Comunismo - Scintilla Rossa

i fronti popolari in europa, edizioni movimento studentesco

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carre
view post Posted on 25/6/2012, 17:09 by: carre
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Introduzione


Gli scritti raccolti in questo volume si riferiscono a un periodo fondamentale della storia del movimento operaio, il periodo dei Fronti popolari, delle grandi battaglie impegnate dal proletariato e dalle masse per sbarrare la strada al fascismo e alla guerra.
Su quegli anni è spesso ritornata, e ritorna oggi con maggiore insistenza, la riflessione storica e politica, sia di parte borghese che di sinistra.
Tuttavia, sebbene gli articoli e i saggi sull'argomento costituiscano un materiale abbondante e coprano un vasto ambito di aspetti e di problemi, si può ben dire che manchi ancora una visione complessiva del periodo considerato nella sua dimensione mondiale ed europea, e una specificazione rigorosa dei problemi centrali di quella esperienza politica.
Opere come quella dello Spriano (Spriano, Storia del PCI, in particolare il vol. III, I Fronti popolari, Stalin e la guerra, Einaudi) si limitano a interpretare il rapporto tra politica di Fronte popolare e specifica realtà nazionale, e possono quindi essere solo parzialmente utilizzate, anche prescindendo dal loro contenuto, per una visione storica sintetica e approfondita della totalità del periodo, che sola consente un bilancio storico e politico dell'analisi teorica e dell'azione svolta allora dal proletariato, sotto la guida dell'Internazionale Comunista.
Solo partendo da questa visione complessiva è fra l'altro possibile determinare le particolarità politiche nazionali assunte dal movimento operaio dei diversi paesi, senza cadere nel contempo nel particolarismo o nell'« eccezionalismo ».
L'interpretazione eccezionalista, prima di divenire una corrente storiografica, è stata in varie fasi della storia dell'IC una teoria politica.
Il termine di eccezionalismo fu applicato dall'IC a tutte quelle tendenze che esaltavano in modo unilaterale le caratteristiche nazionali e si esprimevano in « reinterpretazioni » della linea originale, nelle quali la pur giusta esigenza di adattarsi alle condizioni specifiche del proprio paese si confondeva sovente con il tentativo di svincolare la propria sezione nazionale dalle direttive e dalla disciplina comuni.
Data poi la prevalenza, il peso politico preponderante che la delegazione russa all'IC aveva, questo problema si intrecciava con quello dei rapporti tra la politica delle singole sezioni e la politica del Partito e anche dello Stato russo.
I rapporti tra il PCd'I e l'IC furono a varie riprese burrascosi, e si può ben dire che una questione italiana esistette, seppure con differenti contenuti, anche dopo il superamento del contrasto tra la prima direzione di Bordiga e l'IC.
La tendenza storiografica dominante nel campo revisionista mostra oggi di occuparsi particolarmente di tale questione, dei rapporti intercorsi tra PCI e IC, rovesciando, nel contempo, a questo proposito, i giudizi sostenuti fino ai primi anni '50.
La svolta del XX Congresso del PCUS, dando via libera alle tendenze apertamente opportuniste e revisioniste, opera diversamente nelle varie realtà nazionali. È in particolare il revisionismo italiano a sviluppare più profondamente una propria « originale » elaborazione, mentre altri partiti (ad esempio quello francese), accoppiano a una pratica parlamentaristica e riformista, un richiamo verbale persistente alle precedenti formulazioni politiche e teoriche.
La odierna storiografia ufficiale del PCI, specie con Spriano, rivendica anche per il passato del Partito quella « originalità » che i suoi dirigenti si affannano per il presente a dimostrare.
Si ravvisa, da parte degli storici revisionisti, nella politica dell'IC, tutta una serie di gravi errori, specie di settarismo e comunque di sinistra, in particolare all'epoca del X Plenum, imposti forzatamente alle varie sezioni (tra cui quella italiana).
In realtà le posizioni non sono del tutto omogenee anche nella storiografia revisionista, e vanno da quella di Spriano, fortemente critica verso l'IC, a posizioni più sfumate, quali ad esempio quelle di Ernesto Ragionieri. Giustamente Ragionieri fa rientrare (vedi E. Ragionieri, Il giudizio sul fascismo. La lotta contro il fascismo. I rapporti con l'Internazionale Comunista. Nel volume Problemi di storia del PCI, Editori Riuniti) la questione dei rapporti con l'IC nella questione generale e fondamentale della « persistenza e continuità dell'azione politica intrapresa dal nuovo gruppo dirigente — quello raccolto intorno a Granisci e poi Togliatti — del PCI. » Infatti, « come si può parlare di una sostanziale continuità a proposito della linea di un partito ferreamente inquadrato nei ranghi disciplinati e serrati dell'Internazionale Comunista, e che di questa risente i bruschi salti e le rapide svolte di direzione nel 1929 non meno che nel 1934? » La questione della « continuità » è fondamentale perché investe le origini e la legittimità della « via italiana al socialismo », della sua continuità appunto, benché nelle mutate condizioni storiche, con la linea precedente.
Quanto a noi, non crediamo proprio che di continuità si possa parlare tra l'attuale politica del PCI e quella storicamente precedente, anche se indubbiamente è possibile ritrovare in alcune posizioni, allora condannate dall'IC e oggi rivalutate dai revisionisti, i germi delle future deviazioni.
Spriano, ad esempio, ravvisa negli errori di eccezionalismo del PCI (vedi il X Plenum) una alternativa possibile alla linea dell'IC, allora impedita a realizzarsi ma destinata a trionfare successivamente.
Eppure lo stesso Ragionieri, che pure critica la politica dell'IC in quel periodo, deve ammettere alla fine che « in tutta la complessa fase di svolta che tra il 1934 e il 1935 portò l'IC a correggere la linea della 'classe contro classe' e del `socialfascismo' e ad inaugurare la politica dei Fronti popolari, sarebbe profondamente errato rappresentare il PCI in quanto tale o Togliatti, che in quegli anni esercitava funzioni direttive di primo piano nell'IC, come anticipatori di esperienze decisive o come portatori di una spinta politica risolutiva. »
Queste differenziazioni di giudizio fra gli storici più in vista del PCI si spiegano a partire dalla comprensione dell'evoluzione subita dalla politica del partito stesso.
Ci sembra che la linea di « nuova maggioranza », quale Togliatti l'aveva elaborata, permetteva negli anni addietro un'analisi storica tale da non rinnegare completamente, sull'altare dell'accordo con la Democrazia Cristiana, il patrimonio rivoluzionario del passato.
Non a caso Ragionieri è propriamente lo storico di Togliatti, il curatore delle sue opere.
Spriano rappresenta invece l'attuale ulteriore svolta a destra del PCI, della politica di « nuova maggioranza » divenuta ormai la politica dell'accordo ad ogni costo con la DC, del « compromesso storico ».
Questo processo era naturalmente implicito nella stessa concezione della « nuova maggioranza » di Togliatti, ma solo il tempo poteva condurlo (e questo processo non si e ancora concluso) a risolversi nella sua essenza socialdemocratica.
Un nodo storico fondamentale, in relazione ai problemi attuali, è rappresentato proprio dall'esperienza dei Fronti popolari, dalla fase della loro preparazione a quella della loro attuazione con sviluppi ed esiti assai diversi nelle varie situazioni. Mentre su avvenimenti più lontani (pur nell'accademismo che li relega quali elementi di « decorativismo rivoluzionario » sullo sfondo), l'analisi revisionista mantiene una qualche apparenza di serietà e approfondimento, riguardo agli avvenimenti che formano la nostra storia recente (e continuano a operare nel presente) l'accademia può esercitarsi solo sui particolari secondari, e nelle questioni fondamentali infine deve lasciare decisamente il passo alla falsificazione.
Entrando in polemica con questo modo di riscrivere la storia, eviteremo tuttavia di indulgere a nostra volta in un'interpretazione puramente strumentale, seppure con intenti e segno opposto, che, invece di affidarsi all'analisi concreta e viva del periodo storico in esame, si basi esclusivamente sulle esigenze della polemica.
Non intendiamo operare un recupero acritico della politica svolta in quegli anni dall'IC, né ridurre l'esperienza dei Fronti popolari a mitico richiamo, ma intendiamo invece studiarne lo svolgimento storico, le contraddizioni, le vittorie e le sconfitte, in modo da definirne il nucleo fondamentale, i grandi principi ispiratori, per rapportarli alla realtà presente.
Non si tratta quindi, come ci rimproverano i critici revisionisti del PCI e quelli piccolo borghesi del Manifesto, di riesumare parole d'ordine e concezioni ormai « logore », ma di situare le enunciazioni teoriche e le direttive politiche nel loro contesto, dimostrarne l'intima vitalità e coerenza, e quindi risalire dalla comprensione del passato alla comprensione del presente, alla definizione di nuove direttive che, sulla base dell'esperienza storica complessiva, abbiano validità attuale.
A chi si avvicina allo studio del periodo che si apre con il 1934 e si conclude nel 1939, si pone subito il problema del perché della nuova politica che allora s'inaugura, ricevendo piena formulazione al VII Congresso, vale a dire il problema delle origini e del significato generale della politica di Fronte popolare.
Si pone, qui, per l'IC nel suo complesso, il problema della continuità con la politica precedente. La critica di parte revisionista, e anche trotskista, tende a sottolineare il carattere di svolta del VII Congresso, rispetto alla politica, definita settaria e ultrasinistra, del X Plenum (luglio 1929).
Secondo l'interpretazione revisionista, il VII Congresso è un momento di rottura radicale con il passato e l'inizio, seppure ancora « incerto », di una nuova politica che in Italia (attraverso le tappe di sviluppo dell'unità d'azione con i socialisti e quindi dell'ampio fronte nazionale della Resistenza) con la collaborazione — intesa ormai in senso « strategico » — delle « tre grandi correnti storiche, socialista, comunista e cattolica, rappresentate dai loro partiti », si sarebbe legittimamente trasformata nell'attuale politica del « compromesso storico ».
La stessa impostazione, pur rovesciata nel giudizio, è seguita da una certa critica di stampo trotskista, secondo la quale, esistendo una continuità ininterrotta tra l'attuale politica del PCI e il VII Congresso dell'IC, le radici del revisionismo affonderebbero nei tempi e nelle scelte dei Fronti popolari.
Poiché queste interpretazioni possono essere criticate solo a partire dalla comprensione storica reale, cercheremo di tracciare le linee generali evolutive della politica di Fronte unito e della sua trasformazione nella politica di Fronte popolare.

Origine della tattica di Fronte unito


La guerra imperialista e la Rivoluzione russa del 1917 avevano aperto in Europa una crisi rivoluzionaria di dimensioni e profondità sino allora sconosciute.
L'apparato di produzione e di scambio del capitalismo europeo era uscito distrutto dalla guerra, la crisi colpiva paesi vinti e paesi vincitori, le masse davano inizio a grandi lotte non solo economiche, ma propriamente politiche rivoluzionarie. In Germania la rivoluzione che aveva abbattutto la monarchia appariva solo come il prologo della rivoluzione proletaria. In Baviera e in Ungheria si formarono repubbliche sovietiche.
In Italia l'ondata rivoluzionaria occupa l'intero biennio 1919-1920, con le lotte grandiose contro il caro-vita e l'occupazione delle fabbriche.
In questa situazione la Rivoluzione d'Ottobre appariva solo come il prologo della rivoluzione proletaria europea. Lenin nel gennaio del 1919 prende l'iniziativa di convocare il congresso di fondazione della nuova Internazionale rivoluzionaria, dopo il fallimento storico della Internazionale socialdemocratica.
L'appello viene firmato, oltre che dal Partito bolscevico, dai comunisti polacchi, ungheresi, tedeschi, austriaci, lettoni, finlandesi, balcanici.
Il periodo storico attraversato veniva definito come quello « della decomposizione e del crollo dell'intero sistema capitalistico mondiale » e « del crollo della civiltà europea in generale » qualora non fosse stato distrutto il capitalismo con le sue insolubili contraddizioni.
L'obiettivo del proletariato era dunque in quel momento direttamente quello della presa del potere, nella forma propria dell'esperienza bolscevica, secondo i principi già indicati da Marx nella sua opera sulla Comune di Parigi: distruzione dell'apparato statale borghese, dell'esercito permanente, della burocrazia e del sistema parlamentare, sua sostituzione con un apparato tipicamente proletario, lo Stato dei Consigli, incarnazione storica determinata della dittatura proletaria.
L'Internazionale Comunista nasce come organizzazione di combattimento, per dirigere l'intera azione dei vari reparti del proletariato europeo e mondiale verso la conquista del potere. La socialdemocrazia, che durante la guerra si era schierata nei vari paesi al seguito della propria borghesia, spingendo così milioni di operai a massacrarsi reciprocamente, era divenuta alla fine del conflitto il rappresentante politico dell'ordine capitalistico minacciato ovunque dall'assalto rivoluzionario delle masse.
Nei confronti della socialdemocrazia, durante il biennio 1919-1920, la tattica sarà quella che lo storico cecoslovacco Hajek ha definito dell'« attacco senza tregua ».
Non bisogna dimenticare che la rivoluzione in Russia aveva visto il proletariato scontrarsi, nell'assalto finale, proprio con i capi social-democratici menscevichi che, ultima debole difesa dell'ordine capitalista, costituivano il governo della borghesia in quella situazione.
Inoltre la socialdemocrazia europea di destra continuò ad appoggiare i menscevichi e i socialisti rivoluzionari anche quando questi passarono alla lotta armata contro il potere sovietico.
La tattica fissata al I Congresso dell'IC stabiliva:
« ... Nei confronti dei socialpatrioti, che dovunque nei momenti critici si oppongono armi alla mano alla Rivoluzione proletaria, è possibile solo la lotta implacabile.
« Nei confronti del 'centro' la tattica del distacco degli elementi rivoluzionari e della critica spietata e dello smascheramento dei capi. Ad una certa tappa dello sviluppo, sarà assolutamente necessaria la rottura organizzativa degli elementi del centro. »
Il processo di disgregazione della socialdemocrazia aveva portato alla differenziazione, nelle sue file, di una destra che, nella Conferenza di Berna, aveva ridato vita alla Seconda Internazionale, e di un centro che raggruppava, insieme a vecchi capi opportunisti come Kautsky, una forte ala rivoluzionaria, che premeva per l'ingresso nell'IC. Il centro era dunque destinato a spaccarsi, e la tattica dell'IC operò decisamente in questa direzione, fissando ad esempio i 21 punti che regolavano l'adesione, nel timore giustificato di essere « invasa » da gruppi indecisi ed esitanti che non avevano ancora veramente rotto con l'ideologia della Seconda Internazionale, e per evitare che la nuova Internazionale potesse divenire una federazione di partiti e tendenze eterogenee.
L'esperienza ungherese, dove i socialdemocratici che si trovavano uniti con i comunisti nel medesimo partito avevano con la loro indecisione e il loro sabotaggio contribuito alla sconfitta e alla caduta del potere dei Soviet, confermò la consistenza di questo pericolo.
Fu nel periodo successivo al II Congresso mondiale, che aveva visto il culmine del movimento rivoluzionario in Europa, che maturò nell'IC la coscienza della necessità di una nuova tattica.
Ecco come Mathias Rakosi descrive il processo che doveva portare a questa svolta politica:
« Il Terzo Congresso dell'IC, che si riunì nel giugno 1921, dovette affrontare nuovi compiti. Essi erano in parte determinati dal fatto che l'IC comprendeva già oltre cinquanta sezioni, tra cui grandi partiti di massa dei paesi europei più importanti, il che faceva sorgere problemi di tattica e di organizzazione; ma soprattutto lo erano dal fatto che lo sviluppo della rivoluzione e il crollo del capitalismo subivano un certo rallentamento che non si era potuto prevedere all'epoca del I e II Congresso. Dopo il crollo delle potenze centrali, l'ondata rivoluzionaria era mostruosamente forte e si aveva l'impressione che la rivoluzione proletaria avrebbe immediatamente fatto seguito alla rivoluzione borghese. In Ungheria e in Baviera il proletariato era riuscito a impadronirsi del potere, e anche dopo la disfatta delle repubbliche sovietiche di Ungheria e di Baviera la speranza in una vittoria rapida della classe operaia non era scemata. Ci si ricordi l'epoca in cui l'Armata Rossa era di fronte a Varsavia e il proletariato intero si preparava fieramente a nuove lotte. Ma la borghesia si dimostrò più capace di resistere di quanto non si fosse creduto. La sua forza consisteva innanzitutto nel fatto che i socialtraditori, che durante la guerra si erano così `eroicamente' battuti contro il proletariato, si rivelarono anche dopo la guerra come i migliori sostegni del capitalismo barcollante. In tutti i paesi in cui la borghesia non poteva più restare padrona della situazione, essa consegnò il potere ai socialdemocratici. Furono i governi socialdemocratici di Noske e di Ebert in Germania, di Renner e Otto Bauer in Austria, di Tusar in Cecoslovacchia, di Bóhm e Garami in Ungheria, che ressero gli affari della borghesia durante il periodo rivoluzionario e soffocarono nel sangue i tentativi di liberazione del proletariato.
« L'apparente prosperità che seguì immediatamente la guerra, permettendo ai capitalisti di occupare i soldati smobilitati, costituì anch'essa un ostacolo alla rivoluzione. La borghesia riuscì a calmare gli operai senza lavoro fornendo loro sussidi. A tutto ciò venne poi ad aggiungersi un fenomeno importante sul piano psicologico, cioè la stanchezza della maggior parte della classe operaia che usciva a stento dalle sofferenze e dalle privazioni subite durante i quattro anni della guerra imperialista. Infine i partiti comunisti, a cui incombeva il compito di dirigere e coordinare la lotta del proletariato, erano ancora in via di formazione, troppo deboli, e spesso adottavano errati metodi di lotta. Tutte queste circostanze permisero alla borghesia di riunire lentamente le proprie forze, di riacquistare fiducia e di riconquistare alcune delle posizioni perdute. Quando non ebbe più bisogno di loro, la borghesia scacciò i socialisti dal governo in tutti i paesi in cui essi ne facevano parte e i capitalisti ripresero nelle loro mani la conduzione dei propri affari. Crearono organizzazioni illegali, armando la parte cosciente della borghesia e passarono all'attacco contro la classe operaia. Nel frattempo la situazione economica aveva subito anch'essa profonde trasformazioni. Nel primo periodo degli anni venti una crisi si era profilata in Giappone e in America, crisi che si era estesa via via a tutte le nazioni industriali. Il consumo decrebbe rapidamente, la produzione calò ancora. Le lotte difensive degli operai assunsero ampie dimensioni ma si conclusero con disfatte, il che rafforzò la posizione della borghesia.
« Tale era la situazione quando si aprì il III Congresso dell'IC. Il Congresso esaminò innanzitutto lo stato dell'economia mondiale e successivamente affrontò la questione della tattica che si rendeva necessaria nella nuova situazione. La borghesia si rafforzava, così come i suoi servitori, i socialdemocratici. L'epoca delle vittorie facili conseguite dall'IC, nel corso degli anni immediatamente successivi alla guerra, era passata. In attesa di nuove lotte rivoluzionarie, dovevamo ricostituire e rafforzare le nostre organizzazioni e scalzare le posizioni dei riformisti con un lavoro ostinato in seno alle organizzazioni operaie.
« L'occupazione delle fabbriche in Italia, lo sciopero di dicembre in Cecoslovacchia, l'insurrezione di marzo in Germania mostravano che i partiti comunisti, anche se combattevano manifestamente per gli interessi di tutto il proletariato, non ce la facevano a vincere contro le forze unite della borghesia e della socialdemocrazia, non solo perché essi non godevano della simpatia delle larghe masse, ma anche perché queste masse non erano state convogliate direttamente nelle loro organizzazioni, dopo che erano riusciti a strapparli a organizzazioni diverse. È per questo che il Congresso lanciò la parola d'ordine: 'Andare alle masse'. Nell'Europa occidentale, i partiti comunisti dovevano fare tutto ciò che fosse loro possibile per obbligare i sindacati e i partiti che si appoggiavano alla classe operaia a una azione comune, in favore degli interessi immediati della classe, preparando intanto la classe stessa all'eventualità di un tradimento da parte dei partiti non comunisti. » (M. Rakosí in I Congressi dell'Internazionale Comunista, Samonà e Savelli, Roma 1970).
All'epoca del III Congresso dunque, nella situazione di crisi economica, il proletariato, sottoposto all'attacco della borghesia, colpito dalla disoccupazione e da un generale peggioramento delle condizioni di vita, sentiva la necessità di ritrovare la propria unità di lotta.
Le scissioni dei partiti socialdemocratici, nel periodo 1919-1920, erano state necessarie per organizzare l'avanguardia del proletariato, nell'imminenza della lotta per il potere.
Ora il relativo rallentamento della rivoluzione in Europa, l'offensiva capitalistica e la tendenza spontanea del proletariato all'unità, rendevano possibile e necessaria una nuova tattica, capace di trascinare sul terreno della lotta rivoluzionaria conseguente la maggioranza del proletariato.
Già nel gennaio del '21, Paul Levi e Karl Radek inviarono a nome della KPD una « Lettera aperta » ai sindacati, al SPD e anche all'USPD e alla KAPD, rivolgendo loro un appello per organizzare un fronte unico di lotta per la difesa delle elementari condizioni di vita delle masse, per lo scioglimento delle organizzazioni militari illegali della borghesia e per la costituzione di organismi di autodifesa proletari.
La « Lettera aperta » incontrò l'opposizione di Zinoviev e di Bucharin.
Fu invece appoggiata da Lenin, che poi al II Congresso doveva definirla « un modello di mossa politica ».
Una forte opposizione alla nuova tattica esisteva anche nella KPD; Clara Zetkin e Paul Levi si dimisero infatti dal Comitato centrale del Partito.
Poco dopo le loro dimissioni, sotto le pressioni del rappresentante dell'Esecutivo dell'IC Bela Kun, la KPD, in seguito alla occupazione militare della zona di Halle-Merzeburg in Sassonia, lancio io sciopero insurrezionale.
I comunisti rimasero però isolati e, alla fine di marzo, dovettero porre fine all'azione.
L'« Azione di Marzo » doveva dar luogo a violente polemiche tra l'ala sinistra del partito e Paul Levi, Clara Zetkin e Karl Radek che accusavano l'Esecutivo dell'IC e la Centrale tedesca di putschismo.
La sinistra sosteneva la cosiddetta « teoria dell'offensiva », secondo la quale la parte più avanzata della classe operaia, anche se minoritaria, doveva passare all'azione rivoluzionaria diretta, e trascinare in questo modo dietro a sé il resto del proletariato, ancora passivo.
In questa forma la « teoria dell'offensiva » veniva contrapposta alla politica inaugurata dalla « Lettera aperta », e fu fatta propria da varie sezioni dell'Internazionale, tra cui quella italiana, che, con Terracini, sosteneva che, per la lotta rivoluzionaria, non era necessario conquistare la maggioranza della classe operaia. Lenin si schierò decisamente contro queste posizioni, affermando la necessità per i partiti comunisti di impossessarsi della direzione effettiva della maggioranza della classe operaia, e di non ridurre la propria azione alla sola « lotta al centrismo ».
Lenin continuò insomma al III Congresso la lotta contro la tendenza ultrasinistra già iniziata nell'aprile del '20 con l'Estremismo. Conviene ricordare che esso fu scritto da Lenin in un momento in cui il movimento rivoluzionario in Europa era in piena fase ascendente: è tanto più importante ricordare come Lenin, anche in quelle circostanze così favorevoli, non dimenticasse la necessità di condurre una lotta non solo contro la socialdemocrazia, ma anche contro la tendenza estremista, la « malattia infantile », che rischiava di nuocere al movimento comunista.
L'intero libro di Lenin è precisamente una critica serrata dell'astrattezza rivoluzionaria, incapace di comprendere la necessità di conquistare le grandi masse alla rivoluzione, incapace di comprendere il carattere tortuoso dello sviluppo della lotta rivoluzionaria e quindi la necessità di una tattica agile, atta a seguire le svolte e i zig-zag del movimento reale.
Conquistare le masse, allargare il campo della rivoluzione, sfruttare tutte le contraddizioni in seno al nemico e le esitazioni delle formazioni piccolo-borghesi: ecco la tattica dei bolscevichi.
Lenin ricordava tutti i compromessi e le alleanze concluse dalla socialdemocrazia rivoluzionaria russa, a cominciare da quella con i « marxisti legali » nel periodo 1901-1902.
« I bolscevichi hanno sempre continuato quella politica. Dal 1905 in poi hanno propugnato sistematicamente l'alleanza della classe operaia con i contadini, contro la borghesia liberale e lo zarismo, senza rinunciare mai tuttavia ad appoggiare la borghesia contro lo zarismo [...] e senza cessare la lotta ideologica e politica più intransigente contro il partito contadino rivoluzionario piccolo-borghese, i 'socialisti rivoluzionari', smascherandoli come democratici piccolo-borghesi che si annoveravano falsamente fra i socialisti. Nel 1907 i bolscevichi conclusero, per breve tempo, un blocco politico formale con i 'socialisti rivoluzionari' per le elezioni alla Duma. Con i menscevichi, nel periodo dal 1903 al 1912, fummo formalmente uniti per alcuni anni in un unico partito socialdemocratico, senza mai cessare la lotta ideologica e politica contro di essi, come veicoli dell'influenza borghese nel proletariato e come opportunisti. Durante la guerra concludemmo una specie di compromesso con i 'kautskyani', con i menscevichi di sinistra (Martov) e con una parte dei 'socialisti rivoluzionari' (Cerno, Nathanson) sedendo insieme con essi a Zimmerwald e a Kienthal e pubblicando manifesti comuni, ma senza interrompere né indebolire mai la lotta ideologica e politica contro i 'kautskyani'. [ ...] Al momento stesso della Rivoluzione d'Ottobre concludemmo con i contadini piccolo-borghesi un blocco politico non formale, ma assai importante (e fruttuosissimo) accettando integralmente, senza nessun mutamento, il programma agrario socialista-rivoluzionario; ossia accedemmo indubbiamente a un compromesso per dimostrare ai contadini che non volevamo imporre loro un nostro diritto di primogenitura, ma che volevamo intenderci con loro. In pari tempo proponemmo (e poco tempo dopo realizzammo) un blocco politico formale — che implicava la partecipazione al governo — con i « socialisti-rivoluzionari » di sinistra, i quali, dopo aver concluso con noi la pace di Brest, denunciarono questo blocco; e in seguito, nel luglio 1918, arrivarono fino all'insurrezione armata contro di noi e infine alla lotta armata contro di noi. » (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo).
La condotta tattica e la politica di alleanze dipende dallo sviluppo concreto assunto, di volta in volta, dalla lotta di classe, dallo sviluppo generale della realtà, per la cui comprensione è necessario intendere l'evolversi dei rapporti, non solo fra proletariato e borghesia ma fra tutte le classi, non solo all'interno del contesto nazionale, ma dell'intero contesto internazionale.
Se è vero che la vita si dimostra sempre infinitamente più ricca delle previsioni e delle formule, è tanto più necessario un continuo sforzo di adeguamento della linea politica alla realtà nel suo continuo e complesso divenire.
Al III Congresso fu sollevata l'obiezione che tale tattica fosse troppo difficile per partiti ancora poco esperti, che avrebbero così corso il pericolo di cadere nell'opportunismo.
Occorre a questo proposito ricordare un altro passo dell'Estremismo, in cui Lenin affermava:
« E se mi si obietta: questa tattica è troppo 'astuta', le masse non la comprenderanno, essa disperderà e spezzerà le nostre forze, ci impedirà di concentrarle per la rivoluzione sovietica, ecc., io risponderò a questi contraddittori 'di sinistra': non riversate sulle masse il vostro dottrinarismo! In Russia le masse sono certamente meno colte che in Inghilterra. E ciò nondimeno le masse hanno capito i bolscevichi, e se i bolscevichi alla vigilia della Rivoluzione sovietica, nel settembre 1917, hanno preparato le liste dei loro candidati al parlamento borghese (Assemblea costituente) e il giorno dopo la Rivoluzione sovietica, nel novembre 1917, hanno fatto le elezioni per quella stessa Assemblea costituente che poi essi avrebbero sciolto il 5 gennaio 1918, questa circostanza non è stata di ostacolo ma di aiuto ai bolscevichi. »
Le proposte dei partiti comunisti di creare un fronte unico di lotta incontrarono l'opposizione quasi generale dei socialdemocratici, in particolare della SPD e dei sindacati in Germania, dove tuttavia la KPD appoggiò, con maggiore conseguenza dei suoi stessi ideatori, il piano sindacale tendente a difendere le condizioni di vita del proletariato e a far pagare ai capitalisti la crisi economica.
Le tesi sul « Fronte unico operaio » del Comitato Esecutivo dell'IC affermavano che i partiti comunisti, pur mantenendo intatta la propria autonomia politica e ideologica, dovevano operare per la realizzazione del fronte unico, sulla base della forte tendenza all'unità esistente fra le masse.
Al principio del 1922 si tenne a Berlino, su proposta della Internazionale centrista, detta « Due e mezzo », una conferenza delle tre Internazionali, nel corso della quale i comunisti fecero grandi concessioni pur di arrivare a una risoluzione e a un impegno comune di lotta.
Ma successivamente la Seconda Internazionale tradì gli impegni già presi, confermando così la propria volontà di divisione delle masse, divisione che, di fronte all'offensiva capitalistica, ne spezzava la capacità di resistenza.
Il IV Congresso dell'IC, nel novembre del 1922, si trovò di fronte a un generale aggravamento della crisi economica e dell'offensiva capitalistica, a uno spostamento a destra dei governi borghesi e della socialdemocrazia, e infine alla vittoria del fascismo in Italia.
L'acutizzarsi degli antagonismi di classe operava nel senso di uno spostamento a sinistra delle masse, che si esprimeva nella loro accettazione del Fronte unito, e che si scontrava quindi con la politica scissionista e di appoggio alla borghesia dei dirigenti socialdemocratici.
Il fascismo, pur essendo un fenomeno ancora relativamente nuovo, veniva già individuato come forma specifica che la reazione borghese tende ad assumere nell'epoca di generale disgregazione del capitalismo.
Contrariamente a quanto affermano gli storici revisionisti, l'IC non sottovalutò affatto il fascismo al suo sorgere, e ne comprese i caratterí fondamentali, quali allora si presentavano. Si indicava nella sua capacità di trascinare la piccola borghesia e di organizzarla ai propri fini la novità che il fascismo costituiva rispetto alle forme classiche di reazione borghese, e si affermava giustamente il suo significato storico di ultima e disperata risorsa della borghesia imperialista.
Il quadro generale in cui si scolgeva il IV Congresso contava quindi elementi nuovi e diversi, che facevano pensare di essere in presenza di un periodo di transizione, denso di nuovi problemi tattici.
L'avanguardia rivoluzionaria, organizzata nei partiti comunisti, incominciava a raccogliere i frutti del proprio lavoro, e poteva così sviluppare il processo di radicalizzazione delle masse mediante il Fronte unito.
Le tesi Sull'unità del Fronte proletario, rifacendosi ancora una volta all'esperienza russa, davano della tattica di Fronte unito una giustificazione storica e politica approfondita:
« Il Comitato esecutivo dell'IC crede utile ricordare a tutti i partiti fratelli le esperienze dei bolscevichi russi, il cui partito resta il solo, fino ad oggi, che sia riuscito a vincere la borghesia e ad impadronirsi del potere. Durante i quindici anni trascorsi tra la nascita del bolscevismo e la sua vittoria (1903-1917), esso non ha mai cessato di combattere il riformismo e il menscevismo, il che è lo stesso. Durante questo periodo i bolscevichi hanno però, a diverse riprese, stipulato accordi con i menscevichi. La prima scissione formale ebbe luogo nella primavera del 1905. Ma sotto l'irresistibile influenza di un movimento operaio di vasto respiro i bolscevichi, nello stesso anno, formarono un fronte comune con i menscevichi. La seconda scissione formale ebbe luogo nel gennaio 1912. Ma dal 1905 al 1912 la scissione si era alternata con unioni e con accordi temporanei (nel 1906, 1907 e 1910). Unioni e accordi non si produssero soltanto in seguito alle peripezie della lotta fra le frazioni, ma soprattutto sotto la pressione delle grandi masse operaie destatesi alla vita politica e che volevano verificare in prima persona se le proposte del menscevismo rinunciassero veramente alla rivoluzione. Poco prima della guerra imperialista, il nuovo movimento rivoluzionario che seguì lo sciopero della Lena generò nelle masse proletarie una potente aspirazione all'unità che i dirigenti del menscevismo si sforzarono di utilizzare a proprio profitto, come fanno i leader dell'Internazionale Socialista e quelli dell'Internazionale di Amsterdam. A quell'epoca i bolscevichi non rifiutarono il fronte unico. Tutt'altro, per controbilanciare le diplomazie dei capi menscevichi, essi adottarono la parola d'ordine 'unità della base', cioè unità delle masse operaie nella azione pratica rivoluzionaria contro la borghesia.
« L'esperienza dimostrò che solo quella era la tattica giusta. Modificata a seconda dei momenti e dei luoghi, questa tattica guadagnò al comunismo l'immensa maggioranza dei migliori elementi proletari menscevichi. »

Il Governo operaio


Il IV Congresso dell'IC sviluppò la concezione del Fronte unito affrontando il problema di parole d'ordine di carattere generale che ad esso corrispondessero, che fossero capaci di dare un obiettivo di vasta mobilitazione politica alle masse.
La parola d'ordine del Governo operaio, era, da questo punto di vista, « l'inevitabile conseguenza di tutta la tattica di Fronte unico ».
La parola d'ordine del Governo operaio mirava a spezzare l'accordo e la coalizione di governo tra borghesia e socialdemocrazia.
Affermavano in proposito le tesi:
« I partiti della Seconda Internazionale cercano, in questi paesi, di salvare la situazione predicando e realizzando la coalizione dei borghesi e dei socialdemocratici. I più recenti tentativi messi in atto dai partiti della Seconda Internazionale (per esempio in Germania) pur rifiutando di partecipare apertamente a tali governi di coalizione e per realizzarli in forma mascherata, sono soltanto un inganno raffinato nei confronti delle masse operaie. Alla coalizione, aperta o mascherata, tra borghesia e socialdemocrazia, i comunisti oppongono il Fronte unico di tutti i partiti operai contro il potere della borghesia, per il suo rovesciamento. »
Il Governo operaio corrispondeva come parola d'ordine alla necessità di mettere in movimento e coordinare le forze del proletariato, in particolare nei paesi dove la crisi richiedeva uno sbocco politico immediato, che pure non poteva essere ancora la dittatura del proletariato.
Il Governo operaio non era dunque concepito come una soluzione storica intermedia tra dittatura del proletariato e dittatura della borghesia, ma come momento capace di far precipitare il processo di decomposizione dello Stato borghese, processo che richiedeva di essere determinato e dominato dall'intervento attivo del Partito comunista, per il quale il Governo operaio diventava un terreno di lotta, una trincea avanzata della rivoluzione, un punto favorevole di appoggio per la conquista del potere.
« Il più elementare programma di un Governo operaio deve consistere nell'armamento del proletariato, nel disarmo delle organizzazioni borghesi controrivoluzionarie, nell'instaurazione del controllo sulla produzione, nel far cadere sui ricchi il peso determinante delle tasse e nel fiaccare la resistenza della borghesia controrivoluzionaria.
« Un governo di questo genere è possibile soltanto se nasce dalla lotta stessa delle masse, se si fonda su organismi operai adatti alla lotta e creati dai settori più ampi delle masse oppresse. Un Governo operaio, come risultato di una combinazione parlamentare, può anch'esso fornire l'occasione per rianimare il movimento rivoluzionario. Ma va da sé che la nascita di un vero Governo operaio e il mantenimento di una politica rivoluzionaria condurranno necessariamente alla lotta più accanita e, eventualmente, alla guerra civile contro la borghesia. »
Il Governo operaio non era la via pacifica contrapposta alla rivoluzione, ma solo un possibile risultato della lotta comune di tutti gli operai contro la borghesia, una misura resasi a un certo punto necessaria nel corso della lotta.
Il Governo operaio poteva aprire la strada alla rivoluzione proletaria, ma non ne era affatto la via d'accesso o la tappa obbligatoria.
Intendiamo soffermarci ancora sul Governo operaio e sulla linea del IV Congresso in quanto costituiscono un'esperienza vitale, alla quale il VII Congresso si rifarà abbondantemente.
Una linea politica può subire, nella sua realizzazione pratica, diverse interpretazioni.
La linea del Fronte unito era particolarmente sottoposta a pericoli di deviazioni di destra, che l'IC sottolineò con anticipo:
« Per parare questi pericoli, i Partiti comunisti non devono perdere di vista il fatto che, se ogni governo borghese è allo stesso tempo un governo capitalistico, non è altrettanto vero che ogni Governo operaio debba essere un governo proletario, cioè uno strumento rivoluzionario del potere del proletariato. L'Internazionale Comunista deve prevedere le seguenti possibili varianti: 1) Un governo operaio liberale..., 2) un governo operaio socialdemocratico..., 3) un governo dei contadini e degli operai..., 4) un governo operaio con la partecipazione dei comunisti, 5) un vero governo operaio proletario che, nella sua forma più pura, non può essere personificato che dal partito comunista. I due primi tipi di governo operaio non sono governi operai rivoluzionari ma governi, camuffati, di coalizione tra la borghesia e i leader operai controrivoluzionari. Questi 'governi operai' sono tollerati dalla borghesia nei momenti critici, quando è indebolita, e le servono per ingannare il proletariato sul vero carattere di classe dello Stato, o anche per sviare l'attacco rivoluzionario del proletariato, con l'aiuto dei leader operai corrotti. I comunisti non dovranno partecipare a governi del genere. Al contrario, dovranno smascherare implacabilmente di fronte alle masse il vero carattere di questi falsi 'governi operai'... I comunisti sono pronti a marciare anche con operai socialdemocratici, cristiani, senza partito, sindacalisti, che non abbiano ancora compreso la necessità della dittatura del proletariato. I comunisti sono anche disposti, in certe condizioni e con determinate garanzie, ad appoggiare un governo operaio non comunista. Ma i comunisti dovranno a tutti i costi spiegare alla classe operaia che la sua liberazione non potrà essere assicurata che dalla dittatura del proletariato. Gli altri due tipi di governo operaio ai quali possono partecipare i comunisti non sono ancora la dittatura del proletariato; non costituiscono ancora una necessaria forma di transizione verso la dittatura ma possono costituire un punto di partenza per la conquista di tale dittatura. » (IV Congresso dell'IC, Risoluzione sulla tattica).
Nell'Esecutivo del giugno '23 la parola d'ordine del Governo operalo ricevette la più ampia riformulazione di Governo operaio e contadino, affinché essa meglio corrispondesse alla realtà dei paesi europei dove ancora i contadini costituivano la maggioranza o comunque una parte essenziale della popolazione.
Inoltre, idea questa che il VII Congresso doveva portare alle sue logiche conseguenze, il Fronte unico operaio veniva indicato come punto di riferimento politico anche per strati non proletari di piccola borghesia, che solo nell'alleanza con il proletariato potevano trovare sbocco alla soluzione dei propri problemi.

Dal IV al V Congresso dell'Internazionale Comunista


Dal IV al V Congresso del giugno-luglio 1924, la situazione mondiale doveva conoscere una certa evoluzione: « governi operai » classificati del I tipo erano nati in Inghilterra e in Francia, dove erano giunti al governo i laburisti di Mac Donald e il blocco radicai-socialista.
Si assisteva a un generale spostamento a destra della socialdemocrazia, alla sparizione delle correnti centriste (l'Internazionale 2 1/2 era entrata nell'Internazionale socialista), a una violenta contrapposizione al comunismo.
Inoltre sul V Congresso dovevano esercitare un'influenza decisiva i fatti dell'Ottobre tedesco dove, nella situazione di grave crisi messa in moto dall'occupazione francese della Rhur e di sviluppo del movimento fascista, la KPD si trovò di fronte ad una forte radicalizzazione delle masse.
I comunisti tedeschi avevano perseguito energicamente la politica di Fronte unico, creando fra l'altro le Centurie proletarie, organismi di autodifesa aperti agli operai socialdemocratici.
Ma l'interpretazione della politica del IV Congresso data da Brandler e Thalheimer, che allora dirigevano il partito, sopravvalutava il ruolo del Governo operaio e indeboliva la posizione dirigente del partito comunista all'interno del Fronte unico.
In Sassonia e in Turingia, dove prevaleva la sinistra socialdemocratica, i comunisti entrarono a far parte del governo, che già in precedenza appoggiavano, per poter più agevolmente armare il proletariato.
Ma quando il governo centrale, in cui sedeva il dirigente socialdemocratico Ebert, impose lo scioglimento delle Centurie proletarie e fece occupare la regione, i comunisti, abbandonati dalle organizzazioni socialdemocratiche locali, si trovarono impreparati alla lotta, e il tentativo di insurrezione fu soffocato.
Il fallimento tedesco fu imputato dalla sinistra della KPD (Rush Fischer, Maslow, Thalmann) all'irresolutezza della politica della Centrale del Partito, al suo opportunismo, realizzatosi principalmente nel fatto che si era puntato per la riuscita dell'insurrezione prevalentemente sull'alleanza con i socialdemocratici.
La concezione del Governo operaio, sottoposta alla sua prima
(...continua .....)
 
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