni delle forze dell’ordine non è stata frutto di azioni “premeditate”: nessuno dei partecipanti al presidio è apparso travisato o armato di alcunché; gli studenti si sono contrapposti ad un fermo che appariva in quel momento totalmente ingiustificato e per cui ci si aspettava un rilascio immediato. Al suo posto si sono susseguite almeno quattro cariche scomposte e violente da parte delle forze dell’ordine.
Ma qui, oltre le cariche, contano gli atteggiamenti, tanto più gravi se agiti dalle forze dell’ordine: i poliziotti agitano non solo i manganelli, battuti ripetutamente contro i loro scudi, quasi a rammemorare pose guerresche, ma lanciano insulti umilianti all’indirizzo dei manifestanti: insulti, è quasi inutile dirlo, sessisti e razzisti, tanto che una funzionaria superiore in grado si sente in dovere di tacitarli imperiosamente, mentre i responsabili delle istituzioni universitarie presenti assistono passivi. E poi gli altri tre fermi, tanto per rasserenare il clima.
Il giorno successivo ad attizzare gli animi ci pensano i vertici dell’Università: non solo vengono posizionate due guardie armate (!) davanti all’aula che era stata del Fuan, ma si chiede ai docenti e agli studenti presenti nella palazzina Einaudi di sgomberare i locali… dando nel contempo ampie garanzie che la polizia non sarebbe intervenuta contro gli studenti antifascisti riuniti in assemblea. Un atteggiamento irresponsabile, che ha creato insicurezza, non il contrario, e ha impedito il regolare svolgimento degli esami in corso.
Ultimo ma non meno importante, giunge puntuale come l’allergia in primavera, la provocazione del leghista di turno, che si agita nello stesso brodo di coltura dei revisionisti fascistoidi: ora a parlare è il Presidente dell’Ente regionale per il diritto allo studio universitario Sciretti che, per non sapere parlare né scrivere, propone di sospendere le borse per gli “antagonisti” arrestati e denunciati. Si tratta della stessa figura che esattamente un anno fa, in occasione delle manifestazioni contro lo sgombero dell’Asilo di via Alessandria, affermò: “Ci vorrebbe un po’ di scuola Diaz”. Visto che intorno al “giorno del ricordo” la memoria pare vacillare più del solito, rammentiamo che per quel raid indegno di un paese democratico numerosi esponenti della Polizia di Stato furono condannati e interdetti dai pubblici uffici…
Che ognuno si faccia le sue opinioni, cercando di acclarare i fatti. Alla Professoressa Ferrero Camoletto esprimiamo la nostra più piena solidarietà, così come agli studenti e alle studentesse coinvolte\i in questa vicenda. Noi nel rispetto dei nostri ruoli e dei principi fondamentali di qualsiasi convivenza civile, siamo e restiamo antifasciste\i.
Assemblea dottorand*, precar* e docenti del Campus Luigi Einaudi
 
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view post Posted on 25/2/2020, 12:53
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Processo "Renzi" 27 febbraio - Basta processare le lotte!
In occasione della nuova udienza del processo per le contestazioni a Renzi nel 2016 - previsto per il 27 febbraio, dalle 9.30 alle 11 i rappresentanti dello Slai cobas per il sindacato di classe processati incontrano la stampa, fuori dal tribunale o presso l'aula del primo piano per commentare l'andamento della udienza e per rivendicare:

- la fine dei processi che riguardano lavoratori, rappresentanti sindacali e lotte sociali a Taranto e nel nostro paese

- l'abolizione dei decreti sicurezza per tutte le parti sia quelle razziste antimmigrati e anti ONG sia quelle che riguardano lotte sociali, blocchi stradali, libertà di sciopero e manifestazione

Slai cobas per il sindacato di classe Taranto
 
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view post Posted on 4/3/2020, 18:25
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Un ragazzo di 15 anni è stato ucciso. Non lasciamo che il moralismo di destra prevalga



* di Paolo Spena (segreteria nazionale FGC) e Giorgio Di Fusco (segretario FGC Napoli)

Un ragazzo di quindici anni è stato ucciso da un carabiniere fuori servizio durante un tentativo di rapina con un’arma finta. Sono in corso le indagini per appurare le circostanze e la dinamica dei fatti, che sono essenziali per comprendere cosa è accaduto realmente e la configurazione giuridica di questo fatto. Ma la giuria popolare dei social network ha già emesso la sua sentenza, in un paese in cui il moralismo di destra e il tema della “sicurezza” sono ormai egemoni, anche perché privi di un reale contrasto.

Il primo indizio è che questa vicenda è forse una delle pochissime notizie ad essersi imposta nel dibattito nazionale di questi giorni nonostante il coronavirus. Nella miseria di una politica che è sempre più limitata alla ricerca del consenso quotidiano, con gli esponenti dei partiti che si riducono a meri commentatori della realtà, l’intera questione è stata come sempre ricondotta su toni degni da opinionisti di un talk show. Una dinamica che ricorda le discussioni sull’uccisione di Davide Bifolco, diciassettenne del Rione Traiano ucciso in motorino da un carabiniere per non essersi fermato all’alt. A distanza di giorni, gran parte del dibattito non va oltre la questione se il carabiniere abbia fatto bene o no a sparare. E sarebbe una forzatura persino affermare che l’opinione pubblica si è “divisa” su questo, perché in realtà è chiaro che la stragrande maggioranza delle persone dinanzi a questa domanda secca risponde semplicemente “sì”. Ma è sufficiente porre la questione in questo modo, chiedendosi se abbia sbagliato di più il ragazzo ormai morto, l’uomo che ha sparato o i genitori del giovane per la loro reazione in pronto soccorso dopo il decesso? Sorprendentemente, anche a sinistra in tanti sembrano accontentarsi di questo, quando invece da dire ci sarebbe tanto.

È un dato oggettivo e unanimemente riconosciuto – dall’“università della strada” fino ai sociologi di Harvard – che esiste una correlazione fra povertà, disagio sociale, insicurezza e la presenza di fenomeni di criminalità, organizzata e non. L’assenza di lavoro e diritti sociali, di garanzie, di prospettive crea ovunque il terreno fertile per la criminalità e la microcriminalità. Un dato che sembra ovvio eppure non lo è, visto che – per dirne una – c’è chi vorrebbe raccontare che la maggiore percentuale di reati commessi da immigrati deriva da fattori di carattere etnico e razziale, e non invece proprio da questa condizione materiale. Questa considerazione basta da sé a spiegare i maggiori tassi di criminalità nelle periferie delle grandi città rispetto alle zone agiate. Vale per i quartieri di Napoli così come per le periferie di tutte le città italiane; per gli (ex?) ghetti afroamericani negli Stati Uniti, le banlieue francesi, le favelas brasiliane, gli slums indiani e di Nairobi, e la lista potrebbe continuare.

Eppure proprio nel dibattito di questi giorni si dimentica troppo spesso che il contesto in cui un ragazzino di 15 anni finisce a fare rapine per strada è una realtà fatta di assenza di prospettive, che ai giovani già senza futuro lascia l’impossibilità di accedere allo sport, alla cultura, all’intrattenimento senza barriere di classe.

Il contesto spiega, ma non giustifica. Vero, e infatti a nessuno viene in mente di presentare questo dato come una giustificazione sul piano “morale” di chi fa le rapine in strada, o di chi finisce nella manovalanza delle organizzazioni criminali. Spesso l’obiezione di chi risponde “ma davvero vuoi giustificarlo?” viene accompagnata dalla seguente: esistono persone che provengono da quartieri malfamati che “si alzano presto per andare a lavorare” o emigrano in cerca di un’alternativa piuttosto che diventare criminali. Certamente, ma non è affatto una scoperta. Sta nella stessa definizione di “tasso di criminalità”, e in generale nel concetto matematico di “tasso”: una percentuale sul totale. Al di là di ogni considerazione ideale e moralista, esistono poi condizioni oggettive in cui questa percentuale è più alta. Vale per la criminalità così come per la dipendenza da droghe, l’alcoolismo, la ludopatia, lo sfruttamento della prostituzione etc.

La diversità dei comunisti dovrebbe essere proprio quella di mettere sempre al primo posto la comprensione di un fenomeno sociale. Oggi invece anche a sinistra, sempre più spesso, a questa necessità viene sostituita l’idea di dare un giudizio sul piano puramente morale se non direttamente legalitario, assimilando del tutto la concezione moralistica del mondo propria della destra reazionaria che si limita a giudicare il piccolo criminale sulla base del precetto morale che fare le rapine è sbagliato, senza la capacità di avere una visione d’insieme.

Il caso specifico di Napoli è complesso, e starà alle indagini e alle perizie fare chiarezza sulla dinamica dei fatti, nella speranza che non si finisca in casi di inquinamento delle prove o perizie balistiche alquanto opinabili. Certo se dovesse essere confermato che il carabiniere in borghese ha sparato il secondo colpo alla testa quando il 15enne se ne stava andando, già ferito dallo sparo precedente al torace, sarebbe molto difficile parlare ancora di legittima difesa e dare torto al PM che ha indagato il carabiniere per omicidio volontario. Ma più di questo sarebbe opportuno riflettere su ciò che produce la retorica di destra che in nome del “non esiste l’eccesso di legittima difesa” finisce di fatto per legittimare il far west.

Lo diciamo chiaro e senza giri di parole: se le indagini dimostreranno che il carabiniere ha sparato al ragazzo quando stava già fuggendo questa cosa si chiama omicidio volontario. La legittima difesa pone in relazione due beni equivalenti: la vita con la vita. È un ultimo residuo di autotutela che l’ordinamento concede giustamente a chi vede la propria vita o quella altrui minacciata, consentendo di esercitare un’estrema difesa per salvarla. Non una “giustizia privata”. L’eccesso di difesa si verifica quando, su questa base di legittimità della difesa personale, si eccede per quantità e modalità nella difesa.

Ritenere che sia giusto sparare per ripicca, o senza una minaccia attuale per la propria vita o incolumità, o per difendere semplicemente un orologio, o qualsiasi altro bene materiale significa ammettere che la un bene materiale ha un valore superiore o equivalente a quello della vita di un ragazzo. Chi agisce in questo modo uccide volontariamente; chi lo giustifica fa propria una logica reazionaria che mette la proprietà privata sopra tutto. Chi accetta questo modo di pensare come normale e naturale si abitua alla barbarie e al sopruso.

La riflessione infatti va oltre il singolo caso. Dobbiamo essere in grado di riconoscere la pervasività della retorica securitaria che viene propagandata a reti unificate ogni volta che accade un fatto di questo genere e che finisce per attecchire anche in quei settori popolari contro i quali è rivolta. Cosa succede quando nella società intera, e persino a sinistra, la comprensione di un fenomeno sociale e la contestualizzazione degli episodi di criminalità cedono il passo al giudizio moralistico secondo cui un quindicenne che cerca di rubare un orologio di lusso e finisce ucciso a colpi di pistola in fondo “se l’è cercata”? Succede che questo tipo di retorica prepara il terreno per l’accettazione di misure che incrementano la possibilità di repressione e la discrezionalità delle forze dell’ordine in nome della “sicurezza”. Proprio in merito alla discrezionalità, basti pensare che a Napoli il carabiniere aveva con sé una pistola nonostante non fosse in servizio, proprio grazie a una norma voluta da Minniti in nome della lotta al terrorismo. Di fronte alla forza di questa retorica, che si è fatta strada anche nel campo della sinistra e persino in area comunista, è necessario alzare l’allerta dal punto di vista della battaglia ideologica e sarebbe sbagliato pensare a priori che esistano settori immuni.

I comunisti, tra l’altro, dovrebbero conoscere bene dove porta la retorica che invoca sicurezza e repressione. L’emblema di questa politica, così come della “legittima difesa” spinta al limite della giustizia privata, è rappresentato a livello globale proprio dagli Stati Uniti, e i risultati sono evidenti agli occhi del mondo intero. Gli USA hanno meno del 5% della popolazione mondiale, eppure hanno il 25% della popolazione mondiale carceraria: un carcerato su 4 nel mondo è statunitense. In un paese in cui i diritti sociali dei lavoratori vengono calpestati, le scuole pubbliche sono ridotte a pollai fatiscenti destinati ai figli di chi non può pagare un istituto privato e la sanità pubblica è inesistente, il disagio sociale generato dalla barbarie del capitalismo viene gestito come un problema di ordine pubblico a suon di manganello e carcere. Per non parlare dell’ampia discrezionalità di cui godono i poliziotti e del “grilletto facile” quando il criminale è afroamericano.

Non bisogna dimenticare che quando in nome della sicurezza viene preparato il terreno per l’accettazione di misure che incrementano la discrezionalità delle forze dell’ordine e la repressione, a pagarne le spese sono anche e soprattutto i lavoratori che alzano la testa e lottano per i propri diritti.

In questo senso, il problema per i comunisti non può ridursi nel commentare gli episodi di cronaca. Chi agisce semplicemente sul piano del commento moralista finirà per contestare la sinistra assumendo le parole d’ordine della destra, e non l’ottica della lotta di classe. Se si vuole agire concretamente in quest’ultimo campo invece, l’avanzata di certe visioni all’interno della società è un elemento con cui bisogna fare i conti e al quale bisogna essere capaci di contrapporre la nostra visione del mondo, e non fare propria quella del campo nemico. Sotto qualsiasi colore si presenti.
 
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