Comunismo - Scintilla Rossa

La teoria marxiana del valore, Il valore della teoria

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matteo.morganti
view post Posted on 17/7/2009, 22:10 by: matteo.morganti




Appunti sul lavoro produttivo e improduttivo tratti dal Volume 1 delle Teorie sul Plusvalore (Libro IV del Capitale)
• La concezione erronea sulla produttività del lavoro in Smith è intrecciata con quella esatta: “C’è un genere di lavoro che aggiunge valore all’oggetto a cui viene applicato; ce n’è un altro che non produce questo effetto. Il primo può essere chiamato produttivo, il secondo improduttivo. Il lavoro di un operaio manifatturiero aggiunge generalmente al valore della materia prima il valore del proprio sostentamento e del profitto del suo padrone. Il lavoro di un domestico non aggiunge valore a niente” (Smith, vol. II, pp. 93 sgg.) | qui per productive labour si intende il lavoro che, oltre alla riproduzione of the value of his [the labourer’s] own maintenance , produce un plusvalore: it’s master’s profit ; il capitalista non potrebbe grow rich by employing a multitude of manufacturers [working men] se questi, oltre al valore del proprio sostentamento, non aggiungessero anche un plusvalore | qui però intende per lavoro produttivo anche un lavoro che in generale produces a value .
• I passi seguenti mostrano l’accezione corretta di Smith in modo anche più penetrante e il suo sviluppo ulteriore | “Se la quantità di cibo e di vestiario che è stata consumata da braccia improduttive fosse stata distribuita fra braccia produttive, queste avrebbero riprodotto l’intero valore del loro consumo insieme a un profitto” (ivi, p. 109) | con chiarezza è definito productive labourer quello che non solo riproduce al capitalista il full value dei mezzi di sussistenza contenuti nel salario, ma che li riproduce with a profit, quindi solo il lavoro che produce capitale è produttivo, ma la merce (o denaro) diventa capitale solo se si scambia direttamente con forza-lavoro = è scambiata al solo scopo di essere sostituita da un lavoro > di quello contenutovi | il valore d’uso della forza-lavoro non consiste nel suo effettivo valore d’uso (= utilità di un particolare lavoro concreto) e meno interessa al capitalista il valore d’uso del prodotto in quanto tale, quindi ciò che gli interessa nella merce è che possieda un valore di scambio > di quello pagato per essa | appartengono alla categoria di lavoratori produttivi tutti quelli che collaborano d’une maniere ou d’une autre alla produzione della merce, quindi Smith ha definito esattamente il lavoratore produttivo dal punto di vista capitalistico quindi ha esaurito il problema | Malthus ha giustamente osservato che questa distinzione critica è il fondamento dell’economia politica borghese.
• È stabilito anche cos’è lavoro improduttivo = lavoro che non si scambia con capitale ma direttamente con reddito = con salario o profitto (anche nelle diverse rubriche sotto cui il profitto si divide) quindi dove il lavoro si paga ancora in parte con sé, in parte si scambia direttamente con reddito, allora non esiste né capitale né lavoro salariato nel senso dell’economia politica borghese | in base a queste definizioni un pagliaccio è un lavoratore produttivo se lavora al soldo del capitalista | qui il lavoro produttivoimproduttivo viene esaminato sempre dal punto di vista del capitalista, non dell’operaio | uno scrittore è un lavoratore produttivo, non in quanto produce delle idee, ma in quanto arricchisce l’editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista. Il valore d’uso della merce in cui si incorpora il lavoro di un lavoratore produttivo può essere della specie più insignificante. Questa determinazione materiale non è connessa con questa sua proprietà, che esprime soltanto un determinato rapporto sociale di produzione. È una determinazione del lavoro che non deriva dal suo contenuto o dal suo risultato, ma dalla sua forma sociale determinata.
• Il risultato del processo di produzione capitalistico non è né un prodotto (valore d’uso) né merce (valore d’uso con un determinato valore di scambio); il suo risultato è la creazione di plusvalore per il capitale = l’effettiva trasformazione di denaro (o merce) in capitale, mentre prima del processo erano capitale solo potenzialmente | nel processo di produzione è succhiato più lavoro di quanto viene pagato = l’appropriazione di lavoro altrui non pagato compiuta nel processo di produzione è lo scopo immediato del processo di produzione capitalistico.
• Il lavoro per produrre merce dev’essere utile = deve produrre un valore d’uso = solo il lavoro che si presenta in valori d’uso è scambiabile con capitale | non è però il carattere concreto del lavoro ciò che costituisce il suo specifico valore d’uso per il capitale = ciò che nel capitalismo gli da l’impronta di lavoro produttivo; ciò che costituisce il valore d’uso specifico del lavoro produttivo per il capitale è il suo carattere di elemento creativo del valore di scambio (di lavoro astratto), non il fatto che rappresenta in generale una determinata quantità del lavoro generale, ma che rappresenta una quantità > di quella contenuta nel suo prezzo | il lavoro fornisce questa eccedenza nella forma determinata che gli appartiene in quanto lavoro utile particolare, ma questo suo carattere concreto non costituisce per il capitale il suo specifico valore d’uso.
• La stessa specie di lavoro può essere produttiva o improduttiva: Milton who di the “Paradise Lost” for five £ fu un lavoratore improduttivo; lo scrittore che fornisce lavori dozzinali al suo editore è un lavoratore produttivo; Milton produsse la sua opera per lo stesso motivo per cui un baco produce seta = era una manifestazione della sua natura; il proletario letterario di Lipsia che fabbrica libri sotto la direzione del suo editore è un lavoratore produttivo perché fin dal principio il suo prodotto è sussunto sotto il capitale e viene alla luce solo per la sua valorizzazione.

I seguenti sono dei chiarimenti di alcuni compagni sempre in relazione a lavoro produttivo e improduttivo, scusate la formattazione ma penso si capisca bene comunque

Lavoro improduttivo
La confusione che ancora oggi domina circa la definizione e l’importanza dell’individuazione del lavoro improduttivo è enorme. È una confusione che comincia dai riferimenti impropri che comunemente vengono fatti al contenu¬to del lavoro svolto (il tipo di lavoro, il mestiere) anziché alla sua forma di re¬lazione economica, che può essere diversa per un medesimo tipo di lavoro concreto; e va a finire sui giudizi morali che assai spesso, e sempre immotiva¬tamente, vengono affibbiati al lavoro improduttivo come perlopiù esecrabile di contro a un lavoro produttivo chissà perché innalzato dal cattivo senso co¬mune alla gloria dell’encomio sociale. Marx avvertiva che essere lavoratore produttivo, lungi dal rappresentare una fortuna, costituiva una disgrazia; che i lavoratori improduttivi potevano essere più utili alla società di tanti lavoratori produttivi costretti a applicare la loro forza-lavoro ad attività del tutto inutili se non addirittura nocive; e che gli stessi lavoratori improduttivi finiscono quasi sempre per essere sfruttati più di quelli produttivi. Se la definizione di lavoro produttivo e improduttivo, in quanto categoria analitica funzionale al concetto di modo di produzione capitalistico è coeva e immutata rispetto alla nascita di questo sistema sociale stesso, la sua impor¬tanza storica, a dispetto delle elucubrazioni accademiche dei post-marxisti, è cresciuta assieme allo sviluppo della forma industriale del capitale, ossia = alle macchine [<=]. Per definire e individuare l’importanza del lavoro improduttivo è necessario caratterizzarne il suo “complemento” positivo, ossia il lavoro produttivo[<=].
La questione richiede un ulteriore approfondimento specifico. Qui, per ora, ci si può limitare a definire nella maniera più generale l’attribuzione di lavoro pro¬duttivo (nel senso capitalistico del termine, sia detto ora una volta per tutte) onde procedere sùbito – per negazione di ciò – alla caratterizzazione di quello che è lavoro improduttivo. In generale, cioè, basti dire questo: per essere capi¬talisticamente produttivo è necessario che il lavoro sia scambiato ovvero pa¬gato con capitale, ed è sufficiente che produca plusvalore [<=], nella sfera della produzione immediata. Il resto procede da sé. Una prima immediata conseguenza è che ogni lavoro che non stia nel rappor¬to di capitale, ossia = che non sia salariato, neppure può riferirsi alle categorie di “produttivo” o “improduttivo”. Così, chiunque non venda la propria forza-lavoro ma direttamente il risultato (prodotto, servizio o prestazione qualsivo¬glia) del suo stesso lavoro (artigiano, piccolo contadino, bottegaio di famiglia o libero professionista: insomma lavoro autonomo), o addirittura non lo ven¬da (lavoro domestico o di “cura”, così si suol dire, per sé e per la famiglia), sia che produca realmente un valore d’uso o si limiti a predisporne la fruizio¬ne, nella forma del valore di scambio o meno – ebbene, tutta questa casistica non rientra nella rubrica qui esaminata, in quanto non attiene al modo di pro¬duzione capitalistico.
Occorre tuttavia precisare sùbito che il rientrarvi o no concerne la sostanziale forma economica della relazione stessa e non quella giuridica o sociologica. Giacché, se la forma formale stabilita in via di diritto o per convenzione so¬ciale chiama sempre più sovente “autonomo” un lavoro reso come attività ar¬tigianale o semiartigianale, di piccola produzione e distribuzione, o di presta¬zione d’opera, in una forma sostanziale sussunta realmente al capitale, ovve¬rosia = in un rapporto di sottomissione al capitale che si può invece configurare sostanzialmente come rapporto di lavoro salariato, in qualche modo occultato sotto forme esteriori diverse – in tutte queste circostanze l’analisi rientra ap¬pieno nella rubrica del lavoro produttivo e improduttivo. Così, preliminarmente, l’intero comparto del lavoro che non sia economica¬mente salariato rimane escluso sia dalla definizione di “produttivo” sia da quella di “improduttivo”. Ma non tutto il lavoro salariato è produttivo: quella si è detta essere una condizione necessaria ma non sufficiente. Tutto il lavoro produttivo ha da essere salariato, ma vi è anche una grande parte (crescente) di lavoro salariato – proletariato, perciò – che è improduttivo, entro una medesima definizione di classe [<=]. Lavoratori improduttivi sono dunque co¬loro che scambiano le loro prestazioni – la loro forza-lavoro [<=] come merce – con reddito o anche con capitale, ma entro la sfera della circolazione [<=].
In primo luogo, il caso più generale ma meno specifico si ha quando l’acqui¬rente di forza-lavoro non si contrappone al lavoratore come capitalista, trat¬tandosi solo di consumo del reddito (privato o pubblico), che come tale rien¬tra sempre nella circolazione semplice e non in quella del capitale: apparten¬gono a tale figura di lavoro, anzitutto, domestici e inservienti in genere alle dipendenze di un qualsiasi redditiero privato in quanto consumatore. Si tratta di lavoratori salariati, sfruttati (il loro orario di lavoro è superiore al tempo di lavoro a essi pagato), assai spesso sfruttati anche più della media sociale, date le peculiari condizioni del loro lavoro. Ma essi non producono valori vendibili e tanto meno plusvalore, per definizione, procurando solo utilità al loro reddi¬tiero. Una posizione concettualmente molto simile è quella dei dipendenti pubblici (stato, enti locali, ecc.), non a caso spesso retoricamente chiamati “fedeli ser¬vitori dello stato”. Costoro sono pagati con reddito pubblico (prelevato me¬diante il fiscalismo [<=] delle imposte e il debito pubblico [<=], o tasse di scopo e prezzi politici), per procu¬rare utilità ai cittadini (amministrazione, istruzione, assistenza sanitaria, giu¬stizia, protezione militare e quant’altro) in forma generalmente non vendibile, o fornita dietro pagamento ad hoc o al limite venduta quasi come merce ma a prezzi politici o amministrati, e comunque sempre senza plusvalore alcuno (per definizione, ancora, trattandosi di spesa di reddito e non di capitale). So¬no comprese in questa rubrica anche quelle produzioni (opere pubbliche, co¬me il caso della costruzione di strade) che, in diverse condizioni, rappresenta¬no sicuri e lucrosi investimenti capitalistici con produzione di valore e plusva¬lore. Ma in momenti storici determinati è possibile che tali attività, in via provvisoria, piuttosto che al capitale complessivo facciano riferimento a esi¬genze sociali che non siano direttamente capitalistiche; quest’ultimo infatti può, per sua convenienza, delegare allo stato la creazione di infrastrutture che, pur soddisfacendo bisogni collettivi, hanno come intrinseca finalità lo sviluppo capitalistico. È facilmente comprensibile, altresì, come anche tutte queste attività salariate pubbliche rientrino nel mercato del lavoro salariato in generale e siano perciò sfruttate al pari delle altre.
In secondo luogo, tuttavia, pure quando si abbia la diretta assunzione del la¬voro nel capitale, codesta condizione necessaria da sola non è sufficiente a definire “produttivo” il lavoro corrispondente, se non è in grado di produrre plusvalore. Giacché una tale circostanza deriva certamente da una semplice mutata sottomissione al capitale della forma di una funzione non produttiva – e con ciò il caso rientra propriamente nei costi di circolazione del capitale, come falsa spesa di produzione. Si tratta cioè di quelle attività che il capitali¬sta originariamente farebbe da solo o pagherebbe col proprio reddito. Autono¬mizzarle, pagandole con una parte del capitale proprio o facendone l’attività specifica di altri capitalisti, non ne modifica il carattere (Marx cita casi relati¬vi alla contabilità, al commercio, alle banche, ecc.). Ossia, la produzione im¬mediata non comprende le attività, pur pagate con capitale, inerenti la circola¬zione, che dipendano solo dal carattere di merce [<=] del prodotto: è facile, da questo punto di vista, farne una classificazione per comparazione, immagi¬nando quei lavori, pur assai utili e indispensabili al capitale, che non avrebbe¬ro più motivo di esistere (ma sicuramente sostituiti da altri lavori storicamen¬te specifici) se i prodotti circolassero come valori d’uso immediati anziché come merci. Che i lavoratori salariati nella sfera della circolazione del capitale siano sfrut¬tati, non occorre dimostrarlo, al punto che proprio per questa ragione molti li confondono con i lavoratori produttivi. E neppure è concepibile, precisandolo ancora con Marx, quella figura sociale per cui “altri economisti fanno essere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo”: il lavoro che è improduttivo è escluso dalla valorizzazione complessiva del capitale, anche dopo aver considerato il “lavoratore collettivo” del lavoro sociale combinato, che comprende invece solo una più dettagliata divisione del lavoro produttivo e improduttivo di plusvalore. Considerando il pagamento del lavoro salariato improduttivo, è bene comprendere che nella sfera della circolazione, e quindi anche della riproduzione del capitale, il plusvalore non lo si produce, appunto per definizione, ma viene a costituire un limite negativo dato per la spesa del capitalista, il quale fa di tutto per risparmiare al massimo sul salario [<=] (esten¬dendo e intensificando il più possibile l’uso della forza-lavoro) al fine di con¬servare per sé la maggiore quantità possibile di quel plusvalore già prodotto: perciò il grado di sfruttamento del lavoro improduttivo, pur non creando esso plusvalore, può di norma essere perfino più alto di quello produttivo.
Tutto ciò che precede non significa escludere qualche influenza del lavoro improduttivo sull’intero sistema produttivo, perché per poter far ciò occorre prescindere momentaneamente dai livelli della produzione e dalle proporzioni tra i settori: infatti, il lavoro improduttivo può essere contingentemente il tramite per far fronte a una crisi [<=] da sovraproduzione di valore o a una riduzione sensibile dell’esercito di ri¬serva [<=], o lo stesso lavoro produttivo può essere impiegato nella produzione di merci di lusso. Ma “se una parte sproporzionata fosse così riprodotta, invece di essere ritrasformata in mezzi di produzione e in mezzi di sussistenza, lo sviluppo della ricchezza subirebbe un colpo d’arresto”. Gli effetti del lavoro produttivo nella produzione di merci di lusso, così come quelli dei costi di circolazione e del lavoro improduttivo, anche se isolati artificiosamente dal processo imme¬diato di produzione, si ripresenterebbero nel processo complessivo di ripro¬duzione e di circolazione per le conseguenze indirette dovute a una dilatazio¬ne sproporzionata del lavoro improduttivo o anche di quello produttivo ma non riproduttivo. Ma le categorie che presiedono all’individuazione dei criteri di definizione di lavoro produttivo e improdutti¬vo non muterebbero affatto.
La rivoluzione dell’automazione del controllo ripropone l’attualità della di¬stinzione tra lavoro produttivo e improduttivo nella produzione e nella circo¬lazione. Con le strutture organizzative e tecniche del lavoro informatizzato si sviluppa contraddittoriamente un processo di tendenziale omogeneizzazione sociale del lavoro, in una forma di rapporti materiali di produzione sempre più uguali tra loro, e dunque tendenzialmente universali. Tale fenomeno inve¬ste sia il lavoro produttivo sia quello improduttivo. Le diverse mansioni di uno stesso lavoratore esibiscono un’alternanza di lavoro produttivo e impro¬duttivo, senza per questo cambiare forma. Ciò contiene una precisa indicazio¬ne sui caratteri da indagare per comprendere la nuova composizione di classe [<=]. Alla proletarizzazione delle classi [<=] corrisponde la sintesi corporativa dello sta¬to liberale. La riproduzione delle classi sociali, in direzione di un progressivo ampliamento della proletarizzazione verso i settori di lavoro improduttivo, segna così una linea di demarcazione tra nazioni [<=] e stati nazionali più sviluppati e quelli da dominare. La complementare apparente “sparizione della classe ope¬raia” – che tanto scompiglio ha gettato nei rielaboratori delle soggettività rivo¬luzionarie – si spiega così essere il prodotto di una nuova divisione internazio¬nale del lavoro, cui è collegata funzionalmente l’immissione della tecnologia più avanzata. Il proletariato mondiale come classe in sé è ben lontano dalla sua estinzione, presentando al contrario caratteri sempre più diffusi e omogenei. Lo sviluppo di nuove figure lavorative connesse alla seconda rivoluzione industriale si in¬serisce compiutamente nella ridefinizione del proletariato in rapporto alle al¬tre classi sociali. Entro tali classi si annida il germe della contraddizione dello sviluppo della scienza, del sapere collettivo (l’intelletto generale) espropriato. La rinnovata attualità del nesso tra lavoro produttivo e improduttivo è capace di gettare luce sulla percezione della dinamica sociale del processo produtti¬vo.

Lavoro produttivo
Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, è il lavoro salaria¬to che, nello scambio con la parte variabile del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo riproduce questa parte del capitale (ovvero = il valore della propria capacità lavorativa), ma oltre a ciò produce plusvalore [<=] per il ca¬pitalista. Solo per questa via la merce [<=], o il denaro, è trasformata in capitale, = è prodotta come capitale. È produttivo solo il lavoro salariato che produce ca¬pitale. Il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [<=] , e la definizione stessa di questa partizione del lavoro capitalistico, costituisce un punto la cui preci¬sazione va ora completata. Si possono riassumere così i punti salienti per la corretta individuazione del lavoro produttivo nel capita¬lismo, scoperti scientificamente da Marx. È necessario chiarire alcuni punti. Anzitutto, si è detto, è produttivo capitalisticamente solo quel lavoro che pro¬duce plusvalore; non è più sufficiente, cioè, ma è ancora necessaria, la condi¬zione smithiana di produttività materiale. Viene così precisato che in ogni ca¬so esso deve essere produttivo di nuovo valore e di nuovo valore d’uso; ciò discende dalla duplicità della merce, ed esclude perciò le “false spese di pro¬duzione”, relative alla circolazione [<=]. Va sottolineato quindi che il lavoro produttivo è sempre lavoro salariato pa¬gato con capitale, ma avvertendo al contempo che ciò non basta ancora, non essendo vero che ogni lavoro salariato pagato con capitale sia produttivo di plusvalore, anche se fa guadagnare profitto al capitalista che lo paga.
Marx riassume così le condizioni suddette, indicando di verificare che vi sia :
1) il rapporto reciproco tra denaro e forza-lavoro in quanto merci, l’acquisto e la vendita tra il possessore del denaro e il possessore della forza-lavoro;
2) la diretta assunzione del lavoro nel capitale;
3) la trasformazione reale del lavoro in capitale nel processo di produzione o, ciò che è lo stesso, la creazione di plusvalore per il capitale.
Dunque il lavoro, che è l’unica fonte attiva del valore d’uso, si trasforma dap¬prima 1) in lavoro astratto (ossia, = lavoro che la società riconosce in quanto pro¬duttore generico di valori merci, indipendentemente dalla concretezza imme¬diata della sua utilità) e quindi, 2) come lavoro salariato (alienato, ossia, in quanto venduto al capitale, separato, reso altro dall’unità con la persona), si trasforma infine in nuovo capitale per produrre plusvalore. Solo se si verifica quest’ultima circostanza, si può dare la seguente definizio¬ne (anche senza pretesa di assoluta precisione): il lavoro produttivo è pagato con quel capitale che si autovalorizza complessivamente – cioè, = è quel lavoro trasformato in capitale, nella sola sfera “materiale” della produzione imme¬diata, necessario alla riproduzione di neovalore. Insieme alla definizione, oc¬corrono alcune precisazioni .
La materialità della produzione non va intesa esclusivamente come materiali¬tà “tangibile” del prodotto, riguardando piuttosto la forma ineliminabile di va¬lore d’uso, di “ricchezza” sociale che essa assume. Certo, la tangibilità, la concretezza fisica, riguarda ancora e sempre la parte di gran lunga più grande della produzione mondiale. Ma una porzione significativa di essa può anche essere fruibile in forma non separabile dall’attività lavorativa stessa o in for¬ma intangibile, come è da oltre un secolo per l’elettricità o adesso per i flussi informatici: il che non ha nulla a che vedere con la presunta “immaterialità” della produzione, su cui cyber-navigano i virtuosi della virtualità postmoder¬na. La materialità stessa, non dipendendo dalle particolari qualità “fisiche” del prodotto, dipende piuttosto dall’universalità (riproducibilità pressoché illimi¬tata) del valore d’uso prodotto in quanto merce (o capitale). Dunque, solo dal¬la forma specifica del rapporto sociale del capitale col lavoro salariato dipen¬de il carattere produttivo o meno di quest’ultimo.
La produzione immediata di ricchezza sociale in forma di merce capitalistica, ossia = qualsiasi attività di trasformazione industriale, agricola, ecc., compren¬de anche valori d’uso che, indipendentemente dalla loro qualità particolare o destinazione, possono essere in parte inclusi tra i prodotti non fondamentali, consumi di lusso, ecc. Tale quota della produzione sociale, che contiene e porta plusvalore, quindi, anche se fosse considerata inutile o nociva dai più, non limita il lavoro produttivo al solo àmbito della riproduzione o accumula¬zione. Si è già accennato, tuttavia, che la produzione immediata non comprende le attività, pur pagate con capitale perché assai utili per esso, inerenti la circola¬zione, le quali sparirebbero in un altro modo di produzione. Ossia, in questo sistema, capitalistico, esse dipendono solo dal carattere di merce che l’intera produzione sociale assume, e che proprio grazie a quelle attività di circolazio¬ne – che procurano profitto ai capitalisti particolari che le esercitano, in nome e per conto dell’intera loro classe – raggiunge il suo scopo. Marx, a tale pro¬posito, cita i casi relativi alla contabilità, al commercio, alle banche, ecc.
Del resto, la produzione di neovalore, in quanto immediata, può includere an¬che modalità particolari e trasmutate di produzione di merci per la valorizza¬zione del capitale complessivo. Tali merci, infatti, potrebbero essere vendute da qualche singolo peculiare “capitale” senza profitto. Senonché quest’ultimo fenomeno si riferisce solo alla fase della circolazione e dei prezzi, e non a quella della produzione di valore e plusvalore. Esso può riguardare, per fare un esempio, quelle merci prodotte da “capitale pubblico” alle quali vengono imposti prezzi politici, per poter trasferire così il plusvalore in esse contenuto ai capitalisti loro acquirenti: il lavoro produttivo con il quale sono state ottenute si trasforma così in profitto non per il “capita¬le” che ha prodotto tali merci, ma solo per il capitale che le ha acquistate. Il lavoro salariato, impiegato a tali fini, è quindi comunque produttivo di plusva¬lore – di quel plusvalore ripartito complessivamente entro la classe capitalisti¬ca – anche se meno visibile perché non si trasforma in profitto immediato.
Restano escluse, invece, quelle produzioni che non sono direttamente sotto¬messe al capitale in quanto, provvisoriamente, fanno riferimento a esigenze sociali legate a momenti storici determinati. È classico l’esempio della costru¬zione di strade statali, ricordato da Marx, come di ogni altra opera pubblica del medesimo genere. Il capitale, infatti, per sua convenienza, può delegare allo stato la creazione di infrastrutture che, pur soddisfacendo bisogni colletti¬vi, hanno come intrinseca finalità lo sviluppo delle condizioni generali della produzione capitalistica. Occorre qui rammentare ancora una volta, sempre con Marx, che non è neppure concepibile quella figura sociale per cui “altri economisti fanno es¬sere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo”. Se il lavoro è improduttivo, perché escluso dalla valorizzazione complessiva del capitale e dedicato solo alla circolazione, rimane tale anche dopo aver considerato il “lavoratore collettivo” del lavoro sociale combinato. Semmai è proprio entro quest’ultimo che si può comprendere una più dettagliata divisio¬ne del lavoro produttivo. È con lo sviluppo del mercato mondiale e della forma finanziaria dell’impe¬rialismo [<=], in cui agisce la borghesia transnazionale costituita come classe, che l’estendersi della sfera della circolazione internazionale aggiunge ulteriore e piena validità attuale, per chi l’avesse dimenticata, alle determinazioni di la¬voro produttivo e improduttivo (di plusvalore) entro il proletariato mondiale. Più matura è la fase monopolistica, più esigua percentualmente e differenziata territorialmente di¬viene la classe produttiva, affiancata invece da un aumento relativo e da una diversa dislocazione di lavoratori “improduttivi” (magari sotto l’anodina e spuria etichetta di terziarizzazione, quale intermediazione finanziaria, com¬merciale e statale).
L’entità e la qualità delle trasformazioni introdotte dal processo informatico di produzione e circolazione sono tali da mutare le basi stesse della composi¬zione internazionale del proletariato, di un lavoro sociale universale – sia pro¬duttivo, sia improduttivo – non più facilmente e immediatamente rintracciabi¬le nel simbolo del lavoro “operaio di massa”. Ma la progressiva atomizzazione dei luoghi e dei momenti produttivi, rispetto all’organizzazione della grande fabbrica, da Ure a Taylor, non vuol dire affatto (come pretendono i fautori della tesi del “postfordismo”) che sia venuta meno la centralità della produ¬zione di massa, su larga scala, con un mutamento dell’essenza fondamentale della forma industriale del capitale, o addirittura con il deperimento del modo di produzione capitalistico stesso. È in tale contesto contraddittorio che si svi¬luppa un processo di tendenziale omogeneizzazione sociale del lavoro, fenome¬no che investe sia il lavoro produttivo sia quello improduttivo. Le possibili diverse mansioni di uno stesso lavoratore salariato esibiscono un’alternanza di lavoro produttivo e improduttivo, senza per questo cambiare procedura. Si è già ripetutamente sostenuto come ciò contenga una precisa indicazione sui caratteri da indagare per comprende¬re la nuova composizione di classe [<=].
Così, prima di aver dato l’“addio al proletariato” e al lavoro salariato, gli ideo¬logi del nuovismo avevano già fatto cadere con noncuranza anche la diverse determinazioni di lavoro produttivo e improduttivo. Noncuranti di cosa sia il lavoro salariato (in quanto lavoro dipendente dal comando del capitale come forma del rapporto sociale dominante, dunque caratteristico anche del lavoro prestato per lo stato – del capitale appunto), volutamente ignorano quale deb¬ba essere la distinzione e la proporzione tra lavoro produttivo e improduttivo, tra produzione e circolazione, sotto le leggi del capitale e del suo plusvalore. Di conseguenza, implicitamente il nuovismo simula un linguaggio [<=] e dei con¬cetti pertinenti solo ad un modo di produzione, inconfessabilmente fuori da quello capitalistico. Al contrario vanno ancòra ripetute, con Marx, due cose: anzi¬tutto che 1) essere lavoratore produttivo non è affatto una fortuna ma per il sin¬golo può rappresentare una disgrazia, in quanto condanna alla creazione di plusvalore; in secondo luogo e conseguentemente, l’ 2) essere lavoratore impro¬duttivo non costituisce né una colpa né un motivo di vergogna e neppure di abbassamento del riconoscimento sociale. È dunque nel solo “mondo ideale dei valori”, della loro produzione immediata come merci, che si può e si deve prescindere dal lavoro improduttivo. Quando si tratta della produzione capitalistica di merci, ossia produzione con plusva¬lore, si circoscrive l’analisi sempre al solo lavoro produttivo, l’unico che ri¬sulta immediatamente rilevante per la spiegazione scientifica dei nessi profondi del modo di produzione capitalistico. Non deve stupire, pertanto, che stimabili critici assoluti della teoria del valore e del plusvalore, anche quando, o proprio perché, si richiamino fortuitamente alla tradizione economica classica, attraverso la reinterpretazione sraffiana, ben più pesantemente influenzata dalla logica keynesiana, lascino cadere la distinzione proficua tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
 
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