Comunismo - Scintilla Rossa

Ungheria '56 e Praga '68

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C27
view post Posted on 18/2/2010, 22:25




Stavo cercando di documentarmi su questi fatti.
Articoli, scritti, discussioni e considerazioni a riguardo?
 
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mao tse tung
view post Posted on 18/2/2010, 23:20




c'e' un enorme topic sulla primavera di praga, dovresti solo spulciare. li c'e' tanto materiale storico anche mi pare
 
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KevinBeijing
view post Posted on 19/2/2010, 14:45





Budapest, Praga, Bucarest

“La geopolitica ci insegna che l’Europa senza l’URSS è sterile e instabile come l’Europa del 1919 con una Germania umiliata, o come l’Europa del 1946 con una Germania ‘criminalizzata’. I Russi sono Europei a pieno titolo. (…) L’URSS è Europa. L’URSS non è esterna all’Europa. L’URSS è l’ultima potenza europea che si oppone, in questo emisfero, al progetto di dominio americano-sionista (…) Destabilizzare il regime sovietico è la speranza dei sionisti, che vogliono avere le mani libere per dominare tutto il Medio Oriente”.

Jean Thiriart, Les 106 réponses à Mugarza, 83, 94, 103.


La mezza Europa

Al termine della Seconda Guerra Mondiale, mentre gli Stati Uniti d’America subentrano alla Gran Bretagna come potenza talassocratica, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche prende il posto del Terzo Reich come principale potenza europea. Infatti né l’Inghilterra, né la Francia, né tanto meno altri paesi europei possono essere più considerati “potenze europee”. Non sono più potenze, poiché le loro dimensioni si trovano al di sotto di quelle che nella nuova epoca storica sono necessarie perché uno Stato sia soggetto politico, anziché oggetto della volontà altrui. Non sono europee, poiché ormai sono paesi satelliti di Washington.
L’URSS però, in quanto potenza europea ed eurasiatica, non è geopoliticamente completa. L’Armata Rossa è arrivata a Berlino, ma la principale potenza continentale è ben lontana dalle sue frontiere geopolitiche, che si trovano a Lisbona, a Dublino, a Reykjavik. Non è perciò del tutto fuori luogo il parallelismo storico stabilito da Jean Thiriart fra la mezza Europa napoleonica e la mezza Europa sovietica e sovietizzata: “L’URSS si trova nella classica posizione della maggior potenza europea alla quale viene impedito di completarsi. Quel conflitto che per quindici anni, dal 1800 al 1815, contrappose Londra e Parigi, è diventato il conflitto tra Washington e Mosca. Bonaparte non riuscì mai a completare il suo Impero europeo” (1). Solo che al dinamismo napoleonico corrisponde, nell’Europa della guerra fredda, la staticità della potenza sovietica, la quale, tutt’al più, intensificherà il proprio controllo politico, militare ed economico sui paesi sottoposti alla sua egemonia.
Il 14 maggio 1955, per iniziativa sovietica, otto paesi dell’Europa orientale (Polonia, Cecoslovacchia, Repubblica Democratica Tedesca, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania, oltre ovviamente all’URSS) firmavano nella capitale polacca un trattato ventennale di “amicizia, cooperazione e mutua assistenza” sul modello del Patto Atlantico, impegnandosi ad accordarsi, in caso di necessità, un “reciproco aiuto fraterno”. Il trattato prevedeva l’istituzione di un comando unificato, di un comitato politico consultivo e di altri organismi, con sede a Mosca. Il comandante in capo sarebbe stato un sovietico (il primo fu il maresciallo Konev), mentre lo stato maggiore sarebbe stato costituito dai rappresentanti degli stati maggiori generali dei paesi membri e dai loro ministri della difesa. Il Patto siglato a Varsavia intendeva dare una risposta alla creazione dell’Unione Europea Occidentale (UEO), che, ufficialmente costituita una settimana prima, aveva aggregato anche la Repubblica Federale Tedesca e l’Italia ai cinque paesi dell’Unione Occidentale (Gran Bretagna, Francia, Belgio, Olanda, Lussemburgo). Dal punto di vista giuridico, il Patto di Varsavia formalizzava la situazione esistente, legalizzando il controllo sovietico sui territori dell’Europa centro-orientale e autorizzando la permanenza di truppe sovietiche in Ungheria e in Romania anche nel periodo successivo alla firma, ormai imminente, del trattato di pace con l’Austria (un paese che sarebbe sì rimasto neutrale sotto il profilo diplomatico e militare, ma sarebbe diventato “occidentale” nel senso politico ed economico). Un terzo obiettivo del Patto consisteva nel predisporre una contropartita alla proposta sovietica di smobilitare la NATO e di creare un sistema generale europeo di sicurezza collettiva: il Patto di Varsavia sarebbe decaduto il giorno stesso in cui tale sistema fosse entrato in funzione.
In seguito alla nascita del Patto di Varsavia, il blocco occidentale egemonizzato dagli USA intensificò, nei confronti dell’area di influenza sovietica, quelle attività ostili che erano iniziate alcuni anni prima. Già nel 1950, l’anno in cui ebbe inizio la guerra di Corea, la Commissione Difesa degli USA aveva infatti approvato la Legge Lodge, la quale prevedeva l’allestimento di una sorta di “legione straniera” (12.500 unità che sarebbero salite a 25.000 due anni più tardi) costituita di elementi originari dell’Europa dell’Est. Il 12 ottobre 1951 il Congresso aveva votato una Legge di Mutua Sicurezza che stanziava 100 milioni di dollari annui per attività da far svolgere a “persone scelte”, residenti “in URSS, Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Lituania, Lettonia, Estonia” oppure a emigrati originari di questi paesi o comunque a individui e gruppi che accettassero di “diventare forze sostenitrici della NATO” (2). Nel corso della campagna per le elezioni presidenziali, sia Eisenhower sia Dulles si erano impegnati per la “liberazione” dell’Europa orientale; parlando ad un gruppo di emigrati ungheresi, Eisenhower aveva promesso che avrebbe fatto tutto il possibile per “liberare” la loro patria; e il 20 gennaio 1953, dopo essersi insediato alla Casa Bianca, aveva ribadito tale impegno.
Nel biennio 1953-1954, gran parte delle attività americane di propaganda, di spionaggio e di sabotaggio furono coordinate dalla “Commissione Europa Libera”. Per quanto riguardava in particolare l’Ungheria, venne elaborato un piano chiamato “Operazione Focus”, la cui prima fase ebbe inizio il 1 ottobre 1954, quando dal quartier generale di Free Europe, situato nei pressi di Monaco di Baviera, partì uno stuolo di palloni aerei che avrebbe lasciato cadere sul territorio ungherese centinaia di migliaia di volantini, redatti secondo i criteri della guerra psicologica, nonché emblemi propagandistici di alluminio e giornali. Un ungherese che dopo il 1956 "scelse la libertà", descrisse così l'effetto prodotto dal lancio dei volantini dal cielo: "I palloni erano molto importanti dal punto di vista psicologico. Vedendoli arrivare, pensavo: finalmente qualche cosa di concreto, qualche cosa che vale di più delle parole. Se l'America può raggiungerci con emblemi di alluminio, perché non dovrebbe poter lanciare dei paracadutisti nel caso di una rivoluzione? Senza dubbio l'America intende aiutarci" (3). Alla nota di protesta inoltrata da Budapest, gli USA risposero intimando al governo ungherese di attuare i dieci punti contenuti nel programma politico di una sedicente Organizzazione Nazionale per la Resistenza. Nel settembre del 1955 Eisenhower inviò al ministro del Commercio, W. William, che aveva assunto la guida dell’organizzazione Crusade for Freedom, un messaggio di saluto in cui si riconfermava l’impegno della casa Bianca ad agire per la “la resistenza nei paesi d’Oltrecortina”.
Le provocazioni dirette dagli USA culminarono nel 1956. Nel primo trimestre di quell’anno si verificarono 191 violazioni di frontiera a danno dell’Ungheria; da aprile a giugno ve ne furono 320; in agosto, 438. Gli USA d’altronde non nascondevano di essere implicati in tali operazioni: in una nota del 3 febbraio 1956, successiva all’arresto di alcuni cittadini ungheresi che agivano per conto dello spionaggio statunitense, il governo americano elencava una serie di misure di rappresaglia che sarebbero state adottate qualora le spie non fossero state rilasciate. Nel frattempo venivano aumentati i fondi destinati alle attività di sabotaggio in Ungheria e in altri paesi dell’Est europeo: “È un fatto – dirà Togliatti un anno dopo – che alla vigilia degli avvenimenti [ungheresi] lo stanziamento nel bilancio americano per l’organizzazione del sovvertimento nei paesi socialisti venne aumentato di 20 milioni di dollari e ora sembra sia stato portato a 500 milioni” (4). Affermazioni, queste, che sono state più o meno esplicitamente confermate anche da parte antisovietica: “È chiaro – scrive ad esempio un esponente della sinistra democratica - che (…) gli americani – come qualunque attento osservatore – si attendevano ulteriori cambiamenti importanti nelle cosiddette democrazie popolari, e si comportavano di conseguenza” (5). Tuttavia, a quanto pare, i progetti statunitensi non miravano ad abbattere i regimi socialisti, ma solo a mantenere l’URSS sotto pressione. In questo contesto strategico, i popoli dell’Est europeo venivano mandati allo sbaraglio e utilizzati come carne da macello per la politica del cosiddetto containment.





L’Ungheria tenta la secessione

Intensificando la loro azione nei confronti dell’Ungheria, gli Stati Uniti sfruttavano la circostanza favorevole che si era presentata fin dal febbraio 1956, quando il XX Congresso del PCUS e le "rivelazioni" di Khruš?ëv avevano prodotto un terremoto in tutte le capitali dell’Europa soggetta a Mosca, ma soprattutto a Budapest.
Il 20 febbraio 1956, a settant'anni dalla nascita di Béla Kun, la “Pravda” rievocava il leggendario ebreo d'Ungheria che, dopo aver fondato il Partito Comunista Ungherese e instaurato la Repubblica dei Consigli, era caduto vittima della purga staliniana del 1937 insieme con altri esponenti della vecchia guardia. A Budapest, dove la leggenda di Béla Kun era stata soppiantata da quella creata intorno al segretario del partito comunista Mátyás Rákosi (alias Mátyás Roth), l'articolo della “Pravda” suonò come un nuovo avvertimento. Nuovo, perché l'anno precedente aveva visto la defenestrazione di Malenkov, che era il protettore moscovita di Rákosi; sempre nel 1955, Khruš?ëv era andato a Belgrado per riconciliarsi con Tito, sconfessando così la campagna antititoista orchestrata a Budapest nel 1949 all'epoca del processo contro László Rajk e altri dirigenti comunisti.
Il 17 marzo 1956, il fermento prodotto in Ungheria dal XX Congresso dà luogo alla nascita del Circolo Petöfi. Costituito da membri dall'organizzazione giovanile del Partito dei Lavoratori Ungheresi, il Circolo Petöfi indice numerose conferenze e assemblee, nelle quali si manifesta un'opposizione sempre più decisa verso l’egemonia di Rákosi e si propugna il ritorno di Imre Nagy (primo ministro dal 1953 al 1955) alla testa del governo. A questa campagna partecipano attivamente molti esponenti dell'intelligencija mondialista; "moltissimi ebrei comunisti, come Tibor Déry, Gyula Háy, Tibor Tardos, Tamás Aczél, furono i principali animatori, nel 1956, dell'Associazione degli scrittori e del Circolo Petöfi" (6). Così scrive il neocattolico e neoliberale François Fejtö alias Ferenc Fischel, il quale dimentica però, stranamente, di menzionare in quel contesto l’intellettuale più illustre di tutti: “il vecchio rabbi hegeliano” (7) György Lukács (alias Georg Löwinger) (8), "il più rispettato filosofo del regime comunista (...) figlio di un banchiere ebreo (...) divenuto un attivo militante comunista nel 1918" (9).
Sotto la pressione delle proteste e delle rivendicazioni, consapevole che il "nuovo corso" voluto da Khruš?ëv comporta inevitabilmente un avvicendamento nei vertici dei partiti comunisti, il 21 giugno Rákosi, "per sottoporsi a cure mediche", vola a Mosca, dove tre anni prima il capo della polizia di Stalin, Lavrenti Berija, lo aveva accolto con queste parole: "Sei stato il primo e l'ultimo re ebreo dell'Ungheria!" (10). In realtà è stato il primo, ma non l'ultimo, poiché alla carica di primo segretario del Partito gli succede Ernö Gerö (alias Ernst Singer): membro del Partito Comunista fin dal 1918, Gerö ha partecipato alla Guerra di Spagna come capo della polizia segreta ed è stato il più stretto collaboratore di Rákosi.
Il 6 ottobre hanno luogo le esequie solenni di Rajk. La direzione del Partito ha acconsentito a riabilitarlo, perché si rende conto di non poter più opporre resistenza: infatti è venuto a mancare l'appoggio dei Sovietici, che ormai ritengono inevitabile un cambio della guardia a Budapest.
In ottobre si verificano gravi disordini in Polonia, dove Vladislav Gomulka, già arrestato ed espulso dal Partito, ne diventa il nuovo segretario. Khruš?ëv si precipita a Varsavia e grida ai compagni polacchi: "Abbiamo combattuto per voi, e adesso vi vendete agli americani e ai sionisti!" Contemporaneamente, navi da guerra sovietiche incrociano davanti a Gdynia e due divisioni sovietiche di stanza in Polonia si mettono in movimento. Il 20 ottobre la legazione statunitense a Varsavia trasmette agli USA una richiesta di appoggio formulata da Gomulka. Subito, la centrale di Free Europe a Monaco di Baviera si attiva per tenere sotto pressione i paesi confinanti con la Polonia, tra i quali l'Ungheria. La AVH prevede disordini a Budapest a partire dal 22 ottobre.
Quel giorno infatti ha inizio al Politecnico budapestino un'assemblea che si protrae fino a tarda notte e stabilisce che il giorno successivo un corteo andrà a deporre una ghirlanda al monumento a Bem, il generale polacco che nel 1848 aveva combattuto al fianco degli Ungheresi in rivolta contro l'Impero absburgico. Si tratterà dunque di una dimostrazione di solidarietà con i Polacchi. Il 23 ottobre rientrano da Belgrado, dove sono andati una settimana prima, il segretario del partito Gerö e altri tre gerarchi (il primo ministro András Hegedüs, il vice primo ministro Antal Apró, il capo dell’organizzazione del partito a Budapest János Kádár); il Comitato Centrale discute la situazione e decide di proibire la manifestazione indetta per quel giorno.
Alle 12,53 la radio notifica il divieto, ma ormai è troppo tardi. Alle due, gruppi di studenti partono dalla facoltà di medicina e si dirigono verso il Museo Nazionale, lo stesso luogo in cui il 15 marzo 1848 Sándor Petöfi aveva recitato i versi che avevano dato il via alla rivolta antiabsburgica. Alle tre, parte dal Politecnico un corteo di quindicimila studenti; alle quattro e mezzo, quando arriva alla statua del generale Bem, il corteo conta ormai ventimila persone. "In questo mare di volti, si possono riconoscere centinaia di vecchi detenuti politici, i più implacabili avversari del regime, come il leader studentesco Pál Jónás. Ci sono anche gli uomini di Nagy, Losonczy e Vásárhelyi per esempio. Ci sono anche i funzionari della legazione britannica e americana" (11). D'altronde l'incaricato d'affari statunitense Spencer Barnes, convinto che "sia giunta l'ora di sfidare la presenza militare sovietica nel paese" (12), ha già inviato a Washington un telex di tre pagine, insistendo affinché sulla stampa americana "le informazioni siano pubblicate senza ritardo, in modo da sfruttare al massimo le rivendicazioni sempre più radicali del popolo ungherese". Gli Inglesi non saranno da meno (13).
Da quanto abbiamo riferito più sopra, risulta che l'interesse dei diplomatici angloamericani per quanto stava accadendo non era certo un fatto personale o estemporaneo. D’altronde con l'”Operazione Focus” gli Occidentali avevano favorito la formazione di gruppi clandestini di orientamento democratico e si erano inseriti nella campagna elettorale del 1954 per il rinnovo dei consigli comunali. "L'America è con tutto il cuore a fianco del popolo ungherese - dirà Eisenhower il 25 ottobre 1956 - Gli eventi che hanno attualmente luogo in Ungheria sono considerati dagli Stati Uniti come l'espressione reiterata dell'intenso desiderio di libertà del popolo ungherese". Una settimana più tardi, la Associated Press informerà che "il presidente Eisenhower ha offerto viveri e soccorsi all'Ungheria rivoluzionaria per il valore di 20 milioni di dollari".
Ma riprendiamo il filo degli avvenimenti. Alle sei della sera del 23 la folla ha lasciato il monumento di Bem e si dirige verso il Parlamento, chiedendo il ritiro delle truppe sovietiche, reclamando le dimissioni del governo e scandendo il nome Imre Nagy. Adesso sono duecentomila persone. Mentre in Piazza Stalin viene abbattuta la statua dell’eroe eponimo, in Via Bródy, dove si trova la sede della radio, tra la folla dei manifestanti e gli uomini dell'AVH ha luogo una vera e propria battaglia che si conclude con un massacro. Alcuni ufficiali dell'esercito distribuiscono armi alla folla: la defezione delle forze armate segna una svolta decisiva nell'insurrezione.
Il giorno successivo, unità militari sovietiche arrivano a Budapest su richiesta del governo ungherese. Si verificano i primi scontri tra i reparti sovietici e la popolazione. La radio annuncia cambiamenti nel Comitato Centrale e nel governo: Imre Nagy sostituisce András Hegedüs nella carica di primo ministro, ma Ernö Gerö rimane primo segretario del Partito. Imre Nagy si rivolge al popolo in questi termini: "Comunico che tutti quanti deporranno le armi e cesseranno la lotta entro le 13 di oggi, nell'intento di evitare ulteriori spargimenti di sangue, saranno esenti da ogni misura punitiva. Al tempo stesso, dichiaro che, con tutti i mezzi a nostra disposizione, attueremo la democratizzazione sistematica del nostro Paese, in ogni settore della vita economica e politica del Partito e dello Stato. Ascoltate il nostro appello, cessate il fuoco e assicurate il ristabilimento dell'ordine e della calma nell'interesse dell'avvenire del nostro popolo e del nostro Paese" (14). Anziché deporre le armi, gl'insorti conquistano le fabbriche di Budapest, tranne il quartiere industriale di Csepel, che cadrà nelle loro mani solo il 26. Frattanto vengono segnalati scontri anche a Debrecen, a Szolnok, a Szeged.
Il 25 ottobre, mentre gli scontri proseguono e il governo Nagy afferma che l'ordine è stato riportato nella Capitale, Ernö Gerö viene sostituito da János Kádár. Nagy e Kádár dichiarano che, una volta ristabilito l'ordine nel Paese, cominceranno le trattative per l'evacuazione delle truppe sovietiche. Inoltre Nagy promette che il Parlamento esaminerà un programma di riforme. Ciononostante i combattimenti non cessano; anzi, gl'insorti estendono il loro controllo ad altre zone dell'Ungheria. Il 26, il Comitato Centrale si impegna a indire nuove elezioni, a negoziare con l'URSS il ritiro delle truppe, a riconoscere i consigli operai e ad amnistiare tutti coloro che deporranno le armi prima delle ore 21. Il giorno dopo, viene annunciata la formazione di un nuovo governo presieduto da Nagy, che comprende ministri non comunisti quali Zoltán Tildy (capo dello Stato tra il '46 e il '48) e Béla Kovács, mentre György Lukács è ministro della cultura. Domenica 28, Nagy dichiara che le truppe sovietiche lasceranno subito Budapest e che la AVH sarà sciolta. Un comitato d'emergenza, tra i cui membri sono Kádár e lo stesso Nagy, assume temporaneamente la guida del Partito. I consigli operai rivoluzionari e i comitati locali di unione nazionale avanzano una serie di richieste, le più importanti delle quali sono la denuncia del Patto di Varsavia, la revisione della politica economica, la democratizzazione della vita politica. Il capo della polizia di Budapest annuncia la costituzione di unità della Guardia Nazionale Ungherese. Lunedì 29, mentre a Budapest continuano i combattimenti, il ministro della Difesa annuncia il ritiro delle unità sovietiche dalla Capitale e la loro sostituzione con reparti dell'esercito ungherese. Martedì 30: Imre Nagy procede a un nuovo rimpasto governativo, annuncia l'abolizione del partito unico e il ritorno alle condizioni politiche del 1945. Il ministro Tildy chiede che sia ricostituito il Partito dei Piccoli Proprietari; Ferenc Erdei, vice primo ministro del nuovo governo, formula una richiesta analoga per il Partito Contadino. Kádár approva. L'aviazione ungherese minaccia di bombardare i carri armati sovietici se non se ne andranno da Budapest. Intanto gli insorti espugnano il comando della AVH a Pest e incendiano la sede del Partito Comunista a Buda. Viene liberato il cardinale Mindszenty. Un funzionario della legazione USA, mister Quade, si reca in veste ufficiale alla caserma Kilián e assicura i rivoltosi che possono contare sull'appoggio statunitense. Mercoledì 31: mentre il governo manifesta l'intenzione di far uscire l'Ungheria dal Patto di Varsavia e intraprende trattative in questo senso col governo sovietico, il capo militare della rivolta, Pál Maléter, è nominato sottosegretario alla Difesa. Appaiono nuove testate giornalistiche, è riammessa la ricostituzione del partito socialdemocratico, escono dalle prigioni i detenuti politici. Le truppe sovietiche lasciano Budapest.
Giovedì 1 novembre: il governo Nagy denuncia il Patto di Varsavia, proclama la neutralità dell'Ungheria e si rivolge alle grandi potenze e all'ONU affinché se ne facciano garanti. János Kádár annuncia lo scioglimento del partito comunista e la fondazione di un nuovo partito, "operaio e socialista". Venerdì 2: il governo Nagy protesta per il rientro di truppe sovietiche in territorio ungherese e dà mandato a una delegazione militare di trattare coi Sovietici il ritiro delle truppe. Queste si sono impadronite della linea ferroviaria Záhony-Nyíregyháza e mantengono il controllo dell'aeroporto internazionale di Budapest. Il consiglio dei rabbini e il "comitato rivoluzionario" della comunità ebraica della Capitale salutano "con entusiasmo il compimento della rivoluzione" ed esortano gli organismi ebraici internazionali ad aiutare la rivolta. Sabato 3: la delegazione guidata da Pál Maléter viene arrestata dai Sovietici. In un appello alla nazione, il Cardinale Mindszenty annuncia un programma di "conquiste democratiche" (15) e pone "i grandi Stati Uniti d'America" (16) in testa alla classifica delle nazioni con le quali l'Ungheria vuole avere rapporti di amicizia. Qualche giorno più tardi si rifugerà proprio nell'ambasciata statunitense, dove resterà per quindici anni.
Il 4 novembre, alle 4,20, Imre Nagy parla da Radio Kossuth e annuncia che ha avuto inizio l'attacco sovietico contro Budapest, "con l'evidente intento di rovesciare il governo legale e democratico d'Ungheria". Le truppe sovietiche, appoggiate da paracadutisti, si impadroniscono di tutti i centri nevralgici dell'Ungheria, nonostante la resistenza opposta da truppe ungheresi e da gruppi armati di civili, ai quali nella parte orientale del paese si sono uniti alcuni guerriglieri dell’Ukrainska Povstanska Armiia, l’organizzazione ucraina antisovietica sostenuta dagli angloamericani (17). Intanto János Kádár e altri (Ferenc Münnich, Imre Horváth, István Kossa, Antal Apró, Imre Dögei, Sándor Rónai) annunciano di aver dato vita a un nuovo governo e di aver chiesto l'intervento dell'Armata Rossa per soffocare la controrivoluzione. Molte stazioni radio cadono sotto il controllo sovietico e per tutta la giornata successiva ripetono appelli per la cessazione del fuoco e la ripresa del lavoro. Nella giornata di lunedì continuano i combattimenti nell'ottavo distretto di Budapest, a Csepel, nella regione del Balaton e a Kecskemét. Gli scontri si protraggono per una settimana, a Budapest e in altre località del Paese.
Seguì un mese di resistenza passiva, diretta dal Consiglio Operaio Centrale di Budapest, finché il 9 dicembre il Consiglio fu sciolto e i suoi membri furono arrestati. Imre Nagy e i suoi compagni saranno condannati a morte nel 1958, dopo un processo a porte chiuse.
Per la perestrojka e per la liquidazione del “socialismo reale”, era ancora troppo presto.


Orge kafkiane e “primavera” sionista

Il 20 agosto 1967 le acque della Vltava restituivano il cadavere di Charles Jordan, cittadino statunitense. Jordan, dirigente dell’American Joint Distribution Committee (la nota organizzazione sionista) era andato a Praga per lavorare a un progetto di destabilizzazione approntato dallo spionaggio israeliano. È incerto se la morte di Jordan sia da attribuire ai Sovietici (che lo tenevano d’occhio fin dal 1952) o alla CIA stessa, preoccupata per il fatto che il KGB fosse al corrente della collaborazione americana con l’agente del Joint. In ogni caso, l’episodio rese palese il fatto che Praga era diventata la sede della centrale operativa dei servizi segreti sionisti per l’Est europeo. Sloggiata dalla Cecoslovacchia in seguito all’intervento sovietico, la centrale spionistica si trasferirà a Istanbul e la rete informativa verrà riorganizzata da Efraim Elrom, alias Hofstadter; costui verrà a sua volta eliminato nel maggio 1971 da una squadra dell’Esercito Popolare di Liberazione turco.
Installandosi a Praga, la centrale operativa sionista aveva cercato di creare le condizioni per un ritorno del gruppo sionista ai vertici del potere, come ai bei tempi di Slánský. Non si era mosso soltanto il Joint, ma diverse organizzazioni e personalità del sionismo internazionale. È stato notato, infatti, che il massiccio insediamento del gruppo in questione negli ambienti ideologici e culturali della Cecoslovacchia degli anni Sessanta avvenne “non su iniziativa dei sionisti ‘casalinghi’, ma sotto la guida di centri internazionali come il Joint, il Sokhnut, il Centro di Documentazione di Simon Wiesenthal, i servizi governativi di Israele, del Hudson Institute, della Central Intelligence degli Stati Uniti. I caporioni sionisti si recavano spesso all’estero e ricevevano nelle loro abitazioni i rappresentanti dei centri suddetti. Praga, ad esempio, era stata ripetutamente visitata dal sionista austriaco Golden, dal rappresentante dell’Agenzia Ebraica John Enals, da A. Bremberg, che lavorava per l’Ente Informazioni statunitense, e da molti altri. Il noto teorico dell’anticomunismo, Zbignew Brzezinsky, per ben tre anni era venuto all’Istituto di Politica ed Economia Internazionali di Praga per parlare della Fine del leninismo e di argomenti affini. Una particolare importanza veniva attribuita dai sionisti alla conquista dei mezzi per l’informazione di massa (23), tant’è vero che la “Pravda” di Bratislava potrà parlare, in relazione al periodo di Dub?ek, della tendenza “supergiudaizzante” di stampa, radio e televisione.
Il gruppo di pressione sionista sferrò un attacco massiccio per il controllo della cultura. Le cosiddette “orge kafkiane” (24) furono il preludio di una più vasta e più scatenata orgia sionista, che il già citato Fejtö-Fischel ha elegantemente presentato come una doverosa protesta contro la politica filoaraba del Patto di Varsavia e come un fenomeno di normale solidarietà con Israele, di cui gli “intellettuali” (eufemismo per “sionisti”) sostenevano apertamente “il diritto (…) a difendersi, anche con un attacco, contro una sempre più precisa minaccia di annientamento” (25). Il pubblicista sionista ricorda alcuni fatti significativi: “Al congresso degli scrittori riuniti a Praga il 29 giugno 1967, numerosi oratori criticano la politica del governo: Pavel Kohout confronta il destino di Israele a quello della Cecoslovacchia dopo gli accordi di Monaco; il romanziere Jan Procházka, membro supplente del Comitato centrale ed ex confidente di Novotný, dà lettura di una lettera indirizzata alla direzione del partito in cui si protesta contro la campagna anti-israeliana. Qualche settimana dopo il congresso, il romanziere di lingua slovacca M?a?ko parte per Israele e denuncia sulla stampa occidentale il servilismo e le tendenze antisemite e regressive del governo di Praga” (26). La radio trasmetteva con frequenza ossessiva le canzoni ebraiche di Yvonne Przenosilova e Hanna Hegerova; la televisione aveva intensificato le trasmissioni di argomento ebraico.
Nel periodo della cosiddetta “primavera di Praga”, i sionisti installarono la loro centrale culturale nella redazione dei “Literární listy”. Sulle pagine di questa rivista ricomparve la firma di Eugen Löbl, il quale, condannato all’ergastolo dai giudici del processo Slánský, nel 1963 era stato riabilitato ed aveva successivamente assunto la direzione della Banca Slovacca. Tra i collaboratori dei “Literární listy” si trovava poi il maestro di Goldstücker, J. L. Fischer, che tuonava contro la “suburra antisemitica, infuriata fino alla follia” (22). Ivan Klíma presentava l’aggressione sionista del 1967 come una difesa contro il tentativo arabo di attuare un “programma di genocidio” (18) e accusava “la campagna antisemita dei nostri vicini settentrionali” (19), cioè le misure adottate dal governo polacco in seguito ai fermenti sionisti del 1967-’68. Oltre a sionisti quali Antonín Liehm, Michael Reiman, Milan Jungmann e altri, scriveva sui “Literární listy” anche Milan Kundera, che in Italia verrà pubblicato dalla casa editrice fondata da Roberto Olivetti, presieduta da Alberto Zevi e amministrata da Luciano Foà.
Ma il maître à penser del “socialismo dal volto umano” fu Eduard Goldstücker. Se fino al gennaio 1968 costui aveva limitato le proprie attività al campo culturale, nel mese successivo egli già ambiva a svolgere un ruolo politico direttivo. “Parlava spesso alla radio e alla televisione, sollecitava la ‘purificazione’ e la ‘rinascita’ del Partito, cercava di accaparrarsi le simpatie degli scrittori, degli artisti, dei giornalisti e di quanti operavano nel campo della cultura, diventava membro di vari consigli e comitati, società commissioni. Più tardi apparvero furtivamente e circolarono per Praga le voci di una sua… presunta possibile elezione alla carica di… presidente della repubblica cecoslovacca. I sionisti sapevano che Goldstücker non avrebbe potuto conseguire tale onore, ma ne spargevano la voce: voci del genere erano quanto mai utili per alimentare artificialmente il suo prestigio. È chiaro che un ‘possibile presidente’ viene ascoltato con attenzione e rispetto” (20). La “Pravda” slovacca scriveva: “Sotto la sua guida, l’Unione degli Scrittori ha fatto a poco a poco della controrivoluzione il proprio punto di riferimento e la propria posizione ideologica (…). Con la diretta partecipazione di Goldstücker sono stati pubblicati ampi brani del trotzkista e rinnegato Isaac Deutscher, che è stato presentato ai lettori come un eminente marxista”.
Nei circoli di potere cecoslovacchi, il gruppo di potere al quale apparteneva Goldstücker era molto ben rappresentato. L’economista Ota Sík, il “padre della riforma economica” che aveva elaborato un sistema di pianificazione ispirato alle teorie di Liberman, era diventato vice primo ministro e membro del Comitato Centrale del Partito, nel quale era entrato anche Frantisek Kriegel. Jí?i Pelikán aveva assunto l’incarico di direttore generale della televisione. Di Eugen Löbl abbiamo già detto. Dovremmo compilare un elenco lunghissimo, se volessimo enumerare i numerosi “intellettuali” sionisti che andarono a installarsi sulle cattedre universitarie e nelle redazioni giornalistiche e televisive.
L’intervento attuato dall’URSS e da altri paesi socialisti nell’agosto 1968 provocò l’esodo di numerosi sionisti, che “scelsero la libertà” nell’Europa occidentale e in Israele. Il loro tentativo di conquista del potere venne seppellito sotto la restaurazione guidata da Husák, il quale fu a sua volta condizionato dal gruppo autoritario facente capo a Indra e a Kapek.
Nel maggio 1971 si tenne il XIV Congresso del partito comunista cecoslovacco che ratificò la restaurazione. Le relazioni di Segre e Luzzatto, inviati rispettivamente dal PCI e dal PSIUP, non vennero lette.




Il golpe di Bucarest



Mentre le operazioni di Budapest e Praga possono essere legittimamente interpretate come “un successo della geopolitica sovietica, [in quanto il risultato di tali operazioni è che] le frontiere dell’’area del socialismo’ restano intatte” (26), ben diverso è il significato dell’intervento sovietico nei fatti romeni del dicembre 1989. Lasciando da parte la difesa del socialismo, che non solo non costituiva affatto un obiettivo dell’azione di Gorba?ëv, ma non poteva neanche essere invocata come un pretesto formale, si può ragionevolmente pensare che l’appoggio sovietico ai golpisti romeni abbia avuto tra le sue motivazioni la difesa delle frontiere sudoccidentali dell’URSS. È noto infatti che nel discorso di chiusura del XIV Congresso del Partito Comunista Romeno Nicolae Ceausescu aveva risposto al messaggio di Gorba?ëv rivendicando alla madrepatria romena i territori della Bucovina del Nord e della Bessarabia (l’attuale “Repubblica di Moldavia”), occupati dall’URSS nell’estate del 1940. In ogni caso, la differenza sostanziale tra gli “interventi fraterni” effettuati dall’URSS a Budapest e a Praga e le implicazioni sovietiche nel putsch di Bucarest risiede nel fatto che nel 1956 e nel 1968 Khruš?ëv e Brežnev avevano garantito l’egemonia sovietica su paesi che confinavano con la zona d’influenza americana e che si riteneva intendessero restaurare il capitalismo, mentre nel 1989 l’URSS gorbacioviana intervenne per demolire un regime che, al contrario, si ostinava a proclamare la sua fedeltà all’ortodossia comunista. Anzi, Gorba?ëv voleva la fine di Ceausescu proprio perché quest’ultimo non intendeva affatto accettare il programma di liquidazione dei regimi socialisti.
Non solo: l’URSS intervenne a Bucarest in sintonia con gli USA, perché i progetti del Cremlino relativi alla Romania venivano a coincidere con quelli degli ambienti usurocratici e mondialisti, danneggiati da una politica autarchica che, a prezzo di pesanti sacrifici imposti alla popolazione romena, aveva portato all’estinzione del debito contratto da Bucarest con la Banca Mondiale. E ancor più danneggiati sarebbero stati tali ambienti, qualora la Romania avesse realizzato, assieme alla Libia e all’Iran, il progetto di un istituto di credito in grado di concedere prestiti a tasso ridottissimo ai paesi in via di sviluppo (27).
Nel 1992 chiesi a Marian Munteanu (capo del Movimento per la Romania e animatore delle manifestazioni di Piazza dell'Università): "In che misura si deve credere alla versione che ha presentato la caduta di Ceausescu come l'effetto di un moto insurrezionale partito dal popolo? E in che misura si può invece legittimamente parlare di un colpo di Stato? In altre parole: non sarà che la fine di Ceausescu debba essere ricondotta, principalmente, alla sua volontà di liberare la Romania da ogni dipendenza nei confronti della Banca Mondiale?" L’agitatore studentesco cercò di salvare capra e cavoli, da una parte ammettendo che "effettivamente esisteva da tempo una congiura, ispirata da centrali politiche estere per rovesciare il regime", ma preoccupandosi anche, d’altra parte, di salvaguardare l’immagine eroica della “azione spontanea e indipendente, svolta da giovani che non disponevano di nessun supporto organizzativo". Insomma: "l'insurrezione scoppiò in maniera, per così dire, naturale: solo in un secondo tempo venne utilizzata e strumentalizzata da gruppi già preparati che agivano secondo intendimenti propri. E questi gruppi avevano legami col capitalismo internazionale e con gli Stati Uniti”.
È interessante confrontare l’interpretazione dei fatti fornita da Munteanu con quella di un suo avversario politico: Gelu Voican Voiculescu (28), l’uomo che organizzò il processo sommario al Conducator e ricoprì per un certo periodo, nel 1990, la carica di vice primo ministro.
"Noi non possiamo sapere che cosa fosse stato deciso a Malta”, mi rispose Gelu Voican quando gli ricordai la frase pronunciata da Ceausescu davanti ai golpisti: “La mia sorte è stata decisa a Malta”, cioè nell’incontro di Bush e Gorbacev che aveva avuto luogo in quell’isola qualche mese prima. “Però – aggiunse Voican - è cosa certa che la rivoluzione romena venne innescata dai servizi di diverse potenze straniere. Nella misura in cui il terreno era dell'URSS, la presenza effettiva e la manodopera furono fornite dal KGB. Nello stesso tempo, la CIA si era insediata a Budapest, dove aveva installato una sua centrale. Tra i due organismi vi fu una stretta collaborazione. L'operazione si chiamò Valachia 89 e richiese l'impiego di mezzi assai cospicui. Pare che la CIA abbia partecipato più che altro con piani e denaro e il KGB con la logistica. Posso dirle, in base a informazioni provenienti da fonti autorevoli, che dopo il 6 dicembre il numero dei turisti sovietici crebbe bruscamente di dieci volte e a partire dal 16 dicembre vi furono in Romania 67.000 turisti sovietici. Sono cifre esatte, fornite dai punti di frontiera. In genere, entravano in Romania su automobili Lada, quattro uomini giovani o di età media su ciascuna auto. Sono probanti le registrazioni effettuate nelle camere degli alberghi, anche se non tutti questi strani turisti avevano preso alloggio in albergo. La maggior parte di loro entrò dalla frontiera occidentale, dalla Jugoslavia e dall'Ungheria, molti addirittura su automobili con targa jugoslava. Forse vi furono anche agenti jugoslavi che operarono a Timisoara. Sicuramente vi furono agenti ungheresi, a Timisoara. Fu la TV ungherese a dirigere gli avvenimenti e a istigare la gente alla solidarietà col pastore Tökés, il quale rappresentò la miccia dell'esplosione".
"Dunque - gli chiesi - gli eventi del dicembre 1989 furono il risultato di una macchinazione dei servizi segreti delle due superpotenze e dei loro fiancheggiatori?"
"Al momento attuale, - rispose Voican - disponendo di informazioni alle quali ho avuto accesso solo dopo quegli eventi, sono in grado di formulare un'ipotesi: il 16-17 dicembre a Timisoara e il 21-22 a Bucarest, questi servizi che preparavano il rovesciamento di Ceausescu vollero fare una prova generale per valutare la situazione. Nella loro rappresentazione della realtà, il popolo romeno era considerato inerte e passivo, mentre i servizi di repressione erano ritenuti fedelissimi a Ceausescu e molto efficienti. Allora gl'ispiratori dell'operazione vollero per prima cosa tastare il terreno e vedere quale fosse l'adesione della popolazione, come avrebbero reagito la Milizia, la Securitate, l'Esercito, il Partito, i mezzi di comunicazione. Pensarono quindi di fare una prova a Timisoara e nella Capitale. Ma questo semplice tentativo diede il via ad un processo che sfuggì loro di mano e li colse di sorpresa. Essi avrebbero voluto che la rivolta scoppiasse il 30 gennaio o forse in gennaio, e invece furono sorpresi tutt'a un tratto da un incendio generale. Tutto andò al di là delle loro aspettative. Mentre loro volevano semplicemente esaminare la situazione, la cosa assunse le dimensioni di una rivolta generalizzata. Fu questo a paralizzarli, oltre al nostro comportamento atipico. Noi infatti, nel nostro dilettantismo e confusionismo, demmo a questi professionisti l'impressione di agire secondo un piano prestabilito, un piano che a loro sfuggiva. In realtà, noi non avevamo proprio nessun piano e procedevamo alla cieca. Allora si bloccò qualcosa nel meccanismo degli agenti stranieri. Essi fecero alcune provocazioni, spararono qua e là, spaccarono qualche vetrina, ma poi tutto prese un suo corso e non poté più essere fermato. Fu così che Ceausescu cadde in maniera estremamente rapida, praticamente in un solo giorno. Nessuno se lo sarebbe mai potuto immaginare".
La ricostruzione degli eventi fatta da Gelu Voican ci presenta dunque un intreccio nel quale si muovono in maniera autonoma e simultanea due distinti gruppi di eversori: quello degli agenti stranieri e quello dei congiurati romeni. Tuttavia sarebbero stati questi ultimi a determinare la caduta del regime.
A rendere poco credibile una tale ricostruzione, è il fatto che nel Consiglio del cosiddetto Fronte di Salvezza Nazionale (il gruppo dei golpisti) si trovavano alcuni personaggi dei quali erano ben noti i legami con l’URSS, con gli USA e con circoli sionisti. Ion Iliescu, che Ceausescu aveva messo in disparte nel 1971, era un ex agente del KGB e conosceva Gorba?ëv fin dal periodo in cui era studente a Mosca.
Silviu Brucan (alias Samuil Bruekker o Bruckenthal) era l'ideologo del Fronte di Salvezza Nazionale. Nato nel 1916 da famiglia ebraica, si era iscritto al partito comunista nel corso degli anni trenta. Nel settembre 1944, quando apparve il primo numero ufficiale di "Scânteia", organo del Comitato Centrale del Partito Comunista Romeno, Silviu Brucan fu segretario generale di redazione. Dopo la guerra, prese parte all'allestimento dei processi per la liquidazione degli uomini politici rivali del PCR. Secondo fonti dell'emigrazione romena, ebbe il compito di architettare artificiosamente una campagna antisemita pretestuosa (29). Dal 1956 al 1958 fu ministro plenipotenziario della legazione della Repubblica Popolare di Romania negli Stati Uniti d'America (fino al 1964 la Romania non ebbe un ambasciatore a Washington). Quindi, fino al 1962, fu a New York, dove rappresentò la Romania presso le Nazioni Unite. In seguito a uno scontro con il ministro degli esteri Corneliu Manescu, dovette andarsene dal ministero e accettare l'incarico di vicepresidente del Comitato di Stato per la Radio e la Televisione, incarico che tenne dal 1962 al 1967. Con l'arrivo al potere di Ceausescu, l'uomo che aveva sostenuto Ana Pauker e Gheorghe Gheorghiu-Dej venne allontanato dalle funzioni politiche; benché privo di diploma universitario, ricevette un posto di docente di Scienze Sociali e di Sociologia all'Università di Bucarest (30). All'inizio del 1988 fu messo agli arresti domiciliari per una dichiarazione che aveva rilasciata a Radio Europa Libera. Nel 1989 però era di nuovo in circolazione: era spesso ospite dell'ambasciatore statunitense Roger Kirk e di Michael Parmly, consigliere politico dell'ambasciata degli USA. Al momento degli eventi che portarono alla caduta di Ceausescu, Brucan rientrava dagli Stati Uniti, dopo aver fatto scalo a Mosca e incontrato Anatoli Dobrynin, vecchia spia del KGB.
Petre Roman, anch'egli di famiglia ebraica, si era tenuto nell'ombra fino ai giorni della "rivoluzione". Suo padre Walter Roman (vero nome: Neuländer), "era stato uno dei veterani delle Brigate Internazionali in Spagna, per poi rifugiarsi, nel periodo della guerra, in Unione Sovietica. Ritornato in Romania, diventerà l'uomo di fiducia di Gheorghe Gheorghiu-Dej, predecessore di Ceausescu. È uno dei fondatori della Securitate, dove aveva il grado di generale, al quale aggiungeva quello di colonnello del KGB. (...) Dopo il fallimento della rivolta ungherese del 1956, per ordine di Gheorghiu Dej incontrò Imre Nagy e lo persuase a rifugiarsi in Romania... da dove sarà consegnato all'Unione Sovietica. Walter Roman muore nel 1983, lasciando a suo figlio Petre un'eredità sociale e politica. Quest'ultimo conosce tutti i vertici della nomenclatura, tra i quali anche i figli di Ceausescu. Ma è soprattutto un intimo di Brucan e di Iliescu" (31).
Dumitru Mazilu, ex rappresentante della Romania all’ONU, è stato spesso presentato come l’uomo di fiducia degli americani. Nicolae Militaru, ex colonnello della Securitate, nel 1980 era stato condannato a morte per spionaggio, ma era stato salvato dai Sovietici. L’ex diplomatico Bogdan aveva due figlie negli Stati Uniti.
Appare perciò verosimile l’ipotesi che gli americani abbiano dato il loro avallo alla collaborazione dei congiurati di Bucarest con gli agenti di Mosca, sicché vanno rivedute e corrette in questo senso interpretazioni come quella fornita dall'ultimo ministro degli Esteri del governo comunista, Ion Totu, il quale attribuì l’abbattimento del regime nazionalcomunista romeno a un’azione esclusivamente occidentale. Nel periodo in cui si trovava detenuto nel carcere di Jilava, l’ex ministro dichiarò testualmente: “Gli eventi del dicembre 1989 facevano parte di un vasto programma di azione degli Stati Uniti e dell'Occidente (in primo luogo l'Inghilterra) per destabilizzare l'URSS e gli altri paesi socialisti e per attrarli nella sfera d'influenza del capitalismo; lo scopo principale era che gli Stati Uniti dovevano restare l'unica superpotenza mondiale, che decidesse a proprio piacimento. In questo programma, i progetti concernenti la Romania avevano come obiettivi principali: a) la trasformazione del nostro paese in un avamposto militare, in una base militare nell'Est europeo, ai confini con l'URSS; b) la trasformazione del nostro paese in una semicolonia economica sottoposta agli stimoli e alle richieste del capitale finanziario internazionale" (32). In ogni caso, quelli che Ion Totu presentava come piani delle potenze atlantiche hanno avuto una puntuale realizzazione.








1. J. Thiriart, Les 106 réponses à Mugarza (pré-édition non-corrigée), a cura dell’Autore, Bruxelles 1982, Question 103.
2. Documents on American Foreign Relations, Princeton University Press 1953, pp. 12.
3. J. A. Michener, The Bridge at Andau, New York 1957, pp. 251-252.
4. P. Togliatti, Per una via italiana al socialismo, per un governo democratico delle classi lavoratrici, in VIII congresso del PCI – Atti e risoluzioni, Roma 1957, p. 26.
5. F. Argentieri, Ungheria ’56: la rivoluzione calunniata, Milano 1998, p. 131.
6. F. Fejtö, Ungheria 1945-1957, Torino 1957, p. 283.
7. C. Roy, Somme toute, Paris 1976, p. 145.
8. Del suo contribule Lukács, François Fejtö si ricorda però altrove, quando ne tesse le lodi di ministro della cultura: "Egli voleva fare del Partito comunista il mecenate e il protettore di tutte le attività culturali, un centro di raccolta per realizzare le grandi riforme: democratizzazione e modernizzazione dell'insegnamento, allargamento delle basi della cultura, emancipazione dello spirito. Era il momento del pluralismo e del 'dialogo' " (F. Fejtö, op. cit., pp. 30-31). Dinanzi a una tale apologia c'è semplicemente da restare allibiti, se solo si pensa che il pluralista Lukács fece compilare un vero e proprio indice dei libri proibiti, mandò al macero la stampa "fascista e antidemocratica", fece fondere i piombi della prestigiosa collana di filosofia diretta da Béla Hamvas, condannò ad una vita da paria gli intellettuali non "organici".
9. D. Irving, Ungheria 1956. La rivolta di Budapest, Milano 1981, p. 127.
10. A. Heller e F. Fehér, Ungheria 1956: anatomia di una rivoluzione politica, in: S. Kopácsi, In nome della classe operaia, Roma 1980, p. 287. D. Irving (op. cit., p. 79) riferisce la frase di Berija in questi termini: “Ascolta, compagno Rákosi, l’Ungheria ha avuto imperatori asburgici, kan tartari, principi polacchi e sultani turchi, ma non avrà mai un re ebreo, ed è questo che tu stai cercando di diventare”.
11. D. Irving, op. cit., p. 162.
12. D. Irving, op. cit., p. 158.
Dopo la rivolta, il Ministero degli Esteri ungherese chiederà l'allontanamento del colonnello James N. Cowley,
addetto militare della legazione britannica. Secondo la nota del Ministero, Cowley "mantenne relazioni attive e dirette con diversi capi delle forze controrivoluzionarie armate, e con numerose persone che parteciparono alla controrivoluzione. Nel corso di questa attività, con i suoi consigli militari e di politica militare, egli appoggiò i dirigenti delle azioni rivolte a rovesciare il sistema di Stato della Repubblica Popolare Ungherese (...) Dopo l'annientamento delle forze della controrivoluzione, il colonnello Cowley diede dei consigli speciali alle persone sopraindicate, a proposito di come nascondere le loro armi e gli equipaggiamenti" (Il complotto controrivoluzionario di Imre Nagy e dei suoi complici, Edizione dell'Ufficio di Informazione del Consiglio dei Ministri della Repubblica Popolare Ungherese, s.i.e. [ma: Budapest 1957], p. 127.
13. La rivoluzione ungherese. Una documentata cronologia degli avvenimenti attraverso le trasmissioni delle stazioni radio ungheresi, Milano 1957, p. 44.
14. J. Mindszenty, Memorie, Milano 1975, p. 326.
15. J. Mindszenty, op. cit., p. 325.
16. A. Rosselli, La resistenza antisovietica e anticomunista in Europa orientale 1944-1956, Roma 2004, p. 98.
17. V. Begun, Invasione senz’armi, “Neman” (Minsk), 1, gennaio 1973.
18. Negli anni dello “stalinismo”, per l’esattezza fino al 1957, l’opera di Kafka era rimasta al bando dalla vita
culturale cecoslovacca; del narratore ebreo non era stato pubblicato nulla: “né di Kafka né su Kafka, eccettuati alcuni pamphlets chiaramente di attacco”. Così si legge in un libro di Eduard Goldstücker (Libertà e socialismo, Roma 1968, p. 25), il quale, scarcerato nel 1956 grazie alla destalinizzazione, andò ad insediarsi sulla cattedra di letteratura tedesca all’Università Carlo IV di Praga e si dedicò anima e corpo a quelle che vennero dette “orge kafkiane”. Il giubileo dello scrittore, celebrato nel 1963 con la conferenza di Liblice, segnò l’avvio di una riscossa sionista nella vita culturale cecoslovacca. “Kafka divenne una sorta di punto nodale nello scontro per rompere l’isolamento nel quale ci avevano portato gli anni dello stalinismo e della guerra fredda” (E. Goldstücker, op. cit., p. 26). In precedenza, il realismo socialista aveva considerato l’opera di Kafka come la ripugnante manifestazione di una psiche anormale e morbosa; ancora nel 1973, una rivista sovietica scriverà: Le opere di Kafka, che nella loro maggioranza riflettono un patologico stato d’animo dello scrittore e non la vera realtà, possono servire solo come propaganda del disfattismo e del pessimismo (…) Ma i sionisti ne avevano fatto la loro bandiera, perché Kafka era di origine ebraica” (V. Begun, Invasione senz’armi, cit.).
19. François Fejtö, Storia delle democrazie popolari dopo Stalin, Firenze 1971, p. 255.
20. Ibidem.
21. J. L. Fischer, Riflessioni su T.G.M., in: Praga 1968. Le idee del “nuovo corso”, a cura di Jan ?ech, Bari 1968, p. 43.
22. I. Klíma, Un progetto e un partito, in: Praga 1968, cit., p. 130.
23. Ibidem.
24. V. Begun, Invasione senz’armi, cit.
25. F. Furet, Il passato di un’illusione, Milano 2001, p. 514.
26. “Nessuno fino ad oggi ha spiegato che cosa avesse Ceausescu da discutere, di così importante, a Teheran. (…) Ceausescu, il presidente libico Gheddafi e gli ayatollah dell’Iran avevano deciso che ciascuno dei loro paesi contribuisse con cinque miliardi di dollari alla fondazione di una banca che accordasse prestiti a interesse ridotto, dal 3% al 5%, ai paesi in via di sviluppo” (Ion Coja, Marele manipulator si asasinarea lui Culianu, Ceausescu, Iorga [Il grande manipolatore e l’assassinio di Culianu, Ceausescu, Iorga], Bucarest 1999, p. 211).
27. Su G. Voican Voiculescu cfr.: C. Mutti, Eliade, Vâlsan, Geticus e gli altri. La fortuna di Guénon tra i Romeni, Parma 1999, pp. 21-28.
28. Traian Golea, How the Condamnation of a Nation is staged, Hallandale 1996, p. 12.
29. Silviu Brucan pubblicò diversi libri di taglio politologico, che a partire dal 1971 furono sistematicamente editi negli Stati Uniti: The Dissolution of Power (Alfred Knopf, New York 1971), The Dialectic of World Politics (Macmillan, New York and London 1978), The Post-Brezhnev Era (Praeger, New York 1983), World Socialism at the Crossroads (Praeger, New York 1987), Pluralism and Social Conflict (Praeger, New York 1990, prefazione di Immanuel Wallerstein), The Wasted Generation. Memoirs (West View Press, Boulder 1993).
30. Radu Portocala, România. Autopsia unei lovituri de stat. In tara în care a triumfat minciuna [La Romania. Autopsia di un colpo di stato. Nel paese in cui ha trionfato la menzogna], Bucarest 1991, p. 97.
31. Intervista di Angela Bacescu, "Europa", 22 aprile 1991.
 
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view post Posted on 19/2/2010, 17:27
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LA VERITÀ SUI FATTI D’UNGHERIA del '56



LA VERITÀ SUI FATTI D’UNGHERIA

In occasione del 53º anniversario dei fatti d'Ungheria del 1956 una martellante campagna di revisionismo storico anticomunista intenderebbe cambiare i verdetti storici. È una cosa intollerabile non solo per ogni comunista (degno di definirsi tale) ma anche per tutti gli antifascisti conseguenti! Qui di seguito si intende far giustizia di quei fatti, utilizzando il più possibile il metodo della storiografia scientifica, con una lettura di parte: quella della verità storica!

- COME SI ARRIVÒ AI FATTI D’UNGHERIA

Ripercorriamo la storia dell’Ungheria nei tre anni che precedettero i fatti dell’ottobre-novembre 1956.

Dall’estate del 1953 era iniziato nella Repubblica Popolare d’Ungheria (nata il 20 agosto 1949) un repentino processo di involuzione capitalistica nella pianificazione economica fondamentale del Paese e di imborghesimento del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi (a causa della debolezza, impreparazione e cedevolezza, tra i quadri, dei fautori del socialismo, guidati da Matyas Rakosi e Erno Gero, e del sopravvento momentaneo preso dall’alleanza delle correnti revisionista e socialdemocratica, guidate da Nagy, Kadar e Marosan) nel suo funzionamento effettivo che ripristinava il frazionismo e disgregava il centralismo democratico congestionando il Partito in laceranti guerre intestine.

Il 4 luglio 1953, messo in minoranza in Parlamento dai deputati “comunisti” del blocco socialdemocratico-revisionista (interno al Partito dei Lavoratori) alleato col partito dei “piccoli proprietari” (dei kulak e della media borghesia), il Governo Rakosi dovette dimettersi dopo che, da meno di un anno, aveva completato con successo - grazie soprattutto all’impegno entusiasmato della classe operaia magiara - l’industrializzazione socialista della non più arretrata Ungheria e avviato in grande stile la collettivizzazione dell’agricoltura, trovando larghi consensi tra i contadini medio-poveri (che avevano già beneficiato dell’abolizione del latifondo e della riforma agraria dell’immediato dopoguerra) e l’ostilità incondizionata della borghesia agraria kulak.

Il blocco parlamentare dei destri insediava così il 1° Governo Nagy per interrompere bruscamente l’edificazione socialista e contravvenire al desiderio della maggioranza del popolo ungherese che aveva votato a maggioranza, alle precedenti elezioni, il Partito dei Lavoratori per sostenere il suo programma di generalizzazione dei servizi sociali pubblici e gratuiti (sanità, scuola, collocamento…), socializzazione dei mezzi di produzione e di collettivizzazione dell’agricoltura.

Dopo un repentino aumento del tenore di vita dei lavoratori e delle masse popolari dovuto ai successi del 1°Piano quinquennale 1949-1954 (conclusosi con un anno di anticipo per effetto di una generalizzata emulazione socialista fra i lavoratori) che vide la drastica riduzione dei prezzi dei generi di largo consumo e l’aumento di salari, pensioni e disponibilità abitava pubblica, si ebbe col 1°Governo Nagy una brusca inversione di tendenza con una riduzione drastica del volume produttivo delle industrie statali (-6%) con consequenziale aumento dei prezzi e allargamento del mercato per i prodotti della media industria privata (e aumento dei profitti dei nepmen capitalisti) alla quale venne applicata una sostanziale riduzione della pressione fiscale che venne invece aumentata per le aziende agricole collettive molte delle quali furono costrette a sciogliersi ricacciando nella povertà migliaia di contadini. I salari ebbero un ulteriore, seppur lieve, aumento nominale ma il loro potere d’acquisto crollò a picco.

Un apposito decreto amnistiava (perché ritenuti “non più socialmente pericolosi”) burocrati corrotti, ricettatori, contrabbandieri, sabotatori dell’industria e dell’agricoltura socialista, incendiari di cooperative agricole, condannati per coinvolgimento minore coi regimi fascisti di Horthy e Szálasi, condannati per coinvolgimento nel fallito golpe (maggio 1949) orchestrato dal generale Gyorgy Palffy e dall’allora ministro degli esteri László Rajk (in combutta col Vaticano, col regime revisionista jugoslavo di Tito e con la CIA americana). Fra gli amnistiati vi era anche il revisionista Janos Kadar che da ministro degli interni, complice di Peter Gabor, nel 1951 favorì un altro tentato colpo di stato controrivoluzionario revisionista di militari filotitoisti, ostacolando e depistando la vigilanza degli organi di sicurezza sui loro preparativi golpisti.

Nel febbraio del 1954 venne istituita un’unica retta universitaria assai alta in sostituzione delle 8 fasce progressive istituite nel 1947 che garantirono l’accesso all’Università pubblica ai figli del proletariato e dei lavoratori. Solo gli studenti provenienti dalla borghesia poterono continuare tranquillamente gli studi (per la gioia dei professori riciclati dall’ancien régime fascista dell’ammiraglio Horty) mentre gli altri furono costretti, in maggioranza, ad abbandonarli. Il 25 marzo del 1955 gli studenti borghesi nagysti fondarono nel quartiere bene della capitale magiara (Pest) il Circolo Petőfi per sostenere organizzativamente la svolta di destra intrapresa dal Primo Ministro Imre Nagy. La fondazione del Circolo Petőfi fu fatta in risposta contraria alle numerose manifestazioni operaie e popolari di pacifica protesta contro la politica liberista e antipopolare del Governo Nagy che ebbero luogo in tutta l’Ungheria dal novembre del 1954 all’aprile del 1955 ( a Budapest, durante la manifestazione dell’8 marzo per la giornata internazionale per l’emancipazione femminile apparvero cartelli con su scritto “Viva l’Ungheria socialista! Abbasso Nagy e il governo della borghesia!”). Nel frattempo il Circolo Petőfi organizzava, nella sola Budapest, contromanifestazioni (pacifiche) di studenti borghesi a sostegno del premier.

La seduta plenaria del Comitato Centrale del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi, svoltasi tra il 2 e il 4 marzo 1955, dopo aver fatto un dettagliato bilancio critico dell’operato dell’esecutivo, accusò pubblicamente Imre Nagy di deviazionismo di destra. Il successivo 3 dicembre Nagy verrà finalmente espulso dal Partito dei Lavoratori.
Sotto la pressione della piazza, e di innumerevoli “ordini del giorno” votati a maggioranza dalle assemblee della democrazia popolare, il Governo Nagy venne sfiduciato e sostituito, il 18 aprile 1955, dal Governo Hegedüs.

Il nuovo governo tentò quindi di porre rimedio ai gravi dissesti economici e sociali causati dal Governo Nagy cercando di rimettere l’Ungheria sulla via dell’edificazione dell’economia socialista. Le cooperative agricole vennero subito sgravate dalle onerose tasse imposte dalla politica pro-kulak di Nagy. La collettivizzazione ricominciò a prendere quota dopo la brusca flessione degli anni bui del 1953-1954, le cooperative agricole si rifondarono in tutta la campagna magiara. La produzione agricola di cereali da panificazione negli anni ’53, ’54 e ’55 in milioni di tonnellate furono (secondo fonti Onu pubblicate a Ginevra nel 1956) rispettivamente 2,8 , 2,3 e 2,7 mentre per gli altri cereali furono 3,4 , 3,3 e 3,7. La ripresa produttiva cerealicola, e in generale agricola, contribuì al ritorno di prezzi bassi per il pane e per altri generi alimentari agricoli.

Il ritorno delle aziende collettive diffuse ancor più la zootecnica nell’allevamento con sostanziali incremento dei capi bovini (marzo1955=1.950.000 di capi, ottobre1955=2.200.000 di capi) e ancor di più suini (marzo1955=5.800.000, ottobre1955=8.000.000) e un consequenziale caduta dei prezzi delle carni.

L’industria statale riprese con vigore il suo ruolo guida dell’economia ungherese. Dopo il declino unilaterale della produzione industriale, registrato nel 1954, nel 1955 si ebbe un aumento del 7% della produzione industriale complessiva. La produttività del lavoro subì, nello stesso periodo di confronto ’54-’55, un incremento solo di poco inferiore al 5%.

Il 1°maggio 1956, grazie alla politica economica svolta nei dodici mesi precedenti, furono ridotti i prezzi di diverse migliaia di articoli di consumo, in misure variabili fra il 10% e il 40%. A partire dalla stessa data furono ridotti da 48 a 42 ore settimanali massime e 36 minime gli orari di lavoro degli addetti a lavori pesanti o malsani.

La politica intrapresa dal Governo Hegedüs fu accolta con grande soddisfazione dalle masse lavoratrici e popolari ungheresi attirandosi invece l’insofferenza e l’ostilità degli imprenditori e dei kulak arricchitisi alla grande sotto la liberalizzazione del mercato promossa dal Governo Nagy trovandosi poi, con la caduta di quel “loro” governo “amico”, di nuovo “schiacciati” dall’economia pianificata.

Va detto che, nonostante i gia citati segnali positivi di ripresa, le misure economiche apportate dal Governo Hegedüs non sanarono completamente il dissesto sociale creato da poco meno di due anni di controriforme economiche del Governo Nagy. La gia citata amnistia scarcerò migliaia di condannati per reati comuni che erano stati inseriti in un programma di rieducazione al lavoro e lavoro correzionale volto alla loro reintegrazione nella società socialista, allo scadere della pena, come liberi lavoratori. L’amnistia non li reintegrò nel sistema produttivo e quindi si ritrovarono come prima liberi e disoccupati, ricacciati da dove provenivano: nel sottoproletariato. Molti di loro si ridiedero al furto e al contrabbando mentre altri (e anche gli stessi gia citati) vennero avvicinati facilmente dalla controrivoluzione organizzata (che agiva sotto la copertura “umanitaria” della Chiesa cattolica che metteva a loro disposizione, senza tanti problemi, la struttura delle parrocchie) che con un “pugno di dollari” se li comprava come utile manovalanza per i piani eversivi gia in elaborazione nell’ambasciata statunitense di Budapest dove vi lavoravano alacremente agenti della CIA e istruttori militari dei Marines. Non furono la maggioranza i sottoproletari che di loro spontanea iniziativa si presentarono agli uffici di collocamento statali per ottenere una onesta occupazione (che in poco tempo veniva assegnata anche se, va detto, il lavoro non qualificato era retribuito al più basso degli otto livelli salariali), molti preferirono fare quello che sapevano già fare, e c’era chi era disposto ad “assecondarli” sia nel contrabbando (commercianti borghesi) che per futuri scopi di provocazione reazionaria.

Nel maggio del 1955, con l’adesione della Repubblica Federale Tedesca alla NATO, contingenti militari statunitensi si insediarono stabilmente in Baviera installandovi l’avamposto europeo per la politica del “roll back”, strategia di politica estera elaborata nel 1953-1954 dal segretario di stato USA John F. Dulles che aveva come dichiarato obbiettivo la destabilizzazione interna con successiva aggressione militare contro i paesi a democrazia popolare e l’Unione Sovietica. L’anello più debole del “blocco comunista” (secondo un rapporto del direttore della CIA Allen Welsh Dulles del 1954 indirizzato al già citato fratello John), era stato rilevato proprio nell’Ungheria (seguita dalla Polonia e dalla Repubblica Democratica Tedesca).

Reinhard Gehlen (ex direttore della sezione dei servizi di informazione della Wehrmacht nazista addetta allo spionaggio militare contro l’Unione Sovietica) venne messo alla guida della sezione CIA bavarese “Europa Libera” da dove incominciò a reclutare, tra la fine del ’55 e l’inizio del ’56, ex graduati dell’esercito del regime fascista dell’ammiraglio Horthy ed ex “croci frecciate” del nazista ungherese Szálasi. Questa accozzaglia di criminali nazi-fascisti, confidenti di Gehlen dai primi anni ’40 ai tempi della “crociata contro il bolscevismo” sul fronte orientale, venne arruolata in un corpo speciale di “Combattenti per la Libertà” (equipaggiato abbondantemente di armamenti ma non di divise) pronto ad essere spedito in Ungheria dal cielo (paracadutato) e da terra allo scoccare dell’ora X. Il cancelliere austriaco Julius Raab, nonostante il formale non allineamento del suo Paese, aveva rassicurato gli USA che il suo governo non avrebbe minimamente ostacolato il transito sul territorio austriaco di uomini ed armi dei “Combattenti per la Libertà” e dei reparti scelti dei Marines e dell’esercito americano se dalla Baviera si fossero diretti in Ungheria.

Visto l’avvicinarsi minaccioso dell’imperialismo NATO la Repubblica Popolare d’Ungheria non poteva non aderire al Trattato Difensivo di Sicurezza Collettiva firmato a Varsavia il 14 maggio 1955 dal Governo Hegedüs assieme a quelli delle altre repubbliche popolari e dell’Unione Sovietica (esclusa chiaramente la Jugoslavia del revisionista Tito che dal 1949 era istituzionalmente una “democrazia popolare” solo di nome, e non più di fatto, ed era apertamente alleata agli USA e all’imperialismo occidentale pur stando tatticamente fuori dalla NATO).

Dal 14 al 25 febbraio del 1956 si svolse a Mosca il XX° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. La destra revisionista del partito sovietico guidata da Nikita Kruscev, rappresentante della corrotta borghesia burocratica antistalinista (burocrati imborghesiti che si arricchivano illegalmente rubando i fondi e i beni pubblici e che tanto aveva temuto il “terrore staliniano” che puniva col lavoro correzionale le loro ladronerie e “marachelle”), prevalse con la sua linea politica volta a smantellare l’economia socialista e ad instaurare quella a capitalismo monopolistico di Stato.

Il XX° Congresso del PCUS non riguardò la sola Unione Sovietica (che si avviava verso una deriva statal-capitalistica conclusasi definitivamente nel 1961) ma condizionò, destabilizzandolo, l’intiero movimento comunista internazionale (il Kominform fu sciolto in nome delle “vie nazionali al socialismo” ossia al capitalismo di Stato) compreso, quindi, il Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi. Nel Partito dei Lavoratori imperversava il frazionismo dal 1953 senza soluzione di continuità. Il centralismo-democratico si era ormai ridotto a un proforma. La sinistra del Partito era debole e tentennante ma, nonostante ciò, deteneva ancora la direzione politica con Matyas Rakosi come Segretario Generale anche, e soprattutto, grazie all’appoggio della base proletaria e lavoratrice dei semplici iscritti. L’opposizione unificata della destra del Partito - composta da i revisionisti titoisti (seguaci di Kadar) e liberisti (seguaci di Nagy) e socialdemocratici – dopo il KO avuto nell’aprile del ’55 tornò alla carica sventolando la bandiera del XX° Congresso del PCUS.

Approfittando del prestigio di cui godeva ancora il PCUS (prestigio ottenuto grazie a ai meriti ottenuti sotto la guida di Stalin dai quali meriti Kruscev campava solo di rendita) i destri riuscirono a far votare a maggioranza dal Comitato Centrale del Partito, nel giugno del 1956, una risoluzione dal titolo “Lezioni del XX° Congresso del PCUS” dove si esaltava il “nuovo corso” intrapreso nel ‘53 da Nagy (per il quale si chiedeva implicitamente la riammissione nel Partito), si rilanciava lo sviluppo ulteriore del frazionismo (denominato pretestuosamente come “democrazia di partito” e “direzione collegiale del Comitato centrale”), si pretendeva una “via ungherese al socialismo” e si condannava un non meglio chiarito “irrigidimento schematico del marxismo-leninismo”.

Alla plenaria del Comitato Centrale del 17 luglio 1956 i destri passano quindi all’attacco, blaterando accuse infondate sui processi pubblici fatti fino ad allora contro golpisti e traditori (si affermava senza esibire uno straccio di prova, ma recitando il copione del “rapporto segreto” di Kruscev, che “si estorcevano confessioni tramite tortura”), attaccando l’applicazione della dittatura del proletariato contro l’eversione borghese come “violazione della legalità socialista”, pretendendo le dimissioni del Segretario Generale Matyas Rakosi che pur di mantenere la sua posizione e prendere tempo si era messo ad assecondare i revisionisti nelle loro assurdità. Una tattica opportunista frutto della sua debolezza e impreparazione ideologica che lo portarono di fatto, con tutti i leader della sinistra, a scivolare nel revisionismo. Contro di lui, e la sua giusta (seppur tentennante) linea politica del passato, e in appoggio alle falsità dei destri, presero la parola alla plenaria del Comitato Centrale anche due emissari revisionisti di Krusciev: Anastas Mikojan e Mikhail Suslov.
Matyas Rakosi, piuttosto che appellarsi al proletariato e ai sinceri comunisti ungheresi affinché si mobilitassero nelle piazze perché non fosse loro nuovamente e definitivamente scippato il potere politico, preferì gettare la spugna rassegnando le dimissioni.

Il blocco dei destri era riuscito a impadronirsi definitivamente della direzione del Partito dei Lavoratori. Il proletariato ungherese venne così irreversibilmente privato di ciò che rimaneva di quello che avrebbe dovuto essere la sua avanguardia politica e organizzata. Il Partito degenerò completamente per colpa dell’accettazione delle frazioni al suo interno e per aver ancor prima (1948) permesso una fusione in blocco col Partito socialdemocratico. Un partito quest’ultimo che andava lasciato “morire per dissanguamento”, vista la repentina fuga della sua base nel Partito Comunista Ungherese, e non fuso accettando in massa come “comunisti” non solo i militanti della base operaia ma anche i vertici opportunisti socialdemocratici.

Per non suscitare la reazione sdegnata della base del Partito (idealmente legato alla sinistra) i revisionisti elessero come nuovo Segretario Generale un ex esponente della sinistra fautrice del socialismo, e convertito di fresco per opportunismo al revisionismo moderno: Ernö Gerö. Gerö fungeva solo da fantoccio per i destri che aspettavano il momento più opportuno per sostituirlo con l’impopolare revisionista titoista Janos Kadar non prima di averlo “riabilitato” completamente con una propaganda di beatificazione.

Una volta impadronitisi del Partito i destri persero la loro unità d’azione dando inizio alle rivalità fra loro: i revisionisti titoisti-krucioviani erano per un capitalismo di Stato che mettesse al potere la borghesia burocratica dei quadri statali corrotti e degenerati mentre i revisionisti nagysti e socialdemocratici erano propensi a un capitalismo liberista che mettesse al potere i resti della borghesia capitalistica spodestata e che richiamasse gli investimenti monopolistici dei capitali esteri occidentali.

Questo contrasto tra nuova borghesia burocratica statalista e vecchia borghesia liberista si risolse nella Jugoslavia revisionista di Tito nel 1954 con la netta supremazia della prima e la marginalizzazione della seconda (rappresentata dal revisionista liberista Milovan Gilas). In Polonia si arrivò invece al compromesso con la linea di Władysław Gomułka che prevedeva lo smantellamento del sistema economico socialista a favore di un capitalismo misto statale-privato che, ovviamente, prendeva il nome di “via polacca al socialismo”. Prima di raggiungere quel compromesso, nell’ottobre 1956, la destra revisionista gomulkiana, legata ai resti della vecchia borghesia e ai kulak, si alleò coi terroristi dell’Armia Krajowa (composta da ex fascisti pilsudskiani e sostenuta dalla CIA) che organizzarono le provocazioni armate a Poznan (giugno 1956) cercando di strumentalizzare le giuste manifestazioni di protesta degli operai che manifestarono contro le nuove norme produttivistiche (che vincolavano lo stipendio alla produttività della singola fabbrica “autogestita”) introdotte dalla nuova direzione revisionista capeggiata dal kruscioviano Edward Ochab (nuovo Segretario Generale del Partito Operaio Unificato Polacco dal 10 marzo 1956) che puntava alla trasformazione forzata del sistema socialista in capitalismo di Stato pensando all’esclusivo interesse della nuova borghesia burocratica.

In Ungheria, dal luglio all’ottobre 1956, le frazioni revisioniste (impadronitesi del Partito) non riuscirono a prendere nessuna seria iniziativa controriformatrice. Il 6 ottobre le salme dei golpisti Gyorgy Palffy e László Rajk (fucilati a seguito di condanna a morte, ingiunta a conclusione di un regolare processo pubblico, con l’accusa di alto tradimento per aver orchestrato il fallito golpe del 1949) furono esumate e solennemente trasferite, per ordine del gruppo dirigente revisionista, in un “sepolcro d’onore”. Da golpisti e traditori del proletariato e del popolo lavoratore magiari Palffy e Rajk vennero trasformati dalla propaganda revisionista in “martiri” e “paladini della - non specificata per chi - libertà”.

Il 14 ottobre una delegazione del partito revisionista ungherese (che continuava a chiamarsi “…Unificato dei Lavoratori”) guidata da Gerö e Kadar partì per la Jugoslavia, su invito dei revisionisti di Belgrado. Gli incontri con Tito e Kardelj durarono dal 15 al 22 ottobre; nella sera di quest’ultimo giorno, i delegati ungheresi rientrarono a Budapest e pubblicavano un comunicato al Paese, che esaltava “il rinsaldamento dei rapporti fraterni con la Jugoslavia” e annunciava che l’arcirevisionista Tito avrebbe restituito la visita all’Ungheria nel prossimo futuro.

Un’altra delegazione ungherese, indipendente dalla prima, era di ritordo dalla Jugoslavia: si trattava di un gruppo di sindacalisti revisionisti titoisti, guidato da Sandor Gaspar e Nicholas Somogyi, che aveva lungamente visitato il Paese balcanico per raccogliere elementi sufficienti per esaltare, una volta tornati in patria, la “via jugoslava al socialismo” ossia l’economia a capitalismo di Stato introdotta da Tito nel 1949.

La presa di iniziativa dei revisionisti statalisti di Kadar, verso le controriforme economiche strutturali, spinse la fazione dei revisionisti liberisti seguaci di Nagy, sorpassati per attivismo dalla concorrenza, a mobilitarsi indicendo nella capitale, per il 23 ottobre, una manifestazione in appoggio del loro modello ideale di via da seguire: quello di Gomułka. La bandiera dei kadaristi era perciò la “via jugoslava al socialismo”, quella dei nagysti era invece la “via polacca”.

- LA CONTRORIVOLUZIONE HA INIZIO

il 23 ottobre alle 14.30 gli studenti universitari borghesi nagysti (assieme a imprenditori, kulak, ricchi commercianti tutti nostalgici di Imre Nagy al quale dovevano la loro esistenza e sopravvivenza di classe) organizzati dal Circolo Petőfi, si riuniscono di fronte alla Casa degli Scrittori, inneggiano a Gomułka e portano anche bandiere polacche accanto a quelle magiare. Verso le 15 i dimostranti, 50 mila in tutto, si portarono al monumento al poeta Sandor Petőfi per poi proseguire fino alla conclusione del corteo davanti alla statua del generale Bem, eroe polacco che aveva partecipato al Risorgimento ungherese un secolo prima.

Le masse operaie e lavoratrici, invece, affollarono (in 200mila) le principali piazze di Budapest solo di sera, e non per appoggiare la manifestazione nagysta del pomeriggio ma per ascoltare, dagli altoparlanti, il messaggio al Paese, trasmesso alla radio, di Ernö Gerö che, nonostante la sua recente abiura e conversione al revisionismo moderno, godeva ancora di molta popolarità tra i lavoratori. Nel suo discorso, pronunciato alle ore 20, Gerö esaltò il regime economico (a capitalismo di Stato) della Jugoslavia revisionista da lui descritto come “esempio da emulare”, suscitando molta perplessità in chi lo ascoltava (nel recente passato il Partito dei Lavoratori aveva sostenuto molte campagne informative che smascheravano, nella sua essenza, il “socialismo” titoismo). Scroscianti applausi, invece, segnarono il suo discorso quando disse: ”…noi condanniamo coloro che cercano di diffondere il veleno dello sciovinismo nella nostra gioventù, e che si sono valsi delle libertà democratiche assicurate dal nostro Stato per compiere una manifestazione di carattere nazionalistico”. Un coro di “no” echeggiò da tutte le piazze quando Gerö (seppur ipocritamente e rivolto strumentalmente al solo revisionismo nagysta) formulò la domanda “… o forse vogliamo interrompere l’edificazione socialista per poi aprire di nuovo al capitalismo?”.

A questo punto, verso le ore 21, apparvero segni di un’azione preordinata e disciplinata di provocazione e di disordine fra la folla nelle piazze: ingiurie antisemite, false voci di sparatorie, scoppi di petardi. Poco dopo, alcuni drappelli si separano dalla folla e, molto sicuri e con chiara idea su quello che c’era da fare, dove si doveva andare e come si distribuivano i compiti, un primo gruppo si diresse alla stazione radio; un secondo alla sede dell’ organo del Partito dei Lavoratori “Szabad Nep”; un terzo alla centrale telefonica; un quarto, un quinto e un sesto a un parco motoristico con 60 autocarri, a una centrale elettrica recentemente trasformata in una fabbrica di armi, e a un deposito di munizioni.

A proteggere la stazione radio si trovavano alcuni poliziotti e guardie armate che avevano precisi ordini di non sparare se non per difendersi. Furono attaccati: gli assalitori controrivoluzionari ne uccisero alcuni e altri ne ferirono, le guardie risposero al fuoco e dopo una schermaglia e qualche danno agli impianti, l’attacco alla stazione radio fu interrotto.

Alla sede del giornale “Szabad Nep” una donna fu uccisa e il gruppo armato controrivoluzionario riuscì ad impadronirsi dell’edificio: distrusse una libreria bruciandone i volumi contenuti fra cui libri di Marx ed Engels e le opere complete di Lenin e Stalin. La bandiera rossa che sventolava sul tetto dell’edificio veniva strappata e data alle fiamme. Gli squadristi controrivoluzionari mantennero il controllo delle rotative per circa 16 ore.

Nel frattempo un altro manipolo di autisti, chiaramente preparati e scelti in precedenza, si erano impadroniti degli autocarri del deposito per servirsene poi per caricare armi e munizioni tratte dalla fabbrica e dalla polveriera.

A queste azioni rapide e più o meno simultanee parteciparono forse un migliaio di persone o poco meno. Intanto, fra chi era nelle piazze di Budapest, molti erano tornati alle loro case, e anche il Governo, a quanto sembra, fu informato con lentezza e non molto istantaneamente di quelli che sembravano attacchi sporadici e non connessi fra loro, compiuti da sparuti gruppi di poche persone.

Alle 21.30 un gruppo di controrivoluzionari, attrezzati di funi e piccozze, entrano in Piazza degli Eroi per abbattere la maestosa statua di Stalin che li si trovava. La popolazione (quella presente che tornava alle case dopo aver ascoltato il discorso di Gero) si mise in mezzo occupando pacificamente la piazza per impedire l’abbattimento di quel monumento che per molti ungheresi era un simbolo che riassumeva in sé i recenti progressi socialisti del Paese come la proprietà pubblica, socializzata e collettiva della terra, delle fabbriche e dei mezzi di produzione e di scambio; la soppressione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, il diritto di ogni cittadino al lavoro, all'istruzione e all'assistenza sanitaria gratuite; la direzione dello Stato da parte della classe operaia come classe d'avanguardia nella società; l'eguaglianza dei diritti economici, sociali, culturali e politici di tutti i cittadini indipendentemente dalla condizione, dall'origine, dal sesso, dal lavoro svolto, ecc.; la garanzia, sulla base del principio della democrazia socialista, non solo dei diritti dei cittadini ma anche dei mezzi necessari all'esercizio di questi diritti. Questo simboleggiava Stalin per il popolo lavoratore ungherese mentre per la borghesia, per la reazione e per i “comunisti” revisionisti era il simbolo della loro rovina (e lo è tutt’oggi), un simbolo da distruggere e denigrare in tutti i modi!

Il gruppo di controrivoluzionari si ritirò cacciato da una piccola folla disarmata di uomini, anziani, donne e bambini (in tutto un migliaio). I manifestanti pensavano che i controrivoluzionari si fossero arresi. Ma subito la piazza venne circondata da sopraggiunti controrivoluzionari armati (trasportati dai camion) che attaccarono gli inermi manifestanti di Piazza degli Eroi mettendoli in fuga con l’apertura del fuoco ad altezza uomo e falciandone molti con raffiche di mitra. Nel parco adiacente la piazza vennero accatastati 31 morti (tutte vittime civili fra cui donne e bambini). Fu un eccidio! Il primo massacro della controrivoluzione ungherese. La statua di Stalin venne abbattuta alle ore 22.30.

Verso le 22.30 il Parlamento si riunì in seduta d’emergenza. I kadaristi cedono all’implicita minaccia dei nagysti di proseguire l’alleanza con i provocatori controrivoluzionari e, tramite questi, con l’imperialismo occidentale guidato dagli USA che progettava un’invasione del Paese dopo aver scatenato la provocazione armata interna. Venne offerta la carica di Primo ministro, per la seconda volta, a Imre Nagy (reintegrato di recente nel Partito) che accetta. La composizione del nuovo governo è ancora, sostanzialmente, quella del Governo Hegedüs (che da luglio aveva avuto alcune sostituzioni di ministri sostituiti con personaggi delle ambo correnti revisionite). Il nuovo Governo Nagy, appena insediato, non era certo un “monocolore” nagysta.

Contemporaneamente, i gruppi di squadristi si radunavano, salvo quello asserragliato nel palazzo del giornale “Szabad Nep”, e, nelle prime ore del 24 ottobre, si accingevanoall’assalto di altri edifici pubblici. Soltanto verso le 8 del mattino, passata una notte insonne, il Consiglio dei Ministri diede il primo annuncio dell’ “attacco armato contro gli edifici pubblici e contro le nostre formazioni armate compiuto da elementi reazionari fascisti”. Nel corso della mattinata, il Consiglio dei Ministri proclamò la legge marziale e finalmente fece un terzo passo annunciando che “gli organi di Governo non hanno fatto conto della possibilità di vili e sanguinosi attacchi nella capitale”, il Consiglio dei Ministri (presieduto da Nagy!) fece appello “alle formazioni sovietiche di stanza in Ungheria” perché venissero al suo aiuto in conformità con le clausule del Trattato di Varsavia.

Pur rispondendo affermativamente alla richiesta d’intervento, le formazioni sovietiche non intrapresero azioni armate degne di nota fino al giorno successivo. Dal 24 ottobre fin verso mezzogiorno del 25, si videro truppe sovietiche fraternizzare con le masse ungheresi. Mezzi di trasporto militari sovietici, fra cui carri armati, trasportavano perfino dei civili ungheresi ai punti di raccolta nelle principali piazze di Budapest dove in molti affluivano spontaneamente per pacifiche dimostrazioni contro i gravi atti di squadrismo fascista accaduti.

A mezzogiorno del 24 ottobre Nagy plla radio annunciando “la realizzazione di una via ungherese al socialismo, corrispondente alle nostre caratteristiche nazionali”, condannava ufficialmente gli “atti criminali di elementi ostili alla democrazia popolare” promettendoli però “piena amnistia per quelli che deporranno le armi entro le ore 14” (il termine fu poi spostato alle 22). Ma gli imperialisti americani, che manovravano direttamente dall’ambasciata USA in Ungheria i criminali squadristi in azione, non avevano alcuna intenzione di interrompere una grossa provocazione che le avrebbe permesso una aggressione armata, magari ancora, come 6 anni prima in Corea, “sotto l’egida dell’Onu”.

Quel tanto di combattimenti che si svolse nella giornata del 24 contro le bande squadriste fu sostenuta in massima parte da unità dell’Esercito ungherese, e al calare della notte il corpo essenziale dell’attacco armato controrivoluzionario sembrava spezzato.

Il mattino del 25 il Comitato Centrale del partito revisionista ungherese annunciò la revoca da Segretario Generale a Gerö e che Janos Kadar lo sostituiva.

Ma nella stessa mattinata del 25 ripresero nuovi attacchi contro unità della polizia e dell’Esercito ungheresi, la provocazione controrivoluzionaria continuava. Cominciarono spedizioni omicide organizzate contro quadri intermedie del Partito del Lavoratori (quadri di sincera fede comunista non ancora epurati dalla nuova dirigenza revisionista). Il carattere disciplinato dei gruppi squadristici era manifesto, si osservò che essi erano ben equipaggiati con armi di fanteria (e che erano stati ben addestrati al loro utilizzo), e molti portavano bracciali d’identificazione tutti uguali fra loro.

Elargendo dollari statunitensi i controrivoluzionari arruolavano, come massa di manovra, comuni delinquenti e numerosi elementi del sottoproletariato utilizzandoli per il lavoro più sporco (incendi, devastazioni, assassini atroci con armi bianche e improprie). Ad essi si unirono fanatici anticomunisti borghesi o ex-borghesi ed ex-nobili latifondisti declassati nostalgici dei loro “bei tempi andati” di “quando si stava meglio quando si stava peggio” sotto la dittatura fascista dell’ammiraglio Horthy. Questi ultimi partecipavano volentieri - con figli al seguito affinché apprendessero le tradizioni rituali fasciste - ai roghi di vessilli e materiale librario e di propaganda comunisti.

A mezzogiorno del giorno 25 Nagy parlò alla radio dichiarando ambiguamente che “il ritiro delle truppe sovietiche, il cui intervento nei combattimenti si è reso necessario per salvaguardare gli interessi vitali del nostro ordine socialista, verrà senza ritardo dopo il ristabilimento dell’ordine e della quiete”. Il discorso di Nagy mise l’accento sull’esigenza di una pretestuosa “indipendenza nazionale” (lasciava intendere che la presenza delle truppe sovietiche menomasse tale “indipendenza”). Da notare che in questo suo intervento alla radio, a differenza di quelli che farà pochi giorni dopo, Nagy parlava ancora (formalmente) del “futuro socialista” dell’Ungheria.

Proprio mentre Nagy parlava alla radio, però, a Budapest riprendevano gli attacchi armati degli squadristi controrivoluzionari con al loro seguito la peggiore teppaglia criminale. Il Museo Nazionale venne preso d’assalto e incendiato appiccando il fuoco in una dozzina di punti diversi: lavoratori, semplici cittadini e alcuni pompieri cercarono di arrestare la distruzione delle opere d’arte inestimabile e dei documenti storici contenuti nel Museo Nazionale: furono accolti dalle pallottole sparate dai tetti delle case vicine e da altri rifugi. Alla fine, le fiamme dominarono incontrastate e il superbo edificio, ricostruito nel 1945, fu ridotto ancora una volta a uno scheletro di rovine.

Sempre il 25, nei villaggi attorno a Budapest e nelle campagne delle province a nord-ovest della capitale, gruppi di controrivoluzionari armati da venti a cinquanta uomini, montati su veicoli e senza pretese o parole d’ordine di “purificazione del socialismo” o di qualunque altro genere, cominciarono a darsi alla caccia all’uomo. Questo era semplice terrorismo fascista, e nello spazio di poche ore, prima della fine della giornata, in circa quindici piccoli centri dei dintorni di Budapest le bande assassine procedettero sistematicamente al massacro di tutti i comunisti noti, presidenti dei Consigli popolari locali, guardie di polizia e dirigenti di cooperative e collettivi. In questo momento, e ancora per diversi giorni, le truppe degli eserciti sovietico ed ungherese confinarono il loro intervento soltanto entro Budapest, ciò spiega i massacri diffusi che avvennero fuori città.

Nel pomeriggio del 25 migliaia di budapestini si misero in movimento verso la piazza antistante il palazzo del Parlamento. L’obbiettivo essenziale dei dimostranti era di esprimere la loro totale indignazione nei confronti degli efferati crimini messi in atto dai controrivoluzionari ed appoggiare l’intervento delle truppe degli eserciti ungherese e sovietico e gli appelli a deporre le armi e a porre fine ai massacri. Molti dei manifestanti viaggiavano verso la piazza issati su carri armati sovietici a testimoniare una diffusa fraternizzazione delle masse ungheresi con le truppe sovietiche.
Nel mentre la piazza del Parlamento si stava rapidamente riempiendo si ebbero d’improvviso degli spari in direzione delle forze sovietiche (li presenti assieme ai manifestanti ungheresi) e di una parte della folla. Cecchini controrivoluzionari appostati sui tetti di alcuni palazzi che affacciavano sulla piazza innescarono così una ennesima vile provocazione. Le truppe sovietiche, sotto tiro, risposero al fuoco. I cecchini lanciarono granate nel caos di una piazza gremita di manifestanti che preda del panico fuggivano confusamente in tutte le direzioni. Il bilancio del massacro nella piazza del Parlamento del 25 ottobre fu tragico: una sessantina di morti e un numero imprecisato di centinaia di feriti. Alle ore 18 il Governo proclamò un coprifuoco di 12ore.

All’alba del 26 ottobre, a Budapest, si era ristabilita di nuovo una qualche misura di ordine e di calma. Alle 6, il Governo annunciò per radio che, di conseguenza, la popolazione avrebbe potuto uscire per gli acquisti e le altre necessità dalle 10 alle 15; ai lavoratori delle industrie dei commestibili e dei trasporti veniva assicurato che potevano riprendere le loro attività senza pericolo.

Intanto però, fuori dalla capitale e soprattutto nell’occidente del Paese – dove il confine con l’Austria era stato aperto fin dal mese di luglio (sul New York Times del 16 agosto 1956 apparve la notizia di un “larghissimo afflusso di turisti in Ungheria provenienti dall’Austria”), e dove ogni sorta di strani personaggi entrava nel paese, a migliaia – continuavano le azioni di guerra contro la polizia e le formazioni militari ungheresi. L’Armata Rossa aveva l’ordine di prender parte solo a misure difensive del Governo nella città di Budapest, e non intervenne in questi combattimenti grandi e piccoli. Alla sera del 26 ottobre, i controrivoluzionari avevano il controllo della frontiera con l’Austria e di una dozzina di capoluoghi di distretto nella parte occidentale dell’Ungheria. La controrivoluzione, non avendo alcun seguito nella stragrande maggioranza del popolo magiaro, dovette concentrare tutte le forze che in quel momento disponeva per creare un cordone ombelicale che unisse Budapest con il confine austriaco per permettere che da lì provenissero altri uomini e mezzi, in quantità elevate, dalle basi NATO della Germania Ovest (Baviera) e dell’Italia (Veneto e Friuli) transitando per l’Austria.

Nel tardo pomeriggio del 26 le sparatorie ripresero anche a Budapest, e a partire da quel momento assassinii di comunisti diventarono frequenti anche in città. Molti onesti quadri comunisti non fecero ritorno alle loro case, da quella sera, per non essere assassinati dagli squadristi controrivoluzionari. La gran maggioranza della popolazione di Budapest non prese parte ai combattimenti in nessuna delle loro fasi. Molti operai (nonostante il vertice revisionista guidato da Kadar del Partito dei Lavoratori criminalmente latitante nell’organizzarli) , armati e affiancati dalla polizia, si asserragliano nelle fabbriche affrontando con eroismo i continui assalti controrivoluzionari. Era a tutti gli effetti: guerra civile!

- LA CRISI DI SUEZ

Una volta appreso che gli Stati Uniti stavano preparando un intervento militare in Europa centrale, gli imperialisti britannici e francesi decisero di approfittarne per prendere un’iniziativa per conto proprio svincolandosi dalla collaborazione forzata con l’alleato d’oltrealtlantico che pretendeva che ogni nuova conquista imperialista fosse fatta sotto la sua direzione e, quindi, il bottino ottenuto non fosse spartito in parti uguali con gli alleati ma che la fetta più grossa spettasse “al più forte”. Era l’occasione per Gran Bretagna e Francia di dimostrare di poter essere ancora imperialisti in proprio come ai tempi della Cordiale Intesa. L’occasione si presentò in Medio Oriente.
L’Egitto, emancipatosi dalla dominazione britannica quattro anni prima, si era dato una nuova Costituzione repubblicana e sotto il governo antimperialista di Gamāl ‘Abd al- Nasser nazionalizzò il 26 luglio 1956 la Compagnia del Canale di Suez di proprietà franco-britannica. Fu uno smacco formidabile per le due potenze europee!

Il 28 ottobre il regime sionista israeliano – con l’aiuto diretto di Gran Bretagna e Francia – lanciò il suo attacco diversionistico sulla penisola del Sinai. Contemporaneamente, per alcuni giorni, la stampa di tutto il mondo riferiva della mobilitazione di forze francesi e britanniche in patria, a Cipro, a Malta e in Corsica per l’attacco all’Egitto.

Il 29 ottobre, Israele invase la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai e fece rapidi progressi verso la zona del canale. Gran Bretagna e Francia si “offrirono” di rioccupare l'area e separare le parti in lotta. Nasser rifiutò l' “offerta”, cosa che diede alle potenze europee un pretesto per un invasione congiunta per riprendere il controllo del canale e rovesciare il Governo di Nasser e l’autodeterminazione egiziana. Per appoggiare l'invasione, numerose forze aeree, comprendenti molti aerei da trasporto, erano state posizionate a Cipro e a Malta da britannici e francesi. I due campi aereei di Cipro erano così congestionati che un terzo campo, che si trovava in condizioni dubbie, dovette essere rimesso in sesto per accogliere gli aerei francesi. Perfino il RAF Luqa di Malta era estremamente affollato dagli aerei del RAF Bomber Command. Gli aggressori britannici dispiegarono le portaerei Eagle, Albion e Bulwark, mentre quelli francesi fecero stazionare la Arromanches e la Lafayette. In aggiunta le britanniche Ocean e Theseus funsero da trampolino di lancio per il primo assalto elitrasportato della storia. Gran Bretagna e Francia iniziarono a bombardare l'Egitto il 31 ottobre per costringerlo a riaprire il canale. Nasser rispose affondando tutte e 40 la navi presenti nel canale, chiudendolo in pratica fino all'inizio del 1957.

Il 5 novembre sul tardi, il terzo battaglione del reggimento paracadutisti si lanciò sul campo aereo di El Gamil, ripulendo l'area e stabilendo una base sicura per i rinforzi e gli aerei di appoggio in arrivo. Alle prime luci del 6 novembre i commandos britannici del NOS 42 e del 40° Commando Royal Marines assalirono le spiagge con mezzi da sbarco della II guerra mondiale. Le batterie delle navi da guerra in posizione al largo iniziarono a sparare, coprendo gli sbarchi e causando danni considerevoli alle batterie egiziane. La città di Porto Said subì gravi danni.

Incontrando una forte resistenza, il commando numero 45 andò all'assalto con gli elicotteri e allo sbarco si mosse verso l'interno. Diversi elicotteri vennero colpiti dalle batterie sulle spiagge subendo perdite sostenute. Il fuoco amico degli aerei britannici causò pesanti perdite al 45° Commando. Combattimenti di strada e casa per casa erano all'ordine del giorno. Una dura opposizione arrivò da postazioni di cecchini ben trincerati, che causarono diverse perdite agli invasori.

Un contrordine giunse alle truppe americane in forza alla NATO in Europa. L’esercito statunitense doveva essere pronto a intervenire in Egitto contro gli anglo-francesi, gli USA non potevano tollerare nessuna iniziativa autonoma dei suoi “alleati”, l’invasione americana in Ungheria era quindi rinviata a dopo la fine della crisi di Suez. La CIA dovette quindi sostenere la controrivoluzione ungherese affinché reggesse il più tempo possibile, più di quanto previsto!
In quel momento, negli ultimi giorni d’ottobre, e dal punto di vista della reazione, la violenza controrivoluzionaria soprattutto non doveva interrompersi in Ungheria; e il tentativo di distruggere, non revisionare, lo Stato democratico popolare e la sua base economica socialista doveva essere portato avanti fino alla necessaria tabula rasa sulla quale sarebbero intervenute infine le forze NATO (al momento distratte dai fatti mediorientali). L’Ungheria occidentale a ridosso della frontiera austriaca, ad ovest, e di Budapest, ad est, era sotto il regime controrivoluzionario (e al suo terrore fascista) che mandava rinforzi verso la capitale per tenere la situazione in ebollizione al fine di esercitare sul Governo Nagy una pressione di destra sempre più forte.

- GOLPE ISTITUZIONALE DI NAGY

Con l’eliminazione fisica e la messa in fuga (fuori da Budapest) dei molti deputati comunisti non nagysti, l’Assemblea Nazionale d’Ungheria (il Parlamento) di fatto non esisteva più, o meglio: non poteva più dirsi rappresentativo del volere del popolo magiaro. I deputati rimasti formavano un parlamentino decisamente spostato a destra.

Il Governo Nagy, al posto di mobilitare il Paese per disarmare e debellare la controrivoluzione, proseguiva il programma di controriforme revisioniste concordato coi kadaristi. Veniva introdotto il modello economico jugoslavo nel settore industriale statale che dava autonomia di gestione alle singole aziende istituendo la figura del direttore-manager (il direttore era stato fino ad allora un semplice dipendente dello Stato e doveva rispondere, in rappresentanza di tutto l’apparato contabile-amministrativo, del suo operato verso l’alto alla Commissione per l’attuazione del Piano Quinquennale e verso il basso alla Commissione per il Controllo Operaio eletta dalla Assemblea Generale di Fabbrica) ed eliminando il potere decisionale alle Assemblee Generali di Fabbrica, ed agli organi da essa eletti e controllati, che venivano sciolte e sostituiti da piccoli parlamentini di delegati, denominati “Consigli Operai”, eletti tra gli operai e gli impiegati della fabbrica, ai quali venivano riconosciuti vari privilegi (stipendio più alto con quota aggiuntiva proporzionale alla produttività della fabbrica e la libertà di assentarsi dal lavoro praticamente a piacimento) e il cui mandato era irrevocabile per tutto il mandato quinquennale. In Jugoslavia i lavoratori più avanzati li chiamavano con irrisione: “Consigli dell’aristocrazia operaia”, e non avevano certo torto! La fabbrica statale diveniva come una impresa privata, in franchising con lo Stato, in cui il Direttore era il padrone che facilmente piegava la maggioranza del “Consiglio Operaio” ai suoi voleri tramite la corruzione economica.

In merito alla controrivoluzione il Governo Nagy, il giorno 26, continuava, imbelle, ad assicurare immunità a chi avesse deposto le armi entro le ore 22! Tutto qui!

Il 27 ottobre Nagy (col pseudoparlamento di destra rimasto) attua il suo golpe istituzionale formando un nuovo governo funzionale alla restaurazione capitalista. Vice Primo Ministro divenne Joszef Bognar, del partito della media borghesia e dei kulak denominato “dei Piccoli Proprietari”, e Ferenc Erdei, del partito prettamente dei kulak “Nazionale Contadino”. Dei ministri quattro erano vecchi dirigenti del partito dei Piccoli Proprietari e avevano i dicasteri del Commercio estero, dell’Agricoltura, delle Aziende Agricole di Stato, e degli Esteri.

A quel momento, alla fine del 27 ottobre, sembrava esservi buone ragioni di considerare passato il peggio. Il Governo, al posto di ordinare il contrattacco generale contro i criminali fascisti armati, emanava l’ordine di “immediata e generale cessazione del fuoco, con istruzione alle Forze Armate di sparare soltanto se attaccate”. Quest’ordine fu accolto ed eseguito come valido dalle forze sovietiche assieme a quelle ungheresi. Alla controrivoluzione Nagy regalava criminalmente una tregua che le dava tempo a riprendersi ed accumulare più forze in armamenti ed effettivi in arrivo dall’Austria.

Intanto, sempre il 27, in un suo discorso radio Nagy, suscitando lo sconcerto di tutta l’Ungheria, negò vergognosamente il carattere reazionario delle azioni criminali delle bande armate considerandole nel loro insieme come “un movimento nazionale e democratico” ammettendo solo l’ “infiltrazione” di “elementi controrivoluzionari”. Nello stesso giorno Kadar scioglieva arbitrariamente il Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori, eletto al 3° Congresso nazionale del 1954 che aveva una forte componente di onesti comunisti contrari all’abbandono della via al socialismo, trasferendo tutto il potere ad un comitato “d’emergenza” di sei membri: Kadar, Antal Apro, Karoly Kiss, Ferenc Munnich, Imre Nagy e Zoltan Szanto. Tutti revisionisti appartenenti alle frazioni radarista e nagysta.

Dopo aver taciuto fino ad allora da Belgrado il revisionista Tito dichiarava essere soddisfatto delle controriforme economiche, verso il capitalismo di Stato, intraprese dal Governo Nagy, e faceva sapere che “ogni ulteriore spargimento di sangue sarebbe solo dannoso”, quasi a voler fare intendere, con quel “ulteriore”, che una qualche utilità dello “spargimento di sangue”, fino a prima del 26, c’era stata!

Dalle zone occupate (e insanguinate dai massacri) dalla controrivoluzione nell’Ungheria occidentale, e contemporaneamente da “Radio Europa Libera”, da altre trasmittenti in Spagna, in Italia e in Germania occidentale venivano lanciate “richieste” sempre nuove che riflettevano un ininterrotto spostamento verso destra. Il 28 ottobre cominciò ad essere avanzate le “richieste” della denuncia immediata e unilaterale del Patto di Varsavia da parte dell’Ungheria, dell’immediata neutralizzazione dell’Ungheria, il cui “status” avrebbe dovuto essere garantito da un accordo a quattro (fra USA, Gran Bretagna, Francia e URSS) in cui le potenze capitaliste avrebbero messo in minoranza l’Unione Sovietica per 3 a 1, e di mutamenti economici nel senso di una dichiarata marcia indietro rispetto alla via del socialismo.

Assecondando le richieste della controrivoluzione e dell’imperialismo occidentale il Governo Nagy decretò il ritiro dei reparti dell’esercito sovietico da Budapest che iniziò all’alba del giorno 29.

Il 30 ottobre il Governo illegittimo di Nagy (quello formatosi con un golpe istituzionale il 27 ottobre con meno di un terzo del Parlamento) forma un “Gabinetto ristretto del Governo nazionale” (che concentrava in se tutti i poteri) composto da tre “comunisti” revisionisti Imre Nagy, Janos Kadar e Gesa Losonczy; due del partito dei Piccoli Proprietari: Bela Kovacs e Zoltan Tildy; uno del partito Nazionale Contadino: Ferenc Erdei; e una socialdemocratica anticomunista (che dal 1922 al 1944 coprì a sinistra la dittatura fascista dell’ammiraglio Horthy e che dal 1948 ordì varie congiure golpiste): Anna Kethly.

Formato il “Gabinetto” Nagy si rivolse al Paese con un proclama nel quale ribadiva il ritiro immediato delle truppe sovietiche dal territorio di Budapest, invocava la cessazione del fuoco da parte degli “insorti” in tutto il paese, e concludeva con un “evviva” all’Ungheria “libera, democratica e indipendente” omettendo da allora (dai suoi discorsi) l’attributo “socialista”. Da notare che il revisionista Kadar (Segretario generale del Partito dei Lavoratori in cui la gran maggioranza della base e dei quadri locali erano sinceri e onesti comunisti) , nel suo intervento alla radio che seguì il proclama di Nagy, non ebbe niente da ridire allineandosi al Governo illegittimo, di cui faceva parte, “in nome della pace”.

Il ministro Zoltan Tildy diede quindi disposizione di liberare il cardinal Mindszenty dagli arresti domiciliari (il clerico-fascista e monarchico “Principe-Primate d’Ungheria”era stato condannato per la sua attività golpista di restaurazione monarchica in combutta col principe Paul Esterhazy e con la destra del partito dei Piccoli Proprietari oltre che con l’imperialismo occidentale). Mindszenty venne liberato nella notte tra il 30 e il 31 ottobre da un reparto scelto dell’Esercito ungherese, guidato da un maggiore figlio di un conte ex generale ai tempi di Horthy, che lo scortò a Budapest dove il il clerico-fascista e monarchico “Principe-Primate d’Ungheria” si unì perfettamente ai massacratori controrivoluzionari guidati da vecchi amici hortysti con cui si trova in perfetta sintonia e ai quali diede subito la sua benedizione.

Nel frattempo, sempre il 30 ottobre, l’amministrazione americana di Eisenhower offrì al al Governo illegittimo di Nagy la somma di 20 milioni di dollari a titolo di concessione di aiuti. Questo fatto non fu noto al pubblico fino al 9 gennaio 1957 quando apparve come una notizia di poche righe in una pagina interna del New York Times.

Il 31 ottobre Budapest era evacuata dalle truppe sovietiche. Nel corso della giornata fu dalla carica il presidente della Banca Nazionale, esautorato il capo di stato maggiore dell’Esercito ungherese e licenziato il ministro della Difesa del Governo costituito quattro giorni prima. Nagy si arrogò ad interim il ministero degli Esteri. Il golpe istituzionale era completato!

Si intimava, dal Comando nazionale ungherese della difesa aerea, alle truppe sovietiche di ritirarsi dal territorio ungherese: “in caso contrario le forze dell’Esercito ungherese passeranno all’azione”.

Più avanti nella giornata del 31 Nagy annunciò, completamente motu proprio, che il processo del 1949 contro il cardinal Mindszenty “mancava di ogni base legale” (!?), pertanto “ il Governo nazionale ungherese dichiara che le misure con cui il cardinale Primate Joszef Mindszenty fu privato dei suoi diritti sono nulle e senza effetto, e che il cardinale può quindi esercitare, senza restrizione alcuna, tutte le sue prerogative civili ed ecclesiastiche”. Venne poi l’annuncio che il Consiglio Nazionale dei Sindacati era sciolto e che il Governo avrebbe riconosciuto solamente la costituenda “Federazione nazionale dei sindacati liberi” alla cui guida si trovavano ex corporativisti fascisti del periodo di Horthy.

Nel corso del 31 ottobre il terrore bianco degli squadristi controrivoluzionario era ripreso incontrastato su larga scala (i reparti sovietici non c’erano più e i reparti ungheresi avevano ordini governativi di non intervenire), con tanto di pogrom antisemiti rievocati dalle ex croci frecciate, a Budapest e in molte province dell’Ungheria occidentale.

Il 1° novembre, Nagy tornò ancora una volta ai microfoni della radio per annunciare nuovi “progressi”. All’ambasciatore sovietico a Budapest era stato comunicato da Nagy stesso che il suo governo denunciava senz’altro e seduta stante il Trattato Difensivo di Varsavia. Il Governo Nagy aveva proclamato ufficialmente la “neutralità dell’Ungheria”, e chiesto al Segretario Generale dell’ONU di mettere all’ordine del giorno “la questione ungherese” e “lo status neutrale del Paese”; pure attraverso il Segretario dell’ONU Nagy aveva chiesto ufficialmente che la “neutralità ungherese” venisse garantito da un accordo fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS (3 vs 1).

Al golpe di Nagy soccorreva intanto la progressiva disintegrazione del Partito dei Lavoratori. Privata da tempo di un suo Partito, attivo e fiducioso, la classe operaia stessa era come un corpo senza testa, le cui varie membra andavano andavano simultaneamente in tutte le direzioni, di fatto paralizzandola. Alcuni gruppi di operai combatterono eroicamente le orde controrivoluzionarie ma perirono, o si dispersero, perché non coordinati ed organizzati da alcun quartier generale proletario rivoluzionario. Perciò, nel momento della spinta reazionaria, la società ungherese non disponeva di una forza di resistenza efficace e organizzata che vi si potesse opporre: e questo fatto accresceva di molto il pericolo dell’immediata soluzione fascista della crisi.

Mentre nelle strade scorreva il sangue di numerosi comunisti, ebrei e progressisti massacrati, il 2 novembre, Nagy chiese di uovo ufficialmente l’intervento delle Nazioni Unite e la “garanzia delle quattro Potenze”; nello stesso tempo il golpista Pal Maleter, nuovo capo delle Forze armate dal 31 ottobre, annunciava che l’Esercito avrebbe appoggiato il Governo soltanto se Nagy ritirato immediatamente l’Ungheria dal Patto di Varsavia e condotto una politica senza esitazioni per cacciare l’Armata Rossa dall’Ungheria “se necessario con la forza”.

Il 3 novembre Nagy effettua d’arbitrio un nuovo rimpasto al suo Governo rimpolpando la presenza dei partiti dei Piccoli Proprietari, dei social democratici di destra e dei “nazional-contadini”.

Lo stesso 3 novembre, per la prima volta, si udirono personaggi ufficiali attaccare pubblicamente e ripudiare il socialismo, con una dichiarata prospettiva di ritorno al regime capitalista, pergiunta nella sua forma più classicamente liberista. A mezzogiorno una dichiarazione del partito Nazionale Contadino – due rappresentanti del quale erano nel governo illegittimo e golpista di Nagy – proclamò che il partito, pur non desiderando la revoca della riforma agraria del 1945 (era un partito kulak, e non latifondista) “afferma la sua fiducia nella proprietà privata, e chiede libertà di produzione e traffici”.

Poco dopo l’organo di stampa della “Società del Sacro Cuore di Gesù” veniva diffuso a Budapest, e il suo editoriale intitolato “Quello che vogliamo – I punti essenziali del programma della Chiesa cattolica ungherese”, fu trasmesso dalle radio controrivoluzionarie in lingua magiara e francese. In esso “si chiede la restituzione delle terre che erano state di proprietà della Chiesa. Inoltre, la restituzione alla chiesa delle sue scuole”.
In altri termini, codesto organo ufficiale cattolico chiedeva, il 3 novembre, l’abrogazione della riforma agraria e della riforma scolastica – atti sempre denunciati dalla gerarchia cattolica e particolarmente da Mindszenty – ossia ancora il rovesciamento delle trasformazioni sociali che avevano posto fine alla vecchia Ungheria di Horthy.

- IL “TERRORE BIANCO” FASCISTA E ANTISEMITA DELLA CONTRORIVOLUZIONE

Lasciamo ora gli edifici del Governo e i centri ufficiali di Budapest e cerchiamo di ricostruire quello che veniva fatto e detto nelle strade e in provincia, e da chi, durante la settimana che precedette il ritorno in forze delle truppe sovietiche nella capitale il 4 novembre.

In primo luogo, converrà ricordare alcune fonti senz’altro attendibili da cui si ricavò l’indicazione che un attacco armato contro il Governo ungherese, del tutto indipendentemente da quello che accadde il 23 ottobre, era stato preparato da lungo tempo, e che provano in modo certo l’assenza di spontaneità della minoranza, organizzata militarmente, che fece ricorso alle armi.

Il 26 ottobre, un dispaccio da Budapest dell’United Press dichiarava che “i ribelli sono ben armati. %
 
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view post Posted on 19/2/2010, 18:02
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In occasione del 50º anniversario dei fatti d'Ungheria del 1956 una martellante campagna di revisionismo storico anticomunista intenderebbe cambiare i verdetti storici. È una cosa intollerabile non solo per ogni comunista (degno di definirsi tale) ma anche per tutti gli antifascisti conseguenti! Qui di seguito si intende far giustizia di quei fatti, utilizzando il più possibile il metodo della storiografia scientifica, con una lettura di parte: quella della verità storica!
LA VERITÀ SUI FATTI D’UNGHERIA

In occasione del 50º anniversario dei fatti d'Ungheria del 1956 una martellante campagna di revisionismo storico anticomunista intenderebbe cambiare i verdetti storici. È una cosa intollerabile non solo per ogni comunista (degno di definirsi tale) ma anche per tutti gli antifascisti conseguenti! Qui di seguito si intende far giustizia di quei fatti, utilizzando il più possibile il metodo della storiografia scientifica, con una lettura di parte: quella della verità storica!

- COME SI ARRIVÒ AI FATTI D’UNGHERIA

Ripercorriamo la storia dell’Ungheria nei tre anni che precedettero i fatti dell’ottobre-novembre 1956.

Dall’estate del 1953 era iniziato nella Repubblica Popolare d’Ungheria (nata il 20 agosto 1949) un repentino processo di involuzione capitalistica nella pianificazione economica fondamentale del Paese e di imborghesimento del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi (a causa della debolezza, impreparazione e cedevolezza, tra i quadri, dei fautori del socialismo, guidati da Matyas Rakosi e Erno Gero, e del sopravvento momentaneo preso dall’alleanza delle correnti revisionista e socialdemocratica, guidate da Nagy, Kadar e Marosan) nel suo funzionamento effettivo che ripristinava il frazionismo e disgregava il centralismo democratico congestionando il Partito in laceranti guerre intestine.

Il 4 luglio 1953, messo in minoranza in Parlamento dai deputati “comunisti” del blocco socialdemocratico-revisionista (interno al Partito dei Lavoratori) alleato col partito dei “piccoli proprietari” (dei kulak e della media borghesia), il Governo Rakosi dovette dimettersi dopo che, da meno di un anno, aveva completato con successo - grazie soprattutto all’impegno entusiasmato della classe operaia magiara - l’industrializzazione socialista della non più arretrata Ungheria e avviato in grande stile la collettivizzazione dell’agricoltura, trovando larghi consensi tra i contadini medio-poveri (che avevano già beneficiato dell’abolizione del latifondo e della riforma agraria dell’immediato dopoguerra) e l’ostilità incondizionata della borghesia agraria kulak.

Il blocco parlamentare dei destri insediava così il 1° Governo Nagy per interrompere bruscamente l’edificazione socialista e contravvenire al desiderio della maggioranza del popolo ungherese che aveva votato a maggioranza, alle precedenti elezioni, il Partito dei Lavoratori per sostenere il suo programma di generalizzazione dei servizi sociali pubblici e gratuiti (sanità, scuola, collocamento…), socializzazione dei mezzi di produzione e di collettivizzazione dell’agricoltura.

Dopo un repentino aumento del tenore di vita dei lavoratori e delle masse popolari dovuto ai successi del 1°Piano quinquennale 1949-1954 (conclusosi con un anno di anticipo per effetto di una generalizzata emulazione socialista fra i lavoratori) che vide la drastica riduzione dei prezzi dei generi di largo consumo e l’aumento di salari, pensioni e disponibilità abitava pubblica, si ebbe col 1°Governo Nagy una brusca inversione di tendenza con una riduzione drastica del volume produttivo delle industrie statali (-6%) con consequenziale aumento dei prezzi e allargamento del mercato per i prodotti della media industria privata (e aumento dei profitti dei nepmen capitalisti) alla quale venne applicata una sostanziale riduzione della pressione fiscale che venne invece aumentata per le aziende agricole collettive molte delle quali furono costrette a sciogliersi ricacciando nella povertà migliaia di contadini. I salari ebbero un ulteriore, seppur lieve, aumento nominale ma il loro potere d’acquisto crollò a picco.

Un apposito decreto amnistiava (perché ritenuti “non più socialmente pericolosi”) burocrati corrotti, ricettatori, contrabbandieri, sabotatori dell’industria e dell’agricoltura socialista, incendiari di cooperative agricole, condannati per coinvolgimento minore coi regimi fascisti di Horthy e Szálasi, condannati per coinvolgimento nel fallito golpe (maggio 1949) orchestrato dal generale Gyorgy Palffy e dall’allora ministro degli esteri László Rajk (in combutta col Vaticano, col regime revisionista jugoslavo di Tito e con la CIA americana). Fra gli amnistiati vi era anche il revisionista Janos Kadar che da ministro degli interni, complice di Peter Gabor, nel 1951 favorì un altro tentato colpo di stato controrivoluzionario revisionista di militari filotitoisti, ostacolando e depistando la vigilanza degli organi di sicurezza sui loro preparativi golpisti.

Nel febbraio del 1954 venne istituita un’unica retta universitaria assai alta in sostituzione delle 8 fasce progressive istituite nel 1947 che garantirono l’accesso all’Università pubblica ai figli del proletariato e dei lavoratori. Solo gli studenti provenienti dalla borghesia poterono continuare tranquillamente gli studi (per la gioia dei professori riciclati dall’ancien régime fascista dell’ammiraglio Horty) mentre gli altri furono costretti, in maggioranza, ad abbandonarli. Il 25 marzo del 1955 gli studenti borghesi nagysti fondarono nel quartiere bene della capitale magiara (Pest) il Circolo Petőfi per sostenere organizzativamente la svolta di destra intrapresa dal Primo Ministro Imre Nagy. La fondazione del Circolo Petőfi fu fatta in risposta contraria alle numerose manifestazioni operaie e popolari di pacifica protesta contro la politica liberista e antipopolare del Governo Nagy che ebbero luogo in tutta l’Ungheria dal novembre del 1954 all’aprile del 1955 ( a Budapest, durante la manifestazione dell’8 marzo per la giornata internazionale per l’emancipazione femminile apparvero cartelli con su scritto “Viva l’Ungheria socialista! Abbasso Nagy e il governo della borghesia!”). Nel frattempo il Circolo Petőfi organizzava, nella sola Budapest, contromanifestazioni (pacifiche) di studenti borghesi a sostegno del premier.

La seduta plenaria del Comitato Centrale del Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi, svoltasi tra il 2 e il 4 marzo 1955, dopo aver fatto un dettagliato bilancio critico dell’operato dell’esecutivo, accusò pubblicamente Imre Nagy di deviazionismo di destra. Il successivo 3 dicembre Nagy verrà finalmente espulso dal Partito dei Lavoratori.
Sotto la pressione della piazza, e di innumerevoli “ordini del giorno” votati a maggioranza dalle assemblee della democrazia popolare, il Governo Nagy venne sfiduciato e sostituito, il 18 aprile 1955, dal Governo Hegedüs.

Il nuovo governo tentò quindi di porre rimedio ai gravi dissesti economici e sociali causati dal Governo Nagy cercando di rimettere l’Ungheria sulla via dell’edificazione dell’economia socialista. Le cooperative agricole vennero subito sgravate dalle onerose tasse imposte dalla politica pro-kulak di Nagy. La collettivizzazione ricominciò a prendere quota dopo la brusca flessione degli anni bui del 1953-1954, le cooperative agricole si rifondarono in tutta la campagna magiara. La produzione agricola di cereali da panificazione negli anni ’53, ’54 e ’55 in milioni di tonnellate furono (secondo fonti Onu pubblicate a Ginevra nel 1956) rispettivamente 2,8 , 2,3 e 2,7 mentre per gli altri cereali furono 3,4 , 3,3 e 3,7. La ripresa produttiva cerealicola, e in generale agricola, contribuì al ritorno di prezzi bassi per il pane e per altri generi alimentari agricoli.

Il ritorno delle aziende collettive diffuse ancor più la zootecnica nell’allevamento con sostanziali incremento dei capi bovini (marzo1955=1.950.000 di capi, ottobre1955=2.200.000 di capi) e ancor di più suini (marzo1955=5.800.000, ottobre1955=8.000.000) e un consequenziale caduta dei prezzi delle carni.

L’industria statale riprese con vigore il suo ruolo guida dell’economia ungherese. Dopo il declino unilaterale della produzione industriale, registrato nel 1954, nel 1955 si ebbe un aumento del 7% della produzione industriale complessiva. La produttività del lavoro subì, nello stesso periodo di confronto ’54-’55, un incremento solo di poco inferiore al 5%.

Il 1°maggio 1956, grazie alla politica economica svolta nei dodici mesi precedenti, furono ridotti i prezzi di diverse migliaia di articoli di consumo, in misure variabili fra il 10% e il 40%. A partire dalla stessa data furono ridotti da 48 a 42 ore settimanali massime e 36 minime gli orari di lavoro degli addetti a lavori pesanti o malsani.

La politica intrapresa dal Governo Hegedüs fu accolta con grande soddisfazione dalle masse lavoratrici e popolari ungheresi attirandosi invece l’insofferenza e l’ostilità degli imprenditori e dei kulak arricchitisi alla grande sotto la liberalizzazione del mercato promossa dal Governo Nagy trovandosi poi, con la caduta di quel “loro” governo “amico”, di nuovo “schiacciati” dall’economia pianificata.

Va detto che, nonostante i gia citati segnali positivi di ripresa, le misure economiche apportate dal Governo Hegedüs non sanarono completamente il dissesto sociale creato da poco meno di due anni di controriforme economiche del Governo Nagy. La gia citata amnistia scarcerò migliaia di condannati per reati comuni che erano stati inseriti in un programma di rieducazione al lavoro e lavoro correzionale volto alla loro reintegrazione nella società socialista, allo scadere della pena, come liberi lavoratori. L’amnistia non li reintegrò nel sistema produttivo e quindi si ritrovarono come prima liberi e disoccupati, ricacciati da dove provenivano: nel sottoproletariato. Molti di loro si ridiedero al furto e al contrabbando mentre altri (e anche gli stessi gia citati) vennero avvicinati facilmente dalla controrivoluzione organizzata (che agiva sotto la copertura “umanitaria” della Chiesa cattolica che metteva a loro disposizione, senza tanti problemi, la struttura delle parrocchie) che con un “pugno di dollari” se li comprava come utile manovalanza per i piani eversivi gia in elaborazione nell’ambasciata statunitense di Budapest dove vi lavoravano alacremente agenti della CIA e istruttori militari dei Marines. Non furono la maggioranza i sottoproletari che di loro spontanea iniziativa si presentarono agli uffici di collocamento statali per ottenere una onesta occupazione (che in poco tempo veniva assegnata anche se, va detto, il lavoro non qualificato era retribuito al più basso degli otto livelli salariali), molti preferirono fare quello che sapevano già fare, e c’era chi era disposto ad “assecondarli” sia nel contrabbando (commercianti borghesi) che per futuri scopi di provocazione reazionaria.

Nel maggio del 1955, con l’adesione della Repubblica Federale Tedesca alla NATO, contingenti militari statunitensi si insediarono stabilmente in Baviera installandovi l’avamposto europeo per la politica del “roll back”, strategia di politica estera elaborata nel 1953-1954 dal segretario di stato USA John F. Dulles che aveva come dichiarato obbiettivo la destabilizzazione interna con successiva aggressione militare contro i paesi a democrazia popolare e l’Unione Sovietica. L’anello più debole del “blocco comunista” (secondo un rapporto del direttore della CIA Allen Welsh Dulles del 1954 indirizzato al già citato fratello John), era stato rilevato proprio nell’Ungheria (seguita dalla Polonia e dalla Repubblica Democratica Tedesca).

Reinhard Gehlen (ex direttore della sezione dei servizi di informazione della Wehrmacht nazista addetta allo spionaggio militare contro l’Unione Sovietica) venne messo alla guida della sezione CIA bavarese “Europa Libera” da dove incominciò a reclutare, tra la fine del ’55 e l’inizio del ’56, ex graduati dell’esercito del regime fascista dell’ammiraglio Horthy ed ex “croci frecciate” del nazista ungherese Szálasi. Questa accozzaglia di criminali nazi-fascisti, confidenti di Gehlen dai primi anni ’40 ai tempi della “crociata contro il bolscevismo” sul fronte orientale, venne arruolata in un corpo speciale di “Combattenti per la Libertà” (equipaggiato abbondantemente di armamenti ma non di divise) pronto ad essere spedito in Ungheria dal cielo (paracadutato) e da terra allo scoccare dell’ora X. Il cancelliere austriaco Julius Raab, nonostante il formale non allineamento del suo Paese, aveva rassicurato gli USA che il suo governo non avrebbe minimamente ostacolato il transito sul territorio austriaco di uomini ed armi dei “Combattenti per la Libertà” e dei reparti scelti dei Marines e dell’esercito americano se dalla Baviera si fossero diretti in Ungheria.

Visto l’avvicinarsi minaccioso dell’imperialismo NATO la Repubblica Popolare d’Ungheria non poteva non aderire al Trattato Difensivo di Sicurezza Collettiva firmato a Varsavia il 14 maggio 1955 dal Governo Hegedüs assieme a quelli delle altre repubbliche popolari e dell’Unione Sovietica (esclusa chiaramente la Jugoslavia del revisionista Tito che dal 1949 era istituzionalmente una “democrazia popolare” solo di nome, e non più di fatto, ed era apertamente alleata agli USA e all’imperialismo occidentale pur stando tatticamente fuori dalla NATO).

Dal 14 al 25 febbraio del 1956 si svolse a Mosca il XX° Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. La destra revisionista del partito sovietico guidata da Nikita Kruscev, rappresentante della corrotta borghesia burocratica antistalinista (burocrati imborghesiti che si arricchivano illegalmente rubando i fondi e i beni pubblici e che tanto aveva temuto il “terrore staliniano” che puniva col lavoro correzionale le loro ladronerie e “marachelle”), prevalse con la sua linea politica volta a smantellare l’economia socialista e ad instaurare quella a capitalismo monopolistico di Stato.

Il XX° Congresso del PCUS non riguardò la sola Unione Sovietica (che si avviava verso una deriva statal-capitalistica conclusasi definitivamente nel 1961) ma condizionò, destabilizzandolo, l’intiero movimento comunista internazionale (il Kominform fu sciolto in nome delle “vie nazionali al socialismo” ossia al capitalismo di Stato) compreso, quindi, il Partito Unificato dei Lavoratori Ungheresi. Nel Partito dei Lavoratori imperversava il frazionismo dal 1953 senza soluzione di continuità. Il centralismo-democratico si era ormai ridotto a un proforma. La sinistra del Partito era debole e tentennante ma, nonostante ciò, deteneva ancora la direzione politica con Matyas Rakosi come Segretario Generale anche, e soprattutto, grazie all’appoggio della base proletaria e lavoratrice dei semplici iscritti. L’opposizione unificata della destra del Partito - composta da i revisionisti titoisti (seguaci di Kadar) e liberisti (seguaci di Nagy) e socialdemocratici – dopo il KO avuto nell’aprile del ’55 tornò alla carica sventolando la bandiera del XX° Congresso del PCUS.

Approfittando del prestigio di cui godeva ancora il PCUS (prestigio ottenuto grazie a ai meriti ottenuti sotto la guida di Stalin dai quali meriti Kruscev campava solo di rendita) i destri riuscirono a far votare a maggioranza dal Comitato Centrale del Partito, nel giugno del 1956, una risoluzione dal titolo “Lezioni del XX° Congresso del PCUS” dove si esaltava il “nuovo corso” intrapreso nel ‘53 da Nagy (per il quale si chiedeva implicitamente la riammissione nel Partito), si rilanciava lo sviluppo ulteriore del frazionismo (denominato pretestuosamente come “democrazia di partito” e “direzione collegiale del Comitato centrale”), si pretendeva una “via ungherese al socialismo” e si condannava un non meglio chiarito “irrigidimento schematico del marxismo-leninismo”.

Alla plenaria del Comitato Centrale del 17 luglio 1956 i destri passano quindi all’attacco, blaterando accuse infondate sui processi pubblici fatti fino ad allora contro golpisti e traditori (si affermava senza esibire uno straccio di prova, ma recitando il copione del “rapporto segreto” di Kruscev, che “si estorcevano confessioni tramite tortura”), attaccando l’applicazione della dittatura del proletariato contro l’eversione borghese come “violazione della legalità socialista”, pretendendo le dimissioni del Segretario Generale Matyas Rakosi che pur di mantenere la sua posizione e prendere tempo si era messo ad assecondare i revisionisti nelle loro assurdità. Una tattica opportunista frutto della sua debolezza e impreparazione ideologica che lo portarono di fatto, con tutti i leader della sinistra, a scivolare nel revisionismo. Contro di lui, e la sua giusta (seppur tentennante) linea politica del passato, e in appoggio alle falsità dei destri, presero la parola alla plenaria del Comitato Centrale anche due emissari revisionisti di Krusciev: Anastas Mikojan e Mikhail Suslov.
Matyas Rakosi, piuttosto che appellarsi al proletariato e ai sinceri comunisti ungheresi affinché si mobilitassero nelle piazze perché non fosse loro nuovamente e definitivamente scippato il potere politico, preferì gettare la spugna rassegnando le dimissioni.

Il blocco dei destri era riuscito a impadronirsi definitivamente della direzione del Partito dei Lavoratori. Il proletariato ungherese venne così irreversibilmente privato di ciò che rimaneva di quello che avrebbe dovuto essere la sua avanguardia politica e organizzata. Il Partito degenerò completamente per colpa dell’accettazione delle frazioni al suo interno e per aver ancor prima (1948) permesso una fusione in blocco col Partito socialdemocratico. Un partito quest’ultimo che andava lasciato “morire per dissanguamento”, vista la repentina fuga della sua base nel Partito Comunista Ungherese, e non fuso accettando in massa come “comunisti” non solo i militanti della base operaia ma anche i vertici opportunisti socialdemocratici.

Per non suscitare la reazione sdegnata della base del Partito (idealmente legato alla sinistra) i revisionisti elessero come nuovo Segretario Generale un ex esponente della sinistra fautrice del socialismo, e convertito di fresco per opportunismo al revisionismo moderno: Ernö Gerö. Gerö fungeva solo da fantoccio per i destri che aspettavano il momento più opportuno per sostituirlo con l’impopolare revisionista titoista Janos Kadar non prima di averlo “riabilitato” completamente con una propaganda di beatificazione.

Una volta impadronitisi del Partito i destri persero la loro unità d’azione dando inizio alle rivalità fra loro: i revisionisti titoisti-krucioviani erano per un capitalismo di Stato che mettesse al potere la borghesia burocratica dei quadri statali corrotti e degenerati mentre i revisionisti nagysti e socialdemocratici erano propensi a un capitalismo liberista che mettesse al potere i resti della borghesia capitalistica spodestata e che richiamasse gli investimenti monopolistici dei capitali esteri occidentali.

Questo contrasto tra nuova borghesia burocratica statalista e vecchia borghesia liberista si risolse nella Jugoslavia revisionista di Tito nel 1954 con la netta supremazia della prima e la marginalizzazione della seconda (rappresentata dal revisionista liberista Milovan Gilas). In Polonia si arrivò invece al compromesso con la linea di Władysław Gomułka che prevedeva lo smantellamento del sistema economico socialista a favore di un capitalismo misto statale-privato che, ovviamente, prendeva il nome di “via polacca al socialismo”. Prima di raggiungere quel compromesso, nell’ottobre 1956, la destra revisionista gomulkiana, legata ai resti della vecchia borghesia e ai kulak, si alleò coi terroristi dell’Armia Krajowa (composta da ex fascisti pilsudskiani e sostenuta dalla CIA) che organizzarono le provocazioni armate a Poznan (giugno 1956) cercando di strumentalizzare le giuste manifestazioni di protesta degli operai che manifestarono contro le nuove norme produttivistiche (che vincolavano lo stipendio alla produttività della singola fabbrica “autogestita”) introdotte dalla nuova direzione revisionista capeggiata dal kruscioviano Edward Ochab (nuovo Segretario Generale del Partito Operaio Unificato Polacco dal 10 marzo 1956) che puntava alla trasformazione forzata del sistema socialista in capitalismo di Stato pensando all’esclusivo interesse della nuova borghesia burocratica.

In Ungheria, dal luglio all’ottobre 1956, le frazioni revisioniste (impadronitesi del Partito) non riuscirono a prendere nessuna seria iniziativa controriformatrice. Il 6 ottobre le salme dei golpisti Gyorgy Palffy e László Rajk (fucilati a seguito di condanna a morte, ingiunta a conclusione di un regolare processo pubblico, con l’accusa di alto tradimento per aver orchestrato il fallito golpe del 1949) furono esumate e solennemente trasferite, per ordine del gruppo dirigente revisionista, in un “sepolcro d’onore”. Da golpisti e traditori del proletariato e del popolo lavoratore magiari Palffy e Rajk vennero trasformati dalla propaganda revisionista in “martiri” e “paladini della - non specificata per chi - libertà”.

Il 14 ottobre una delegazione del partito revisionista ungherese (che continuava a chiamarsi “…Unificato dei Lavoratori”) guidata da Gerö e Kadar partì per la Jugoslavia, su invito dei revisionisti di Belgrado. Gli incontri con Tito e Kardelj durarono dal 15 al 22 ottobre; nella sera di quest’ultimo giorno, i delegati ungheresi rientrarono a Budapest e pubblicavano un comunicato al Paese, che esaltava “il rinsaldamento dei rapporti fraterni con la Jugoslavia” e annunciava che l’arcirevisionista Tito avrebbe restituito la visita all’Ungheria nel prossimo futuro.

Un’altra delegazione ungherese, indipendente dalla prima, era di ritordo dalla Jugoslavia: si trattava di un gruppo di sindacalisti revisionisti titoisti, guidato da Sandor Gaspar e Nicholas Somogyi, che aveva lungamente visitato il Paese balcanico per raccogliere elementi sufficienti per esaltare, una volta tornati in patria, la “via jugoslava al socialismo” ossia l’economia a capitalismo di Stato introdotta da Tito nel 1949.

La presa di iniziativa dei revisionisti statalisti di Kadar, verso le controriforme economiche strutturali, spinse la fazione dei revisionisti liberisti seguaci di Nagy, sorpassati per attivismo dalla concorrenza, a mobilitarsi indicendo nella capitale, per il 23 ottobre, una manifestazione in appoggio del loro modello ideale di via da seguire: quello di Gomułka. La bandiera dei kadaristi era perciò la “via jugoslava al socialismo”, quella dei nagysti era invece la “via polacca”.

- LA CONTRORIVOLUZIONE HA INIZIO

il 23 ottobre alle 14.30 gli studenti universitari borghesi nagysti (assieme a imprenditori, kulak, ricchi commercianti tutti nostalgici di Imre Nagy al quale dovevano la loro esistenza e sopravvivenza di classe) organizzati dal Circolo Petőfi, si riuniscono di fronte alla Casa degli Scrittori, inneggiano a Gomułka e portano anche bandiere polacche accanto a quelle magiare. Verso le 15 i dimostranti, 50 mila in tutto, si portarono al monumento al poeta Sandor Petőfi per poi proseguire fino alla conclusione del corteo davanti alla statua del generale Bem, eroe polacco che aveva partecipato al Risorgimento ungherese un secolo prima.

Le masse operaie e lavoratrici, invece, affollarono (in 200mila) le principali piazze di Budapest solo di sera, e non per appoggiare la manifestazione nagysta del pomeriggio ma per ascoltare, dagli altoparlanti, il messaggio al Paese, trasmesso alla radio, di Ernö Gerö che, nonostante la sua recente abiura e conversione al revisionismo moderno, godeva ancora di molta popolarità tra i lavoratori. Nel suo discorso, pronunciato alle ore 20, Gerö esaltò il regime economico (a capitalismo di Stato) della Jugoslavia revisionista da lui descritto come “esempio da emulare”, suscitando molta perplessità in chi lo ascoltava (nel recente passato il Partito dei Lavoratori aveva sostenuto molte campagne informative che smascheravano, nella sua essenza, il “socialismo” titoismo). Scroscianti applausi, invece, segnarono il suo discorso quando disse: ”…noi condanniamo coloro che cercano di diffondere il veleno dello sciovinismo nella nostra gioventù, e che si sono valsi delle libertà democratiche assicurate dal nostro Stato per compiere una manifestazione di carattere nazionalistico”. Un coro di “no” echeggiò da tutte le piazze quando Gerö (seppur ipocritamente e rivolto strumentalmente al solo revisionismo nagysta) formulò la domanda “… o forse vogliamo interrompere l’edificazione socialista per poi aprire di nuovo al capitalismo?”.

A questo punto, verso le ore 21, apparvero segni di un’azione preordinata e disciplinata di provocazione e di disordine fra la folla nelle piazze: ingiurie antisemite, false voci di sparatorie, scoppi di petardi. Poco dopo, alcuni drappelli si separano dalla folla e, molto sicuri e con chiara idea su quello che c’era da fare, dove si doveva andare e come si distribuivano i compiti, un primo gruppo si diresse alla stazione radio; un secondo alla sede dell’ organo del Partito dei Lavoratori “Szabad Nep”; un terzo alla centrale telefonica; un quarto, un quinto e un sesto a un parco motoristico con 60 autocarri, a una centrale elettrica recentemente trasformata in una fabbrica di armi, e a un deposito di munizioni.

A proteggere la stazione radio si trovavano alcuni poliziotti e guardie armate che avevano precisi ordini di non sparare se non per difendersi. Furono attaccati: gli assalitori controrivoluzionari ne uccisero alcuni e altri ne ferirono, le guardie risposero al fuoco e dopo una schermaglia e qualche danno agli impianti, l’attacco alla stazione radio fu interrotto.

Alla sede del giornale “Szabad Nep” una donna fu uccisa e il gruppo armato controrivoluzionario riuscì ad impadronirsi dell’edificio: distrusse una libreria bruciandone i volumi contenuti fra cui libri di Marx ed Engels e le opere complete di Lenin e Stalin. La bandiera rossa che sventolava sul tetto dell’edificio veniva strappata e data alle fiamme. Gli squadristi controrivoluzionari mantennero il controllo delle rotative per circa 16 ore.

Nel frattempo un altro manipolo di autisti, chiaramente preparati e scelti in precedenza, si erano impadroniti degli autocarri del deposito per servirsene poi per caricare armi e munizioni tratte dalla fabbrica e dalla polveriera.

A queste azioni rapide e più o meno simultanee parteciparono forse un migliaio di persone o poco meno. Intanto, fra chi era nelle piazze di Budapest, molti erano tornati alle loro case, e anche il Governo, a quanto sembra, fu informato con lentezza e non molto istantaneamente di quelli che sembravano attacchi sporadici e non connessi fra loro, compiuti da sparuti gruppi di poche persone.

Alle 21.30 un gruppo di controrivoluzionari, attrezzati di funi e piccozze, entrano in Piazza degli Eroi per abbattere la maestosa statua di Stalin che li si trovava. La popolazione (quella presente che tornava alle case dopo aver ascoltato il discorso di Gero) si mise in mezzo occupando pacificamente la piazza per impedire l’abbattimento di quel monumento che per molti ungheresi era un simbolo che riassumeva in sé i recenti progressi socialisti del Paese come la proprietà pubblica, socializzata e collettiva della terra, delle fabbriche e dei mezzi di produzione e di scambio; la soppressione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, il diritto di ogni cittadino al lavoro, all'istruzione e all'assistenza sanitaria gratuite; la direzione dello Stato da parte della classe operaia come classe d'avanguardia nella società; l'eguaglianza dei diritti economici, sociali, culturali e politici di tutti i cittadini indipendentemente dalla condizione, dall'origine, dal sesso, dal lavoro svolto, ecc.; la garanzia, sulla base del principio della democrazia socialista, non solo dei diritti dei cittadini ma anche dei mezzi necessari all'esercizio di questi diritti. Questo simboleggiava Stalin per il popolo lavoratore ungherese mentre per la borghesia, per la reazione e per i “comunisti” revisionisti era il simbolo della loro rovina (e lo è tutt’oggi), un simbolo da distruggere e denigrare in tutti i modi!

Il gruppo di controrivoluzionari si ritirò cacciato da una piccola folla disarmata di uomini, anziani, donne e bambini (in tutto un migliaio). I manifestanti pensavano che i controrivoluzionari si fossero arresi. Ma subito la piazza venne circondata da sopraggiunti controrivoluzionari armati (trasportati dai camion) che attaccarono gli inermi manifestanti di Piazza degli Eroi mettendoli in fuga con l’apertura del fuoco ad altezza uomo e falciandone molti con raffiche di mitra. Nel parco adiacente la piazza vennero accatastati 31 morti (tutte vittime civili fra cui donne e bambini). Fu un eccidio! Il primo massacro della controrivoluzione ungherese. La statua di Stalin venne abbattuta alle ore 22.30.

Verso le 22.30 il Parlamento si riunì in seduta d’emergenza. I kadaristi cedono all’implicita minaccia dei nagysti di proseguire l’alleanza con i provocatori controrivoluzionari e, tramite questi, con l’imperialismo occidentale guidato dagli USA che progettava un’invasione del Paese dopo aver scatenato la provocazione armata interna. Venne offerta la carica di Primo ministro, per la seconda volta, a Imre Nagy (reintegrato di recente nel Partito) che accetta. La composizione del nuovo governo è ancora, sostanzialmente, quella del Governo Hegedüs (che da luglio aveva avuto alcune sostituzioni di ministri sostituiti con personaggi delle ambo correnti revisionite). Il nuovo Governo Nagy, appena insediato, non era certo un “monocolore” nagysta.

Contemporaneamente, i gruppi di squadristi si radunavano, salvo quello asserragliato nel palazzo del giornale “Szabad Nep”, e, nelle prime ore del 24 ottobre, si accingevanoall’assalto di altri edifici pubblici. Soltanto verso le 8 del mattino, passata una notte insonne, il Consiglio dei Ministri diede il primo annuncio dell’ “attacco armato contro gli edifici pubblici e contro le nostre formazioni armate compiuto da elementi reazionari fascisti”. Nel corso della mattinata, il Consiglio dei Ministri proclamò la legge marziale e finalmente fece un terzo passo annunciando che “gli organi di Governo non hanno fatto conto della possibilità di vili e sanguinosi attacchi nella capitale”, il Consiglio dei Ministri (presieduto da Nagy!) fece appello “alle formazioni sovietiche di stanza in Ungheria” perché venissero al suo aiuto in conformità con le clausule del Trattato di Varsavia.

Pur rispondendo affermativamente alla richiesta d’intervento, le formazioni sovietiche non intrapresero azioni armate degne di nota fino al giorno successivo. Dal 24 ottobre fin verso mezzogiorno del 25, si videro truppe sovietiche fraternizzare con le masse ungheresi. Mezzi di trasporto militari sovietici, fra cui carri armati, trasportavano perfino dei civili ungheresi ai punti di raccolta nelle principali piazze di Budapest dove in molti affluivano spontaneamente per pacifiche dimostrazioni contro i gravi atti di squadrismo fascista accaduti.

A mezzogiorno del 24 ottobre Nagy plla radio annunciando “la realizzazione di una via ungherese al socialismo, corrispondente alle nostre caratteristiche nazionali”, condannava ufficialmente gli “atti criminali di elementi ostili alla democrazia popolare” promettendoli però “piena amnistia per quelli che deporranno le armi entro le ore 14” (il termine fu poi spostato alle 22). Ma gli imperialisti americani, che manovravano direttamente dall’ambasciata USA in Ungheria i criminali squadristi in azione, non avevano alcuna intenzione di interrompere una grossa provocazione che le avrebbe permesso una aggressione armata, magari ancora, come 6 anni prima in Corea, “sotto l’egida dell’Onu”.

Quel tanto di combattimenti che si svolse nella giornata del 24 contro le bande squadriste fu sostenuta in massima parte da unità dell’Esercito ungherese, e al calare della notte il corpo essenziale dell’attacco armato controrivoluzionario sembrava spezzato.

Il mattino del 25 il Comitato Centrale del partito revisionista ungherese annunciò la revoca da Segretario Generale a Gerö e che Janos Kadar lo sostituiva.

Ma nella stessa mattinata del 25 ripresero nuovi attacchi contro unità della polizia e dell’Esercito ungheresi, la provocazione controrivoluzionaria continuava. Cominciarono spedizioni omicide organizzate contro quadri intermedie del Partito del Lavoratori (quadri di sincera fede comunista non ancora epurati dalla nuova dirigenza revisionista). Il carattere disciplinato dei gruppi squadristici era manifesto, si osservò che essi erano ben equipaggiati con armi di fanteria (e che erano stati ben addestrati al loro utilizzo), e molti portavano bracciali d’identificazione tutti uguali fra loro.

Elargendo dollari statunitensi i controrivoluzionari arruolavano, come massa di manovra, comuni delinquenti e numerosi elementi del sottoproletariato utilizzandoli per il lavoro più sporco (incendi, devastazioni, assassini atroci con armi bianche e improprie). Ad essi si unirono fanatici anticomunisti borghesi o ex-borghesi ed ex-nobili latifondisti declassati nostalgici dei loro “bei tempi andati” di “quando si stava meglio quando si stava peggio” sotto la dittatura fascista dell’ammiraglio Horthy. Questi ultimi partecipavano volentieri - con figli al seguito affinché apprendessero le tradizioni rituali fasciste - ai roghi di vessilli e materiale librario e di propaganda comunisti.

A mezzogiorno del giorno 25 Nagy parlò alla radio dichiarando ambiguamente che “il ritiro delle truppe sovietiche, il cui intervento nei combattimenti si è reso necessario per salvaguardare gli interessi vitali del nostro ordine socialista, verrà senza ritardo dopo il ristabilimento dell’ordine e della quiete”. Il discorso di Nagy mise l’accento sull’esigenza di una pretestuosa “indipendenza nazionale” (lasciava intendere che la presenza delle truppe sovietiche menomasse tale “indipendenza”). Da notare che in questo suo intervento alla radio, a differenza di quelli che farà pochi giorni dopo, Nagy parlava ancora (formalmente) del “futuro socialista” dell’Ungheria.

Proprio mentre Nagy parlava alla radio, però, a Budapest riprendevano gli attacchi armati degli squadristi controrivoluzionari con al loro seguito la peggiore teppaglia criminale. Il Museo Nazionale venne preso d’assalto e incendiato appiccando il fuoco in una dozzina di punti diversi: lavoratori, semplici cittadini e alcuni pompieri cercarono di arrestare la distruzione delle opere d’arte inestimabile e dei documenti storici contenuti nel Museo Nazionale: furono accolti dalle pallottole sparate dai tetti delle case vicine e da altri rifugi. Alla fine, le fiamme dominarono incontrastate e il superbo edificio, ricostruito nel 1945, fu ridotto ancora una volta a uno scheletro di rovine.

Sempre il 25, nei villaggi attorno a Budapest e nelle campagne delle province a nord-ovest della capitale, gruppi di controrivoluzionari armati da venti a cinquanta uomini, montati su veicoli e senza pretese o parole d’ordine di “purificazione del socialismo” o di qualunque altro genere, cominciarono a darsi alla caccia all’uomo. Questo era semplice terrorismo fascista, e nello spazio di poche ore, prima della fine della giornata, in circa quindici piccoli centri dei dintorni di Budapest le bande assassine procedettero sistematicamente al massacro di tutti i comunisti noti, presidenti dei Consigli popolari locali, guardie di polizia e dirigenti di cooperative e collettivi. In questo momento, e ancora per diversi giorni, le truppe degli eserciti sovietico ed ungherese confinarono il loro intervento soltanto entro Budapest, ciò spiega i massacri diffusi che avvennero fuori città.

Nel pomeriggio del 25 migliaia di budapestini si misero in movimento verso la piazza antistante il palazzo del Parlamento. L’obbiettivo essenziale dei dimostranti era di esprimere la loro totale indignazione nei confronti degli efferati crimini messi in atto dai controrivoluzionari ed appoggiare l’intervento delle truppe degli eserciti ungherese e sovietico e gli appelli a deporre le armi e a porre fine ai massacri. Molti dei manifestanti viaggiavano verso la piazza issati su carri armati sovietici a testimoniare una diffusa fraternizzazione delle masse ungheresi con le truppe sovietiche.
Nel mentre la piazza del Parlamento si stava rapidamente riempiendo si ebbero d’improvviso degli spari in direzione delle forze sovietiche (li presenti assieme ai manifestanti ungheresi) e di una parte della folla. Cecchini controrivoluzionari appostati sui tetti di alcuni palazzi che affacciavano sulla piazza innescarono così una ennesima vile provocazione. Le truppe sovietiche, sotto tiro, risposero al fuoco. I cecchini lanciarono granate nel caos di una piazza gremita di manifestanti che preda del panico fuggivano confusamente in tutte le direzioni. Il bilancio del massacro nella piazza del Parlamento del 25 ottobre fu tragico: una sessantina di morti e un numero imprecisato di centinaia di feriti. Alle ore 18 il Governo proclamò un coprifuoco di 12ore.

All’alba del 26 ottobre, a Budapest, si era ristabilita di nuovo una qualche misura di ordine e di calma. Alle 6, il Governo annunciò per radio che, di conseguenza, la popolazione avrebbe potuto uscire per gli acquisti e le altre necessità dalle 10 alle 15; ai lavoratori delle industrie dei commestibili e dei trasporti veniva assicurato che potevano riprendere le loro attività senza pericolo.

Intanto però, fuori dalla capitale e soprattutto nell’occidente del Paese – dove il confine con l’Austria era stato aperto fin dal mese di luglio (sul New York Times del 16 agosto 1956 apparve la notizia di un “larghissimo afflusso di turisti in Ungheria provenienti dall’Austria”), e dove ogni sorta di strani personaggi entrava nel paese, a migliaia – continuavano le azioni di guerra contro la polizia e le formazioni militari ungheresi. L’Armata Rossa aveva l’ordine di prender parte solo a misure difensive del Governo nella città di Budapest, e non intervenne in questi combattimenti grandi e piccoli. Alla sera del 26 ottobre, i controrivoluzionari avevano il controllo della frontiera con l’Austria e di una dozzina di capoluoghi di distretto nella parte occidentale dell’Ungheria. La controrivoluzione, non avendo alcun seguito nella stragrande maggioranza del popolo magiaro, dovette concentrare tutte le forze che in quel momento disponeva per creare un cordone ombelicale che unisse Budapest con il confine austriaco per permettere che da lì provenissero altri uomini e mezzi, in quantità elevate, dalle basi NATO della Germania Ovest (Baviera) e dell’Italia (Veneto e Friuli) transitando per l’Austria.

Nel tardo pomeriggio del 26 le sparatorie ripresero anche a Budapest, e a partire da quel momento assassinii di comunisti diventarono frequenti anche in città. Molti onesti quadri comunisti non fecero ritorno alle loro case, da quella sera, per non essere assassinati dagli squadristi controrivoluzionari. La gran maggioranza della popolazione di Budapest non prese parte ai combattimenti in nessuna delle loro fasi. Molti operai (nonostante il vertice revisionista guidato da Kadar del Partito dei Lavoratori criminalmente latitante nell’organizzarli) , armati e affiancati dalla polizia, si asserragliano nelle fabbriche affrontando con eroismo i continui assalti controrivoluzionari. Era a tutti gli effetti: guerra civile!

- LA CRISI DI SUEZ

Una volta appreso che gli Stati Uniti stavano preparando un intervento militare in Europa centrale, gli imperialisti britannici e francesi decisero di approfittarne per prendere un’iniziativa per conto proprio svincolandosi dalla collaborazione forzata con l’alleato d’oltrealtlantico che pretendeva che ogni nuova conquista imperialista fosse fatta sotto la sua direzione e, quindi, il bottino ottenuto non fosse spartito in parti uguali con gli alleati ma che la fetta più grossa spettasse “al più forte”. Era l’occasione per Gran Bretagna e Francia di dimostrare di poter essere ancora imperialisti in proprio come ai tempi della Cordiale Intesa. L’occasione si presentò in Medio Oriente.
L’Egitto, emancipatosi dalla dominazione britannica quattro anni prima, si era dato una nuova Costituzione repubblicana e sotto il governo antimperialista di Gamāl ‘Abd al- Nasser nazionalizzò il 26 luglio 1956 la Compagnia del Canale di Suez di proprietà franco-britannica. Fu uno smacco formidabile per le due potenze europee!

Il 28 ottobre il regime sionista israeliano – con l’aiuto diretto di Gran Bretagna e Francia – lanciò il suo attacco diversionistico sulla penisola del Sinai. Contemporaneamente, per alcuni giorni, la stampa di tutto il mondo riferiva della mobilitazione di forze francesi e britanniche in patria, a Cipro, a Malta e in Corsica per l’attacco all’Egitto.

Il 29 ottobre, Israele invase la Striscia di Gaza e la penisola del Sinai e fece rapidi progressi verso la zona del canale. Gran Bretagna e Francia si “offrirono” di rioccupare l'area e separare le parti in lotta. Nasser rifiutò l' “offerta”, cosa che diede alle potenze europee un pretesto per un invasione congiunta per riprendere il controllo del canale e rovesciare il Governo di Nasser e l’autodeterminazione egiziana. Per appoggiare l'invasione, numerose forze aeree, comprendenti molti aerei da trasporto, erano state posizionate a Cipro e a Malta da britannici e francesi. I due campi aereei di Cipro erano così congestionati che un terzo campo, che si trovava in condizioni dubbie, dovette essere rimesso in sesto per accogliere gli aerei francesi. Perfino il RAF Luqa di Malta era estremamente affollato dagli aerei del RAF Bomber Command. Gli aggressori britannici dispiegarono le portaerei Eagle, Albion e Bulwark, mentre quelli francesi fecero stazionare la Arromanches e la Lafayette. In aggiunta le britanniche Ocean e Theseus funsero da trampolino di lancio per il primo assalto elitrasportato della storia. Gran Bretagna e Francia iniziarono a bombardare l'Egitto il 31 ottobre per costringerlo a riaprire il canale. Nasser rispose affondando tutte e 40 la navi presenti nel canale, chiudendolo in pratica fino all'inizio del 1957.

Il 5 novembre sul tardi, il terzo battaglione del reggimento paracadutisti si lanciò sul campo aereo di El Gamil, ripulendo l'area e stabilendo una base sicura per i rinforzi e gli aerei di appoggio in arrivo. Alle prime luci del 6 novembre i commandos britannici del NOS 42 e del 40° Commando Royal Marines assalirono le spiagge con mezzi da sbarco della II guerra mondiale. Le batterie delle navi da guerra in posizione al largo iniziarono a sparare, coprendo gli sbarchi e causando danni considerevoli alle batterie egiziane. La città di Porto Said subì gravi danni.

Incontrando una forte resistenza, il commando numero 45 andò all'assalto con gli elicotteri e allo sbarco si mosse verso l'interno. Diversi elicotteri vennero colpiti dalle batterie sulle spiagge subendo perdite sostenute. Il fuoco amico degli aerei britannici causò pesanti perdite al 45° Commando. Combattimenti di strada e casa per casa erano all'ordine del giorno. Una dura opposizione arrivò da postazioni di cecchini ben trincerati, che causarono diverse perdite agli invasori.

Un contrordine giunse alle truppe americane in forza alla NATO in Europa. L’esercito statunitense doveva essere pronto a intervenire in Egitto contro gli anglo-francesi, gli USA non potevano tollerare nessuna iniziativa autonoma dei suoi “alleati”, l’invasione americana in Ungheria era quindi rinviata a dopo la fine della crisi di Suez. La CIA dovette quindi sostenere la controrivoluzione ungherese affinché reggesse il più tempo possibile, più di quanto previsto!
In quel momento, negli ultimi giorni d’ottobre, e dal punto di vista della reazione, la violenza controrivoluzionaria soprattutto non doveva interrompersi in Ungheria; e il tentativo di distruggere, non revisionare, lo Stato democratico popolare e la sua base economica socialista doveva essere portato avanti fino alla necessaria tabula rasa sulla quale sarebbero intervenute infine le forze NATO (al momento distratte dai fatti mediorientali). L’Ungheria occidentale a ridosso della frontiera austriaca, ad ovest, e di Budapest, ad est, era sotto il regime controrivoluzionario (e al suo terrore fascista) che mandava rinforzi verso la capitale per tenere la situazione in ebollizione al fine di esercitare sul Governo Nagy una pressione di destra sempre più forte.

- GOLPE ISTITUZIONALE DI NAGY

Con l’eliminazione fisica e la messa in fuga (fuori da Budapest) dei molti deputati comunisti non nagysti, l’Assemblea Nazionale d’Ungheria (il Parlamento) di fatto non esisteva più, o meglio: non poteva più dirsi rappresentativo del volere del popolo magiaro. I deputati rimasti formavano un parlamentino decisamente spostato a destra.

Il Governo Nagy, al posto di mobilitare il Paese per disarmare e debellare la controrivoluzione, proseguiva il programma di controriforme revisioniste concordato coi kadaristi. Veniva introdotto il modello economico jugoslavo nel settore industriale statale che dava autonomia di gestione alle singole aziende istituendo la figura del direttore-manager (il direttore era stato fino ad allora un semplice dipendente dello Stato e doveva rispondere, in rappresentanza di tutto l’apparato contabile-amministrativo, del suo operato verso l’alto alla Commissione per l’attuazione del Piano Quinquennale e verso il basso alla Commissione per il Controllo Operaio eletta dalla Assemblea Generale di Fabbrica) ed eliminando il potere decisionale alle Assemblee Generali di Fabbrica, ed agli organi da essa eletti e controllati, che venivano sciolte e sostituiti da piccoli parlamentini di delegati, denominati “Consigli Operai”, eletti tra gli operai e gli impiegati della fabbrica, ai quali venivano riconosciuti vari privilegi (stipendio più alto con quota aggiuntiva proporzionale alla produttività della fabbrica e la libertà di assentarsi dal lavoro praticamente a piacimento) e il cui mandato era irrevocabile per tutto il mandato quinquennale. In Jugoslavia i lavoratori più avanzati li chiamavano con irrisione: “Consigli dell’aristocrazia operaia”, e non avevano certo torto! La fabbrica statale diveniva come una impresa privata, in franchising con lo Stato, in cui il Direttore era il padrone che facilmente piegava la maggioranza del “Consiglio Operaio” ai suoi voleri tramite la corruzione economica.

In merito alla controrivoluzione il Governo Nagy, il giorno 26, continuava, imbelle, ad assicurare immunità a chi avesse deposto le armi entro le ore 22! Tutto qui!

Il 27 ottobre Nagy (col pseudoparlamento di destra rimasto) attua il suo golpe istituzionale formando un nuovo governo funzionale alla restaurazione capitalista. Vice Primo Ministro divenne Joszef Bognar, del partito della media borghesia e dei kulak denominato “dei Piccoli Proprietari”, e Ferenc Erdei, del partito prettamente dei kulak “Nazionale Contadino”. Dei ministri quattro erano vecchi dirigenti del partito dei Piccoli Proprietari e avevano i dicasteri del Commercio estero, dell’Agricoltura, delle Aziende Agricole di Stato, e degli Esteri.

A quel momento, alla fine del 27 ottobre, sembrava esservi buone ragioni di considerare passato il peggio. Il Governo, al posto di ordinare il contrattacco generale contro i criminali fascisti armati, emanava l’ordine di “immediata e generale cessazione del fuoco, con istruzione alle Forze Armate di sparare soltanto se attaccate”. Quest’ordine fu accolto ed eseguito come valido dalle forze sovietiche assieme a quelle ungheresi. Alla controrivoluzione Nagy regalava criminalmente una tregua che le dava tempo a riprendersi ed accumulare più forze in armamenti ed effettivi in arrivo dall’Austria.

Intanto, sempre il 27, in un suo discorso radio Nagy, suscitando lo sconcerto di tutta l’Ungheria, negò vergognosamente il carattere reazionario delle azioni criminali delle bande armate considerandole nel loro insieme come “un movimento nazionale e democratico” ammettendo solo l’ “infiltrazione” di “elementi controrivoluzionari”. Nello stesso giorno Kadar scioglieva arbitrariamente il Comitato Centrale del Partito dei Lavoratori, eletto al 3° Congresso nazionale del 1954 che aveva una forte componente di onesti comunisti contrari all’abbandono della via al socialismo, trasferendo tutto il potere ad un comitato “d’emergenza” di sei membri: Kadar, Antal Apro, Karoly Kiss, Ferenc Munnich, Imre Nagy e Zoltan Szanto. Tutti revisionisti appartenenti alle frazioni radarista e nagysta.

Dopo aver taciuto fino ad allora da Belgrado il revisionista Tito dichiarava essere soddisfatto delle controriforme economiche, verso il capitalismo di Stato, intraprese dal Governo Nagy, e faceva sapere che “ogni ulteriore spargimento di sangue sarebbe solo dannoso”, quasi a voler fare intendere, con quel “ulteriore”, che una qualche utilità dello “spargimento di sangue”, fino a prima del 26, c’era stata!

Dalle zone occupate (e insanguinate dai massacri) dalla controrivoluzione nell’Ungheria occidentale, e contemporaneamente da “Radio Europa Libera”, da altre trasmittenti in Spagna, in Italia e in Germania occidentale venivano lanciate “richieste” sempre nuove che riflettevano un ininterrotto spostamento verso destra. Il 28 ottobre cominciò ad essere avanzate le “richieste” della denuncia immediata e unilaterale del Patto di Varsavia da parte dell’Ungheria, dell’immediata neutralizzazione dell’Ungheria, il cui “status” avrebbe dovuto essere garantito da un accordo a quattro (fra USA, Gran Bretagna, Francia e URSS) in cui le potenze capitaliste avrebbero messo in minoranza l’Unione Sovietica per 3 a 1, e di mutamenti economici nel senso di una dichiarata marcia indietro rispetto alla via del socialismo.

Assecondando le richieste della controrivoluzione e dell’imperialismo occidentale il Governo Nagy decretò il ritiro dei reparti dell’esercito sovietico da Budapest che iniziò all’alba del giorno 29.

Il 30 ottobre il Governo illegittimo di Nagy (quello formatosi con un golpe istituzionale il 27 ottobre con meno di un terzo del Parlamento) forma un “Gabinetto ristretto del Governo nazionale” (che concentrava in se tutti i poteri) composto da tre “comunisti” revisionisti Imre Nagy, Janos Kadar e Gesa Losonczy; due del partito dei Piccoli Proprietari: Bela Kovacs e Zoltan Tildy; uno del partito Nazionale Contadino: Ferenc Erdei; e una socialdemocratica anticomunista (che dal 1922 al 1944 coprì a sinistra la dittatura fascista dell’ammiraglio Horthy e che dal 1948 ordì varie congiure golpiste): Anna Kethly.

Formato il “Gabinetto” Nagy si rivolse al Paese con un proclama nel quale ribadiva il ritiro immediato delle truppe sovietiche dal territorio di Budapest, invocava la cessazione del fuoco da parte degli “insorti” in tutto il paese, e concludeva con un “evviva” all’Ungheria “libera, democratica e indipendente” omettendo da allora (dai suoi discorsi) l’attributo “socialista”. Da notare che il revisionista Kadar (Segretario generale del Partito dei Lavoratori in cui la gran maggioranza della base e dei quadri locali erano sinceri e onesti comunisti) , nel suo intervento alla radio che seguì il proclama di Nagy, non ebbe niente da ridire allineandosi al Governo illegittimo, di cui faceva parte, “in nome della pace”.

Il ministro Zoltan Tildy diede quindi disposizione di liberare il cardinal Mindszenty dagli arresti domiciliari (il clerico-fascista e monarchico “Principe-Primate d’Ungheria”era stato condannato per la sua attività golpista di restaurazione monarchica in combutta col principe Paul Esterhazy e con la destra del partito dei Piccoli Proprietari oltre che con l’imperialismo occidentale). Mindszenty venne liberato nella notte tra il 30 e il 31 ottobre da un reparto scelto dell’Esercito ungherese, guidato da un maggiore figlio di un conte ex generale ai tempi di Horthy, che lo scortò a Budapest dove il il clerico-fascista e monarchico “Principe-Primate d’Ungheria” si unì perfettamente ai massacratori controrivoluzionari guidati da vecchi amici hortysti con cui si trova in perfetta sintonia e ai quali diede subito la sua benedizione.

Nel frattempo, sempre il 30 ottobre, l’amministrazione americana di Eisenhower offrì al al Governo illegittimo di Nagy la somma di 20 milioni di dollari a titolo di concessione di aiuti. Questo fatto non fu noto al pubblico fino al 9 gennaio 1957 quando apparve come una notizia di poche righe in una pagina interna del New York Times.

Il 31 ottobre Budapest era evacuata dalle truppe sovietiche. Nel corso della giornata fu dalla carica il presidente della Banca Nazionale, esautorato il capo di stato maggiore dell’Esercito ungherese e licenziato il ministro della Difesa del Governo costituito quattro giorni prima. Nagy si arrogò ad interim il ministero degli Esteri. Il golpe istituzionale era completato!

Si intimava, dal Comando nazionale ungherese della difesa aerea, alle truppe sovietiche di ritirarsi dal territorio ungherese: “in caso contrario le forze dell’Esercito ungherese passeranno all’azione”.

Più avanti nella giornata del 31 Nagy annunciò, completamente motu proprio, che il processo del 1949 contro il cardinal Mindszenty “mancava di ogni base legale” (!?), pertanto “ il Governo nazionale ungherese dichiara che le misure con cui il cardinale Primate Joszef Mindszenty fu privato dei suoi diritti sono nulle e senza effetto, e che il cardinale può quindi esercitare, senza restrizione alcuna, tutte le sue prerogative civili ed ecclesiastiche”. Venne poi l’annuncio che il Consiglio Nazionale dei Sindacati era sciolto e che il Governo avrebbe riconosciuto solamente la costituenda “Federazione nazionale dei sindacati liberi” alla cui guida si trovavano ex corporativisti fascisti del periodo di Horthy.

Nel corso del 31 ottobre il terrore bianco degli squadristi controrivoluzionario era ripreso incontrastato su larga scala (i reparti sovietici non c’erano più e i reparti ungheresi avevano ordini governativi di non intervenire), con tanto di pogrom antisemiti rievocati dalle ex croci frecciate, a Budapest e in molte province dell’Ungheria occidentale.

Il 1° novembre, Nagy tornò ancora una volta ai microfoni della radio per annunciare nuovi “progressi”. All’ambasciatore sovietico a Budapest era stato comunicato da Nagy stesso che il suo governo denunciava senz’altro e seduta stante il Trattato Difensivo di Varsavia. Il Governo Nagy aveva proclamato ufficialmente la “neutralità dell’Ungheria”, e chiesto al Segretario Generale dell’ONU di mettere all’ordine del giorno “la questione ungherese” e “lo status neutrale del Paese”; pure attraverso il Segretario dell’ONU Nagy aveva chiesto ufficialmente che la “neutralità ungherese” venisse garantito da un accordo fra Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e URSS (3 vs 1).

Al golpe di Nagy soccorreva intanto la progressiva disintegrazione del Partito dei Lavoratori. Privata da tempo di un suo Partito, attivo e fiducioso, la classe operaia stessa era come un corpo senza testa, le cui varie membra andavano andavano simultaneamente in tutte le direzioni, di fatto paralizzandola. Alcuni gruppi di operai combatterono eroicamente le orde controrivoluzionarie ma perirono, o si dispersero, perché non coordinati ed organizzati da alcun quartier generale proletario rivoluzionario. Perciò, nel momento della spinta reazionaria, la società ungherese non disponeva di una forza di resistenza efficace e organizzata che vi si potesse opporre: e questo fatto accresceva di molto il pericolo dell’immediata soluzione fascista della crisi.

Mentre nelle strade scorreva il sangue di numerosi comunisti, ebrei e progressisti massacrati, il 2 novembre, Nagy chiese di uovo ufficialmente l’intervento delle Nazioni Unite e la “garanzia delle quattro Potenze”; nello stesso tempo il golpista Pal Maleter, nuovo capo delle Forze armate dal 31 ottobre, annunciava che l’Esercito avrebbe appoggiato il Governo soltanto se Nagy ritirato immediatamente l’Ungheria dal Patto di Varsavia e condotto una politica senza esitazioni per cacciare l’Armata Rossa dall’Ungheria “se necessario con la forza”.

Il 3 novembre Nagy effettua d’arbitrio un nuovo rimpasto al suo Governo rimpolpando la presenza dei partiti dei Piccoli Proprietari, dei social democratici di destra e dei “nazional-contadini”.

Lo stesso 3 novembre, per la prima volta, si udirono personaggi ufficiali attaccare pubblicamente e ripudiare il socialismo, con una dichiarata prospettiva di ritorno al regime capitalista, pergiunta nella sua forma più classicamente liberista. A mezzogiorno una dichiarazione del partito Nazionale Contadino – due rappresentanti del quale erano nel governo illegittimo e golpista di Nagy – proclamò che il partito, pur non desiderando la revoca della riforma agraria del 1945 (era un partito kulak, e non latifondista) “afferma la sua fiducia nella proprietà privata, e chiede libertà di produzione e traffici”.

Poco dopo l’organo di stampa della “Società del Sacro Cuore di Gesù” veniva diffuso a Budapest, e il suo editoriale intitolato “Quello che vogliamo – I punti essenziali del programma della Chiesa cattolica ungherese”, fu trasmesso dalle radio controrivoluzionarie in lingua magiara e francese. In esso “si chiede la restituzione delle terre che erano state di proprietà della Chiesa. Inoltre, la restituzione alla chiesa delle sue scuole”.
In altri termini, codesto organo ufficiale cattolico chiedeva, il 3 novembre, l’abrogazione della riforma agraria e della riforma scolastica – atti sempre denunciati dalla gerarchia cattolica e particolarmente da Mindszenty – ossia ancora il rovesciamento delle trasformazioni sociali che avevano posto fine alla vecchia Ungheria di Horthy.

- IL “TERRORE BIANCO” FASCISTA E ANTISEMITA DELLA CONTRORIVOLUZIONE

Lasciamo ora gli edifici del Governo e i centri ufficiali di Budapest e cerchiamo di ricostruire quello che veniva fatto e detto nelle strade e in provincia, e da chi, durante la settimana che precedette il ritorno in forze delle truppe sovietiche nella capitale il 4 novembre.

In primo luogo, converrà ricordare alcune fonti senz’altro attendibili da cui si ricavò l’indicazione che un attacco armato contro il Governo ungherese, del tutto indipendentemente da quello che accadde il 23 ottobre, era stato preparato da lungo tempo, e che provano in modo certo l’assenza di spontaneità della minoranza, organizzata militarmente, che fece ricorso alle armi.

Il 26 ottobre, un dispaccio da Budapest dell’United Press dichiarava che “i ribelli sono ben armati. È questo fatto che ha indicato per primo come un movimento clandestino, che sembra addestrato e ben equipaggiato, abbia scelto questo momento di crescente fermento del paese come l’occasione adatta per colpire il regime comunista”.

Lo stesso giorno, il corrispondente da Budapest del Daily Mail di Londra riferiva di aver cenato con dei dirigenti controrivoluzionari “che avevano preparato per un anno la rivolta di questa settimana”. Assai più estesa è una notizia dell’United Press, trasmessa il 30 ottobre da Kurt Neubauer dal centro di frontiera austriaco di Nickelsdorf. Dopo aver parlato lungamente con molti paramilitari controrivoluzionari armati, Neubauer giungeva a questa conclusione: “È abbastanza evidente, ormai, che quanto sta accadendo in Ungheria sia frutto di mesi, se non intieri anni, di preparazione”.

Le testimonianze sul terrore bianco che si sviluppò in Ungheria come situazione generale (in modo da richiamare direttamente alla memoria il 1919) soprattutto dopo che il 29 ottobre l’Armata Rossa lasciò Budapest, sono universali ed eccellenti. Il terrore regnò con un crescendo di furia stragista fino al 4 novembre, ossia fino al ritorno delle forze sovietiche.

Elie Abel, scrivendo da Budapest il 29 ottobre per il New York Times, riferì che i cosiddetti “Consigli rivoluzionari” dell’Ungheria occidentale erano “occupati a gettare in carcere i rappresentanti locali e semplici iscritti del Partito dei Lavoratori Ungheresi (comunista) e della polizia di sicurezza”. “In alcuni casi – egli continuava – questi servitori del regime di Budapest vengono impiccati o fucilati senza formalità”.

Il Daily Express di Londra del 31 ottobre pubblicava una descrizione del lungo e sistematico assalto condotto il giorno prima contro la sede centrale del Partito dei Lavoratori a Budapest, descrizione fatta dal corrispondente Sefton Delmar che si era trovato sul posto. Gli attaccanti, scrive Delmar “hanno impiccato tutti senza eccezione gli uomini e le donne trovati nel palazzo, fra cui anche sostenitori del Primo ministro Nagy” e poi continua “gli impiccati pendevano dalle finestre, dagli alberi, dai lampioni, da qualunque oggetto a cui si possa impiccare un uomo. Il male è che, insieme a loro, si seguita a impiccare anche semplici cittadini”. L’ammontare degli assassinati del palazzo della sede centrale del Partito dei Lavoratori ammontarono a 134!

Il redattore per i Balcani del giornale dell’United States News and World Report pubblicò il 9 novemre i suoi appunti, presi “mentre viaggiava in automobile dalla frontiera austriaca fino a Budapest, nei giorni in cui i sovietici erano fuori dalla capitale: “Si passa vicino ad assembramenti di persone riunite intorno a corpi di membri della polizia di sicurezza che vengono battuti fino a divenire masse informi che non hanno più nulla di umano. Da una casa ne pendono altri, impiccati”. Si può appena riconoscere la forma umana, ma “naturalmente” si può dire “con certezza” che gli individui torturati e massacrati sono “membri della polizia di sicurezza”!

Vengono alla memoria le fotografie fatte da John Sadovy e pubblicate su Life il 12 novembre 1956 in cui si vede un gruppo di ungheresi in uniforme, disarmati e con le mani in alto in segno di resa, alcuni feriti; poi lo stesso gruppo fucilato a freddo dalla distanza di cinque passi, e poi, uno di loro non essendo ancora morto e tenendosi eretto, un’altra fotografia mostra il calcio di un fucile che pioma sul suo cranio. Life, nel far pubblicità alla sua merce sul New York Times del 14 gennaio 1957, dà una riproduzione di due di queste foto, facendo scrivere che esse illustrano “un momento brutale ma glorioso di una appassionata battaglia per la libertà” e, anche qui, la scusa è che i massacrati “appartenevano alla polizia di sicurezza”. Tanto per l’esattezza gli uomini uccisi, come mostrano chiaramente le loro uniformi e i loro volti, sono soldati dell’Esercito popolare ungherese, molto giovani, reclute probabilmente, e non poliziotti di alcun genere (e anche se per assurdo lo fossero stati era giustificata tanta brutalità?).

Il fotografo di questo “momento glorioso” riferiva poi nel testo che accompagnava le fotografie che i “combattenti della libertà” non cessarono mai il fuoco su coloro che cercavano di arrendersi, urlando “Niente prigionieri, niente prigionieri!”. Poi scrive Sadovy, dopo aver visto il momento glorioso prolungarsi per quaranta minuti di massacro a sangue freddo “i miei nervi cedettero, le lacrime cominciarono a scorrermi giù per le gote. Ero stato tre anni in guerra, ma nulla di tutto ciò che avevo visto poteva paragonarsi a questo orrore”.

Gunnar D. Kumlein, corrispondente stabile da Roma del settimanale cattolico The Commonweal, si recò in Ungheria durante la controrivoluzione. Sembra che egli abbia passato buona parte di quei giorni anche fuori Budapest. Sebbene le sue relazioni fossero di parte reazionaria tuttavia egli riferisce, del resto senza un cenno di disapprovazione, che “alcuni degli insorti liquidavano i comunisti come se fossero animali” (The Commonweal del 14 dicembre 1956, pagina 280).

Leslie B. Bain, un osservatore molto moderato che conosce bene l’Ungheria, e che fu pure a Budapest durante la controrivoluzione, scrive che mentre i segni della reazione estrema apparvero fin dall’inizio dell’azione violenta, a partire dal 29 ottobre essi si fecero via via più decisi: “… in diversi punti della città, dunque si formava un gruppo di tumultuanti, vi erano alcuni individui che lanciavano parole d’ordine di nazionalismo estremo. Certe volte chiedevo se questi elementi nazionalisti avessero un comando centrale: ho fatto del mio meglio per scoprirlo, ma senza ottenere prove convincenti. Comunque, l’ondata nazionalista continuava a salire” (The Reporter di New York del 15 novemre 1956 pagina 21)

Il 31 ottobre, l’Associated Press trasmetteva da Budapest dispacci come questo – dove ancora l’assicurazione che le vittime erano membri della “polizia segreta” (cioè non in uniforme) può far effetto solo sugli sprovveduti: “Squadre di vendetta di giovani rivoluzionari girano ancora per le strade e perlustrano le fogne della città, alla caccia di membri dell’odiata polizia segreta ungherese. Quelli che vengono trovati nelle fogne, vengono sparati a vista e, uccisi, gettati al fondo; nelle strade, essi vengono impiccati per i piedi. Altri, fucilati nelle vie, vengono poi cosparsi di benzina e bruciati” (pubblicato sul New York Times del 1° novembre 1956).

Un altro dispaccio trasmesso lo stesso giorno da Varsavia riferiva similmente che “alcune delle notizie qui giunte da Budapest hanno causato oggi grande preoccupazione: si tratta di notizie di massacri di comunisti ed ebrei da parte di elementi indicati come fascisti” (sempre dal New York Times del 1° novembre 1956).

Le librerie furono un obbiettivo particolare dgli squadristi “combattenti della libertà”. Opere di Marx, Engels, Lenin e Stalin e di altri comunisti e autori progressisti e antifascisti di tutto il mondo furono ammucchiate in grandi roghi per le strade. “I fuochi bruciarono per tutta la notte” riferiva Le




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DECLASSIFICATI DOCUMENTI DELL'INTELLIGENCE USA SUI FATTI DEL '56
Washington, 5 nov. - (Adnkronos) - Nella Budapest dell'invasione
sovietica del '56, i servizi segreti americani riuscirono ad infiltrare
piccoli gruppi paramilitari e unita' di guerra psicologica. Si trattava di
emigrati che erano riusciti ad entrare nel paese del Patto di Varsavia
gia' nei primi anni cinquanta, denominati 'Red Sox' o 'Red Cap' o ancora
'Volunteer Freedom Corps'.
Anche se ufficialmente l'Agenzia non ne ha mai confermato l'esistenza, da
alcuni documenti appena declassificati in occasione
del cinquantenario dei fatti d'Ungheria emerge che questi gruppi
riuscirono a portare a termine diverse operazioni e fornire preziose
informazioni al quartier generale oltreoceano, in piena Guerra Fredda.
La penetrazione della Cia al di la' della cortina di ferro colpì
particolarmente i sovietici.Tanto da far sentenziare il 28 ottobre 1956 al
generale Klement Voroshilov durante la sessione del Presidio:''i servizi
segreti americani sono piu' attivi in Ungheria dei compagni Suslov e
Mikoyan''.
Tuttavia, sempre secondo i file declassificati dalll'intelligence USA
sulla rivolta ungherese, l'Agenzia nata nel 1947 dalle ceneri dell'Office
Strategic Service (Oss), non potè contare che su un solo ufficiale di
collegamento a Budapest: Geza Katona, che ha permesso allo storico Charles
Gati, professore della John Hopkins University, di rivelare il suo nome
nel libro appena pubblicato dal titolo 'Failed illusions: Moscow,
Washington, Budapest and the 1956 Hungarian Revolt'.

 
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4 replies since 18/2/2010, 22:25   766 views
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