Resistere per vincereIl contenuto politico della lotta alla repressioneCon questo articolo vogliamo sviluppare una riflessione sulla necessità della comprensione, e della conseguente presa di responsabilità politica dei comunisti, della dialettica antagonistica tra movimento di classe e repressione: il processo di sviluppo del primo è in relazione all’evoluzione della seconda. Da questo nesso ne discende la nostra necessità di portare nella resistenza alla repressione e nella solidarietà di classe i contenuti politici adeguati a smascherare, da un lato, come la classe dominante faccia politica attraverso la repressione e per affermare, dall’altro, come dentro alle lotte economiche e di difesa i lavoratori, le donne e i giovani possano crescere politicamente trovandosi a dover resistere ai colpi della repressione.
Iniziare l’analisi da una lotta recente e concreta ci sembra un buon modo per capire come possiamo sviluppare il contenuto politico da porre, cercando di applicare la linea di massa [1] a partire da un esempio pratico, la lotta alla Toncar di Muggiò.
I lavoratori della Toncar, tutti immigrati e organizzati nel Si Cobas, sono in lotta da mesi dopo che l’azienda, attraverso il meccanismo del cambio d’appalto, ha iniziato un piano di licenziamenti nella totale illegalità, colpendo i lavoratori sindacalizzati. La Toncar è una fabbrica nel settore della stampa che opera da circa cinquant’anni con due siti produttivi, uno in Italia a Muggiò (Monza) e uno in Cina. La cooperativa One job tramite il cambio appalto, illegale, è stata sostituita da un’altra cooperativa con a capo gli stessi padroni. Senza nessuna comunicazione al sindacato, la nuova cooperativa voleva assumere tutti i lavoratori a tempo determinato e, violando le normative previste dal Ccnl, intendeva escludere i lavoratori a tempo indeterminato che lavoravano lì da anni. La Toncar, come molte altre aziende, si può permettere di fare queste operazioni perché gode di impunità e di connivenza da parte delle istituzioni e degli organi preposti al controllo, compresi i comandanti locali dei carabinieri. Dopo una prima vittoria siglata in Prefettura a Monza, dovuta alla lotta unita e determinata dei lavoratori con l’occupazione della fabbrica, sono ripresi gli scioperi e i presidi fuori dai cancelli contro il mancato rispetto degli accordi di riassumere tutti i licenziati. La Toncar voleva infatti imporre, come clausola vincolante per la riassunzione, la rinuncia all’adesione al Si Cobas. Contro questa lotta si sono schierati la polizia e i carabinieri a suon di manganellate, fermi, denunce, processi e minacce di rimpatrio, la stampa, le istituzioni e i sindacati di regime, in particolare la Uil, che ha lavorato alacremente per dividere i lavoratori siglando i nuovi contratti a tempo determinato. Di tutto ciò i lavoratori del Si Cobas hanno scritto: “Ancora una volta lo Stato dei padroni mostra gli artigli da leone contro i lavoratori che lottano per i loro diritti e fa la pecora servile di fronte ai padroni, assecondandone i soprusi e ponendosi quale suo “distaccamento militare” anche quando questi vengono meno agli accordi presi nelle “solenni” sedi istituzionali”.
Nell’Italia del DL Salvini, l’unico imperativo per chi ha a cuore gli interessi immediati e futuri dei lavoratori, è quello di resistere un minuto in più dei padroni e della repressione.” [2]
Questi fatti, simili a quelli che succedono in altre lotte, mostrano con tutta evidenza il vero volto dello Stato e delle sue istituzioni, ma anche la crescita della coscienza di classe da parte degli operai se, quando vengono colpiti dalla repressione, non arretrano. I lavoratori nelle assemblee si esprimono con chiarezza e ascoltandoli si ha la misura di come per essi, attaccati pesantemente dalla repressione, ma rafforzati da una lotta ideologica condotta da un sindacato conflittuale che spiega loro perché le cose succedono diventi sempre più chiaro che appartengono a una classe, riconoscano il nemico e il ruolo dello Stato e di tutti i suoi apparati.
“Lavoro qui da quasi 10 anni, per pagare il mutuo, mantenere i miei figli. Un giorno mi dicono che mi cambiamo contratto, quello nuovo è solo di sei mesi e senza molti diritti che nel vecchio c’erano. Il Si Cobas ci spiega che è tutto illegale e scendiamo in lotta. E quando vedo arrivare i carabinieri in forza penso che vengano ad arrestare il padrone che è nell’illegalità, invece ci aggrediscono e finisco io arrestato…Dopo lo spavento iniziale ho capito che non devo più avere paura, che sono nel giusto, che siamo lavoratori e che dobbiamo resistere tutti assieme.” Così si è espresso un lavoratore in un’assemblea di sostegno alla lotta in corso.
Prefettura, carabinieri, polizia, sindacati confederali, tribunali, giornalisti di regime si sono mobilitati all’unisono: un perfetto esempio di attacco reazionario dello Stato che ha mosso tutti i suoi apparati, compresi i corpi intermedi e, al tempo stesso, un’occasione di crescita della coscienza di classe in una lotta economica che, nel suo incedere, unisce alle rivendicazioni specifiche il contenuto politico della lotta contro il governo dei padroni e le sue leggi antioperaie. Qui emerge la relazione dialettica che possiamo sviluppare tra i due campi della lotta, quello economico e quello politico: relazione che può divenire esplicita se conquistiamo la capacità di sviluppare, al contempo, una lotta ideologica.
A fronte di questo esempio risulta importante, per chi si pone nella prospettiva di cambiamento radicale della società, formare dentro alle lotte, intese concretamente come scuole di comunismo, una nuova leva di compagni capaci di condurre dall’interno di esse la lotta ideologica, soprattutto quando si viene attaccati perché, paradossalmente, è un momento propizio per i comunisti: “Perché, in tutto il mondo, e anche in Russia, è spesso la polizia stessa che comincia ad imprimere un carattere politico alla lotta economica; gli operai cominciano a comprendere da che parte è il governo”. [3]
Per i compagni la questione non è quella “di imprimere alla lotta economica stessa un carattere politico”. Essa spesso – come scrive lo stesso Lenin – assume spontaneamente un carattere politico. Il compito dei comunisti è invece quello di “approfittare delle faville di coscienza politica che la lotta economica ha acceso negli operai per elevare gli operai fino alla coscienza politica socialdemocratica”. [4]
Quali elementi ideologici dobbiamo imparare e fornire ai lavoratori, alle donne e ai giovani dentro alle lotte economiche per fare questo? E con quale metodo? Ci rifacciamo a questo proposito a quanto scrisse lucidamente Lenin: “…La coscienza della classe operaia non può diventare vera coscienza politica se gli operai non si abituano a reagire contro ogni abuso, contro ogni manifestazione dell’arbitrio e dell’oppressione, della violenza e della soperchieria, qualunque sia la classe colpita… se non imparano ad applicare in pratica l’analisi e il criterio materialistico a tutte le forme di attività e di vita di tutte le classi….La coscienza delle masse operaie non può essere una vera coscienza di classe se gli operai non imparano ad osservare, sulla base dei fatti e degli avvenimenti politici concreti e attuali, ognuna delle altre classi sociali in tutte le manifestazioni della vita intellettuale, morale e politica se non imparano ad applicare in pratica l’analisi e il criterio materialistico a tutte le forme d’attività e di vita di tutte le classi, strati e gruppi della popolazione… Per diventare socialdemocratico, l’operaio deve avere una chiara visione della natura economica, della fisionomia politica e sociale del grande proprietario fondiario e del prete, dell’alto funzionario e del contadino, dello studente e del sottoproletario, conoscerne i lati forti e quelli deboli, saper discernere il significato delle formule e dei sofismi di ogni genere con i quali ogni classe e ogni strato sociale maschera i propri appetiti egoistici e la propria vera sostanza, saper distinguere quali interessi le leggi e le istituzioni rappresentano, e come li rappresentano. Ma non si potrà trovare in nessun libro questa ‘chiara visione’: la potranno dare solo gli esempi tratti dalla vita…”. [5]
Oggi, per applicare questa concezione, vanno analizzati ed elaborati alla luce della situazione concreta alcuni concetti fondamentali da trasmettere ai lavoratori:
lo Stato e i suoi apparati sono nemici, dal fascismo non è tornato indietro;
la legge non è uguale per tutti, ma è di classe; i tribunali sono un campo nel quale l’iniziativa è in mano al nemico;
ogni vittoria della lotta economica è temporanea fino a quando esisterà lo Stato borghese;
la lotta di classe si può rafforzare anche nel confronto/scontro con la repressione solo se la risposta è politica.
E il metodo che i comunisti devono apprendere e verificare nella loro militanza è quello di partire dalle esperienze concrete dei lavoratori, delle donne e dei giovani che si mobilitano a difesa delle proprie condizioni di vita, per accompagnarli nella comprensione generale della natura della società attuale e dello Stato, fino a renderli consapevoli, per esperienza diretta, della loro appartenenza ad una classe che per vincere deve organizzarsi e opporsi irriducibilmente ai padroni e al loro Stato, fino a strappare il potere dalle mani della borghesia. Non sono utili allo scopo lezioni intellettuali di tipo accademico e intrise di dogmatismo, ma elaborazioni e riflessioni sulla pratica di chi lotta oggi, rifacendosi ad insegnamenti di lotte grandi e piccole passate. È essenziale che la teoria non sia percepita come esercizio astratto, ma per come deve realmente essere: pratica elaborata attraverso la concezione politica del proletariato, il materialismo dialettico. Vediamo di capire meglio i concetti chiave espressi precedentemente.
Lo Stato e i suoi apparati sono nemici, dal fascismo non è tornato indietroL’apparato statale (che comprende esercito, polizia e tribunali) è lo strumento di una classe per opprimere un’altra classe, è lo strumento per l’oppressione di classi antagoniste… (Mao Tse Tung, Sulla dittatura democratico popolare, 1949) Dove ha origine il legame indissolubile tra lotta economica, politica e lotta alla repressione? Nella società divisa in classi nella quale viviamo il potere politico è in mano alla borghesia imperialista, pur nelle acute contraddizioni che la attraversano. Lo Stato ne garantisce il dominio: è lo strumento dell’oppressione politica che questa classe esercita sulle altre, la sua funzione e forma sono in continuo sviluppo e rimodellamento, in dialettica con il movimento degli antagonismi nella società, per contenerli o annientarli. La sua essenza è la controrivoluzione preventiva6. In esso si sommano i caratteri economico, politico ed ideologico. Nella democrazia borghese lo Stato è il punto d’arrivo di un concreto processo storico, un risultato degli antagonismi tra le classi sociali, di fatto un processo del continuo sviluppo e rimodellamento in relazione all’evolversi delle contraddizioni sociali. Lo Stato si trasforma in relazione alle formazioni economico-sociali dell’epoca a cui appartiene, non è immutabile, ma risponde alle necessità che la classe dominante ha per rimanere tale. La sua naturale essenza è la controrivoluzione preventiva, figlia della necessità di prevenire e stroncare gli antagonismi: una natura assunta e sviluppata dallo Stato borghese dopo la Rivoluzione d’ottobre per impedire sul nascere un’esperienza simile negli altri paesi. La borghesia imperialista rispose con il volto crudo della dittatura, in Italia con il fascismo a livello di potere politico e con lo Stato corporativo sul piano delle relazioni economico-sociali.
Il volto autoritario dello Stato, terminata la necessità imposta dal momento storico della dittatura terroristica, ha indossato la maschera della cosiddetta democrazia, mantenendo, però, inalterata la sua natura di controrivoluzione preventiva. Lo Stato ha modificato se stesso, ma gli strumenti attraverso cui la classe dirigente esercita il potere sulle altre classi rimangono invariati.
Ancora citando Lenin “la repubblica democratica è il miglior involucro politico per il capitalismo; per questo il capitale, dopo essersi impadronito (…) di questo involucro, che è il migliore, fonda il suo potere in modo talmente saldo, talmente sicuro, che nessun cambiamento, ne di persone, ne di istituzioni, ne di partiti nell’ambito della repubblica democratica borghese può scuoterlo”. [7] Gramsci ha arricchito la teoria sullo Stato analizzando la situazione italiana ed europea della sua epoca, quella del disfacimento del vecchio Stato liberale che ha portato al regime fascista. Questo passaggio ha reso evidente come la borghesia abbia dovuto rafforzare anche un’egemonia culturale per poter mantenere il proprio potere politico. Infatti, lo Stato nel suo complesso è sorretto dalla dittatura e dall’egemonia: una combinazione che al giorno d’oggi trova espressione nella “democrazia governante”, ossia una forma di governo che all’accentramento del potere fa corrispondere il massimo possibile della democrazia formale, rafforzando la dittatura mantenendo intatte le forme e i canali dell’egemonia “democratica”, concentrando maggiori poteri possibili nell’esecutivo. [8] La tendenza alla democrazia governante è in atto nella deriva autoritaria dello Stato borghese degli ultimi anni che, pur mantenendo la forma democratica esteriore, rafforza con l’autoritarismo la strategia della controrivoluzione preventiva. Abbiamo visto la democrazia governante all’opera in questi anni fino ai giorni nostri, quelli dei decreti sicurezza targati Salvini che mirano alla distruzione progressiva del ruolo dei corpi intermedi come i sindacati e all’annullamento dei rapporti di forza che le masse possono esprimere lottando.
E qui spendiamo poche parole per vedere come, con il primo decreto sicurezza e il decreto sicurezza bis, lo Stato dei padroni abbia affinato nuove armi per reprimere le lotte proletarie, in particolare quelle dei lavoratori e attaccare i sindacati conflittuali. Il decreto-Salvini bis è un attacco frontale in questo senso e dà il via libera alle aggressioni poliziesche, padronali e fasciste. Voluto dalla Lega, sottoscritto dai Cinque Stelle, e firmato da Mattarella l’11 giugno e divenuto legge lo scorso agosto, completa e indurisce la normativa anti-proletaria contenuta nel primo decreto-sicurezza. Se il primo decreto-Salvini, del giugno 2018, aveva come bersaglio anzitutto i richiedenti asilo e i lavoratori immigrati, ma colpiva con altrettanta durezza i picchetti e le occupazioni di case, il decreto bis, invece, attacca direttamente le proteste e le manifestazioni. Ogni forma di opposizione e di resistenza diventa reato e come tale viene punita, non più solo come violazione amministrativa. L’uso di caschi, fumogeni, petardi e materiali “imbrattanti” è punito con l’arresto, se in flagranza, fino a 3 anni (anziché 2) e con l’ammenda fino a 6.000 euro (anziché 2.000). Sono inasprite tutte le sanzioni per danneggiamenti compiute nel corso di manifestazioni e anche manifestare senza preavviso diventa, da atto punibile con contravvenzione, reato. La pena prevista per interruzione, o anche solo ostacolo, di pubblico servizio nel corso di manifestazioni o eventi pubblici, come ad esempio un intervento durante un consiglio comunale, può arrivare a 2 anni e l’oltraggio a pubblico ufficiale è ora punibile con pene fino a 3 anni e sei mesi. Tali misure aggravano le pene previste dalla legislazione fascista (T.U. sulla pubblica sicurezza del 1931), dai decreti di emergenza del 1944 in periodo di guerra, e dalla liberticida Legge Reale del 1975. Queste misure preventive servono per scoraggiare ogni protesta di fronte alla crisi prossima ad una nuova e pesante impennata: le vertenze aperte, secondo i dati forniti dai sindacati, sono 160 (in crescita dai 138 tavoli aperti al Mise a inizio anno) e coinvolgono un numero compreso tra 80 mila e 280 mila lavoratori. Nel contempo viene ulteriormente militarizzato il Mediterraneo, favorendo così una selezione di classe degli emigranti dall’Africa: i padroni oggi hanno bisogno di lavoratori con istruzione e professionalità, di altri ne hanno già a sufficienza ad alimentare l’esercito industriale di riserva e a tenere bassi i salari.
Con i decreti Salvini il contrasto alle lotte degli sfruttati, specie se immigrati e organizzati in sindacato conflittuale, ha fatto un deciso passo avanti e così mafiosi e fascisti, da sempre vicini ai padroni, si sono sentiti legittimati ad attaccare con le loro squadracce i lavoratori in lotta.
In conclusione possiamo dire che la borghesia, pur ammantandosi della facciata democratica, dal fascismo non è mai tornata indietro. L’esempio italiano è chiaro sia per quel che vediamo succedere ai nostri giorni, che a livello storico: dopo la vittoria della Resistenza la continuità con il fascismo si è data sia a livello di figure chiave, sia di strutture. Il riciclo di personale fascista all’interno degli apparati statali e l’utilizzo della manovalanza fascista contro le lotte sono aspetti noti: basti pensare alle stragi di Stato e alla strategia della tensione e, oggi, all’utilizzo come mazzieri dei fascisti contro i picchetti dei lavoratori, alla loro legittimazione come promotori della divisione della classe e della mobilitazione reazionaria sul tema dell’immigrazione.
La legge non è uguale per tutti, ma è di classe, i tribunali sono un campo nel quale l’iniziativa è in mano al nemicoLo Stato, di fronte alle lotte, quando tutti gli altri strumenti non sono sufficienti a controllarle, interviene con la legge, con i tribunali, il carcere, le denunce, gli arresti. I lavoratori comprendono dalla loro esperienza che la legge non è uguale per tutti e che la risposta, per non essere schiacciati, deve essere politica. Accettare il terreno della repressione come fatto politico fa parte degli insegnamenti della storia del movimento comunista. Contro gli attacchi alla classe lavoratrice, dai licenziamenti politici agli arresti, si sono sviluppati storicamente organismi di solidarietà come le Casse di resistenza e il Soccorso Rosso. Nella repressione della lotta economica la risposta spontanea è la solidarietà, ma essa va organizzata e diviene centrale la lotta ideologica per l’unità e per l’individuazione del nemico di classe. Ciò permette il salto politico per tracciare una linea di demarcazione importante tra gli sfruttati e la borghesia (sottraendo i primi all’influenza ideologica della seconda), per riconoscersi come classe, per affermare che non si deve avere paura della repressione in quanto essa è parte della lotta.
Il terreno della repressione è una cartina di tornasole, un banco di prova, per capire se siamo nella strada giusta, per crescere, per sviluppare la coscienza di classe: è un momento nel quale la lotta ideologica è fondamentale. È il terreno nel quale appare più chiara e concreta la concatenazione dei tre piani della lotta del proletariato – ideologico, politico ed economico – mentre cadono le mistificazioni messe in campo dalla borghesia e diviene trasparente quello che Gramsci efficacemente affermò: “La lotta economica non può essere disgiunta dalla lotta politica e ne l’una ne l’altra possono essere disgiunte dalla lotta ideologica…”. [9]
La repressione si smaschera e mostra il suo carattere politico se c’è determinazione politica da parte di chi viene represso.
A questo proposito citiamo una sagace riflessione di Mao: “Per quel che ci riguarda, si tratti di un individuo, di un partito, di un esercito o di una scuola, io credo che la mancanza di attacchi da parte del nemico contro di noi sia una cattiva cosa, poiché significa che noi facciamo causa comune col nemico. Se siamo attaccati dal nemico, è una buona cosa, poiché ciò dimostra che abbiamo tracciato una linea di demarcazione nettissima tra noi e il nemico. Se esso ci attacca violentemente, dipingendoci con i colori più cupi e denigrando tutto quello che facciamo, si tratta di una cosa ancora migliore, poiché ciò dimostra non solo che abbiamo stabilito una linea di demarcazione netta tra il nemico e noi, ma anche che abbiamo conseguito notevoli successi nel nostro lavoro”. [10]
L’uso dei tribunali e del carcere anche per le lotte economiche e sindacali non è esclusiva del ventennio, ma cosa che accade sempre più spesso ai nostri giorni. Non si tratta solo di una questione di rapporti di forza, ma anche di condizioni della fase storica che si attraversa. Oggi, nella profonda e irreversibile crisi che scuote il capitalismo, lo Stato borghese sempre più vi ricorre. Nella crisi, con un rapporto di forza sfavorevole alla nostra classe, e sotto i suoi effetti, gli attacchi sono pesantissimi. Questo per la necessità impellente da parte dei padroni di mantenere le condizioni compatibili con il profitto capitalista. Sono in continua diminuzione gli spazi di mediazione e la repressione verso la lotta economica della classe è in aumento. Assistiamo così a continui attacchi alle lotte anche sindacali dei lavoratori, ma anche alla lotta per la casa, per l’ambiente (si pensi alle lotte No Tav, No Tap, No Muos…).
Il binomio lotte/repressione va comunque sempre contestualizzato per non cadere nella diffusa convinzione che più forte è la lotta, meno forte sia la repressione e che la risposta conseguente debba essere la radicalizzazione della lotta. Va lottato sia contro la linea opportunista che diffonde paura e scoraggiamento, sia contro quella estremista che non tiene conto delle condizioni oggettive e soggettive nelle quali è maturata la mobilitazione. Abbiamo assistito negli ultimi anni ad un attacco alla lotta economica, ad esempio a quella sulla casa, con i reati associativi, in questo caso l’associazione a delinquere. Di solito i reati associativi sono stati usati contro determinazioni politiche o criminali soggettive, ma oggi la contingenza è diversa e ci troviamo di fronte ad attacchi spietati alle lotte, anche se non pongono la questione del potere. Questo accade perché i capitalisti e i loro Stati dentro alla crisi hanno la necessità impellente di inasprire lo sfruttamento per aumentare il saggio di profitto e di conseguenza di impedire tutte le lotte che richiedono anche solo migliori condizioni economiche e di distruggere sul nascere aree di movimento che potrebbero partorire determinazioni politiche. Vanno qui presi in considerazione lo scopo preventivo dell’uso di questi reati e il concetto che la repressione delle lotte e la repressione politica sono distinte e allo stesso tempo unite e in ogni momento va capita la dialettica che le lega per agire di conseguenza.
I reati associativi sono il perfetto esempio del fatto che lo Stato borghese dal fascismo non è tornato indietro. Coniati durante il ventennio, nati per perseguire comunisti e anarchici, gli articoli del famigerato Codice Rocco, nel corso degli anni, sono stati “ammodernati”, come ad esempio il noto art. 270 c.p. che da associazioni sovversive è divenuto 270 bis c.p., associazioni con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico negli anni Settanta e, infine, ai giorni nostri associazioni con finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico. In questa ultima modifica, corrispondente al periodo storico del rilancio della guerra imperialista e dell’attacco spietato alle organizzazioni di appoggio alla resistenza dei popoli oppressi, l’articolo si è sviluppato con numerosi commi 270-ter, 270-quater, 270-quater.1, 270-quinquies, 270-sexies. Naturalmente, oltre che ad allargare il raggio repressivo, sono aumentate le pene minime e massime.
Quando si ha a che fare con gli arresti e i processi come difendersi?
Il tribunale non è un luogo di lotta come gli altri, siamo in casa del nemico che detta le regole del gioco. Solidarietà, unità, continuità della lotta sono regole importanti, ma la cosa fondamentale è segnare una chiara linea di demarcazione: stabilire la nemicità. Con questo atteggiamento si smaschera il fatto che il processo condotto dalla classe dominante è politico, non è politico in base al reato contestato, ma alla linea di difesa processuale e alla condotta dell’imputato.
Stabilire la nemicità non si riduce ad estremizzarne il concetto rifiutando la difesa offerta dal diritto borghese, ma significa comprendere la distinzione tra lotta economica e politica e attaccare, con armi politiche, anche la giustizia borghese. Trasformare il processo alla lotte in processo di lotta, questa è la linea di condotta. E fare questo rifiutando il piano esclusivamente processuale, intessendo la relazione tra linea in aula degli imputati e mobilitazione esterna di denuncia.
Ogni vittoria della lotta economica è temporanea fino a quando esisterà lo Stato borghese
Ogni conquista della classe, fino a quando la borghesia avrà in mano il potere, è solo temporanea come mostra l’attacco di questi ultimi decenni a tutte le formidabili conquiste operaie strappate con anni di lotta. Lo Stato borghese con tutti i suoi apparati non va considerato solo come espressione dei rapporti di forza tra le classi, ma anche come entità da attaccare per strappare il potere dalle mani dei padroni. Citando Gramsci: “(…) dopo l’espansione del parlamentarismo, del regime associativo sindacale e di partito, del formarsi di vaste burocrazie statali e «private» (politico-private, di partiti e sindacati) e le trasformazioni avvenute nell’organizzazione della polizia in senso largo, cioè non solo del servizio statale destinato alla repressione della delinquenza, ma dell’insieme delle forze organizzate dallo Stato e dai privati per tutelare il dominio politico ed economico delle classi dirigenti. In questo senso, interi partiti «politici» e altre organizzazioni economiche o di altro genere devono essere considerati organismi di polizia politica, di carattere investigativo e preventivo”. [11]
Contrastare e combattere tutto ciò e mantenere le conquiste è in rapporto strettamente dialettico con la costruzione e la lotta per l’autonomia politica del proletariato, con il lavoro per dare vita alla sua organizzazione politica rivoluzionaria. Come comunisti che oggi si formano alla scuola delle lotte dobbiamo riporci e riporre il problema della lotta per il potere e per questo la lotta ideologica diviene importante sconfiggendo gni tabù e demonizzazione che ha preso piede su questo termine.
Il dibattito sulla questione del potere non è novità: è uno scontro ideologico da sempre aperto dentro al movimento comunista, di classe e antagonista. Già Lenin scriveva che gli anarchici, sostenitori accaniti della lotta contro ogni autorità, potevano essere considerati alla stregua degli estremisti di ogni tempo, noncuranti delle condizioni oggettive e sociali del presente, senza considerazione alcuna del rapporto mezzi-tattica-obiettivi, in buona (e cattiva) fede degli idealisti. Le idee di uguaglianza, fraternità e giustizia, senza una concezione politica della realtà nella quale dovevano essere calate, sono rimaste, e sempre lo saranno, astratte concezioni etiche.
La lotta di classe si può rafforzare anche nel confronto/scontro con la repressione solo se la risposta è politicaE qui possiamo trarre delle conclusioni. La repressione diviene un ottimo crogiuolo per rafforzare la lotta, pena la sua sconfitta, ma soprattutto per formare e consolidare la coscienza di classe. Della repressione non bisogna avere paura e bisogna attrezzarsi per affrontarla non solo nel momento nel quale la si subisce, ma anche organizzandosi meglio per evitarla. La nostra classe oggi è profondamente debole nei rapporti di forza e subisce attacchi repressivi su tutti i piani, tra loro concatenati: va capito come lavorare per riprendere in mano la questione su tutti tre i fronti, soprattutto quando veniamo attaccati. Va risposto prendendo il toro per le corna, quindi sul piano politico, lo sviluppo della solidarietà va accompagnato con la lotta ideologica e politica dei comunisti.
In prospettiva la lotta rivoluzionaria si affermerà solo sconfiggendo la controrivoluzione che essa stessa ha suscitato. L’uso della repressione non è una dimostrazione di forza dello Stato borghese, ma al contrario della sua crisi e della sua debolezza, una dimostrazione del fatto che essa non è in grado di risolvere “pacificamente” le contraddizioni che il suo dominio produce.
Come per la borghesia “dal fascismo non si torna indietro”, così anche per i compagni non si deve tornare indietro dagli insegnamenti della Resistenza e da quelli delle esperienze rivoluzionarie degli anni Settanta e Ottanta. Il patrimonio di conoscenze e pratiche va trasmesso: dalla Resistenza impariamo che nemmeno la repressione più brutale ha potuto fermare le masse in mobilitazione sotto la guida dei comunisti. Essa è stata allora scuola di solidarietà di classe e si sono sviluppate organizzazioni come Soccorso Rosso, reti di solidarietà per esiliati e latitanti che sono divenute strumenti di appoggio alla guerra di Resistenza partigiana. Anche oggi ogni episodio di repressione può, anziché indebolire la lotta di classe in generale, rafforzarla. Ogni attacco può essere trasformato in promozione e allargamento della solidarietà proletaria e soprattutto può essere una scuola per la formazione di nuovi comunisti se si impara ad agire dialetticamente sui diversi piani della lotta: ideologico, politico ed economico.
Note:
[1] vedi nel glossario: LINEA DI MASSA
www.tazebao.org/glossario-antitesi-n-7/[2]
https://sicobas.org/2019/03/14/comunicatot...ggia-i-padroni/[3] Lenin, Che Fare?, Opere Scelte vol.1 p. 301 Editori Riuniti
[4] Ibid p. 302 Editori Riuniti
[5] Ibid p. 209
[6] Vedi Antitesi n°0
Sezione 4: Controrivoluzione, repressione e solidarietà di classe
Articolo: “Cosa intendiamo per controrivoluzione preventiva”
https://www.tazebao.org/cosa-intendiamo-pe...one-preventiva/[7] Lenin, Stato e rivoluzione,
www.marxists.org/italiano/lenin/1917/stat-riv/index.htm[8] Vedi Antitesi n° 3
Sezione 4: Controrivoluzione, repressione e solidarietà di classe
Articolo: “La democrazia governante”
www.tazebao.org/controrivoluzione/[9] Gramsci, Necessità di una preparazione ideologica di massa, 1925, in Scritti politici, Editori Riuniti, 1971 p. 600.
[10] Mao Tse Tung, Essere attaccati dal nemico è un bene e non un male, in Opere di Mao Tse Tung in 25 volumi, versione cd rom, vol 7, p. 58.
[11] Gramsci, Il moderno principe, il partito e la lotta per l’egemonia: Quaderno 13, Donzelli, 2012, p. 208
www.tazebao.org/resistere-per-vincere/