Comunismo - Scintilla Rossa

i fronti popolari in europa, edizioni movimento studentesco

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view post Posted on 25/6/2012, 17:09
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Introduzione


Gli scritti raccolti in questo volume si riferiscono a un periodo fondamentale della storia del movimento operaio, il periodo dei Fronti popolari, delle grandi battaglie impegnate dal proletariato e dalle masse per sbarrare la strada al fascismo e alla guerra.
Su quegli anni è spesso ritornata, e ritorna oggi con maggiore insistenza, la riflessione storica e politica, sia di parte borghese che di sinistra.
Tuttavia, sebbene gli articoli e i saggi sull'argomento costituiscano un materiale abbondante e coprano un vasto ambito di aspetti e di problemi, si può ben dire che manchi ancora una visione complessiva del periodo considerato nella sua dimensione mondiale ed europea, e una specificazione rigorosa dei problemi centrali di quella esperienza politica.
Opere come quella dello Spriano (Spriano, Storia del PCI, in particolare il vol. III, I Fronti popolari, Stalin e la guerra, Einaudi) si limitano a interpretare il rapporto tra politica di Fronte popolare e specifica realtà nazionale, e possono quindi essere solo parzialmente utilizzate, anche prescindendo dal loro contenuto, per una visione storica sintetica e approfondita della totalità del periodo, che sola consente un bilancio storico e politico dell'analisi teorica e dell'azione svolta allora dal proletariato, sotto la guida dell'Internazionale Comunista.
Solo partendo da questa visione complessiva è fra l'altro possibile determinare le particolarità politiche nazionali assunte dal movimento operaio dei diversi paesi, senza cadere nel contempo nel particolarismo o nell'« eccezionalismo ».
L'interpretazione eccezionalista, prima di divenire una corrente storiografica, è stata in varie fasi della storia dell'IC una teoria politica.
Il termine di eccezionalismo fu applicato dall'IC a tutte quelle tendenze che esaltavano in modo unilaterale le caratteristiche nazionali e si esprimevano in « reinterpretazioni » della linea originale, nelle quali la pur giusta esigenza di adattarsi alle condizioni specifiche del proprio paese si confondeva sovente con il tentativo di svincolare la propria sezione nazionale dalle direttive e dalla disciplina comuni.
Data poi la prevalenza, il peso politico preponderante che la delegazione russa all'IC aveva, questo problema si intrecciava con quello dei rapporti tra la politica delle singole sezioni e la politica del Partito e anche dello Stato russo.
I rapporti tra il PCd'I e l'IC furono a varie riprese burrascosi, e si può ben dire che una questione italiana esistette, seppure con differenti contenuti, anche dopo il superamento del contrasto tra la prima direzione di Bordiga e l'IC.
La tendenza storiografica dominante nel campo revisionista mostra oggi di occuparsi particolarmente di tale questione, dei rapporti intercorsi tra PCI e IC, rovesciando, nel contempo, a questo proposito, i giudizi sostenuti fino ai primi anni '50.
La svolta del XX Congresso del PCUS, dando via libera alle tendenze apertamente opportuniste e revisioniste, opera diversamente nelle varie realtà nazionali. È in particolare il revisionismo italiano a sviluppare più profondamente una propria « originale » elaborazione, mentre altri partiti (ad esempio quello francese), accoppiano a una pratica parlamentaristica e riformista, un richiamo verbale persistente alle precedenti formulazioni politiche e teoriche.
La odierna storiografia ufficiale del PCI, specie con Spriano, rivendica anche per il passato del Partito quella « originalità » che i suoi dirigenti si affannano per il presente a dimostrare.
Si ravvisa, da parte degli storici revisionisti, nella politica dell'IC, tutta una serie di gravi errori, specie di settarismo e comunque di sinistra, in particolare all'epoca del X Plenum, imposti forzatamente alle varie sezioni (tra cui quella italiana).
In realtà le posizioni non sono del tutto omogenee anche nella storiografia revisionista, e vanno da quella di Spriano, fortemente critica verso l'IC, a posizioni più sfumate, quali ad esempio quelle di Ernesto Ragionieri. Giustamente Ragionieri fa rientrare (vedi E. Ragionieri, Il giudizio sul fascismo. La lotta contro il fascismo. I rapporti con l'Internazionale Comunista. Nel volume Problemi di storia del PCI, Editori Riuniti) la questione dei rapporti con l'IC nella questione generale e fondamentale della « persistenza e continuità dell'azione politica intrapresa dal nuovo gruppo dirigente — quello raccolto intorno a Granisci e poi Togliatti — del PCI. » Infatti, « come si può parlare di una sostanziale continuità a proposito della linea di un partito ferreamente inquadrato nei ranghi disciplinati e serrati dell'Internazionale Comunista, e che di questa risente i bruschi salti e le rapide svolte di direzione nel 1929 non meno che nel 1934? » La questione della « continuità » è fondamentale perché investe le origini e la legittimità della « via italiana al socialismo », della sua continuità appunto, benché nelle mutate condizioni storiche, con la linea precedente.
Quanto a noi, non crediamo proprio che di continuità si possa parlare tra l'attuale politica del PCI e quella storicamente precedente, anche se indubbiamente è possibile ritrovare in alcune posizioni, allora condannate dall'IC e oggi rivalutate dai revisionisti, i germi delle future deviazioni.
Spriano, ad esempio, ravvisa negli errori di eccezionalismo del PCI (vedi il X Plenum) una alternativa possibile alla linea dell'IC, allora impedita a realizzarsi ma destinata a trionfare successivamente.
Eppure lo stesso Ragionieri, che pure critica la politica dell'IC in quel periodo, deve ammettere alla fine che « in tutta la complessa fase di svolta che tra il 1934 e il 1935 portò l'IC a correggere la linea della 'classe contro classe' e del `socialfascismo' e ad inaugurare la politica dei Fronti popolari, sarebbe profondamente errato rappresentare il PCI in quanto tale o Togliatti, che in quegli anni esercitava funzioni direttive di primo piano nell'IC, come anticipatori di esperienze decisive o come portatori di una spinta politica risolutiva. »
Queste differenziazioni di giudizio fra gli storici più in vista del PCI si spiegano a partire dalla comprensione dell'evoluzione subita dalla politica del partito stesso.
Ci sembra che la linea di « nuova maggioranza », quale Togliatti l'aveva elaborata, permetteva negli anni addietro un'analisi storica tale da non rinnegare completamente, sull'altare dell'accordo con la Democrazia Cristiana, il patrimonio rivoluzionario del passato.
Non a caso Ragionieri è propriamente lo storico di Togliatti, il curatore delle sue opere.
Spriano rappresenta invece l'attuale ulteriore svolta a destra del PCI, della politica di « nuova maggioranza » divenuta ormai la politica dell'accordo ad ogni costo con la DC, del « compromesso storico ».
Questo processo era naturalmente implicito nella stessa concezione della « nuova maggioranza » di Togliatti, ma solo il tempo poteva condurlo (e questo processo non si e ancora concluso) a risolversi nella sua essenza socialdemocratica.
Un nodo storico fondamentale, in relazione ai problemi attuali, è rappresentato proprio dall'esperienza dei Fronti popolari, dalla fase della loro preparazione a quella della loro attuazione con sviluppi ed esiti assai diversi nelle varie situazioni. Mentre su avvenimenti più lontani (pur nell'accademismo che li relega quali elementi di « decorativismo rivoluzionario » sullo sfondo), l'analisi revisionista mantiene una qualche apparenza di serietà e approfondimento, riguardo agli avvenimenti che formano la nostra storia recente (e continuano a operare nel presente) l'accademia può esercitarsi solo sui particolari secondari, e nelle questioni fondamentali infine deve lasciare decisamente il passo alla falsificazione.
Entrando in polemica con questo modo di riscrivere la storia, eviteremo tuttavia di indulgere a nostra volta in un'interpretazione puramente strumentale, seppure con intenti e segno opposto, che, invece di affidarsi all'analisi concreta e viva del periodo storico in esame, si basi esclusivamente sulle esigenze della polemica.
Non intendiamo operare un recupero acritico della politica svolta in quegli anni dall'IC, né ridurre l'esperienza dei Fronti popolari a mitico richiamo, ma intendiamo invece studiarne lo svolgimento storico, le contraddizioni, le vittorie e le sconfitte, in modo da definirne il nucleo fondamentale, i grandi principi ispiratori, per rapportarli alla realtà presente.
Non si tratta quindi, come ci rimproverano i critici revisionisti del PCI e quelli piccolo borghesi del Manifesto, di riesumare parole d'ordine e concezioni ormai « logore », ma di situare le enunciazioni teoriche e le direttive politiche nel loro contesto, dimostrarne l'intima vitalità e coerenza, e quindi risalire dalla comprensione del passato alla comprensione del presente, alla definizione di nuove direttive che, sulla base dell'esperienza storica complessiva, abbiano validità attuale.
A chi si avvicina allo studio del periodo che si apre con il 1934 e si conclude nel 1939, si pone subito il problema del perché della nuova politica che allora s'inaugura, ricevendo piena formulazione al VII Congresso, vale a dire il problema delle origini e del significato generale della politica di Fronte popolare.
Si pone, qui, per l'IC nel suo complesso, il problema della continuità con la politica precedente. La critica di parte revisionista, e anche trotskista, tende a sottolineare il carattere di svolta del VII Congresso, rispetto alla politica, definita settaria e ultrasinistra, del X Plenum (luglio 1929).
Secondo l'interpretazione revisionista, il VII Congresso è un momento di rottura radicale con il passato e l'inizio, seppure ancora « incerto », di una nuova politica che in Italia (attraverso le tappe di sviluppo dell'unità d'azione con i socialisti e quindi dell'ampio fronte nazionale della Resistenza) con la collaborazione — intesa ormai in senso « strategico » — delle « tre grandi correnti storiche, socialista, comunista e cattolica, rappresentate dai loro partiti », si sarebbe legittimamente trasformata nell'attuale politica del « compromesso storico ».
La stessa impostazione, pur rovesciata nel giudizio, è seguita da una certa critica di stampo trotskista, secondo la quale, esistendo una continuità ininterrotta tra l'attuale politica del PCI e il VII Congresso dell'IC, le radici del revisionismo affonderebbero nei tempi e nelle scelte dei Fronti popolari.
Poiché queste interpretazioni possono essere criticate solo a partire dalla comprensione storica reale, cercheremo di tracciare le linee generali evolutive della politica di Fronte unito e della sua trasformazione nella politica di Fronte popolare.

Origine della tattica di Fronte unito


La guerra imperialista e la Rivoluzione russa del 1917 avevano aperto in Europa una crisi rivoluzionaria di dimensioni e profondità sino allora sconosciute.
L'apparato di produzione e di scambio del capitalismo europeo era uscito distrutto dalla guerra, la crisi colpiva paesi vinti e paesi vincitori, le masse davano inizio a grandi lotte non solo economiche, ma propriamente politiche rivoluzionarie. In Germania la rivoluzione che aveva abbattutto la monarchia appariva solo come il prologo della rivoluzione proletaria. In Baviera e in Ungheria si formarono repubbliche sovietiche.
In Italia l'ondata rivoluzionaria occupa l'intero biennio 1919-1920, con le lotte grandiose contro il caro-vita e l'occupazione delle fabbriche.
In questa situazione la Rivoluzione d'Ottobre appariva solo come il prologo della rivoluzione proletaria europea. Lenin nel gennaio del 1919 prende l'iniziativa di convocare il congresso di fondazione della nuova Internazionale rivoluzionaria, dopo il fallimento storico della Internazionale socialdemocratica.
L'appello viene firmato, oltre che dal Partito bolscevico, dai comunisti polacchi, ungheresi, tedeschi, austriaci, lettoni, finlandesi, balcanici.
Il periodo storico attraversato veniva definito come quello « della decomposizione e del crollo dell'intero sistema capitalistico mondiale » e « del crollo della civiltà europea in generale » qualora non fosse stato distrutto il capitalismo con le sue insolubili contraddizioni.
L'obiettivo del proletariato era dunque in quel momento direttamente quello della presa del potere, nella forma propria dell'esperienza bolscevica, secondo i principi già indicati da Marx nella sua opera sulla Comune di Parigi: distruzione dell'apparato statale borghese, dell'esercito permanente, della burocrazia e del sistema parlamentare, sua sostituzione con un apparato tipicamente proletario, lo Stato dei Consigli, incarnazione storica determinata della dittatura proletaria.
L'Internazionale Comunista nasce come organizzazione di combattimento, per dirigere l'intera azione dei vari reparti del proletariato europeo e mondiale verso la conquista del potere. La socialdemocrazia, che durante la guerra si era schierata nei vari paesi al seguito della propria borghesia, spingendo così milioni di operai a massacrarsi reciprocamente, era divenuta alla fine del conflitto il rappresentante politico dell'ordine capitalistico minacciato ovunque dall'assalto rivoluzionario delle masse.
Nei confronti della socialdemocrazia, durante il biennio 1919-1920, la tattica sarà quella che lo storico cecoslovacco Hajek ha definito dell'« attacco senza tregua ».
Non bisogna dimenticare che la rivoluzione in Russia aveva visto il proletariato scontrarsi, nell'assalto finale, proprio con i capi social-democratici menscevichi che, ultima debole difesa dell'ordine capitalista, costituivano il governo della borghesia in quella situazione.
Inoltre la socialdemocrazia europea di destra continuò ad appoggiare i menscevichi e i socialisti rivoluzionari anche quando questi passarono alla lotta armata contro il potere sovietico.
La tattica fissata al I Congresso dell'IC stabiliva:
« ... Nei confronti dei socialpatrioti, che dovunque nei momenti critici si oppongono armi alla mano alla Rivoluzione proletaria, è possibile solo la lotta implacabile.
« Nei confronti del 'centro' la tattica del distacco degli elementi rivoluzionari e della critica spietata e dello smascheramento dei capi. Ad una certa tappa dello sviluppo, sarà assolutamente necessaria la rottura organizzativa degli elementi del centro. »
Il processo di disgregazione della socialdemocrazia aveva portato alla differenziazione, nelle sue file, di una destra che, nella Conferenza di Berna, aveva ridato vita alla Seconda Internazionale, e di un centro che raggruppava, insieme a vecchi capi opportunisti come Kautsky, una forte ala rivoluzionaria, che premeva per l'ingresso nell'IC. Il centro era dunque destinato a spaccarsi, e la tattica dell'IC operò decisamente in questa direzione, fissando ad esempio i 21 punti che regolavano l'adesione, nel timore giustificato di essere « invasa » da gruppi indecisi ed esitanti che non avevano ancora veramente rotto con l'ideologia della Seconda Internazionale, e per evitare che la nuova Internazionale potesse divenire una federazione di partiti e tendenze eterogenee.
L'esperienza ungherese, dove i socialdemocratici che si trovavano uniti con i comunisti nel medesimo partito avevano con la loro indecisione e il loro sabotaggio contribuito alla sconfitta e alla caduta del potere dei Soviet, confermò la consistenza di questo pericolo.
Fu nel periodo successivo al II Congresso mondiale, che aveva visto il culmine del movimento rivoluzionario in Europa, che maturò nell'IC la coscienza della necessità di una nuova tattica.
Ecco come Mathias Rakosi descrive il processo che doveva portare a questa svolta politica:
« Il Terzo Congresso dell'IC, che si riunì nel giugno 1921, dovette affrontare nuovi compiti. Essi erano in parte determinati dal fatto che l'IC comprendeva già oltre cinquanta sezioni, tra cui grandi partiti di massa dei paesi europei più importanti, il che faceva sorgere problemi di tattica e di organizzazione; ma soprattutto lo erano dal fatto che lo sviluppo della rivoluzione e il crollo del capitalismo subivano un certo rallentamento che non si era potuto prevedere all'epoca del I e II Congresso. Dopo il crollo delle potenze centrali, l'ondata rivoluzionaria era mostruosamente forte e si aveva l'impressione che la rivoluzione proletaria avrebbe immediatamente fatto seguito alla rivoluzione borghese. In Ungheria e in Baviera il proletariato era riuscito a impadronirsi del potere, e anche dopo la disfatta delle repubbliche sovietiche di Ungheria e di Baviera la speranza in una vittoria rapida della classe operaia non era scemata. Ci si ricordi l'epoca in cui l'Armata Rossa era di fronte a Varsavia e il proletariato intero si preparava fieramente a nuove lotte. Ma la borghesia si dimostrò più capace di resistere di quanto non si fosse creduto. La sua forza consisteva innanzitutto nel fatto che i socialtraditori, che durante la guerra si erano così `eroicamente' battuti contro il proletariato, si rivelarono anche dopo la guerra come i migliori sostegni del capitalismo barcollante. In tutti i paesi in cui la borghesia non poteva più restare padrona della situazione, essa consegnò il potere ai socialdemocratici. Furono i governi socialdemocratici di Noske e di Ebert in Germania, di Renner e Otto Bauer in Austria, di Tusar in Cecoslovacchia, di Bóhm e Garami in Ungheria, che ressero gli affari della borghesia durante il periodo rivoluzionario e soffocarono nel sangue i tentativi di liberazione del proletariato.
« L'apparente prosperità che seguì immediatamente la guerra, permettendo ai capitalisti di occupare i soldati smobilitati, costituì anch'essa un ostacolo alla rivoluzione. La borghesia riuscì a calmare gli operai senza lavoro fornendo loro sussidi. A tutto ciò venne poi ad aggiungersi un fenomeno importante sul piano psicologico, cioè la stanchezza della maggior parte della classe operaia che usciva a stento dalle sofferenze e dalle privazioni subite durante i quattro anni della guerra imperialista. Infine i partiti comunisti, a cui incombeva il compito di dirigere e coordinare la lotta del proletariato, erano ancora in via di formazione, troppo deboli, e spesso adottavano errati metodi di lotta. Tutte queste circostanze permisero alla borghesia di riunire lentamente le proprie forze, di riacquistare fiducia e di riconquistare alcune delle posizioni perdute. Quando non ebbe più bisogno di loro, la borghesia scacciò i socialisti dal governo in tutti i paesi in cui essi ne facevano parte e i capitalisti ripresero nelle loro mani la conduzione dei propri affari. Crearono organizzazioni illegali, armando la parte cosciente della borghesia e passarono all'attacco contro la classe operaia. Nel frattempo la situazione economica aveva subito anch'essa profonde trasformazioni. Nel primo periodo degli anni venti una crisi si era profilata in Giappone e in America, crisi che si era estesa via via a tutte le nazioni industriali. Il consumo decrebbe rapidamente, la produzione calò ancora. Le lotte difensive degli operai assunsero ampie dimensioni ma si conclusero con disfatte, il che rafforzò la posizione della borghesia.
« Tale era la situazione quando si aprì il III Congresso dell'IC. Il Congresso esaminò innanzitutto lo stato dell'economia mondiale e successivamente affrontò la questione della tattica che si rendeva necessaria nella nuova situazione. La borghesia si rafforzava, così come i suoi servitori, i socialdemocratici. L'epoca delle vittorie facili conseguite dall'IC, nel corso degli anni immediatamente successivi alla guerra, era passata. In attesa di nuove lotte rivoluzionarie, dovevamo ricostituire e rafforzare le nostre organizzazioni e scalzare le posizioni dei riformisti con un lavoro ostinato in seno alle organizzazioni operaie.
« L'occupazione delle fabbriche in Italia, lo sciopero di dicembre in Cecoslovacchia, l'insurrezione di marzo in Germania mostravano che i partiti comunisti, anche se combattevano manifestamente per gli interessi di tutto il proletariato, non ce la facevano a vincere contro le forze unite della borghesia e della socialdemocrazia, non solo perché essi non godevano della simpatia delle larghe masse, ma anche perché queste masse non erano state convogliate direttamente nelle loro organizzazioni, dopo che erano riusciti a strapparli a organizzazioni diverse. È per questo che il Congresso lanciò la parola d'ordine: 'Andare alle masse'. Nell'Europa occidentale, i partiti comunisti dovevano fare tutto ciò che fosse loro possibile per obbligare i sindacati e i partiti che si appoggiavano alla classe operaia a una azione comune, in favore degli interessi immediati della classe, preparando intanto la classe stessa all'eventualità di un tradimento da parte dei partiti non comunisti. » (M. Rakosí in I Congressi dell'Internazionale Comunista, Samonà e Savelli, Roma 1970).
All'epoca del III Congresso dunque, nella situazione di crisi economica, il proletariato, sottoposto all'attacco della borghesia, colpito dalla disoccupazione e da un generale peggioramento delle condizioni di vita, sentiva la necessità di ritrovare la propria unità di lotta.
Le scissioni dei partiti socialdemocratici, nel periodo 1919-1920, erano state necessarie per organizzare l'avanguardia del proletariato, nell'imminenza della lotta per il potere.
Ora il relativo rallentamento della rivoluzione in Europa, l'offensiva capitalistica e la tendenza spontanea del proletariato all'unità, rendevano possibile e necessaria una nuova tattica, capace di trascinare sul terreno della lotta rivoluzionaria conseguente la maggioranza del proletariato.
Già nel gennaio del '21, Paul Levi e Karl Radek inviarono a nome della KPD una « Lettera aperta » ai sindacati, al SPD e anche all'USPD e alla KAPD, rivolgendo loro un appello per organizzare un fronte unico di lotta per la difesa delle elementari condizioni di vita delle masse, per lo scioglimento delle organizzazioni militari illegali della borghesia e per la costituzione di organismi di autodifesa proletari.
La « Lettera aperta » incontrò l'opposizione di Zinoviev e di Bucharin.
Fu invece appoggiata da Lenin, che poi al II Congresso doveva definirla « un modello di mossa politica ».
Una forte opposizione alla nuova tattica esisteva anche nella KPD; Clara Zetkin e Paul Levi si dimisero infatti dal Comitato centrale del Partito.
Poco dopo le loro dimissioni, sotto le pressioni del rappresentante dell'Esecutivo dell'IC Bela Kun, la KPD, in seguito alla occupazione militare della zona di Halle-Merzeburg in Sassonia, lancio io sciopero insurrezionale.
I comunisti rimasero però isolati e, alla fine di marzo, dovettero porre fine all'azione.
L'« Azione di Marzo » doveva dar luogo a violente polemiche tra l'ala sinistra del partito e Paul Levi, Clara Zetkin e Karl Radek che accusavano l'Esecutivo dell'IC e la Centrale tedesca di putschismo.
La sinistra sosteneva la cosiddetta « teoria dell'offensiva », secondo la quale la parte più avanzata della classe operaia, anche se minoritaria, doveva passare all'azione rivoluzionaria diretta, e trascinare in questo modo dietro a sé il resto del proletariato, ancora passivo.
In questa forma la « teoria dell'offensiva » veniva contrapposta alla politica inaugurata dalla « Lettera aperta », e fu fatta propria da varie sezioni dell'Internazionale, tra cui quella italiana, che, con Terracini, sosteneva che, per la lotta rivoluzionaria, non era necessario conquistare la maggioranza della classe operaia. Lenin si schierò decisamente contro queste posizioni, affermando la necessità per i partiti comunisti di impossessarsi della direzione effettiva della maggioranza della classe operaia, e di non ridurre la propria azione alla sola « lotta al centrismo ».
Lenin continuò insomma al III Congresso la lotta contro la tendenza ultrasinistra già iniziata nell'aprile del '20 con l'Estremismo. Conviene ricordare che esso fu scritto da Lenin in un momento in cui il movimento rivoluzionario in Europa era in piena fase ascendente: è tanto più importante ricordare come Lenin, anche in quelle circostanze così favorevoli, non dimenticasse la necessità di condurre una lotta non solo contro la socialdemocrazia, ma anche contro la tendenza estremista, la « malattia infantile », che rischiava di nuocere al movimento comunista.
L'intero libro di Lenin è precisamente una critica serrata dell'astrattezza rivoluzionaria, incapace di comprendere la necessità di conquistare le grandi masse alla rivoluzione, incapace di comprendere il carattere tortuoso dello sviluppo della lotta rivoluzionaria e quindi la necessità di una tattica agile, atta a seguire le svolte e i zig-zag del movimento reale.
Conquistare le masse, allargare il campo della rivoluzione, sfruttare tutte le contraddizioni in seno al nemico e le esitazioni delle formazioni piccolo-borghesi: ecco la tattica dei bolscevichi.
Lenin ricordava tutti i compromessi e le alleanze concluse dalla socialdemocrazia rivoluzionaria russa, a cominciare da quella con i « marxisti legali » nel periodo 1901-1902.
« I bolscevichi hanno sempre continuato quella politica. Dal 1905 in poi hanno propugnato sistematicamente l'alleanza della classe operaia con i contadini, contro la borghesia liberale e lo zarismo, senza rinunciare mai tuttavia ad appoggiare la borghesia contro lo zarismo [...] e senza cessare la lotta ideologica e politica più intransigente contro il partito contadino rivoluzionario piccolo-borghese, i 'socialisti rivoluzionari', smascherandoli come democratici piccolo-borghesi che si annoveravano falsamente fra i socialisti. Nel 1907 i bolscevichi conclusero, per breve tempo, un blocco politico formale con i 'socialisti rivoluzionari' per le elezioni alla Duma. Con i menscevichi, nel periodo dal 1903 al 1912, fummo formalmente uniti per alcuni anni in un unico partito socialdemocratico, senza mai cessare la lotta ideologica e politica contro di essi, come veicoli dell'influenza borghese nel proletariato e come opportunisti. Durante la guerra concludemmo una specie di compromesso con i 'kautskyani', con i menscevichi di sinistra (Martov) e con una parte dei 'socialisti rivoluzionari' (Cerno, Nathanson) sedendo insieme con essi a Zimmerwald e a Kienthal e pubblicando manifesti comuni, ma senza interrompere né indebolire mai la lotta ideologica e politica contro i 'kautskyani'. [ ...] Al momento stesso della Rivoluzione d'Ottobre concludemmo con i contadini piccolo-borghesi un blocco politico non formale, ma assai importante (e fruttuosissimo) accettando integralmente, senza nessun mutamento, il programma agrario socialista-rivoluzionario; ossia accedemmo indubbiamente a un compromesso per dimostrare ai contadini che non volevamo imporre loro un nostro diritto di primogenitura, ma che volevamo intenderci con loro. In pari tempo proponemmo (e poco tempo dopo realizzammo) un blocco politico formale — che implicava la partecipazione al governo — con i « socialisti-rivoluzionari » di sinistra, i quali, dopo aver concluso con noi la pace di Brest, denunciarono questo blocco; e in seguito, nel luglio 1918, arrivarono fino all'insurrezione armata contro di noi e infine alla lotta armata contro di noi. » (Lenin, L'estremismo, malattia infantile del comunismo).
La condotta tattica e la politica di alleanze dipende dallo sviluppo concreto assunto, di volta in volta, dalla lotta di classe, dallo sviluppo generale della realtà, per la cui comprensione è necessario intendere l'evolversi dei rapporti, non solo fra proletariato e borghesia ma fra tutte le classi, non solo all'interno del contesto nazionale, ma dell'intero contesto internazionale.
Se è vero che la vita si dimostra sempre infinitamente più ricca delle previsioni e delle formule, è tanto più necessario un continuo sforzo di adeguamento della linea politica alla realtà nel suo continuo e complesso divenire.
Al III Congresso fu sollevata l'obiezione che tale tattica fosse troppo difficile per partiti ancora poco esperti, che avrebbero così corso il pericolo di cadere nell'opportunismo.
Occorre a questo proposito ricordare un altro passo dell'Estremismo, in cui Lenin affermava:
« E se mi si obietta: questa tattica è troppo 'astuta', le masse non la comprenderanno, essa disperderà e spezzerà le nostre forze, ci impedirà di concentrarle per la rivoluzione sovietica, ecc., io risponderò a questi contraddittori 'di sinistra': non riversate sulle masse il vostro dottrinarismo! In Russia le masse sono certamente meno colte che in Inghilterra. E ciò nondimeno le masse hanno capito i bolscevichi, e se i bolscevichi alla vigilia della Rivoluzione sovietica, nel settembre 1917, hanno preparato le liste dei loro candidati al parlamento borghese (Assemblea costituente) e il giorno dopo la Rivoluzione sovietica, nel novembre 1917, hanno fatto le elezioni per quella stessa Assemblea costituente che poi essi avrebbero sciolto il 5 gennaio 1918, questa circostanza non è stata di ostacolo ma di aiuto ai bolscevichi. »
Le proposte dei partiti comunisti di creare un fronte unico di lotta incontrarono l'opposizione quasi generale dei socialdemocratici, in particolare della SPD e dei sindacati in Germania, dove tuttavia la KPD appoggiò, con maggiore conseguenza dei suoi stessi ideatori, il piano sindacale tendente a difendere le condizioni di vita del proletariato e a far pagare ai capitalisti la crisi economica.
Le tesi sul « Fronte unico operaio » del Comitato Esecutivo dell'IC affermavano che i partiti comunisti, pur mantenendo intatta la propria autonomia politica e ideologica, dovevano operare per la realizzazione del fronte unico, sulla base della forte tendenza all'unità esistente fra le masse.
Al principio del 1922 si tenne a Berlino, su proposta della Internazionale centrista, detta « Due e mezzo », una conferenza delle tre Internazionali, nel corso della quale i comunisti fecero grandi concessioni pur di arrivare a una risoluzione e a un impegno comune di lotta.
Ma successivamente la Seconda Internazionale tradì gli impegni già presi, confermando così la propria volontà di divisione delle masse, divisione che, di fronte all'offensiva capitalistica, ne spezzava la capacità di resistenza.
Il IV Congresso dell'IC, nel novembre del 1922, si trovò di fronte a un generale aggravamento della crisi economica e dell'offensiva capitalistica, a uno spostamento a destra dei governi borghesi e della socialdemocrazia, e infine alla vittoria del fascismo in Italia.
L'acutizzarsi degli antagonismi di classe operava nel senso di uno spostamento a sinistra delle masse, che si esprimeva nella loro accettazione del Fronte unito, e che si scontrava quindi con la politica scissionista e di appoggio alla borghesia dei dirigenti socialdemocratici.
Il fascismo, pur essendo un fenomeno ancora relativamente nuovo, veniva già individuato come forma specifica che la reazione borghese tende ad assumere nell'epoca di generale disgregazione del capitalismo.
Contrariamente a quanto affermano gli storici revisionisti, l'IC non sottovalutò affatto il fascismo al suo sorgere, e ne comprese i caratterí fondamentali, quali allora si presentavano. Si indicava nella sua capacità di trascinare la piccola borghesia e di organizzarla ai propri fini la novità che il fascismo costituiva rispetto alle forme classiche di reazione borghese, e si affermava giustamente il suo significato storico di ultima e disperata risorsa della borghesia imperialista.
Il quadro generale in cui si scolgeva il IV Congresso contava quindi elementi nuovi e diversi, che facevano pensare di essere in presenza di un periodo di transizione, denso di nuovi problemi tattici.
L'avanguardia rivoluzionaria, organizzata nei partiti comunisti, incominciava a raccogliere i frutti del proprio lavoro, e poteva così sviluppare il processo di radicalizzazione delle masse mediante il Fronte unito.
Le tesi Sull'unità del Fronte proletario, rifacendosi ancora una volta all'esperienza russa, davano della tattica di Fronte unito una giustificazione storica e politica approfondita:
« Il Comitato esecutivo dell'IC crede utile ricordare a tutti i partiti fratelli le esperienze dei bolscevichi russi, il cui partito resta il solo, fino ad oggi, che sia riuscito a vincere la borghesia e ad impadronirsi del potere. Durante i quindici anni trascorsi tra la nascita del bolscevismo e la sua vittoria (1903-1917), esso non ha mai cessato di combattere il riformismo e il menscevismo, il che è lo stesso. Durante questo periodo i bolscevichi hanno però, a diverse riprese, stipulato accordi con i menscevichi. La prima scissione formale ebbe luogo nella primavera del 1905. Ma sotto l'irresistibile influenza di un movimento operaio di vasto respiro i bolscevichi, nello stesso anno, formarono un fronte comune con i menscevichi. La seconda scissione formale ebbe luogo nel gennaio 1912. Ma dal 1905 al 1912 la scissione si era alternata con unioni e con accordi temporanei (nel 1906, 1907 e 1910). Unioni e accordi non si produssero soltanto in seguito alle peripezie della lotta fra le frazioni, ma soprattutto sotto la pressione delle grandi masse operaie destatesi alla vita politica e che volevano verificare in prima persona se le proposte del menscevismo rinunciassero veramente alla rivoluzione. Poco prima della guerra imperialista, il nuovo movimento rivoluzionario che seguì lo sciopero della Lena generò nelle masse proletarie una potente aspirazione all'unità che i dirigenti del menscevismo si sforzarono di utilizzare a proprio profitto, come fanno i leader dell'Internazionale Socialista e quelli dell'Internazionale di Amsterdam. A quell'epoca i bolscevichi non rifiutarono il fronte unico. Tutt'altro, per controbilanciare le diplomazie dei capi menscevichi, essi adottarono la parola d'ordine 'unità della base', cioè unità delle masse operaie nella azione pratica rivoluzionaria contro la borghesia.
« L'esperienza dimostrò che solo quella era la tattica giusta. Modificata a seconda dei momenti e dei luoghi, questa tattica guadagnò al comunismo l'immensa maggioranza dei migliori elementi proletari menscevichi. »

Il Governo operaio


Il IV Congresso dell'IC sviluppò la concezione del Fronte unito affrontando il problema di parole d'ordine di carattere generale che ad esso corrispondessero, che fossero capaci di dare un obiettivo di vasta mobilitazione politica alle masse.
La parola d'ordine del Governo operaio, era, da questo punto di vista, « l'inevitabile conseguenza di tutta la tattica di Fronte unico ».
La parola d'ordine del Governo operaio mirava a spezzare l'accordo e la coalizione di governo tra borghesia e socialdemocrazia.
Affermavano in proposito le tesi:
« I partiti della Seconda Internazionale cercano, in questi paesi, di salvare la situazione predicando e realizzando la coalizione dei borghesi e dei socialdemocratici. I più recenti tentativi messi in atto dai partiti della Seconda Internazionale (per esempio in Germania) pur rifiutando di partecipare apertamente a tali governi di coalizione e per realizzarli in forma mascherata, sono soltanto un inganno raffinato nei confronti delle masse operaie. Alla coalizione, aperta o mascherata, tra borghesia e socialdemocrazia, i comunisti oppongono il Fronte unico di tutti i partiti operai contro il potere della borghesia, per il suo rovesciamento. »
Il Governo operaio corrispondeva come parola d'ordine alla necessità di mettere in movimento e coordinare le forze del proletariato, in particolare nei paesi dove la crisi richiedeva uno sbocco politico immediato, che pure non poteva essere ancora la dittatura del proletariato.
Il Governo operaio non era dunque concepito come una soluzione storica intermedia tra dittatura del proletariato e dittatura della borghesia, ma come momento capace di far precipitare il processo di decomposizione dello Stato borghese, processo che richiedeva di essere determinato e dominato dall'intervento attivo del Partito comunista, per il quale il Governo operaio diventava un terreno di lotta, una trincea avanzata della rivoluzione, un punto favorevole di appoggio per la conquista del potere.
« Il più elementare programma di un Governo operaio deve consistere nell'armamento del proletariato, nel disarmo delle organizzazioni borghesi controrivoluzionarie, nell'instaurazione del controllo sulla produzione, nel far cadere sui ricchi il peso determinante delle tasse e nel fiaccare la resistenza della borghesia controrivoluzionaria.
« Un governo di questo genere è possibile soltanto se nasce dalla lotta stessa delle masse, se si fonda su organismi operai adatti alla lotta e creati dai settori più ampi delle masse oppresse. Un Governo operaio, come risultato di una combinazione parlamentare, può anch'esso fornire l'occasione per rianimare il movimento rivoluzionario. Ma va da sé che la nascita di un vero Governo operaio e il mantenimento di una politica rivoluzionaria condurranno necessariamente alla lotta più accanita e, eventualmente, alla guerra civile contro la borghesia. »
Il Governo operaio non era la via pacifica contrapposta alla rivoluzione, ma solo un possibile risultato della lotta comune di tutti gli operai contro la borghesia, una misura resasi a un certo punto necessaria nel corso della lotta.
Il Governo operaio poteva aprire la strada alla rivoluzione proletaria, ma non ne era affatto la via d'accesso o la tappa obbligatoria.
Intendiamo soffermarci ancora sul Governo operaio e sulla linea del IV Congresso in quanto costituiscono un'esperienza vitale, alla quale il VII Congresso si rifarà abbondantemente.
Una linea politica può subire, nella sua realizzazione pratica, diverse interpretazioni.
La linea del Fronte unito era particolarmente sottoposta a pericoli di deviazioni di destra, che l'IC sottolineò con anticipo:
« Per parare questi pericoli, i Partiti comunisti non devono perdere di vista il fatto che, se ogni governo borghese è allo stesso tempo un governo capitalistico, non è altrettanto vero che ogni Governo operaio debba essere un governo proletario, cioè uno strumento rivoluzionario del potere del proletariato. L'Internazionale Comunista deve prevedere le seguenti possibili varianti: 1) Un governo operaio liberale..., 2) un governo operaio socialdemocratico..., 3) un governo dei contadini e degli operai..., 4) un governo operaio con la partecipazione dei comunisti, 5) un vero governo operaio proletario che, nella sua forma più pura, non può essere personificato che dal partito comunista. I due primi tipi di governo operaio non sono governi operai rivoluzionari ma governi, camuffati, di coalizione tra la borghesia e i leader operai controrivoluzionari. Questi 'governi operai' sono tollerati dalla borghesia nei momenti critici, quando è indebolita, e le servono per ingannare il proletariato sul vero carattere di classe dello Stato, o anche per sviare l'attacco rivoluzionario del proletariato, con l'aiuto dei leader operai corrotti. I comunisti non dovranno partecipare a governi del genere. Al contrario, dovranno smascherare implacabilmente di fronte alle masse il vero carattere di questi falsi 'governi operai'... I comunisti sono pronti a marciare anche con operai socialdemocratici, cristiani, senza partito, sindacalisti, che non abbiano ancora compreso la necessità della dittatura del proletariato. I comunisti sono anche disposti, in certe condizioni e con determinate garanzie, ad appoggiare un governo operaio non comunista. Ma i comunisti dovranno a tutti i costi spiegare alla classe operaia che la sua liberazione non potrà essere assicurata che dalla dittatura del proletariato. Gli altri due tipi di governo operaio ai quali possono partecipare i comunisti non sono ancora la dittatura del proletariato; non costituiscono ancora una necessaria forma di transizione verso la dittatura ma possono costituire un punto di partenza per la conquista di tale dittatura. » (IV Congresso dell'IC, Risoluzione sulla tattica).
Nell'Esecutivo del giugno '23 la parola d'ordine del Governo operalo ricevette la più ampia riformulazione di Governo operaio e contadino, affinché essa meglio corrispondesse alla realtà dei paesi europei dove ancora i contadini costituivano la maggioranza o comunque una parte essenziale della popolazione.
Inoltre, idea questa che il VII Congresso doveva portare alle sue logiche conseguenze, il Fronte unico operaio veniva indicato come punto di riferimento politico anche per strati non proletari di piccola borghesia, che solo nell'alleanza con il proletariato potevano trovare sbocco alla soluzione dei propri problemi.

Dal IV al V Congresso dell'Internazionale Comunista


Dal IV al V Congresso del giugno-luglio 1924, la situazione mondiale doveva conoscere una certa evoluzione: « governi operai » classificati del I tipo erano nati in Inghilterra e in Francia, dove erano giunti al governo i laburisti di Mac Donald e il blocco radicai-socialista.
Si assisteva a un generale spostamento a destra della socialdemocrazia, alla sparizione delle correnti centriste (l'Internazionale 2 1/2 era entrata nell'Internazionale socialista), a una violenta contrapposizione al comunismo.
Inoltre sul V Congresso dovevano esercitare un'influenza decisiva i fatti dell'Ottobre tedesco dove, nella situazione di grave crisi messa in moto dall'occupazione francese della Rhur e di sviluppo del movimento fascista, la KPD si trovò di fronte ad una forte radicalizzazione delle masse.
I comunisti tedeschi avevano perseguito energicamente la politica di Fronte unico, creando fra l'altro le Centurie proletarie, organismi di autodifesa aperti agli operai socialdemocratici.
Ma l'interpretazione della politica del IV Congresso data da Brandler e Thalheimer, che allora dirigevano il partito, sopravvalutava il ruolo del Governo operaio e indeboliva la posizione dirigente del partito comunista all'interno del Fronte unico.
In Sassonia e in Turingia, dove prevaleva la sinistra socialdemocratica, i comunisti entrarono a far parte del governo, che già in precedenza appoggiavano, per poter più agevolmente armare il proletariato.
Ma quando il governo centrale, in cui sedeva il dirigente socialdemocratico Ebert, impose lo scioglimento delle Centurie proletarie e fece occupare la regione, i comunisti, abbandonati dalle organizzazioni socialdemocratiche locali, si trovarono impreparati alla lotta, e il tentativo di insurrezione fu soffocato.
Il fallimento tedesco fu imputato dalla sinistra della KPD (Rush Fischer, Maslow, Thalmann) all'irresolutezza della politica della Centrale del Partito, al suo opportunismo, realizzatosi principalmente nel fatto che si era puntato per la riuscita dell'insurrezione prevalentemente sull'alleanza con i socialdemocratici.
La concezione del Governo operaio, sottoposta alla sua prima
(...continua .....)
 
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view post Posted on 26/6/2012, 17:24
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esperienza pratica, aveva subìto un'interpretazione opportunista, per reazione alla quale si formò nella KPD e nell'IC una forte corrente di sinistra, che univa tuttavia al suo interno orientamenti diversi.
Alle giuste critiche verso l'opportunismo di destra di Brandler e Thalheimer si mischiavano critiche più radicali, il cui vero scopo era rimettere in discussione tutta la validità generale della politica di Fronte unito.
Gramsci, già nel febbraio del '24, coglieva il vero significato degli avvenimenti tedeschi, la giustezza e anche le ambiguità delle critiche da esso suscitate:
« I due gruppi che in Germania si contendono la dirigenza del partito sono entrambi insufficienti e incapaci. Il gruppo della cosiddetta minoranza (Fischer-Maslow) rappresenta indubbiamente la maggioranza del proletariato rivoluzionario, ma esso non ha né la forza organizzativa necessaria per condurre una rivoluzione vittoriosa in Germania, né una direttiva ferma e sicura che garantisca da catastrofi ancora peggiori di quelle dell'ottobre. Esso è composto di elementi giovani nell'attività di partito, i quali si sono trovati in testa all'opposizione solo per l'assenza di dirigenti che è caratteristica della Germania. Il gruppo Brandler-Thalheimer è ideologicamente e come preparazione più forte del primo, ma anch'esso ha le sue debolezze che per certo riguardo sono molto più grandi e deleterie di quelle dell'altro gruppo. Brandler e Thalheimer sono diventati dei talmudisti della rivoluzione. Volendo trovare a tutti i costi alleati alla classe operaia hanno finito col trascurare la funzione della classe operaia stessa; volendo conquistare l'aristocrazia operaia controllata dai socialdemocratici hanno creduto di poter far ciò non già con lo svolgere un programma di carattere industriale, che si imperniasse sui Consigli di fabbrica e sul controllo, ma hanno voluto fare la concorrenza ai socialdemocratici nel campo della democrazia, portando alla degenerazione la parola d'ordine del governo operaio e contadino. » (Lettera di Gramsci a Togliatti e Terracini, in La formazione del gruppo dirigente del PCI, Editori Riuniti, Roma, 1971).
L'Ottobre tedesco stava inoltre a dimostrare che la socialdemocrazia era organicamente al servizio del grande capitale e che, non di rado, svolgeva direttamente una funzione di repressione del movimento rivoluzionario.
« I fascisti sono la mano destra e i socialdemocratici la mano sinistra della borghesia. Ecco il fatto nuovo... Il fatto essenziale è che la socialdemocrazia è diventata un'ala del fascismo. » (Zinoviev, citato in Seriano, Storia del PCI, vol. I, pag. 365, Einaudi).
Dalla constatazione, indubbiamente giusta, che nella nuova situazione il Fronte unito non poteva realizzarsi che dal basso, derivava l'improbabilità della formazione di Governi operai che non fossero sinonimi della dittatura del proletariato. Questa revisione tattica non avrebbe però dovuto infirmare la validità e l'importanza della politica di Fronte unito, come in qualche occasione avvenne.
Nella KPD la svolta avvenne troppo a sinistra, portando il partito su posizioni estremiste che gli costarono una perdita di influenza specie nei sindacati.
D'altra parte ogni sforzo dell'IC per riprendere una politica di Fronte unito con le organizzazioni socialdemocratiche cozzava contro la loro violenta opposizione.
Basti pensare ai fatti italiani del 1924, dove i socialisti rifiutarono la proposta comunista di fare dell'Aventino un antiparlamento appoggiato sulla lotta delle masse, opponendosi al ricorso allo sciopero generale. Oppure alla Germania dove la SPD, che era stata costretta ad accettare l'azione comune con i comunisti riguardo la questione delle proprietà degli Hoenzollern, successivamente spezzò l'unità realizzatasi giungendo a un accordo separato con gli ex monarchi.
Il continuo spostamento a destra dei socialdemocratici, che è alla origine della politica comunista della « classe contro classe », si accelerò intorno al 1927, con il loro ritorno al governo in Gran Bretagna, Danimarca, Cecoslovacchia, con l'appoggio della destra socialista polacca al fascista Pilsudski, con la denuncia e lo scioglimento da parte laburista del Comitato sindacale anglo-russo.
Per rendere un'idea del ruolo della socialdemocrazia in quegli anni bisogna pensare che, quasi contemporaneamente alla rottura delle relazioni diplomatiche della Gran Bretagna con l'URSS e alla conseguente minaccia britannica di aggressione, il « sinistro » Otto Bauer attribuiva ai sovietici il proposito imperialistico di scatenare la guerra, con l'aiuto degli « ingenui » sindacalisti inglesi!
In Italia, nel gennaio 1927, i dirigenti socialisti Colombine, D'Aragona e Rigola scioglievano la CGdL e dichiaravano il loro appoggio al regime fascista e alla sua politica « sindacale ».
E si potrebbe continuare a lungo, in questa lista di infamie della socialdemocrazia, ché, purtroppo, gli esempi non mancano.

Dal VI al VII Congresso dell'Internazionale Comunista


Il VI Congresso dell'IC, apertosi nel luglio del 1928, tracciava i lineamenti generali del periodo succeduto alla Rivoluzione d'Ottobre.
La risoluzione adottava la suddivisione in tre periodi successivi: il primo periodo, compreso negli anni 1918-1923, della grande crisi rivoluzionaria, il secondo periodo di relativa stabilizzazione del capitalismo, il terzo periodo, che si era ormai aperto, contrassegnato dalla ripresa dei contrasti fra i vari paesi capitalisti e del movimento rivoluzionario.
Quanto ai rapporti con la socialdemocrazia il VI Congresso riprendeva le argomentazioni del XV Congresso del PC(b) di sei mesi prima.
Veniva messo in rilievo il fallimento del centrismo, la necessità di condurre a fondo la lotta contro la socialdemocrazia, in particolare contro la sua ala « sinistra », che costituiva un ostacolo alla conquista al comunismo degli operai che si andavano rivoluzionarizzando. Era una ripresa della lotta contro il centrismo che partiva dalla constatazione dell'aprirsi di una nuova fase di giganteschi conflitti di classe.
In questo quadro va situata la lotta contro i « conciliatori » tedeschi, cioè il gruppo centrista raccolto intorno a Ewert che cercava di recuperare la vecchia destra del partito (Brandler-Thalheimer), dopo la rottura della sinistra e l'espulsione, avvenuta negli anni '25-26, del gruppo Maslow-Fischer.
La destra sosteneva che « l'ideologia centrista può essere per gli operai una tappa del loro cammino dal riformismo al comunismo », scontrandosi quindi direttamente con la valutazione dell'IC della necessità di condurre a fondo la lotta proprio contro la socialdemocrazia di « sinistra ».
Questo punto, in realtà, era stato oggetto di controversie all'interno della delegazione russa.
Nell'Assemblea plenaria del Comitato centrale del PC(b) dell'aprile del '29, Stalin rendeva pubblica la divergenza e i contrasti che avevano preceduto il VI Congresso:
« Nelle tesi di Bukharin si diceva che la lotta contro la socialdemocrazia è uno dei compiti principali delle sezioni dell'Internazionale comunista. Questo, evidentemente, è giusto. Ma è insufficiente. Perché la lotta contro la socialdemocrazia possa svilupparsi con successo è necessario porre in modo acuto il problema della lotta contro la cosiddetta ala 'sinistra' della socialdemocrazia, contro quell'ala 'sinistra' che, giocando con le frasi di 'sinistra' e abilmente ingannando gli operai frena il loro distacco dalla socialdemocrazia. È chiaro che senza debellare i socialdemocratici di 'sinistra' è impossibile vincere la socialdemocrazia in generale. Ciononostante, nelle tesi di Bukharin la questione della socialdemocrazia di 'sinistra' era lasciata completamente in disparte. »
Nello stesso discorso Stalin ricordava anche i contrasti circa la necessità della lotta alle tendenze conciliatrici, dimenticata da Bukharin, la cui posizione si presentava in sintesi come una deviazione di destra, che si esprimeva in tutte le questioni, sia di politica interna dell'URSS, sia di linea dell'IC, e che aveva a fondamento una diversa valutazione della fase storica attraversata:
« Dalle tesi di Bukharin risultava che nel momento attuale non c'è niente di nuovo che scuota la stabilizzazione capitalistica, che, al contrario, il capitalismo si sta ricostruendo e che la sua situazione è, in sostanza, più o meno solida. È chiaro che con tale caratteristica del cosiddetto terzo periodo, del periodo cioè che stiamo attraversando, la delegazione del PC(b) dell'URSS non poteva dichiararsi d'accordo. Essa non poteva dichiararsi d'accordo perché mantenendo tale caratteristica del terzo periodo si sarebbe permesso ai nostri critici di dire che ci poniamo dal punto di vista del cosiddetto « risanamento » del capitalismo, cioè dal punto di vista di Hilferding, punto di vista che noi comunisti non possiamo accettare. Perciò la delegazione del PC(b) dell'URSS propose un emendamento, da cui risulta che la stabilizzazione del capitalismo non è solida e non può esserlo, e che essa è e continuerà ad essere scossa nel corso degli avvenimenti, dato l'aggravarsi della crisi del capitalismo mondiale. Questa questione, compagni, ha un'importanza decisiva per le sezioni dell'IC. Si sfascia o si consolida la stabilizzazione del capitalismo? Da questo dipende tutto l'orientamento dei partiti comunisti nel loro lavoro politico quotidiano. Stiamo attraversando un periodo di declino del movimento rivoluzionario, un periodo di semplice raggruppamento delle forze, oppure stiamo attraversando un periodo in cui maturano le condizioni di una nuova ascesa rivoluzionaria, un periodo di preparazione della classe operaia alle prossime battaglie di classe? Da questo dipende la posizione tattica dei partiti comunisti. L'emendamento apportato dalla delegazione del PC(b) dell'URSS, accettato in seguito dal Congresso è tanto più giusto in quanto orienta chiaramente verso la seconda prospettiva, la prospettiva del maturare delle condizioni di una nuova ascesa rivoluzionaria. »
La tattica stabilita al VI Congresso riaffermava comunque la necessità di lottare per il Fronte unito proletario, sebbene nelle nuove condizioni che permettevano di operare efficacemente solo dal basso.
Sulla base dell'analisi svolta, è possibile ora porre la questione della continuità, il giudizio sul « socialfascismo », il rapporto tra VI e VII Congresso.
La storiografia revisionista, sulle tracce dell'articolo di Togliatti del 1959 su Alcuni problemi di storia dell'Internazionale, tende oggi a recuperare la concezione bukhariniana del terzo periodo. Togliatti (i cui legami, per un lungo periodo, con Bukharin sono ormai comunemente riconosciuti) opera una critica peraltro cauta e non diretta della politica condotta allora dall'IC, affermando che la tesi pur giusta dell'« inizio di un terzo periodo non sempre e non in tutti i partiti fu presa, giustamente, come la semplice premessa alla ricerca delle particolari modificazioni concrete che stavano maturando in ogni luogo, ma talora fu intesa in modo schematico, prendendo il posto della ricerca concreta. »
La critica risulta ambigua e nasconde il suo segreto.
E' vero infatti che interpretazioni schematiche della linea generale ci furono, ma è vero anche e soprattutto che proprio fra il VI e il VII Congresso, come più avanti ammette lo stesso Togliatti, si mutò radicalmente la disposizione delle forze nel campo operaio grazie alla grande capacità acquisita dai partiti comunisti di muoversi nei diversi contesti e nelle diverse situazioni. Il vero significato di questo riferimento critico può essere inteso solo in riferimento all'accusa di eccezionalismo che il PCd'I ricevette al X Plenum, eccezionalismo di cui Togliatti prende, a distanza di trent'anni, le difese.
Ma il centro della critica di Togliatti è costituito dall'attacco alla formula del « socialfascismo », allo stesso giudizio e all'orientamento dato dall'IC nella lotta contro il fascismo. « La mia opinione è che un ritardo e degli errori vi furono, e si manifestarono principalmente nella non tempestiva e completa valutazione della minaccia fascista e quindi un'errata impostazione dei problemi dell'unità d'azione e della posizione da prendersi nei confronti dei partiti socialdemocratici. L'errore più serio ritengo sia stata la definizione della socialdemocrazia come socialfascismo, ed errate furono le conseguenze politiche che ne derivavano. »
La questione del giudizio sul fascismo e quella della formula del « socialfascismo » vanno tenute separate, riconducendole peraltro allo svolgimento concreto dei fatti storici.
Il VI Congresso aveva affermato che, malgrado la fascistizzazione della socialdemocrazia fosse un processo reale, non era bene usare in modo indiscriminato il termine « socialfascismo ». Si affermava nel Programma dell'Internazionale Comunista, approvato al VI Congresso:
« Secondo quanto appunto esige la congiuntura politica la borghesia utilizza sia i metodi fascisti che i metodi dell'alleanza con la socialdemocrazia, mentre questa, in particolare in tempi critici per il capitalismo, non di rado svolge un ruolo fascista. Nel corso dell'evoluzione la socialdemocrazia rivela tendenze fasciste, il che però non esclude che in caso di mutamento della congiuntura politica si ponga contro il governo borghese come partito di opposizione ».
Il che precisamente avvenne.
Contrariamente a quanto affermato da Togliatti, e ripreso poi da Spriano, il termine « socialfascismo », adottato nella situazione successiva al VI Congresso, non era l'espressione ideologica di uno stato d'animo emotivo verso la socialdemocrazia, ma esprimeva il processo reale che si andava svolgendo, il cui momento culminante è rappresentato dalla strage del Primo maggio 1929 a Berlino, quando il socialdemocratico Zorgiebel si servì della polizia e della milizia paramilitare di partito per sciogliere una manifestazione comunista, uccidendo trentadue operai.
Il X Plenum, del luglio '29, registrava la situazione, usando, per la prima volta in una risoluzione ufficiale, il termine di « socialfascismo ».
Il fatto è che, intorno al 1929, il fascismo in Europa (tranne che per l'Italia) non si presentava ancora affatto come il nemico principale; ma invece la borghesia si serviva principalmente dei socialdemocratici per mantenere il potere e preparare la sua dittatura terroristica aperta.
Gli avvenimenti successivi al X Plenum confermarono che la strage del Primo maggio non era stato un episodio isolato, ma la precisa espressione del ruolo specifico assolto dalla socialdemocrazia.
La sottovalutazione del fascismo da parte dei Partiti comunisti, in particolare quello tedesco, è un momento successivo e appartiene al periodo in cui ormai l'orientamento fascista della borghesia stava prevalendo su quello che si appoggiava alla socialdemocrazia.
Una falsificazione ricorrente è quella di presentare la linea della « classe contro classe » come il semplice riflesso dell'orientamento di sinistra prevalso in Russia, con la sconfitta di Bukharin, l'industrializzazione accelerata e la collettivizzazione.
Essa fu invece il risultato della situazione storica e si sviluppò come corrente generale prevalente nei più importanti partiti comunisti europei.
Ma la falsificazione più vergognosa è quella (operata anche da Spriano) di addebitare alla politica condotta allora dall'Internazionale la responsabilità dell'ascesa del fascismo.
Malgrado le manifestazioni di settarismo che essa portò con sé in varie occasioni, la linea della « classe contro classe » rappresentò la lotta coerente e fondamentalmente giusta contro la politica socialdemocratica e borghese, che del fascismo fu la levatrice, la vera responsabile storica.
Senza questa tattica non sarebbe poi stato possibile, nelle nuove condizioni, arrivare alla costituzione dei Fronti popolari stessi. Secondo la concezione revisionista il Fronte popolare si presentò come il risultato di un incontro a metà strada tra socialdemocrazia e comunismo, sulla base del comune pentimento e di una nuova reciproca comprensione.
Il Fronte popolare invece fu esattamente l'opposto: fu la vittoria della politica rivoluzionaria del comunismo sul tragico fallimento storico della socialdemocrazia, fu la vittoria dell'unità rivoluzionaria sulla collaborazione di classe predicata dai riformisti, fu il risultato anche di tutta la politica precedente dell'Internazionale Comunista contro la socialdemocrazia.
Accade, nell'interpretazione della storia, ai nostri revisionisti come ai filosofi del vecchio materialismo di cui parla Marx nella prima tesi su Feuerbach: si potrebbe parafrasare l'espressione di Marx e dire che i revisionisti vedono gli oggetti, i fatti accaduti, ma non riescono a comprendere che essi sono il risultato dell'azione rivoluzionaria. In questo modo i revisionisti perdono ogni possibilità di spiegare l'evoluzione storica e politica, e finiscono di fatto per spiegarla solo nella sua staticità, o peggio come il risultato dell'azione meccanica delle leggi economiche capitalistiche e della borghesia.
La crisi economica mondiale, apertasi con il crollo della Borsa di New York il 24 ottobre 1929, portò con sé l'acutizzarsi dei contrasti di classe fra i paesi capitalisti e la tendenza della borghesia a cercare una soluzione nel fascismo e nella guerra.
Lo sviluppo del nazismo in Germania, non contrastato dalla socialdemocrazia, incapace di opporsi alle misure di progressiva fascistizzazione prese dai vari governi reazionari, poneva la KPD di fronte a nuovi problemi, che Thelmann affrontò all'XI Plenum dell'IC, ridefinendo il rapporto con la socialdemocrazia:
« Nel momento attuale come per il passato, per la Germania, nel quadro della nostra lotta di massa contro il capitalismo come nemico principale, il fascismo resta il nemico decisivo della lotta di classe, così come la socialdemocrazia resta l'ostacolo principale della lotta di classe contro il capitalismo, e quindi il nemico principale nel campo della classe operaia. »
Al di là di alcuni errori di settarismo e di sottovalutazione del pericolo fascista, denunciati anche da Dimitrov al VII Congresso (vedi L'Internazionale comunista e il fascismo, Edizioni Movimento Studentesco), nella KPD esisteva l'iniziativa per dare un nuovo impulso alla politica di Fronte unito, appellandosi anche alle organizzazioni socialdemocratiche, e non solo alla base.
Dal rifiuto dell'appoggio elettorale comunista contro i candidati nazisti in Prussia, al rifiuto di proclamare lo sciopero generale e infine alla capitolazione di fronte allo scioglimento del governo prussiano socialdemocratico, la SPD dimostra di preferire costantemente la disfatta e il tradimento all'unità d'azione, boicottando la forte spinta di base in questa direzione.
Gli ultimi atti vergognosi della socialdemocrazia tedesca furono il rifiuto dello sciopero generale proposto dalla KPD contro la nomina di Hitler a Cancelliere, il voto del gruppo parlamentare dell'SPD a favore della politica estera del Reich, con l'invito agli operai a partecipare assieme ai nazisti alle celebrazioni del Primo maggio, per arrivare all'espulsione degli ebrei dal partito in ossequio al razzismo hitleriano.
Malgrado il servilismo dimostrato, Hitler sciolse anche il partito socialdemocratico.
La sconfitta tedesca segna il fallimento storico della socialdemocrazia e dimostra che solo la lotta di classe conseguente può impedire l'ascesa del fascismo al potere. Si opera così l'inizio di una spaccatura nelle file socialdemocratiche e una forte radicalizzazione delle masse, che si esprime nell'appello del febbraio 1933 del PSI, del Partito laburista indipendente e della SAP a realizzare l'unità di lotta contro il fascismo, al quale l'Internazionale comunista risponde invitando i partiti fratelli a « compiere ancora almeno un tentativo per la creazione di un Fronte unico di lotta con le masse socialdemocratiche tramite i partiti socialdemocratici... ».
Ma la socialdemocrazia cercava di vincolare l'unità di lotta a un accordo preventivo fra le Internazionali, temendo altrimenti di perdere il controllo di parte dei partiti affiliati: in questo modo essa di fatto impediva la realizzazione del Fronte unico, divenuto ormai indispensabile nei vari paesi dove ne maturavano già le condizioni.
La sconfitta austriaca, dovuta ancora una volta alla politica di cedimento della socialdemocrazia che prima non si era opposta alle misure reazionarie di Dolfuss e quindi nel febbraio '34, quando la classe operaia aveva tentato una disperata resistenza, aveva lasciato isolato lo Schutbund, non chiamando alla lotta le grandi masse, doveva approfondire la crisi nel campo socialdemocratico.
Nello stesso tempo il comportamento eroico di Dimitrov, nel processo inscenato dai nazisti per l'incendio del Reichstag contribuì a rafforzare la corrente per l'unità d'azione con i comunisti.
Siamo così giunti alle soglie del VII Congresso.
Nei mesi che, vanno dal febbraio 1934 al luglio 1935, si sviluppa la politica di Fronte unico; la tattica della « classe contro classe » non viene immediatamente abbandonata.
Il processo di differenziazione all'interno della socialdemocrazia è ancora contraddittorio, e questo spiega le oscillazioni della tattica comunista.
Nel dicembre '34 Manuilskij, al Presidium dell'Esecutivo dell'IC, prende ufficialmente atto della nuova prospettiva:
« La tattica del Fronte unico: ecco una faccenda nuova... Abbiamo, in diversi paesi, tutta una serie di situazioni originali diverse. E a questo proposito, compagni, non possiamo porci di fronte alla soluzione dei compiti che ne derivano con le vecchie formulazioni consacrate, elaborate da una serie di anni... »
Nel momento in cui la socialdemocrazia nel suo complesso viveva una crisi senza precedenti, la socialdemocrazia di sinistra non si presentava più solo come una forza di copertura demagogica dell'opportunismo e del tradimento reale, ma stava a indicare un vero processo di radicalizzazione politica.
Doveva quindi mutare l'atteggiamento verso la socialdemocrazia di sinistra e in generale la configurazione che la linea di Fronte unito aveva assunto nel periodo della « classe contro classe ».
In Austria la socialdemocrazia passata all'illegalità si riorganizza sotto il nome di Partito socialista rivoluzionario, realizzando l'unità d'azione con il Partito comunista (cresciuto nell'illegalità da 3.000 a 16.000 membri nel giro di pochi mesi).
Interessante è l'evoluzione di Otto Bauer, che poneva, nel luglio 1936, la questione del partito unico del proletariato, indicando quali sue caratteristiche fondamentali l'accettazione della dittatura del proletariato e l'appoggio all'URSS.
Dopo lo scioglimento della Concentrazione Antifascista, si arriva, il 7 agosto 1934, alla firma del patto d'unità d'azione tra PCI e PSI.
Ma sono la Francia e la Spagna a fornire le due esperienze decisive per l'elaborazione della tattica del VII Congresso.
In Francia, in seguito al protrarsi della crisi economica che getta in una miseria crescente operai contadini e vasti strati di piccola borghesia, si sviluppa il movimento fascista, che culmina, il 6 febbraio 1934, nell'assalto al Palais Bourbon, sede della Camera e simbolo delle istituzioni parlamentari.
Di fronte alla minaccia fascista, si fa strada nella classe operaia una forte tendenza all'unità.
Una particolarità importante della situazione francese è data dal fatto che la classe operaia organizzata non è che una minoranza.
Il movimento spontaneo delle masse avrà quindi una forza determinante, infinitamente superiore che nella situazione tedesca, dove il controllo della socialdemocrazia sugli operai costitutiva l'ostacolo più grande alla realizzazione dell'unità di lotta.
In seguito alla manifestazione comunista del 9 gennaio, repressa nel sangue dalla polizia che uccideva dieci operai, lo sciopero generale del 12 si trasformava in una grande mobilitazione unitaria, vera e propria svolta politica verso l'unità d'azione che, malgrado le persistenti resistenze della SFIO, venne conclusa il 27 giugno.
Il PCF e la SFIO si impegnavano a lottare insieme contro il fascismo (disarmo delle leghe fasciste, presa di posizione contro il terrore fascista in Austria e in Germania), per la difesa delle libertà democratiche (liberazione di tutti i detenuti antifascisti, lotta contro i decreti-legge), per la rappresentanza proporzionale alle elezioni e contro i preparitivi di guerra. Quanto ai mezzi e ai metodi di lotta il patto diceva testualmente:
« ...la campagna sarà condotta a mezzo di meeting comuni, con manifestazioni e contromanifestazioni di massa. I militanti delle due organizzazioni si dovranno aiuto e assistenza reciproca. L'autodifesa delle riunioni e manifestazioni sarà organizzata in comune. Le manifestazioni comuni non dovranno degenerare in polemiche reciproche. Nel corso dell'azione nessuna critica sarà portata contro i militanti e le organizzazioni che vi partecipano lealmente, essendo scontato peraltro che ciascuno dei due partiti conserverà la propria indipendenza per sviluppare la propria propaganda, senza ingiurie e oltraggi verso l'altro partito e per assicurarsi il proprio reclutamento. »
Nel movimento che aveva condotto all'unità d'azione, una parte di primaria importanza era stata rivestita dagli intellettuali, che avevano saputo raccogliere con la loro iniziativa la spinta antifascista delle masse. Alla fine del marzo '34, prima ancora della firma del Patto, un « Comitato di vigilanza degli intellettuali antifascisti », promosso da Paul Rivet, Langevin, Alain e Pierre Gérome aveva pubblicato un manifesto antifascista che aveva avuto larga eco per il suo carattere unitario.
Nell'ottobre del '34 la politica di Fronte unito doveva ricevere uno sviluppo nuovo e decisivo, quando il Partito comunista pose la questione dell'allargamento dell'unità d'azione a strati e raggruppamenti piccolo-borghesi, per sottrarli all'influenza della demagogia fascista e schierarli decisamente al fianco della classe operaia.
Nelle elezioni municipali e cantonali dello stesso mese il Partito radicale subì una sconfitta, a cui s'accompagnò un aumento dei voti comunisti. Questo fatto, e soprattutto la pressione della base piccolo borghese del partito, sensibile alla propaganda comunista, costrinse i radicali ad accettare il Fronte popolare.
Il 15 maggio 1935 veniva firmato il patto Stalin-Laval, espressione della politica di pace dell'URSS che tendeva allora a costruire un sistema di sicurezza collettiva capace di isolare la Germania nazista.
Anche questo fatto di carattere internazionale doveva accelerare in Francia il processo di costruzione del Fronte.
Nel giugno 1935 il « Comitato internazionale contro la guerra e il fascismo », presieduto da Romain Rolland e da Henri Barbusse, lanciò la proposta di una grande manifestazione popolare per il 14 luglio, anniversario della presa della Bastiglia, a simboleggiare l'assunzione da parte del movimento antifascista guidato dalla classe operaia dell'eredità rivoluzionaria del popolo francese.
La manifestazione del 14 luglio riveste un'immensa importanza non solo per la sua riuscita (oltre mezzo milione persone sfilarono per le vie di Parigi ), ma anche perché dal suo comitato promotore doveva essere elaborato il programma del Fronte popolare, pubblicato nel gennaio del 1936 in vista delle elezioni.
Il programma, oltre la ripetizione degli obiettivi contenuti nel patto di unità d'azione, conteneva l'impegno alla nazionalizzazione delle industrie di guerra, alla riduzione dell'orario di lavoro, alla costituzione di un fondo nazionale per i disoccupati e per gli anziani, all'esecuzione di un piano di lavori pubblici, all'abrogazione dei decreti legge. Infine l'impegno alla lotta contro la speculazione, al sostegno dei prezzi dei prodotti agricoli, alla riforma tributaria e del sistema finanziario.
Il programma, che faceva proprie gran parte delle rivendicazioni (peraltro mai portate avanti) dei radicali, incontrò molte resistenze fra i socialisti, secondo i quali il carattere limitato del programma corrispondeva alla volontà dei comunisti di coinvolgere comunque i radicali.
La SFIO tentava di mascherare la propria resistenza a tradurre il Fronte popolare nei termini della costituzione di organismi elettivi di base, unitari e su scala nazionale, e ad accettare quindi fino in fondo il terreno della lotta di massa, spostando il dibattito sulla questione del programma, al proposito del quale adottava una fraseologia di sinistra, proponendo ad esempio un piano generale di nazionalizzazioni.
La risposta di Thorez alle osservazioni e alla proposta socialista conteneva l'affermazione che un coerente programma di nazionalizzazioni è possibile solo se la classe operaia è in possesso del potere statale nella sua interezza, e non solo del governo.
Inoltre il PCF era contrario alla proposta socialista anche dal Punto di vista tattico: secondo i comunisti le scelte del programma dovevano essere in stretto rapporto con l'arco di forze sociali e politiche che era possibile e necessario coalizzare.
La politica comunista rispondeva alla convinzione che la fase attraversata non ponesse all'ordine del giorno la conquista del potere e lo smantellamento della struttura economica capitalistica, ma solo l'isolamento del fascismo e del grande capitale.
Questo non vuol dire che la concezione del Fronte popolare fosse esclusivamente difensiva, in quanto si riteneva da parte comunista che esso potesse costituire un momento essenziale di. accrescimento delle forze e quindi di preparazione alla rivoluzione proletaria.
Ma il legame tra i due momenti non poteva essere meccanico, e richiedeva di essere realizzato nella pratica.
Il radicale mutamento di quadro che si ebbe con la guerra e gli avvenimenti precedenti doveva interrompere l'esperienza dei Fronti in modo drammatico.
Quando, dopo l'aggressione nazista all'URSS, essa verrà ripresa, costituirà, nelle nuove condizioni, il punto di partenza per le masse di vari paesi per la conquista del potere.
In Spagna la CEDA, partito di destra intimamente legato all'Azione cattolica e agli ambienti monarchici e tradizionalisti, espressione delle classi dominanti, era diventata con le elezioni del 1933 il più forte gruppo parlamentare.
Mentre si sviluppava il movimento apertamente fascista della Falange, sotto la minaccia che la CEDA entrasse direttamente a far parte del governo per dare un colpo mortale alla Repubblica, si sviluppava contro l'attacco reazionario una forte tendenza all'unità fra le masse.
La decisione dei comunisti di entrare nelle Alianzas Obreras, che erano state fino allora semplici appendici del Partito socialista, doveva trasformare profondamente questi organismi.
Quando il 4 ottobre 1934 la CEDA entrò nel nuovo governo., le Alianzas riuscirono, in particolare nelle Asturie, dove raggruppavano oltre ai socialisti e ai comunisti anche gli anarchici, a mettersi alla testa della lotta. L'insurrezione antifascista si trasforma in rivoluzione, dispiegando tutte le energie e le capacità di organizzazione delle masse.
Basti pensare che gli insorti formarono un esercito di 30.000 uomini e riuscirono a costruire una vasta rete di organizzazione e propri organi di potere per alcune settimane.
Scrive Hajek:
« La resistenza dei minatori asturiani aveva provato che la sconfitta in una lotta armata è un male minore della capitolazione di fronte al fascismo. I loro combattimenti, in effetti, avevano fermato il processo di fascistizzazione in Spagna. » (Hajek, Storia dell'Internazionale Comunista, Editori Riuniti, Roma 1970).
Dall'esperienza unitaria dell'Ottobre doveva nascere il processo che porterà, nel gennaio del 1936, alla costituzione del Fronte popolare in Spagna.

Il VII Congresso dell'Internazionale Comunista


Il VII Congresso dell'IC fu preceduto da un intenso dibattito.
La necessità di rivedere la tattica incontrava ancora resistenze: anche per questo probabilmente la data del Congresso dovette essere spostata di un anno circa.
Ecco per cominciare, il giudizio riassuntivo che del VII Congresso dà Seriano:
« Con il rapporto Dimitrov noi assistiamo a un'opera che oscilla continuamente tra l'indicazione politica e l'affermazione ideologica, vale a dire che il relatore deve, per dare robustezza e slancio alla nuova svolta del movimento, porre in discussione, o meglio, sottoporre a revisione critica tutta una serie di punti, divenuti poi 'principi' indiscussi, che hanno regolato la condotta del Komintern da quasi un decennio: dal giudizio sulla socialdemocrazia a quello sul fascismo, dalla impostazione del fronte unico al concetto di fase intermedia. Questi aspetti sono quelli che più colpiscono e non tanto perché si introduca tutta una nuova serie di 'nuovi' principi o formulazioni dottrinali, ma perché essi appaiono come una condanna precisa di una linea e anche di un modo di pensare che hanno sorretto l'azione dei vari partiti comunisti. Dal 1924 per certi aspetti, dal 1928 per altri, il Komintern non aveva soltanto approfondito la propria antitesi ideale all'Internazionale socialista ma aveva sostenuto la progressiva identificazione della socialdemocrazia con il fascismo, aveva praticamente affermato che non esisteva differenza tra la dittatura di classe esercitata da una 'democrazia borghese' e quella messa in atto dai regimi fascisti o apertamente reazionari; aveva indicato come unica prospettiva valida la dittatura del proletariato, da attuare mediante l'instaurazione di un potere dei Soviet su modello russo, aveva negato — spesso in polemica asperrima con lo stesso Trotskij su questo punto — che fosse concepibile una fase intermedia, di alleanze con altre forze politiche di ispirazione democratica e socialista, aveva stabilito che la socialdemocrazia di sinistra era ancora peggiore di quella di destra. Ora le posizioni che esprime Dimitrov sono completamente differenti. Esse quasi mai assumono un valore generale di restaurazione della dottrina leninista o di stimolo a uno sviluppo creativo del marxismo: Sono piuttosto formulate come consigli tattici. »
Tutto il passo tende a stabilire un'antitesi generale tra il VII Congresso e la politica precedente, sia quella indicata dal V Congresso (1924), sia soprattutto quella indicata dal VI Congresso e dai successivi Plenum (dal X al XIII).
1. Il giudizio sulla socialdemocrazia e il « socialfascismo ». - Seriano fa finta di non vedere lo svolgimento storico reale intercorso tra il '28 e il '34, al termine del quale la socialdemocrazia non può più assolvere alla vecchia funzione di sostegno della borghesia, e al suo interno si forma un'ala sinistra disposta all'unità d'azione.
Questo spiega il passaggio a una nuova tattica, che Dimitrov caratterizza nel seguente modo:
« L'atteggiamento verso il Fronte unico segna la linea di demarcazione tra la parte reazionaria e i suoi strati che si rivoluzionarizzano. Il nostro aiuto a questi strati sarà tanto più efficace quanto più intensa sarà la lotta contro il campo reazionario della socialdemocrazia che fa blocco con la destra. E quanto più risolutamente i comunisti lotteranno per il Fronte unico con i partiti socialdemocratici, tanto più rapidamente si svolgerà nel campo della sinistra socialdemocratica il processo di differenziazione dei singoli elementi. La pratica della lotta di classe e la partecipazione dei socialdemocratici al movimento del Fronte unico diranno chi in questo campo è un elemento di 'sinistra' a parole, e chi invece è di fatto un elemento di sinistra. »
2. Il giudizio sul fascismo e la questione della « fase intermedia ». -Non è assolutamente vero che la Terza Internazionale abbia mai stabilito l'equazione tra democrazia borghese e fascismo.
Basti pensare proprio al XIII Plenum, dove vengono colte le caratteristiche proprie del fascismo di dittatura terroristica aperta, con una definizione di valore conclusivo.
Non è un caso che. messosi su questa strada, Spriano debba continuare nella falsificazione.
Commentando la definizione di Dimitrov (« L'avvento del fascismo al potere non è un'ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro, ma è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia — la democrazia borghese — con un'altra sua forma, con la dittatura terroristica aperta... ») Spriano afferma:
« Si nota subito il cambiamento di giudizio intervenuto o almeno lo sviluppo della definizione staliniana adottata dall'Internazionale nel 1934 secondo cui il fascismo è la dittatura della parte più terroristica, sciovinista e imperialista del capitale. »
A questa affermazione di Spriano noi ci accontenteremo di opporre quanto affermato da Togliatti nel corsivo di presentazione al suo scritto A proposito del fascismo:
« Il dibattito circa la natura del fascismo fu risolto da Stalin quando egli lo definì, nel 1933, nella XIII riunione plenaria del CE dell'IC, 'dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisti del capitale finanziario'. »
Il preteso « cambiamento di giudizio » non si nota affatto, non esiste. Il fatto è che Spriano intende in modo « particolare » l'affermazione secondo la quale « il fascismo non è un'ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro », la intende come separazione completa della democrazia borghese dal fascismo, operando una contrapposizione assoluta dei due termini in linea di principio e « dimenticando » così che il fascismo nasce e si sviluppa dal seno della democrazia borghese stessa.
Spriano cerca di cancellare proprio l'affermazione del XIII Plenum che dice:
« Il fascismo, nato in seno alla democrazia borghese, è agli occhi dei capitalisti una tavola di salvezza contro lo sfacelo del capitalismo. Non è che per ingannare e disarmare gli operai che la socialdemocrazia nega la fascistizzazione della democrazia borghese e contrappone in linea di principio i paesi della democrazia ai paesi della dittatura fascista. »
Che la nostra non sia una calunnia verso Spriano è dimostrato anche dalla sua osservazione a proposito del patto Ribbentrop-Molotov, quando egli formula l'interrogativo se Stalin sia « davvero convinto che esista quella differenza di sostanza tra stati democratici e stati fascisti proclamata al VII Congresso » (!).
Spriano « dimentica » precisamente che democrazia borghese e fascismo sono due forme della dittatura della borghesia e che la differenza tra di esse non è « di sostanza », non consiste nel contenuto di classe, ma nel fatto che la prima mantiene le forme democratiche (borghesi) e la seconda le sopprime, usando il terrorismo aperto.
Tutta l'impostazione del rapporto di Dimitrov stabilisce proprio il legame tra democrazia borghese e fascismo, che si esprime nel processo di fascistizzazione delle strutture statali.
È naturale che i revisionisti intendano mettere in ombra questo processo, diretta conseguenza della fase storica finale attraversata dall'imperialismo, perché esso contraddice direttamente alle loro tesi dell'attenuarsi dei conflitti di classe e del passaggio pacifico al socialismo.
Dimitrov sottolinea invece la necessità di concepire l'ascesa al potere del fascismo come un processo storico contrassegnato da lotte anche all'interno della borghesia e dalla progressiva instaurazione di misure reazionarie preparatorie.
« In realtà, il fascismo giunge ordinariamente al potere attraverso una lotta, talvolta acuta, con i vecchi partiti borghesi o con una determinata parte di essi, attraverso una lotta nel campo fascista stesso, lotta che, in qualche caso conduce fino a conflitti armati [ ...] Tutto ciò non diminuisce comunque l'importanza del fatto che, prima dell'instaurazione della dittatura fascista, i governi borghesi, ordinariamente, attraversano una serie di tappe preparatorie e instaurano una serie di misure reazionarie, le quali favoriscono direttamente l'ascesa del fascismo al potere. Chi non lotta durante queste tappe preparatorie contro le misure reazionarie della borghesia e contro il fascismo, non è in grado di impedire, anzi favorisce la vittoria del fascismo. »
Nell'interpretazione storica di Spriano noi dobbiamo vedere la giustificazione pura e semplice dell'analisi e dell'azione politica dell'attuale direzione del PCI che riduce il fascismo a espressione dei settori parassitarie « arretrati », separando così la lotta al fascismo dalla lotta contro il capitalismo e il suo partito organico, la DC.
Si nega il processo di fascistizzazione per giustificare la politica di accordo con la DC, per sottrarsi al compito di combattere coerentemente i continui provvedimenti reazionari presi dai suoi governi.
Si fa ritorno alla concezione socialdemocratica kautskyana del capitalismo monopolistico e dell'imperialismo: l'equazione tra monopoli e sviluppo delle forze produttive, l'illusione di potersi accordare con essi per superare i vecchi mali della società e sviluppare, assieme alle forze produttive, la democrazia e la pace.
Quanto alla questione della « fase intermedia », essa ci riporta al dibattito apertosi dopo il VI Congresso, intorno al terzo periodo. Contrariamente alla giusta previsione di Stalin e dell'Internazionale del venir meno della stabilizzazione e dell'acutizzarsi della lotta di classe, Bukharin prevedeva un rallentamento storico del processo rivoluzionario e la possibilità che si verificassero soluzioni intermedie, democratico-riformiste, nei paesi europei.
Spriano confonde deliberatamente questa polemica con la questione teorica generale della natura della fase politica caratterizzata dalla formazione del Fronte popolare.
La costituzione del Fronte popolare non è la soluzione definitiva e duratura dei problemi delle masse, e non può essere contrapposta alla dittatura del proletariato.
Spriano contrappone il Fronte popolare alla dittatura del proletariato, perché nella concezione revisionista il Fronte popolare è visto come un regime sociale intermedio tra dittatura del proletariato (alla quale del resto si rinuncia) e dittatura della borghesia.
3. La questione della democrazia e dell'atteggiamento verso di essa. - La valutazione generale da cui parte Dimitrov nell'impostazione del problema è contenuta nel passo in cui afferma che « ... le masse lavoratrici, in molti paesi capitalisti, devono scegliere in concreto, per il momento presente, non già tra la dittatura proletaria e la democrazia borghese, ma tra la democrazia borghese e il fascismo. »
L'atteggiamento tattico verso la democrazia borghese muta a seconda della situazione storica, pur rimanendo fermo l'obiettivo strategico (verso il quale la tattica dev'essere indirizzata) della dittatura del proletariato.
Dimitrov fa l'esempio dell'Ottobre 1917, quando « i bolscevichi russi lottarono a morte contro tutti i partiti politici che prendevano posizione contro l'instaurazione della dittatura del proletariato in nome della difesa della democrazia borghese. I bolscevichi hanno lottato contro questi partiti, perché la bandiera della democrazia borghese era allora divenuta la bandiera della mobilitazione di tutte le forze controrivoluzionarie per la lotta contro la vittoria del proletariato. »
La rivendicazione delle libertà democratiche non viene fatta propria dai partiti comunisti in quanto essi hanno rinunciato alla lotta per la dittatura del proletariato, ma proprio perché attraverso la lotta per la difesa e lo sviluppo della democrazia il proletariato può e deve educare le masse alla lotta rivoluzionaria contro la borghesia, e condurle, attraverso l'esperienza diretta, alla comprensione della necessità di una forma più alta di democrazia, la democrazia sovietica, la dittatura del proletariato.
4. Il significato generale della svolta del VII Congresso. - Gli storici e i dirigenti revisionisti presentano il VII Congresso non solo come una revisione radicale di tutta la tattica precedente, ma come l'inizio di una nuova concezione strategica. Dice Spriano: « L'appuntamento del VII Congresso concorre a rendere molto più esplicita una revisione generale, non soltanto di parole d'ordine tattiche ma persino di una concezione generale dello sviluppo strategico della lotta. »
Più esplicitamente afferma Natta: « L'elaborazione e la prassi del PCI in particolare nel periodo tra il VII Congresso della IC, la guerra di Spagna e quella mondiale, erano venute riconoscendo e affermando, in sostanza, l'idea non solo di un diverso tempo storico rispetto all'ottobre sovietico, ma anche, per usare i termini di Gramsci, di un diverso terreno strategico: e dunque il valore del momento del quadro nazionale della lotta rivoluzionaria, il valore non tattico, ma strategico, che di fronte al nazismo e al fascismo assume la questione dell'unità di classe e politica, il rilievo del rapporto organico tra democrazia e socialismo e della lotta per la democrazia. »
Come affermavamo all'inizio, ci troviamo di fronte al tentativo di snaturare il significato del VII Congresso, presentandolo come il progenitore delle cosiddette « vie nazionali al socialismo », in primo luogo della « via italiana al socialismo ».
Il « rapporto organico tra democrazia e socialismo » va inteso, interpretando il « vago » linguaggio revisionista, nel senso che la democrazia (borghese) non è per il PCI solo un terreno tattico favorevole alla lotta del proletariato per la conquista del potere, ma il quadro insuperabile al cui interno si realizza l'emancipazione del proletariato.
Idealizzazione della democrazia borghese, rinuncia alla dittatura del proletariato e alla preparazione del proletariato alla rivoluzione: solo questo intendono dire i revisionisti, ricalcando con minore originalità l'affermazione di Togliatti al X Congresso del PCI, secondo cui la valutazione « non si pone oggi agli operai italiani il problema di fare ciò che è stato fatto in Russia » era affermazione non di carattere tattico e contingente ma « di natura programmatica ».
(continua) ....
 
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view post Posted on 27/6/2012, 15:51
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La politica di Fronte popolare


Il Fronte unico proletario viene concepito, al VII Congresso e prima nell'esperienza francese, come base di un più vasto raggruppamento, capace di comprendere settori sociali non operai.
Già al IV Congresso, come abbiamo accennato, era stata affermata la necessità di conquistare gli stati intermedi gettati in condizioni di vita simili a quelle del proletariato dall'offensiva capitalistica, ma a questo compito non era ancora stata annessa un'importanza decisiva.
Lo sviluppo del fascismo, come forma caratteristica di reazione diretta della grande borghesia industriale e agraria, con base di massa tra la piccola borghesia, fece sì che l'IC affrontasse direttamente il problema dell'orientamento di questi strati.
Il processo già descritto da Marx di progressiva concentrazione delle ricchezze in poche mani e dell'allargamento alla base della massa degli sfruttati e degli oppressi, aveva assunto un ritmo continuo e rapido, visibile nell'immediata esperienza quotidiana. L'analisi del processo di proletarizzazione deve essere a questo proposito precisata nelle varie situazioni; il Fronte popolare rischia infatti di rimanere un principio astratto, o la realizzazione di un blocco senza principi, al di fuori della capacità di comprendere la natura delle forze e degli strati sociali che di volta in volta ne fanno parte, e le contraddizioni che all'interno del Fronte continuano a sussistere e a operare.
La classe operaia deve esercitare all'interno del Fronte una funzione dirigente, in modo tale che, alle varie componenti, il programma proletario appaia come l'unica soluzione valida per i loro stessi problemi.
L'egemonia del proletariato è la condizione che garantisce non solo il legame tra Fronte popolare e conquista del potere, ma l'unica condizione che consente di assolvere ai compiti parziali che si pongono nelle varei tappe: l'isolamento del fascismo e della grande borghesia, la realizzazione di misure capaci di intaccarne la forza, di migliorare le condizioni delle masse e di consolidare le posizioni della classe operaia.
Non si tratta di assumere da parte del proletariato il programma piccolo borghese, ma di inserire nel programma rivoluzionario le rivendicazioni popolari.
Rilievo essenziale assume al VII Congresso la questione del Governo di fronte unito, proletario o popolare.
Il richiamo all'esperienza del Governo operaio e al IV Congresso si impone immediatamente, e Dimitrov si sofferma su questo punto: « Voi ricordate, compagni, che al nostro IV Congresso nel 1922, e poi nel 1924, si era discussa la questione della parola d'ordine del Governo operaio e del Governo operaio e contadino. All'inizio si trattava sostanzialmente di una questione quasi analoga a quella che poniamo oggi. Le discussioni che si svolsero allora nell'Internazionale comunista a tale proposito, e in modo particolare gli errori politici commessi in questo campo, si devono tenere in considerazione anche oggi, per accentuare la nostra vigilanza contro il pericolo di deviazioni di destra e di «sinistra» dalla linea bolscevica in questa questione. [ ...] La prima serie di errori dipendeva dal fatto che la questione del governo operaio non era legata chiaramente e saldamente all'esistenza di una crisi politica. Grazie a questa circostanza, gli opportunisti di destra poterono interpretare le cose come se si dovesse tendere alla formazione di un Governo operaio sostenuto dal Partito comunista in qualsiasi, per così dire, situazione « normale ». Gli ultrasinistri, al contrario, accettavano soltanto quel Governo operaio che può essere formato per mezzo dell'insurrezione armata, dopo l'abbattimento della borghesia. Gli uni e gli altri sbagliavano, e per evitare la ripetizione di tali errori noi oggi accentuiamo così fortemente la necessità di valutare con esattezza quelle condizioni concrete particolari della crisi politica e dell'ascesa del movimento di massa, nelle quali la costituzione di un Governo di Fronte unico diventi possibile e politicamente indispensabile. »
Dimitrov indicava quindi altre due serie di errori.
La seconda serie di errori veniva fatta consistere 'nel fatto che la questione del Governo operaio non era stata legata allo sviluppo del movimento di massa del Fronte unico, il che aveva permesso una « tattica di blocco senza principi con i partiti socialdemocratici, sulla base di combinazioni puramente parlamentari ».
Per non ingenerare equivoci, Dimitrov abbandonava la formulazione di Governo operaio, usata anche dalla socialdemocrazia per definire i propri governi di collaborazione di classe con la borghesia, e adottava la formulazione di Governo di Fronte unico, definendolo « un organo di collaborazione dell'avanguardia rivoluzionaria, del proletariato con gli altri partiti antifascisti nell'interesse del popolo lavoratore [...] contro il fascismo e la reazione ».
In questo modo si definivano le caratteristiche proprie di un simile governo in quel periodo storico, il suo carattere eminentemente antifascista.
La terza serie di errori veniva indicata nella tendenza a mantenere tutta la politica del Governo operaio nei limiti esclusivi della democrazia borghese.
Sarebbe quindi errato vedere nella concezione del VII Congresso e del Fronte popolare solo il riflesso di una situazione difensiva, sebbene allora si accentuasse questo carattere.
Che la tattica di Fronte popolare dovesse servire a raccogliere le forze in vista della rivoluzione è esplicitamente affermato nel richiamo di Dimitrov a un passo dell'Estremismo di Lenin:
« Lenin ci chiamava quindici anni or sono a concentrare tutta la nostra attenzione sulla ricerca delle forme per passare o avvicinarsi alla rivoluzione proletaria. Può darsi che il Governo di Fronte unico si dimostri in taluni paesi una delle più importanti forme di transizione. I dottrinari "di sinistra" hanno sempre trascurato questa direttiva di Lenin e, propagandisti dall'orizzonte ristretto quali erano, parlavano soltanto della meta, senza mai curarsi delle forme di transizione. Gli opportunisti di destra, invece, tentarono di far posto a uno speciale stato democratico intermedio fra la dittatura della borghesia e la dittatura del proletariato, al fine, di inculcare negli operai l'illusione del passaggio pacifico, per vie parlamentari da una dittatura all'altra. Essi chiamavano anche forma di transizione questo fittizio stadio intermedio e si richiamavano persino a Lenin! Ma non era difficile sventare questa truffa: Lenin infatti parla delle forme di passaggio e di avvicinamento alla rivoluzione proletaria, cioè dell'abbattimento della borghesia, e non già di una qualche forma di transizione fra la dittatura borghese e la dittatura proletaria. »

I Fronti popolari e l'esperienza storica


Le vicende che successivamente al VII Congresso porteranno allo sviluppo e quindi alla dissoluzione dei Fronti popolari, determineranno anche il radicale mutamento della tattica comunista. La dissoluzione dei Fronti popolari, oltre che con fattori generali di carattere internazionale, deve essere spiegata a partire dai limiti interni delle varie esperienze, in particolare di quella francese e spagnola, che si intrecciano profondamente. Dopo il colpo di Stato dei militari fascisti in Spagna, che per la spontanea e decisa resistenza delle masse, dovette trasformarsi in una vera e propria guerra civile, la Francia, dove nel giugno 1936 Blum era salito al Governo dopo la vittoria del Fronte popolare alle elezioni, era impegnata in forza del trattato dell'anno precedente a vendere armi alla Repubblica spagnola. Sotto la pressione della Gran Bretagna, la Francia non effettuò le consegne, abbandonando a se stessa la Spagna repubblicana, mentre i ribelli fascisti ricevevano aiuti in truppe, armi e materiale dalla Germania e dall'Italia. (Ma altri aiuti furono forniti anche dagli inglesi e dalle grandi compagnie, ad esempio quelle petrolifere americane).
Solo l'Unione Sovietica denunciò fino in fondo l'ipocrisia del « non intervento », che in realtà copriva il massiccio intervento dei nazi-fascisti, schierandosi decisamente e concretamente a fianco della Spagna repubblicana.
Il carattere particolare della rivoluzione spagnola in quella fase consisteva nel suo carattere di guerra nazionale rivoluzionaria contro l'asservimento straniero e di rivoluzione popolare antifascista, diretta a colpire le basi materiali del fascismo, assolvendo così « di passaggio » anche ad alcuni compiti di rivoluzione democratica borghese contro i residui feudali (confisca dei latifondi ecc.).
Il Fronte popolare antifascista si presentava come la forma specifica di sviluppo assunta in quella fase dalla Rivoluzione spagnola.
Ecco come Togliatti ne definisce le caratteristiche peculiari, in un confronto con l'esperienza francese:
« Il Fronte popolare antifascista spagnolo, come forme specifica dell'unione di classi diverse davanti al pericolo fascista, si distingue, per esempio, dal Fronte popolare francese. Il Fronte popolare spagnolo agisce e lotta in una situazione rivoluzionaria, risolve con metodo democratico conseguente i compiti della rivoluzione democratica borghese, e agisce ed opera in una situazione di guerra civile, cioè in una situazione che richiede delle misure straordinarie per garantire la vittoria del popolo.
« Allo stesso modo, il vero carattere del Fronte popolare spagnolo non si può spiegare puramente e semplicemente come dittatura democratica degli operai e dei contadini. Prima di tutto il Fronte popolare spagnolo non si appoggia soltanto sugli operai e sui contadini, ma possiede una base sociale più larga; in secondo luogo, spinto dalla guerra civile stessa, esso prende una serie di misure che vanno alquanto al di là del programma di un governo di dittatura democratico-rivoluzionaria ».
Chi come i trotskisti « saltava » l'aspetto democratico della lotta, finiva per compromettere le stesse possibilità di rivoluzione proletaria.
D'altra parte solo la guida del proletariato poteva consentire una condotta energica della guerra antifascista e risolvere i problemi nazionali e democratici.
L'egemonia del proletariato apriva la strada a un regime di democrazia popolare, che avrebbe dovuto consentire nelle più favorevoli condizioni l'avanzata verso il socialismo.
L'accettazione del « non intervento » da parte del governo di Leon Blum non fu soltanto un durissimo colpo per la Repubblica spagnola, ma apri anche una gravissima contraddizione nel Fronte popolare in Francia.
Esso rivelava infatti l'inconseguenza democratica di gran parte della SFIO, dei radicali e del governo stesso, inconseguenza che non poteva che tradursi, sul piano interno, nella tolleranza verso l'attività dei fascisti, nella mancata epurazione dell'apparato statale (i cui organi vedono anzi proprio in questo periodo un rafforzamento degli elementi reazionari, specie nella magistratura e nella polizia, i cui effettivi vengono aumentati) e infine nella mancata realizzazione del programma del Fronte, sotto i colpi della controffensiva borghese.
Ma soprattutto il Fronte non riesce, per l'opposizione socialista, a darsi un'organizzazione di base, i Comitati elettivi proposti dai comunisti e indicati dal VII Congresso come una condizione essenziale per un'effettiva politica di Fronte popolare.
Di fronte all'arretramento del governo Blum il PCF cerca di salvare il Fronte dal pericolo di rottura, rimanendo su posizioni puramente difensive e rinchiudendosi in una logica parlamentaristica.
Nell'espressione 'Tout pour le Front populaire, tout par le Front populaire' (Tutto per il Fronte popolare, tutto attraverso. il Fronte popolare), affiora una concezione opportunista di destra, che, sciogliendo la funzione dirigente dell'avanguardia rivoluzionaria nell'insieme eterogeneo del Fronte, costituisce allo stesso tempo un colpo alla sua stessa compattezza, privandolo del momento decisivo di coesione.
Di fronte all'attacco borghese i comunisti si accodano ai socialisti nel ricercare un recupero a destra della situazione, mentre la piccola borghesia, lasciata indifesa sotto i colpi dell'inflazione entra in uno stato di passività e si allontana dalla classe operaia, che a sua volta si trova a subire l'iniziativa capitalistica senza poterla efficacemente contrastare. Ricomincia, anche a livello internazionale (l'Internazionale socialista, anche dopo il bombardamento, da parte della marina tedesca, della città di Almeria, ha rifiutato di rispondere all'appello della Repubblica spagnola e dei partiti operai per un aiuto concreto alla sua causa), una conversione a destra delle direzioni socialdemocratiche.
Mentre in Spagna, a causa dello spirito di capitolazione dei repubblicani piccolo-borghesi e di alcuni settori del Partito socialista, si diffonde la sfiducia nella prosecuzione della lotta, si giunge all'accordo di Monaco del 29 settembre 1938, tra Germania, Gran Bretagna e Francia (dove ormai è al governo Daladier, dopo la caduta di Blum).
La socialdemocrazia internazionale, nella sua maggioranza, saluta l'accordo di Monaco come una vittoria della pace: in questo modo essa si accoda ai propositi dei capitalisti inglesi e francesi che intendono scaricare la forza bellica nazista contro l'Unione Sovietica.
I tentativi dell'URSS di organizzare una conferenza internazionale con francesi, rumeni, polacchi e turchi contro il pericolo di guerra costituito dalla Germania, e di arrivare a un patto militare con la Gran Bretagna e la Francia vengono fatti fallire dai governi di questi paesi.
Di fronte al pericolo di un'aggressione nazista appoggiata dalla Gran Bretagna e dalla Francia, e in seguito a richieste di parte tedesca, si giunge il 23 agosto 1939 alla firma del Patto di non aggressione tra Germania e URSS.
Il patto Ribbentrop-Molotov, le cui caratteristiche non impedivano la stipulazione di altri trattati con la Francia e l'Inghilterra, viene preso a pretesto dalla socialdemocrazia per rompere l'unità d'azione, del resto già quasi inoperante, con i comunisti, e dalla borghesia per una violenta repressione anticomunista.
Il 26 settembre viene sciolto, da parte del governo, il PCF che, entrato nella clandestinità, svolge un'autocritica per i propri errori, in particolare per non aver compreso a tempo il mutare della situazione internazionale e non aver difeso energicamente il Partito dal decreto di scioglimento facendo appello alle masse.

Dal « disfattismo rivoluzionario » alla ricostruzione dei Fronti


Le svolte rapide e profonde non possono avvenire senza esitazioni e incertezze, tanto più che la tattica di Fronte popolare aveva rappresentato un'esperienza di particolare rilievo e ampiezza.
Nel novembre del 1939 esce un'articolo di Dimitrov (fatto circolare clandestinamente anche in Italia, nelle Lettere di Spartaco) dal titolo La guerra e la classe operaia dei Paesi capitalisti, che costituisce il giudizio del Komintern sulla nuova situazione apertasi dopo l'entrata di Hitler in Polonia nel settembre e lo scoppio della guerra con la Gran Bretagna e la Francia.
Il documento metteva in rilievo il carattere imperialista assunto dalla guerra:
« Dopo la conclusione del trattato' tedesco-sovietico, la borghesia dell'Inghilterra e della Francia, perduta ogni speranza in una guerra da parte della Germania contro l'Unione Sovietica, fece ricorso alla via della lotta armata contro la principale sua rivale imperialistica. E la borghesia inglese e francese si risolse a ciò sotto il pretesto di difendere il suo vassallo, la Polonia dei reazionari e dei latifondisti ».
Quindi si affermava che i circoli dirigenti della II Internazionale stavano assumendo parte attiva nella messa in moto della sanguinosa macchina della guerra.
« Nel periodo precedente alla guerra i comunisti si sono sforzati di arrivare all'unità d'azione della classe operaia mediante accordi tra i partiti comunisti e socialdemocratici. Oggi, a un accordo di tal genere non si può più pensare. Nella situazione attuale, l'unità della classe operaia può e deve essere realizzata dal basso, sulla base dello sviluppo del movimento delle masse lavoratrici stesse in una lotta risoluta contro i capi traditori del Partito socialdemocratico e degli altri partiti piccolo-borghesi. I capi di questi partiti sono passati armi e bagagli nel campo degli imperialisti, mentre alcuni di essi, come i radicali francesi, si sono direttamente incaricati di condurre la guerra. »
Il Fronte popolare non veniva dunque abbandonato, sebbene il fulcro dell'attività per ricostruirlo si trasferisse esclusivamente alla base.
Sul carattere della seconda guerra mondiale e sull'atteggiamento preso dalla IC si sofferma Spriano, criticando la politica del « disfattismo rivoluzionario » e di « equidistanza tra i blocchi imperialisti », e rilevando una contraddizione tra la posizione presa nel '39 e l'affermazione di Stalin del 1946, secondo la quale la II guerra mondiale « a differenza della I guerra mondiale, prese sin dall'inizio un carattere di guerra antifascista e di liberazione, uno dei compiti della quale era il ristabilimento delle libertà democratiche ».
Noi possiamo rispondere facendo nostra l'affermazione di Grieco nel suo articolo Sul carattere della seconda guerra mondiale (Rinascita, agosto-settembre 1950). Secondo Grieco, Stalin « si riferiva all'atteggiamento preso sin dall'inizio dai popoli di fronte alle aggressioni delle potenze dell'Asse » e non ai governi. Essa iniziò « come guerra tra potenze imperialistiche aggressive (fasciste) e altre potenze imperialiste e non come guerra tra stati fascisti e stati antifascisti ».
Non è possibile, come fa Spriano, ridurre il « disfattismo rivoluzionario » a un'infelice parentesi, oltre la quale poteva riprendere la politica di Fronte, pur nelle nuove condizioni.
Il « disfattismo rivoluzionario » corrispondeva infatti alla situazione reale, nella quale i comunisti dei vari paesi dovevano porre al centro della loro azione la lotta contro la guerra, e quindi contro tutti i suoi fautori, non solo il fascismo ma anche i partiti socialdemocratici e piccolo-borghesi, che dall'alleanza con il proletariato rivoluzionario erano passati al blocco con la borghesia imperialista.
Con essi dunque non era nemmeno pensabile un accordo.
Certo anche nella svolta del « disfattismo rivoluzionario » ci fu chi, come alcuni comunisti tedeschi e francesi andò oltre, illudendosi che il patto di non-aggressione con l'URSS potesse essere duraturo, e anche lo stesso Stalin, pur prevedendo l'attacco nazista, riteneva che esso sarebbe venuto più tardi.
Quando il 22 giugno 1941 la Germania invase l'URSS, il carattere della guerra doveva subire una totale trasformazione, diventando da guerra imperialista guerra di liberazione antifascista, nella quale una funzione dirigente spettava all'Unione Sovietica e alla classe operaia dei vari paesi.
Già Lenin, in polemica con Bukharin, aveva previsto che, qualora se ne fosse presentata la necessità, il paese del socialismo avrebbe potuto entrare in un blocco militare capitalista, ma queste condizioni nel 1939 non erano assolutamente presenti, e ogni altro atteggiamento dell'URSS e della IC sarebbe stato di appoggio all'imperialismo.
Nelle complesse vicende degli anni della guerra, con la costituzione della Grande Alleanza, dei Fronti nazionali, e dello scioglimento dell'IC nel maggio del '43, vengono ripresi i motivi del VII Congresso, sebbene essi acquistino un diverso sviluppo e anche una diversa applicazione.
Con lo scioglimento dell'IC, che peraltro rispondeva alla necessità tattica di mettere fine, nel corso dello sforzo bellico, alle accuse degli alleati secondo le quali essa sarebbe stata uno strumento di ingerenza dell'URSS negli affari degli altri paesi, e alla nuova situazione storica di grande sviluppo delle varie sezioni nazionali, lo svolgimento della linea politica dei Partiti comunisti acquista un carattere non sempre omogeneo e corretto.
Si fanno strada interpretazioni opportuniste della tattica di Fronte unito, sia esso nazionale o popolare, che, frenate dalla costituzione del Kominform nel 1947, avranno via libera con la morte di Stalin, fino a portare, con il XX Congresso del PCUS nel 1956, alla completa degenerazione revisionista di gran parte del movimento comunista internazionale.

La Democrazia popolare


Rimangono da fare almeno alcuni cenni sul periodo successivo alla guerra, alla costituzione della democrazia popolare nei paesi dell'Est europeo.
La fine della guerra vide in quasi tutti i paesi l'esistenza di forti Partiti comunisti e di grandi movimenti popolari.
In campo internazionale la disfatta del nazi-fascismo e l'indebolimento dei vecchi imperialismi (Francia e Gran Bretagna) doveva conferire agli USA il ruolo di imperialismo egemone.
Il blocco tra potenze occidentali e URSS non poteva sopravvivere oltre le circostanze politico-militari che lo avevano determinato; così si dovevano spezzare, sotto la pressione degli Stati Uniti, molte esperienze di unità nazionale realizzatesi nei vari paesi europei durante la lotta di liberazione.
La vittoria dell'Unione Sovietica e l'aiuto dell'Armata Rossa furono le condizioni internazionali e militari che favorirono il distacco di parecchi paesi dell'Europa orientale dallo schieramento imperialista.
Ma questo non vuol dire che nell'Europa occidentale fosse impossibile la realizzazione di esperienze di democrazia progressiva e popolare.
In realtà i partiti comunisti dell'Europa occidentale non seppero comprendere il nuovo mutamento subito dalla situazione internazionale e, conseguentemente, il mutamento del ruolo assunto da varie formazioni politiche nazionali che, come la DC in Italia, si avviavano ad essere i nuovi rappresentanti organici della borghesia e dell'imperialismo.
In questi paesi la situazione politica non era riducibile all'alternativa tra la rivoluzione e il cedimento, ma comprendeva la possibilità di raggruppare le forze democratiche e operaie in Fronti popolari capaci di determinare forme di democrazia progressiva, in cui fossero spezzate le radici economiche e politiche del fascismo, il potere dei grandi monopoli e degli agrari, e la ricostruzione avvenisse sotto la direzione del proletariato.
O perlomeno era possibile raccogliere all'opposizione, nel Fronte popolare, la parte decisiva della popolazione per contrastare decisamente la politica di ricostruzione capitalistica e di asservimento all'imperialismo.
Ma molti Partiti comunisti caddero vittime dell'illusione costituzionale e parlamentare, si lasciarono strappare senza una decisa resistenza le posizioni conquistate, nel governo e nel paese.
Inoltre le esperienze di Fronte popolare che furono realizzate erano già viziate dall'opportunismo elettoralistico, e soprattutto erano coalizioni dove l'egemonia del proletariato non si esercitava effettivamente.
Così queste esperienze, alle prime sconfitte, crollarono nella delusione.
Ben differenti furono l'esperienza bulgara e quella cecoslovacca, a proposito delle quali riportiamo alcuni brani nell'antologia.
Occorrerà quindi soffermarci ancora a considerare le precise caratteristiche che al regime di democrazia popolare venivano attribuite dai Partiti comunisti di quei paesi.
Secondo Dimitrov la democrazia popolare poteva realizzarsi in forma dí stato democratico popolare, capace di assicurare lungo un periodo di transizione il cammino verso il socialismo.
Condizione di questo processo era la direzione della classe operaia sugli altri strati popolari che costituivano la base del regime di democrazia popolare, direzione che doveva esplicarsi compiutamente nella lotta implacabile, prima, per la distruzione del potere dei grandi monopoli e proprietari fondiari e, quindi, per la completa liquidazione degli elementi capitalistici.
Concludeva Dimitrov:
« Solamente procedendo senza deviazioni sulla via del socialismo, lo stato democratico popolare potrà rafforzarsi ed assolvere la sua missione storica. Se la democrazia popolare cessasse di combattere ed isolare gli elementi capitalistici essi non solo minerebbero le basi della democrazia popolare ma determinerebbero anche la sua sconfitta. »
La democrazia popolare veniva quindi concepita non già come un quadro immutabile ma come un terreno di ulteriore avanzamento per il proletariato, come una fase storica della lotta per il socialismo.
In particolari condizioni storiche essa doveva poi esercitare le funzioni stesse di dittatura del proletariato.
Sul piano politico-organizzativo la necessità di rafforzare la posizione dirigente del proletariato si traduceva nel consolidamento delle posizioni di direzione del Partito comunista.

L'eredità politica dei Fronti popolari


Abbiamo visto nel corso della nostra analisi storica, come la tattica del Fronte unito fu di volta in volta realizzata, ed abbiamo cercato di cogliere gli insegnamenti sia negativi che positivi delle varie esperienze.
Ci sembra in queste brevi conclusioni di dover richiamare ancora una volta l'attenzione su, di un punto, cioè sul significato generale della fase storica contrassegnata dal Fronte unito, proletario o popolare.
Poiché essa non può essere scambiata per un regime sociale intermedio fra capitalismo e socialismo, ne deriva la necessità di comprendere la complessità ed il carattere contraddittorio del processo storico che il Fronte unito determina.
In primo luogo non bisogna dimenticare che all'interno del Fronte unito, specialmente se allargato a strati non proletari, permangono contraddizioni, che se pur secondarie all'interno dell'alleanza, continuano ad operare e richiedono quindi di essere affrontate dalla avanguardia rivoluzionaria.
Questo vuol dire che è necessario mantenere sempre e rafforzare il ruolo di direzione del proletariato, e che questo ruolo per esercitarsi realmente non può rinunciare alla critica di tutte le posizioni sbagliate e inconseguenti.
All'interno del Fronte popolare si sviluppa la lotta di classe: essa deve essere trattata per quanto possibile con la critica e la autocritica; ma d'altra parte non bisogna dimenticare che l'evoluzione storica può sempre far mutare il carattere e il ruolo delle contraddizioni.
Contraddizioni che in una certa fase hanno carattere secondario e possono essere definite « in seno al popolo », possono successivamente divenire antagoniste, e quindi lungo l'evoluzione storica è sempre possibile una rottura del Fronte, alla quale il Partito comunista deve essere sempre preparato.
Recentemente il Partito comunista italiano ha spinto la sua revisione della politica condotta dall'Internazionale Comunista e dal partito stesso nel passato al totale ripudio dell'esperienza dei Fronti popolari, giungendo a formulare la proposta socialdemocratica del « compromesso storico », cioè del blocco con la borghesia monopolistica.
Questo fatto deve costituire per tutti i veri comunisti e per i sinceri rivoluzionari uno stimolo ad approfondire lo studio dell'esperienza e della politica di Fronte unito, per ricostruire nelle attuali condizioni storiche l'unità di classe e popolare necessaria per aprire in Italia la strada verso il socialismo.

FINE

 
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