Comunismo - Scintilla Rossa

La teoria marxiana del valore, Il valore della teoria

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matteo.morganti
view post Posted on 14/6/2009, 21:33




Qui non mi voglio occupare di una spiegazione della teoria marxiana del valore, possiamo presupporla come nota almeno nelle sue linee generali; quello che dobbiamo discutere è il suo statuto (della teoria del valore) di conoscenza scientifica, e tramite lo studio di una particolare teoria, possiamo in seguito arrivare a stabilire lo statuto delle conoscenze scientifiche in generale.
Riprendendo l'errore di Ludovico Piero riporto la fonte da cui è tratto perchè il suo non è un dubbio nuovo, risale ai tempi della pubblicazione del Capitale. La fonte dell'errore è nientemeno che Engels, il quale scrive - nelle considerazioni supplementari al Libro III del Capitale:
CITAZIONE
In una parola, la legge del valore di Marx ha validità generale, nella misura in cui la possono avere le leggi economiche, per tutto il periodo della produzione semplice delle merci, quindi fino al momento in cui questa subisce una trasformazione con l’apparizione della forma capitalistica di produzione. Fino a questo periodo i prezzi gravitano attorno ai valori determinati secondo la legge di Marx, ed oscillano attorno a questi valori, cosicchè quanto più la produzione semplice delle merci si sviluppa, più i prezzi medi di lunghi periodi non interrotti da violente perturbazioni esterne coincidono, con scarti trascurabili, con i valori. La legge del valore di Marx ha dunque una validità economica generale per un periodo di tempo che va dall’inizio dello scambio che trasforma i prodotti in merce, fino al XV sec. della nostra era.

Si capiscono da sè le conclusioni a cui necessariamente devono arrivare sia Engels che Ludovico Piero: la teoria del valore è una teoria di un determinato periodo storico del capitalismo, cessato il quale entrarebbe in funzione una nuova legge regolatrice, quella dei costi di produzione con relativa formazione di un saggio medio di profitto.
Nel preseguio della mia brevissima sintesi porterò le ragioni che hanno spinto Engels a questa errata formulazione e in seguito l'analisi della teoria del valore.
 
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view post Posted on 14/6/2009, 22:51
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compagno

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[....]Lo stesso si deve dire delle leggi dello sviluppo economico, delle leggi dell'economia politica, - non importa se si tratti del periodo del capitalismo o del periodo del socialismo. Anche qui come nelle scienze naturali, le leggi dello sviluppo economico sono leggi obiettive, che riflettono i processi di sviluppo economico che si compiono indipendentemente dalla volontà degli uomini. Gli uomini possono scoprire queste leggi, conoscerle, e basandosi su di esse utilizzarle nell'interesse della società, dare un altro indirizzo alle azioni distruttive di alcune leggi, limitare la loro sfera di azione, dare spazio ad altre leggi che cerchino di aprirsi un varco, ma non possono distruggerle o creare nuove leggi economiche.
Una delle particolarità dell'economia politica sta nel fatto che le sue leggi, a differenza delle leggi delle scienze naturali, non sono eterne, che esse, o per lo meno la maggior parte di esse, vigono nel corso di un determinato periodo storico, dopo di che cedono il posto a leggi nuove. Ma esse, queste leggi, non si distruggono; bensì perdono la loro forza a causa delle nuove condizioni economiche e scompaiono dalla scena per lasciare il posto a nuove leggi, che non si creano per volontà degli uomini, ma sorgono sulla base di nuove condizioni economiche. [...]
(tratto da "Problemi economici del socialismo in URSS" di Giuseppe Stalin)

Ho postato questo brano solo per una doverosa precisazione.
Ti ringraziamo per il tuo apporto e aspettiamo fiduciosi la tua critica.
 
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matteo.morganti
view post Posted on 15/6/2009, 22:07




La citazione di Engels nasce come risposta alle critiche di Sombart riguardo la validità della teoria marxiana del valore (ma come si denota dalla risposta di Engels, qui è in gioco la scientificità in generale delle astrazioni, dei concetti con cui conoscere la realtà, e anche se così non fosse (ma così è) è da tenere ben presente che Marx si è (giustamente) arrogato il merito d'aver scoperto la legge del valore (e del plusvalore), quindi attaccando questa teoria, si attacca la teoria marxiana dell'economia). Le critiche di Sombart sono contenute nel suo volume sull'economia "comprensiva" e sono così sintetizzate da Engels nelle considerazioni supplementari al Libro III del Capitale:
CITAZIONE
Anche Sombart, come è naturale, si occupa del nostro soggetto. Egli esamina la questione dell’importanza del valore nel sistema di Marx e giunge ai risultati seguenti: il valore non appare nel rapporto di scambio delle merci prodotte secondo il sistema capitalistico; esso non vive nella coscienza degli agenti della produzione capitalistica; non è un fatto empirico, ma un fatto logico, di pensiero; il concetto di valore nella sua determinazione materiale presso Marx non è altro se non l’espressione economica del fenomeno della forza produttiva sociale del lavoro come base della realtà economica; la legge del valore, in un ordine economico capitalistico, domina in ultima istanza i processi economici; ed ha per questo ordine economico in generale il seguente contenuto: il valore delle merci è la forma specifica e storica, nella quale si fa valere in modo determinante la forza produttiva del lavoro, che domina, in ultima istanza, tutti i fenomeni economici. — Fin qui Sombart; non si può dire che questa concezione della importanza della legge del valore nella forma capitalistica di produzione sia inesatta. Mi sembra tuttavia che essa sia formulata con troppa genericità e sia suscettibile di una formulazione più serrata, più precisa: inoltre, secondo il mio punto di vista, non pone in luce in modo esauriente tutta l’importanza della legge del valore per le fasi dello sviluppo economico della società dominata da questa legge.

Ma forse qui si dice poco del problema essenziale. Allora è utile riprendere una risposta di Engels alle critiche di un'altro economista: C. Schmidt; questa volta la risposta si trova nella Lettera di Engels a Schmidt del 12 marzo 1895.
CITAZIONE
Ritrovo (nella vostra obiezione) la medesima propensione a concentrarsi sul dettaglio e la attribuisco al metodo eclettico proprio della filosofia introdotto dopo il 1848 nelle università tedesche: si perde di vista l'insieme e ci si perde di frequente in speculazioni su questioni di dettaglio. [...] Le obiezioni che voi fate contro la legge del valore riguardano tutti i concetti, se considerati dal punto di vista della realtà. L'identità del pensiero e dell'essere coincide ovunque col vostro esmepio del cerchio e del poligono. Il concetto di una cosa e la realtà di questa sono paralleli, come due asintoti che si avvicinano continuamente l'uno all'altro senza mai coincidere. La differenza che li separa è ciò che fa sì che il concetto non sia immediatamente la realtà e che la realtà non sia il proprio concetto. Dal momento che un concetto possiede la caratteristica essenziale di un concetto, dunque non coincide immediatamente con la realtà, da cui è stato necessario astrarlo, esso è sempre più di una semplice finzione, a meno che voi non chiamate finzione tutti i risultati del pensiero, perchè la realtà corrisponde a questi risultati solo tramite una lunga deviazione e anche allora si avvicina loro solo in modo asintotico

Qual è la critica di Schmidt? Il concetto di valore è una finzione teorica, buona per la teoria, appunto, ma non-operativa; ed Engels si difende come può (ma sbaglia). Il concetto (inteso come metodo di conoscenza della realtà) è inadeguato per principio (ha in sè un peccato originale: quello d'essere un pensiero e come tale non immediatamente reale), quindi si ha una strana conclusione: si ha una conoscenza per principio inadeguata dell'oggetto che si studia. In realtà i concetti di Marx sono perfettamente adeguati e la loro forza (scambiata per debolezza) è proprio quella di stabilire i limiti delle variazioni del reale che si sta studiando (all'interno della legge del valore, la realtà che si sta studiando (il capitalismo) può variare entro i limiti fissati da questa legge, oltre si avrà un'altra realtà che richiederà altri concetti che fisseranno i nuovi limiti.
Anche un economista marxista più vicino ai giorni nostri (Pietranera) ha risposto alle accuse riguardanti la presunta finzione teorica dei concetti marxiani, ed anche Pietranera si è attenuto alla linea tracciata da Engels, sviluppandola ulteriormente (l'articolo è La struttura logica del Capitale di Marx, apparso sulla rivista Società nel 1956). In sintesi la risposta è quella che abbiamo già incontrato: al tempo di Marx la legge del valore regolava la produzione, al tempo dell'imperialismo la legge regolatrice sarebbe quella dei costi di produzione. Com'è possibile? Perchè Pietranera confonde 2 piani di analisi distinti presenti in Marx e lo vuole "difendere" da accuse di astrattismo (le stesse che venivano mosse a Ricardo dagli economisti volgari). Pietranera crede che le categorie logiche appaiano necessariamente in un ordine inverso rispetto alle categorie reali e come tali vadano esposte partendo dalla fine, stabilendo un indebito parallelo tra realtà e pensiero (mentre Marx ci ha ammonito con un "dipende" riguardo al rapporto tra ordine logico e ordine reale, dipende appunto, ci sono sequenze intere che sembrano avere lo stesso ritmo d'apparizione e che fan credere che il rapporto sia inverso, ma è solo un'eccezione, e ordine logico ed ordine reale non necessariamente hanno un rapporto diretto o indiretto che sia). Ma non è tutto, avendo tralasciato l'analisi della forma valore (perchè sarebbe un'astrazione pericolosa e non-operativa) confonde livelli di analisi diversi:
1) forme di esistenza del valore (capitale industriale, capitale mercantile, capitale produttivo d'interesse): qui è corretta l'interpretazione di Pietranera, il capitale industriale è storicamente posteriore agli altri 2 e li sottomette sotto di sè con il passare del tempo;
2) valore e sue forme di esistenza (valore, prezzi di costo, prezzi di monopolio): qui la storia non c'entra nulla invece, il valore non è anteriore storicamente agli altri 2, ma è ad un livello d'analisi diverso, ad un grado d'astrazione superiore, e non solo nei prezzi di costo e nei prezzi di monopolio il valore continua la sua funzione di regolatore della ripartizione del lavoro sociale, ma le 2 categorie più concrete (i prezzi di costo e di monopolio) sono forme in cui il valore si manifesta alla superficie. Pietranera come ha potuto sbagliarsi? E' solo un'illusione accidentale? Risposta superficiale: sì è un discorso ideologico dovuto ad una svista; risposta marxista: no le apparenze realmente appaiono, e la forma in cui si manifesta il valore presso gli agenti della produzione è precisamente quella di prezzo di costo (o di monopolio), perciò l'illusione è reale (realmente esiste) non solo, ma è un'illusione necessaria al funzionamento del capitalismo, ovvero, è precisamente per il fatto che a capitale di uguale grandezza corrisponde un profitto uguale che il capitalista non vede il valore regolare la ripartizione del lavoro sociale, e non viceversa. Il movimento apparente (ciò che regola la produzione è il costo di produzione) esiste davvero in questo sistema di produzione, e per il fatto di esistere, nasconde il movimento reale (la legge della determinazione del valore delle merci tramite il tempo di lavoro socialmente necessario alla loro produzione). Una forma di manifestazione è anche forma di dissimulazione, di apparenza ... Succede ovunque nei fenomeni naturali, e il compito della scienza è dissipare l'illusione.
Conclusione: non solo il costo di produzione dissimula la legge che gli sta alle spalle (quella del valore), ma è una dissimulazione necessaria al funzionamento del capitalismo ... è perchè vige il costo di produzione come dissimulazione che esiste il profitto, o in altri termini, è perchè i prezzi non coincidono coi loro valori che esiste un profitto medio ...
 
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salvatore cappuccio
view post Posted on 15/7/2009, 23:18




Egregio Sig. Matteo Morganti le sue conclusioni in merito alle affermazioni di Engels sulla teoria del valore (Libro III del Capitale - Considerazioni supplementari) sono da me condivise e le ritengo corrette nell'analisi.
La teoria del valore di Marx risulta valida per tutto il periodo del capitalismo quale che sia la forma che esso assume o possa assumere nei vari periodi storici.
La differenza tra valore e prezzo delle merci è necessaria in quanto il primo è l'espressione astratta di una legge, il secondo è necessariamente l'incontro tra domanda ed offerta cioè un rapporto sociale!

Salvatore Cappuccio
 
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LudovicoPiero
view post Posted on 16/7/2009, 06:52




Come possiamo spiegare o applicare la legge del valore ai prodotti finanziari, penso ai derivati, attraverso i quali i capitalisti riescono ad ottenere enormi profitti? A me il dubbio resta.

LP
 
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matteo.morganti
view post Posted on 16/7/2009, 08:29




Non mi prendo meriti che non ho, la paternità della critica non è mia ma è contenuta nel volume "Leggere il Capitale", in particolare nel saggio "L'oggetto del Capitale" di Louis Althusser; il mio unico merito è averlo studiato e penso capito, qualcosa di molto simile mi girava in testa prima di approntare questo studio, ma dò a Cesare quel che è di Cesare. Detto questo.
Sì e No, Salvatore.
SI') La legge rimane valida per tutto il periodo d'esistenza del modo capitalistico di produzione;
SI') La differenza tra valore e prezzo è necessaria, e qui il necessario va preso in senso fortissimo: senza tale distinzione non funzionerebbe per nulla il capitalismo, io sottolineo sempre una tesi di Marx contenuta nelle Teorie sul Plusvalore, dove (criticando Ricardo) sostiene che la differenza tra prezzo e valore basta da sola a creare un saggio medio di profitto. Sul mercato non si scambiano mai valori, ma solo e sempre prezzi, e nemmeno sono corrette le tesi di quei compagni che analizzando il "problema della trasformazione dei valori in prezzi" (problema già formulato in maniera confusa) credono che prima si formino valori e poi quando la merce arriva sul mercato si trasformino in prezzi; niente affatto, la merce nasce col suo bel prezzo già da subito, le merci sono prodotte per aver un prezzo; senza voler divagare, queste tesi discendono tutte da un errore teorico grave compiuto da Rosa Luxemburg che considera la riproduzione del capitale sociale totale come un meccanismo temporalmente susseguente alla produzione del singolo capitale: c'è un capitale che produce nel modo che sappiamo, poi va sul mercato e incontra altri capitali che ne limitano la libertà di movimento ... ecc ecc. No. E' il movimento complessivo di riproduzione (allargata o semplice che sia, ma Marx aggiunge che è sempre allargata e la riproduzione semplice è sensata solo come momento della riproduzione allargata) che dà senso al processo di produzione del singolo capitale; un capitale nasce sempre circondato dalla molteplicità di capitali avversi, un capitale isolato è un assurdo logico e non potrà mai accadere che esista un capitale che non si scontri con altri capitali; lo possiamo isolare ad un particolare livello d'astrazione in quanto la produzione a questo livello acquista un'autonomia relativa, ma poi quando è necessario introdurre altre variabili per spiegare in maniera più compiuta il funzionamento del singolo capitale stesso, allora ecco che ritorna la molteplicità formata da altri capitali che gli stanno di fronte. La riproduzione dei rapporti capitalistici è il tutto e produzione-circolazione sono suoi momenti, ed è il tutto complesso che dà senso (posizione e funzione) ai suoi momenti. Questo è un principio logico molto importante.
NO) Anche il valore è un rapporto sociale come il prezzo, il 2° è semplicemente una forma di manifestazione del 1°, che - come tutte le forme di manifestazione - è anche forma di dissimulazione, perciò nasconde il processo che sta alle proprie spalle, e noi alla superficie del movimento vediamo solo il risultato. Dobbiamo pensare il capitalismo non come un piano, ma come un reticolo di relazioni che s'estendono sia in larghezza che in profondità; esempi di concetti paritari sono (profitto, rendita, salario), esempi di concetti che stanno in un rapporto di profondità (valore, prezzo di produzione, prezzo di mercato, prezzo di monopolio). Anzi di più. Il rapporto sociale di produzione determinante è proprio il valore, altrimenti Marx avrebbe dovuto chiamare la propria legge p. es. legge del prezzo di produzione, invece la chiama legge del valore. Il prezzo ha vari livelli di profondità perchè p. es. il prezzo di produzione non è affatto determinanto dalla legge della domanda e dell'offerta (fenomeno della circolazione) ma dalla necessità di creare un profitto (fenomeno della produzione), sarà poi il prezzo di mercato ad essere un oscillazione attorno al prezzo di produzione determinanta dalla legge della domanda e dell'offerta. L'importante è però non dimenticarsi che dietro a valore, prezzi vari, stanno sempre i rapporti sociali, i rapporti sociali di produzione e il loro incontro-scontro con i rapporti tecnici di produzione (le forze produttive), la cui dialettica costituisce il vero determinante di fondo di tutto l'arcano.

Invece a Ludovico pongo una domanda: i prodotti finanziari hanno un loro valore o piuttosto hanno un prezzo di mercato? La 2° e basta perchè il loro valore qui non è proprio in gioco: se fossero pezzi di carta avrebbero il valore determinato dal tempo di lavoro impiegato a produrre la carta, se fossero prodotti telematici avrebbero un valore determinanto dal tempo di lavoro impiegato p. es. a costruire il software che li gestisce....ma essendo moneta capisci che qui non c'entra questo (come la moneta da 1 euro si dice che vale 1 euro ma non è che a produrla ho impiegato 1 ora di lavoro p. es. ammesso che 1 ora di lavoro sia uguale ad 1 euro), è un segno qui e basta. I prodotti finanziari, per quanto complicati possano essere, sono solo in fondo (nel senso di alla fine) anticipi su profitti futuri, quindi interessi pagati per aver prestato all'ente che li emette la nostra moneta, ma il profitto lo possono fare solo processi produttivi immediati (di certo non i BOT o le stock options) che impiegano lavoratori - materie prime - strumenti di lavoro - mezzi di produzione; questi prodotti sono solo scatole cinesi in cui risalendone la scala arriviamo sempre al nostro lavoratore inchiodato a qualche macchina a lavorare e lì sta il profitto, mentre le stock options fruttano interessi. Tu non riesci a capire questo perchè se il profitto è una forma di manifestazione-dissimulazione del plusvalore, l'interesse è formula di manifestazione-dissimulazione del profitto, quindi alla seconda potenza, è il capitale esteriorizzato completamente, più mediato, il feticcio completo, sembra che da denaro sgorghi denaro, ma è solo interesse che se l'economia "reale" (che brutta parola ma ci si capisce) procede bene, viene riscosso, altrimenti era solo una bolla di sapone legata al niente.

P.S. A Salvatore. Chiamami per nome per favore, non ho mica 60 anni, non ne ho neppure 30 anche se ci son vicino.
 
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LudovicoPiero
view post Posted on 17/7/2009, 20:16




QUOTE (matteo.morganti @ 16/7/2009, 09:29)
Invece a Ludovico pongo una domanda: i prodotti finanziari hanno un loro valore o piuttosto hanno un prezzo di mercato? La 2° e basta perchè il loro valore qui non è proprio in gioco: se fossero pezzi di carta avrebbero il valore determinato dal tempo di lavoro impiegato a produrre la carta, se fossero prodotti telematici avrebbero un valore determinanto dal tempo di lavoro impiegato p. es. a costruire il software che li gestisce....ma essendo moneta capisci che qui non c'entra questo (come la moneta da 1 euro si dice che vale 1 euro ma non è che a produrla ho impiegato 1 ora di lavoro p. es. ammesso che 1 ora di lavoro sia uguale ad 1 euro), è un segno qui e basta. I prodotti finanziari, per quanto complicati possano essere, sono solo in fondo (nel senso di alla fine) anticipi su profitti futuri, quindi interessi pagati per aver prestato all'ente che li emette la nostra moneta, ma il profitto lo possono fare solo processi produttivi immediati (di certo non i BOT o le stock options) che impiegano lavoratori - materie prime - strumenti di lavoro - mezzi di produzione; questi prodotti sono solo scatole cinesi in cui risalendone la scala arriviamo sempre al nostro lavoratore inchiodato a qualche macchina a lavorare e lì sta il profitto, mentre le stock options fruttano interessi. Tu non riesci a capire questo perchè se il profitto è una forma di manifestazione-dissimulazione del plusvalore, l'interesse è formula di manifestazione-dissimulazione del profitto, quindi alla seconda potenza, è il capitale esteriorizzato completamente, più mediato, il feticcio completo, sembra che da denaro sgorghi denaro, ma è solo interesse che se l'economia "reale" (che brutta parola ma ci si capisce) procede bene, viene riscosso, altrimenti era solo una bolla di sapone legata al niente.

P.S. A Salvatore. Chiamami per nome per favore, non ho mica 60 anni, non ne ho neppure 30 anche se ci son vicino.

E' interessante come risposta ed in parte è comprensibile. Per smerciare la "merda" dei "Derivati" l'Alta Finanza Mondiale si è avvalsa anche di bancari, impiegati delle SGR, etc. Non era sufficiente creare il software. Io ho molti amici che hanno fatto per anni questo lavoro. Alcuni erano precari e percepivano circa 1.000 € mensili. Percepivano, perchè adesso sono per strada... Forse il profitto l'Alta Finanza Mondiale l'ha ottenuto anche dallo sfruttamento di questi lavoratori intellettuali. Io conosco alcuni medici che per pochi euro al mese rispondono in Call-Center. Questi Call-Center sono di proprietà di grosse società di capitali. In questi casi non è possibile risalire nella catena "ad un lavoratore manuale inchiodato ad una macchina" che trasforma dei materiali in merce. Eppure queste società realizzano enormi profitti. Penso anche ai grossi studi legali creati da società di capitale. Che valore vogliamo dare al SAPERE del medici, degli avvocati, dei laureati in economia,, etc che prendono quattro soldi mentre l'Alta Finanza Mondiale si pappa il malloppo? Queste realtà al tempo in cui Marx scrisse il Capitale non esistevano.

LP
 
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matteo.morganti
view post Posted on 17/7/2009, 20:27




E se anche non esistevano? Non esistevano nemmeno i missili nucleari al tempo di Galileo, eppure la terra girava e gira ancora attorno al sole. E' questione di vedere se gli avvenimenti possono modificare o no una legge, e qualsiasi avvenimento possa dannatamente accadere, non modificherà mai la legge del valore. Un solo avvenimento può distruggere quella legge: il comunismo.
 
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LudovicoPiero
view post Posted on 17/7/2009, 20:35




QUOTE (matteo.morganti @ 17/7/2009, 21:27)
E se anche non esistevano? Non esistevano nemmeno i missili nucleari al tempo di Galileo, eppure la terra girava e gira ancora attorno al sole. E' questione di vedere se gli avvenimenti possono modificare o no una legge, e qualsiasi avvenimento possa dannatamente accadere, non modificherà mai la legge del valore. Un solo avvenimento può distruggere quella legge: il comunismo.

Ma no t'arrabbiare Morganti. Erano delle obiezioni costruttive.

LP
 
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matteo.morganti
view post Posted on 17/7/2009, 20:41




Cazzo io sono sempre tutto tranne che arrabbiato, te l'assicuro; sono calmissimo anche quando ti do un pugno in bocca. Il problema è questo: o si critica Marx dopo averlo studiato o lo li lascia riposare in pace. Come puoi dire d'essere marxista e nel frattempo dire che il profitto non deriva da processi di produzione immediati? Oh ma già Marx portava l'esempio del suonatore d'orchestra che è tutto tranne un lavoratore incollato alla catena di montaggio, eppure è un lavoratore capitalisticamente produttivo di plusvalore (quindi profitto) solo per il fatto d'essere sussunto al capitale. Confondi troppe cose:
1) la produzione con la materialità della produzione;
2) il profitto (che è solo industriale) con l'interesse;
3) la legge del valore con le sue manifestazioni più concrete come la formazione di un saggio di profitto medio necessariamente conseguente alla presenza di prezzi diversi dai valori.
Non saprei da dove cominciare. Io ti consiglio uno studio più attento, poi vedi tu se ne vale la pena.
 
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LudovicoPiero
view post Posted on 17/7/2009, 20:50




QUOTE (matteo.morganti @ 17/7/2009, 21:41)
Cazzo io sono sempre tutto tranne che arrabbiato, te l'assicuro; sono calmissimo anche quando ti do un pugno in bocca. Il problema è questo: o si critica Marx dopo averlo studiato o lo li lascia riposare in pace. Come puoi dire d'essere marxista e nel frattempo dire che il profitto non deriva da processi di produzione immediati? Oh ma già Marx portava l'esempio del suonatore d'orchestra che è tutto tranne un lavoratore incollato alla catena di montaggio, eppure è un lavoratore capitalisticamente produttivo di plusvalore (quindi profitto) solo per il fatto d'essere sussunto al capitale. Confondi troppe cose:
1) la produzione con la materialità della produzione;
2) il profitto (che è solo industriale) con l'interesse;
3) la legge del valore con le sue manifestazioni più concrete come la formazione di un saggio di profitto medio necessariamente conseguente alla presenza di prezzi diversi dai valori.
Non saprei da dove cominciare. Io ti consiglio uno studio più attento, poi vedi tu se ne vale la pena.

Per bacco come sei permaloso.

LP
 
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matteo.morganti
view post Posted on 17/7/2009, 20:56




Niente non rispondi. Il permaloso è colui che fa spallucce e non ti caga. Come faccio a darti una risposta a quei 3 punti che ti ho mostrato nello spazio angusto di un forum? Posso solo passarti gli appunti sulle Teorie sul Plusvalore se t'interessa. Ma quelli che ho riportato sono davvero tuoi errori, pensi che ci guadagno qualcosa quando critico qualche utente di questo forum? In ufficio mi pagano poco lo stesso, il mio studio personale non procede, forse lo faccio per far accrescere il movimento comunista? Sì è proprio per quello; perciò puoi benissimo dirmi che non sono veri quei 3 punti e mostrarmelo 1 alla volta, altrimenti io che posso fare? Non critico certo qualcuno per gloria personale, che gloria è poi? Lo faccio solo perchè combatto per il comunismo. Punto.
 
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LudovicoPiero
view post Posted on 17/7/2009, 21:41




QUOTE (matteo.morganti @ 17/7/2009, 21:56)
Niente non rispondi. Il permaloso è colui che fa spallucce e non ti caga. Come faccio a darti una risposta a quei 3 punti che ti ho mostrato nello spazio angusto di un forum? Posso solo passarti gli appunti sulle Teorie sul Plusvalore se t'interessa. Ma quelli che ho riportato sono davvero tuoi errori, pensi che ci guadagno qualcosa quando critico qualche utente di questo forum? In ufficio mi pagano poco lo stesso, il mio studio personale non procede, forse lo faccio per far accrescere il movimento comunista? Sì è proprio per quello; perciò puoi benissimo dirmi che non sono veri quei 3 punti e mostrarmelo 1 alla volta, altrimenti io che posso fare? Non critico certo qualcuno per gloria personale, che gloria è poi? Lo faccio solo perchè combatto per il comunismo. Punto.

Caro Morganti. Hai risolto il problema. Chi lavora come ricercatore scientifico, medico, avvocato, ingegnere per società di capitali, magari precario, magari non arrivando neanche a 1000 euro al mese non crea profitto ma solo interesse.

Solo gli "immediati" creano profitto.

Morganti mi hai rotto.

PS: il pugno te lo restituisco con gli interessi.



 
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matteo.morganti
view post Posted on 17/7/2009, 21:49




CITAZIONE (LudovicoPiero @ 17/7/2009, 22:41)
CITAZIONE (matteo.morganti @ 17/7/2009, 21:56)
Niente non rispondi. Il permaloso è colui che fa spallucce e non ti caga. Come faccio a darti una risposta a quei 3 punti che ti ho mostrato nello spazio angusto di un forum? Posso solo passarti gli appunti sulle Teorie sul Plusvalore se t'interessa. Ma quelli che ho riportato sono davvero tuoi errori, pensi che ci guadagno qualcosa quando critico qualche utente di questo forum? In ufficio mi pagano poco lo stesso, il mio studio personale non procede, forse lo faccio per far accrescere il movimento comunista? Sì è proprio per quello; perciò puoi benissimo dirmi che non sono veri quei 3 punti e mostrarmelo 1 alla volta, altrimenti io che posso fare? Non critico certo qualcuno per gloria personale, che gloria è poi? Lo faccio solo perchè combatto per il comunismo. Punto.

Caro Morganti. Hai risolto il problema. Chi lavora come ricercatore scientifico, medico, avvocato, ingegnere per società di capitali, magari precario, magari non arrivando neanche a 1000 euro al mese non crea profitto ma solo interesse.

Solo gli "immediati" creano profitto.

Morganti mi hai rotto.

PS: il pugno te lo restituisco con gli interessi.

Hai totalmente distorto le mie parole ed il pugno non era riferito a te, ma pazienza (figuriamoci se mi metto a dar pugni virtuali ... bah ...). Esattamente solo i lavoratori che operano nel processo di produzione immediato creano profitto (e questo lo dice esplicitamente Marx in opposizione a quanti sostengono che esistono lavori indirettamente produttivi). Ti ho fatto l'esempio del suonatore d'orchestra (è un lavoratore immediato), tu confondi il processo di produzione di plusvalore con il processo di lavoro che produce merci materiali (ed è la seconda volta); se io sono un ricercatore (e non mi tocca la pietà per chi prende 1000 euro (io ne prendo addirittura la metà) e riproduco il capitale, allora produco profitto per il capitalista che mi ha sussunto, se invece lavoro in un processo di circolazione, spiacente ma non produco alcun profitto (e questo lo dice ancora Marx). Gli umanisti dalla lacrima facile si sono sempre scagliati contro questa teoria del lavoro produttivo, ma Marx non è un moralista, non piange di fronte alle ingustizie, qui non è questione di giustizia, si tratta solo di capire come funziona il meccanismo di produzione capitalistico e quando Marx dice che è produttivo quel genere di lavoro che viene esplicitato nel processo di produzione immediato constata solo un fatto: nel capitalismo è produttivo quel genere di lavoro (che io produca beni utili o bombe a mano al capitale non importa perchè al capitale importa la valorizzazione del valore, non il valore d'uso). Ma hai studiato Il Capitale?
 
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matteo.morganti
view post Posted on 17/7/2009, 22:10




Appunti sul lavoro produttivo e improduttivo tratti dal Volume 1 delle Teorie sul Plusvalore (Libro IV del Capitale)
• La concezione erronea sulla produttività del lavoro in Smith è intrecciata con quella esatta: “C’è un genere di lavoro che aggiunge valore all’oggetto a cui viene applicato; ce n’è un altro che non produce questo effetto. Il primo può essere chiamato produttivo, il secondo improduttivo. Il lavoro di un operaio manifatturiero aggiunge generalmente al valore della materia prima il valore del proprio sostentamento e del profitto del suo padrone. Il lavoro di un domestico non aggiunge valore a niente” (Smith, vol. II, pp. 93 sgg.) | qui per productive labour si intende il lavoro che, oltre alla riproduzione of the value of his [the labourer’s] own maintenance , produce un plusvalore: it’s master’s profit ; il capitalista non potrebbe grow rich by employing a multitude of manufacturers [working men] se questi, oltre al valore del proprio sostentamento, non aggiungessero anche un plusvalore | qui però intende per lavoro produttivo anche un lavoro che in generale produces a value .
• I passi seguenti mostrano l’accezione corretta di Smith in modo anche più penetrante e il suo sviluppo ulteriore | “Se la quantità di cibo e di vestiario che è stata consumata da braccia improduttive fosse stata distribuita fra braccia produttive, queste avrebbero riprodotto l’intero valore del loro consumo insieme a un profitto” (ivi, p. 109) | con chiarezza è definito productive labourer quello che non solo riproduce al capitalista il full value dei mezzi di sussistenza contenuti nel salario, ma che li riproduce with a profit, quindi solo il lavoro che produce capitale è produttivo, ma la merce (o denaro) diventa capitale solo se si scambia direttamente con forza-lavoro = è scambiata al solo scopo di essere sostituita da un lavoro > di quello contenutovi | il valore d’uso della forza-lavoro non consiste nel suo effettivo valore d’uso (= utilità di un particolare lavoro concreto) e meno interessa al capitalista il valore d’uso del prodotto in quanto tale, quindi ciò che gli interessa nella merce è che possieda un valore di scambio > di quello pagato per essa | appartengono alla categoria di lavoratori produttivi tutti quelli che collaborano d’une maniere ou d’une autre alla produzione della merce, quindi Smith ha definito esattamente il lavoratore produttivo dal punto di vista capitalistico quindi ha esaurito il problema | Malthus ha giustamente osservato che questa distinzione critica è il fondamento dell’economia politica borghese.
• È stabilito anche cos’è lavoro improduttivo = lavoro che non si scambia con capitale ma direttamente con reddito = con salario o profitto (anche nelle diverse rubriche sotto cui il profitto si divide) quindi dove il lavoro si paga ancora in parte con sé, in parte si scambia direttamente con reddito, allora non esiste né capitale né lavoro salariato nel senso dell’economia politica borghese | in base a queste definizioni un pagliaccio è un lavoratore produttivo se lavora al soldo del capitalista | qui il lavoro produttivoimproduttivo viene esaminato sempre dal punto di vista del capitalista, non dell’operaio | uno scrittore è un lavoratore produttivo, non in quanto produce delle idee, ma in quanto arricchisce l’editore che pubblica i suoi scritti, o in quanto è il lavoratore salariato di un capitalista. Il valore d’uso della merce in cui si incorpora il lavoro di un lavoratore produttivo può essere della specie più insignificante. Questa determinazione materiale non è connessa con questa sua proprietà, che esprime soltanto un determinato rapporto sociale di produzione. È una determinazione del lavoro che non deriva dal suo contenuto o dal suo risultato, ma dalla sua forma sociale determinata.
• Il risultato del processo di produzione capitalistico non è né un prodotto (valore d’uso) né merce (valore d’uso con un determinato valore di scambio); il suo risultato è la creazione di plusvalore per il capitale = l’effettiva trasformazione di denaro (o merce) in capitale, mentre prima del processo erano capitale solo potenzialmente | nel processo di produzione è succhiato più lavoro di quanto viene pagato = l’appropriazione di lavoro altrui non pagato compiuta nel processo di produzione è lo scopo immediato del processo di produzione capitalistico.
• Il lavoro per produrre merce dev’essere utile = deve produrre un valore d’uso = solo il lavoro che si presenta in valori d’uso è scambiabile con capitale | non è però il carattere concreto del lavoro ciò che costituisce il suo specifico valore d’uso per il capitale = ciò che nel capitalismo gli da l’impronta di lavoro produttivo; ciò che costituisce il valore d’uso specifico del lavoro produttivo per il capitale è il suo carattere di elemento creativo del valore di scambio (di lavoro astratto), non il fatto che rappresenta in generale una determinata quantità del lavoro generale, ma che rappresenta una quantità > di quella contenuta nel suo prezzo | il lavoro fornisce questa eccedenza nella forma determinata che gli appartiene in quanto lavoro utile particolare, ma questo suo carattere concreto non costituisce per il capitale il suo specifico valore d’uso.
• La stessa specie di lavoro può essere produttiva o improduttiva: Milton who di the “Paradise Lost” for five £ fu un lavoratore improduttivo; lo scrittore che fornisce lavori dozzinali al suo editore è un lavoratore produttivo; Milton produsse la sua opera per lo stesso motivo per cui un baco produce seta = era una manifestazione della sua natura; il proletario letterario di Lipsia che fabbrica libri sotto la direzione del suo editore è un lavoratore produttivo perché fin dal principio il suo prodotto è sussunto sotto il capitale e viene alla luce solo per la sua valorizzazione.

I seguenti sono dei chiarimenti di alcuni compagni sempre in relazione a lavoro produttivo e improduttivo, scusate la formattazione ma penso si capisca bene comunque

Lavoro improduttivo
La confusione che ancora oggi domina circa la definizione e l’importanza dell’individuazione del lavoro improduttivo è enorme. È una confusione che comincia dai riferimenti impropri che comunemente vengono fatti al contenu¬to del lavoro svolto (il tipo di lavoro, il mestiere) anziché alla sua forma di re¬lazione economica, che può essere diversa per un medesimo tipo di lavoro concreto; e va a finire sui giudizi morali che assai spesso, e sempre immotiva¬tamente, vengono affibbiati al lavoro improduttivo come perlopiù esecrabile di contro a un lavoro produttivo chissà perché innalzato dal cattivo senso co¬mune alla gloria dell’encomio sociale. Marx avvertiva che essere lavoratore produttivo, lungi dal rappresentare una fortuna, costituiva una disgrazia; che i lavoratori improduttivi potevano essere più utili alla società di tanti lavoratori produttivi costretti a applicare la loro forza-lavoro ad attività del tutto inutili se non addirittura nocive; e che gli stessi lavoratori improduttivi finiscono quasi sempre per essere sfruttati più di quelli produttivi. Se la definizione di lavoro produttivo e improduttivo, in quanto categoria analitica funzionale al concetto di modo di produzione capitalistico è coeva e immutata rispetto alla nascita di questo sistema sociale stesso, la sua impor¬tanza storica, a dispetto delle elucubrazioni accademiche dei post-marxisti, è cresciuta assieme allo sviluppo della forma industriale del capitale, ossia = alle macchine [<=]. Per definire e individuare l’importanza del lavoro improduttivo è necessario caratterizzarne il suo “complemento” positivo, ossia il lavoro produttivo[<=].
La questione richiede un ulteriore approfondimento specifico. Qui, per ora, ci si può limitare a definire nella maniera più generale l’attribuzione di lavoro pro¬duttivo (nel senso capitalistico del termine, sia detto ora una volta per tutte) onde procedere sùbito – per negazione di ciò – alla caratterizzazione di quello che è lavoro improduttivo. In generale, cioè, basti dire questo: per essere capi¬talisticamente produttivo è necessario che il lavoro sia scambiato ovvero pa¬gato con capitale, ed è sufficiente che produca plusvalore [<=], nella sfera della produzione immediata. Il resto procede da sé. Una prima immediata conseguenza è che ogni lavoro che non stia nel rappor¬to di capitale, ossia = che non sia salariato, neppure può riferirsi alle categorie di “produttivo” o “improduttivo”. Così, chiunque non venda la propria forza-lavoro ma direttamente il risultato (prodotto, servizio o prestazione qualsivo¬glia) del suo stesso lavoro (artigiano, piccolo contadino, bottegaio di famiglia o libero professionista: insomma lavoro autonomo), o addirittura non lo ven¬da (lavoro domestico o di “cura”, così si suol dire, per sé e per la famiglia), sia che produca realmente un valore d’uso o si limiti a predisporne la fruizio¬ne, nella forma del valore di scambio o meno – ebbene, tutta questa casistica non rientra nella rubrica qui esaminata, in quanto non attiene al modo di pro¬duzione capitalistico.
Occorre tuttavia precisare sùbito che il rientrarvi o no concerne la sostanziale forma economica della relazione stessa e non quella giuridica o sociologica. Giacché, se la forma formale stabilita in via di diritto o per convenzione so¬ciale chiama sempre più sovente “autonomo” un lavoro reso come attività ar¬tigianale o semiartigianale, di piccola produzione e distribuzione, o di presta¬zione d’opera, in una forma sostanziale sussunta realmente al capitale, ovve¬rosia = in un rapporto di sottomissione al capitale che si può invece configurare sostanzialmente come rapporto di lavoro salariato, in qualche modo occultato sotto forme esteriori diverse – in tutte queste circostanze l’analisi rientra ap¬pieno nella rubrica del lavoro produttivo e improduttivo. Così, preliminarmente, l’intero comparto del lavoro che non sia economica¬mente salariato rimane escluso sia dalla definizione di “produttivo” sia da quella di “improduttivo”. Ma non tutto il lavoro salariato è produttivo: quella si è detta essere una condizione necessaria ma non sufficiente. Tutto il lavoro produttivo ha da essere salariato, ma vi è anche una grande parte (crescente) di lavoro salariato – proletariato, perciò – che è improduttivo, entro una medesima definizione di classe [<=]. Lavoratori improduttivi sono dunque co¬loro che scambiano le loro prestazioni – la loro forza-lavoro [<=] come merce – con reddito o anche con capitale, ma entro la sfera della circolazione [<=].
In primo luogo, il caso più generale ma meno specifico si ha quando l’acqui¬rente di forza-lavoro non si contrappone al lavoratore come capitalista, trat¬tandosi solo di consumo del reddito (privato o pubblico), che come tale rien¬tra sempre nella circolazione semplice e non in quella del capitale: apparten¬gono a tale figura di lavoro, anzitutto, domestici e inservienti in genere alle dipendenze di un qualsiasi redditiero privato in quanto consumatore. Si tratta di lavoratori salariati, sfruttati (il loro orario di lavoro è superiore al tempo di lavoro a essi pagato), assai spesso sfruttati anche più della media sociale, date le peculiari condizioni del loro lavoro. Ma essi non producono valori vendibili e tanto meno plusvalore, per definizione, procurando solo utilità al loro reddi¬tiero. Una posizione concettualmente molto simile è quella dei dipendenti pubblici (stato, enti locali, ecc.), non a caso spesso retoricamente chiamati “fedeli ser¬vitori dello stato”. Costoro sono pagati con reddito pubblico (prelevato me¬diante il fiscalismo [<=] delle imposte e il debito pubblico [<=], o tasse di scopo e prezzi politici), per procu¬rare utilità ai cittadini (amministrazione, istruzione, assistenza sanitaria, giu¬stizia, protezione militare e quant’altro) in forma generalmente non vendibile, o fornita dietro pagamento ad hoc o al limite venduta quasi come merce ma a prezzi politici o amministrati, e comunque sempre senza plusvalore alcuno (per definizione, ancora, trattandosi di spesa di reddito e non di capitale). So¬no comprese in questa rubrica anche quelle produzioni (opere pubbliche, co¬me il caso della costruzione di strade) che, in diverse condizioni, rappresenta¬no sicuri e lucrosi investimenti capitalistici con produzione di valore e plusva¬lore. Ma in momenti storici determinati è possibile che tali attività, in via provvisoria, piuttosto che al capitale complessivo facciano riferimento a esi¬genze sociali che non siano direttamente capitalistiche; quest’ultimo infatti può, per sua convenienza, delegare allo stato la creazione di infrastrutture che, pur soddisfacendo bisogni collettivi, hanno come intrinseca finalità lo sviluppo capitalistico. È facilmente comprensibile, altresì, come anche tutte queste attività salariate pubbliche rientrino nel mercato del lavoro salariato in generale e siano perciò sfruttate al pari delle altre.
In secondo luogo, tuttavia, pure quando si abbia la diretta assunzione del la¬voro nel capitale, codesta condizione necessaria da sola non è sufficiente a definire “produttivo” il lavoro corrispondente, se non è in grado di produrre plusvalore. Giacché una tale circostanza deriva certamente da una semplice mutata sottomissione al capitale della forma di una funzione non produttiva – e con ciò il caso rientra propriamente nei costi di circolazione del capitale, come falsa spesa di produzione. Si tratta cioè di quelle attività che il capitali¬sta originariamente farebbe da solo o pagherebbe col proprio reddito. Autono¬mizzarle, pagandole con una parte del capitale proprio o facendone l’attività specifica di altri capitalisti, non ne modifica il carattere (Marx cita casi relati¬vi alla contabilità, al commercio, alle banche, ecc.). Ossia, la produzione im¬mediata non comprende le attività, pur pagate con capitale, inerenti la circola¬zione, che dipendano solo dal carattere di merce [<=] del prodotto: è facile, da questo punto di vista, farne una classificazione per comparazione, immagi¬nando quei lavori, pur assai utili e indispensabili al capitale, che non avrebbe¬ro più motivo di esistere (ma sicuramente sostituiti da altri lavori storicamen¬te specifici) se i prodotti circolassero come valori d’uso immediati anziché come merci. Che i lavoratori salariati nella sfera della circolazione del capitale siano sfrut¬tati, non occorre dimostrarlo, al punto che proprio per questa ragione molti li confondono con i lavoratori produttivi. E neppure è concepibile, precisandolo ancora con Marx, quella figura sociale per cui “altri economisti fanno essere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo”: il lavoro che è improduttivo è escluso dalla valorizzazione complessiva del capitale, anche dopo aver considerato il “lavoratore collettivo” del lavoro sociale combinato, che comprende invece solo una più dettagliata divisione del lavoro produttivo e improduttivo di plusvalore. Considerando il pagamento del lavoro salariato improduttivo, è bene comprendere che nella sfera della circolazione, e quindi anche della riproduzione del capitale, il plusvalore non lo si produce, appunto per definizione, ma viene a costituire un limite negativo dato per la spesa del capitalista, il quale fa di tutto per risparmiare al massimo sul salario [<=] (esten¬dendo e intensificando il più possibile l’uso della forza-lavoro) al fine di con¬servare per sé la maggiore quantità possibile di quel plusvalore già prodotto: perciò il grado di sfruttamento del lavoro improduttivo, pur non creando esso plusvalore, può di norma essere perfino più alto di quello produttivo.
Tutto ciò che precede non significa escludere qualche influenza del lavoro improduttivo sull’intero sistema produttivo, perché per poter far ciò occorre prescindere momentaneamente dai livelli della produzione e dalle proporzioni tra i settori: infatti, il lavoro improduttivo può essere contingentemente il tramite per far fronte a una crisi [<=] da sovraproduzione di valore o a una riduzione sensibile dell’esercito di ri¬serva [<=], o lo stesso lavoro produttivo può essere impiegato nella produzione di merci di lusso. Ma “se una parte sproporzionata fosse così riprodotta, invece di essere ritrasformata in mezzi di produzione e in mezzi di sussistenza, lo sviluppo della ricchezza subirebbe un colpo d’arresto”. Gli effetti del lavoro produttivo nella produzione di merci di lusso, così come quelli dei costi di circolazione e del lavoro improduttivo, anche se isolati artificiosamente dal processo imme¬diato di produzione, si ripresenterebbero nel processo complessivo di ripro¬duzione e di circolazione per le conseguenze indirette dovute a una dilatazio¬ne sproporzionata del lavoro improduttivo o anche di quello produttivo ma non riproduttivo. Ma le categorie che presiedono all’individuazione dei criteri di definizione di lavoro produttivo e improdutti¬vo non muterebbero affatto.
La rivoluzione dell’automazione del controllo ripropone l’attualità della di¬stinzione tra lavoro produttivo e improduttivo nella produzione e nella circo¬lazione. Con le strutture organizzative e tecniche del lavoro informatizzato si sviluppa contraddittoriamente un processo di tendenziale omogeneizzazione sociale del lavoro, in una forma di rapporti materiali di produzione sempre più uguali tra loro, e dunque tendenzialmente universali. Tale fenomeno inve¬ste sia il lavoro produttivo sia quello improduttivo. Le diverse mansioni di uno stesso lavoratore esibiscono un’alternanza di lavoro produttivo e impro¬duttivo, senza per questo cambiare forma. Ciò contiene una precisa indicazio¬ne sui caratteri da indagare per comprendere la nuova composizione di classe [<=]. Alla proletarizzazione delle classi [<=] corrisponde la sintesi corporativa dello sta¬to liberale. La riproduzione delle classi sociali, in direzione di un progressivo ampliamento della proletarizzazione verso i settori di lavoro improduttivo, segna così una linea di demarcazione tra nazioni [<=] e stati nazionali più sviluppati e quelli da dominare. La complementare apparente “sparizione della classe ope¬raia” – che tanto scompiglio ha gettato nei rielaboratori delle soggettività rivo¬luzionarie – si spiega così essere il prodotto di una nuova divisione internazio¬nale del lavoro, cui è collegata funzionalmente l’immissione della tecnologia più avanzata. Il proletariato mondiale come classe in sé è ben lontano dalla sua estinzione, presentando al contrario caratteri sempre più diffusi e omogenei. Lo sviluppo di nuove figure lavorative connesse alla seconda rivoluzione industriale si in¬serisce compiutamente nella ridefinizione del proletariato in rapporto alle al¬tre classi sociali. Entro tali classi si annida il germe della contraddizione dello sviluppo della scienza, del sapere collettivo (l’intelletto generale) espropriato. La rinnovata attualità del nesso tra lavoro produttivo e improduttivo è capace di gettare luce sulla percezione della dinamica sociale del processo produtti¬vo.

Lavoro produttivo
Lavoro produttivo, nel senso della produzione capitalistica, è il lavoro salaria¬to che, nello scambio con la parte variabile del capitale (la parte del capitale spesa in salario), non solo riproduce questa parte del capitale (ovvero = il valore della propria capacità lavorativa), ma oltre a ciò produce plusvalore [<=] per il ca¬pitalista. Solo per questa via la merce [<=], o il denaro, è trasformata in capitale, = è prodotta come capitale. È produttivo solo il lavoro salariato che produce ca¬pitale. Il rapporto tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo [<=] , e la definizione stessa di questa partizione del lavoro capitalistico, costituisce un punto la cui preci¬sazione va ora completata. Si possono riassumere così i punti salienti per la corretta individuazione del lavoro produttivo nel capita¬lismo, scoperti scientificamente da Marx. È necessario chiarire alcuni punti. Anzitutto, si è detto, è produttivo capitalisticamente solo quel lavoro che pro¬duce plusvalore; non è più sufficiente, cioè, ma è ancora necessaria, la condi¬zione smithiana di produttività materiale. Viene così precisato che in ogni ca¬so esso deve essere produttivo di nuovo valore e di nuovo valore d’uso; ciò discende dalla duplicità della merce, ed esclude perciò le “false spese di pro¬duzione”, relative alla circolazione [<=]. Va sottolineato quindi che il lavoro produttivo è sempre lavoro salariato pa¬gato con capitale, ma avvertendo al contempo che ciò non basta ancora, non essendo vero che ogni lavoro salariato pagato con capitale sia produttivo di plusvalore, anche se fa guadagnare profitto al capitalista che lo paga.
Marx riassume così le condizioni suddette, indicando di verificare che vi sia :
1) il rapporto reciproco tra denaro e forza-lavoro in quanto merci, l’acquisto e la vendita tra il possessore del denaro e il possessore della forza-lavoro;
2) la diretta assunzione del lavoro nel capitale;
3) la trasformazione reale del lavoro in capitale nel processo di produzione o, ciò che è lo stesso, la creazione di plusvalore per il capitale.
Dunque il lavoro, che è l’unica fonte attiva del valore d’uso, si trasforma dap¬prima 1) in lavoro astratto (ossia, = lavoro che la società riconosce in quanto pro¬duttore generico di valori merci, indipendentemente dalla concretezza imme¬diata della sua utilità) e quindi, 2) come lavoro salariato (alienato, ossia, in quanto venduto al capitale, separato, reso altro dall’unità con la persona), si trasforma infine in nuovo capitale per produrre plusvalore. Solo se si verifica quest’ultima circostanza, si può dare la seguente definizio¬ne (anche senza pretesa di assoluta precisione): il lavoro produttivo è pagato con quel capitale che si autovalorizza complessivamente – cioè, = è quel lavoro trasformato in capitale, nella sola sfera “materiale” della produzione imme¬diata, necessario alla riproduzione di neovalore. Insieme alla definizione, oc¬corrono alcune precisazioni .
La materialità della produzione non va intesa esclusivamente come materiali¬tà “tangibile” del prodotto, riguardando piuttosto la forma ineliminabile di va¬lore d’uso, di “ricchezza” sociale che essa assume. Certo, la tangibilità, la concretezza fisica, riguarda ancora e sempre la parte di gran lunga più grande della produzione mondiale. Ma una porzione significativa di essa può anche essere fruibile in forma non separabile dall’attività lavorativa stessa o in for¬ma intangibile, come è da oltre un secolo per l’elettricità o adesso per i flussi informatici: il che non ha nulla a che vedere con la presunta “immaterialità” della produzione, su cui cyber-navigano i virtuosi della virtualità postmoder¬na. La materialità stessa, non dipendendo dalle particolari qualità “fisiche” del prodotto, dipende piuttosto dall’universalità (riproducibilità pressoché illimi¬tata) del valore d’uso prodotto in quanto merce (o capitale). Dunque, solo dal¬la forma specifica del rapporto sociale del capitale col lavoro salariato dipen¬de il carattere produttivo o meno di quest’ultimo.
La produzione immediata di ricchezza sociale in forma di merce capitalistica, ossia = qualsiasi attività di trasformazione industriale, agricola, ecc., compren¬de anche valori d’uso che, indipendentemente dalla loro qualità particolare o destinazione, possono essere in parte inclusi tra i prodotti non fondamentali, consumi di lusso, ecc. Tale quota della produzione sociale, che contiene e porta plusvalore, quindi, anche se fosse considerata inutile o nociva dai più, non limita il lavoro produttivo al solo àmbito della riproduzione o accumula¬zione. Si è già accennato, tuttavia, che la produzione immediata non comprende le attività, pur pagate con capitale perché assai utili per esso, inerenti la circola¬zione, le quali sparirebbero in un altro modo di produzione. Ossia, in questo sistema, capitalistico, esse dipendono solo dal carattere di merce che l’intera produzione sociale assume, e che proprio grazie a quelle attività di circolazio¬ne – che procurano profitto ai capitalisti particolari che le esercitano, in nome e per conto dell’intera loro classe – raggiunge il suo scopo. Marx, a tale pro¬posito, cita i casi relativi alla contabilità, al commercio, alle banche, ecc.
Del resto, la produzione di neovalore, in quanto immediata, può includere an¬che modalità particolari e trasmutate di produzione di merci per la valorizza¬zione del capitale complessivo. Tali merci, infatti, potrebbero essere vendute da qualche singolo peculiare “capitale” senza profitto. Senonché quest’ultimo fenomeno si riferisce solo alla fase della circolazione e dei prezzi, e non a quella della produzione di valore e plusvalore. Esso può riguardare, per fare un esempio, quelle merci prodotte da “capitale pubblico” alle quali vengono imposti prezzi politici, per poter trasferire così il plusvalore in esse contenuto ai capitalisti loro acquirenti: il lavoro produttivo con il quale sono state ottenute si trasforma così in profitto non per il “capita¬le” che ha prodotto tali merci, ma solo per il capitale che le ha acquistate. Il lavoro salariato, impiegato a tali fini, è quindi comunque produttivo di plusva¬lore – di quel plusvalore ripartito complessivamente entro la classe capitalisti¬ca – anche se meno visibile perché non si trasforma in profitto immediato.
Restano escluse, invece, quelle produzioni che non sono direttamente sotto¬messe al capitale in quanto, provvisoriamente, fanno riferimento a esigenze sociali legate a momenti storici determinati. È classico l’esempio della costru¬zione di strade statali, ricordato da Marx, come di ogni altra opera pubblica del medesimo genere. Il capitale, infatti, per sua convenienza, può delegare allo stato la creazione di infrastrutture che, pur soddisfacendo bisogni colletti¬vi, hanno come intrinseca finalità lo sviluppo delle condizioni generali della produzione capitalistica. Occorre qui rammentare ancora una volta, sempre con Marx, che non è neppure concepibile quella figura sociale per cui “altri economisti fanno es¬sere il cosiddetto lavoratore improduttivo indirettamente produttivo”. Se il lavoro è improduttivo, perché escluso dalla valorizzazione complessiva del capitale e dedicato solo alla circolazione, rimane tale anche dopo aver considerato il “lavoratore collettivo” del lavoro sociale combinato. Semmai è proprio entro quest’ultimo che si può comprendere una più dettagliata divisio¬ne del lavoro produttivo. È con lo sviluppo del mercato mondiale e della forma finanziaria dell’impe¬rialismo [<=], in cui agisce la borghesia transnazionale costituita come classe, che l’estendersi della sfera della circolazione internazionale aggiunge ulteriore e piena validità attuale, per chi l’avesse dimenticata, alle determinazioni di la¬voro produttivo e improduttivo (di plusvalore) entro il proletariato mondiale. Più matura è la fase monopolistica, più esigua percentualmente e differenziata territorialmente di¬viene la classe produttiva, affiancata invece da un aumento relativo e da una diversa dislocazione di lavoratori “improduttivi” (magari sotto l’anodina e spuria etichetta di terziarizzazione, quale intermediazione finanziaria, com¬merciale e statale).
L’entità e la qualità delle trasformazioni introdotte dal processo informatico di produzione e circolazione sono tali da mutare le basi stesse della composi¬zione internazionale del proletariato, di un lavoro sociale universale – sia pro¬duttivo, sia improduttivo – non più facilmente e immediatamente rintracciabi¬le nel simbolo del lavoro “operaio di massa”. Ma la progressiva atomizzazione dei luoghi e dei momenti produttivi, rispetto all’organizzazione della grande fabbrica, da Ure a Taylor, non vuol dire affatto (come pretendono i fautori della tesi del “postfordismo”) che sia venuta meno la centralità della produ¬zione di massa, su larga scala, con un mutamento dell’essenza fondamentale della forma industriale del capitale, o addirittura con il deperimento del modo di produzione capitalistico stesso. È in tale contesto contraddittorio che si svi¬luppa un processo di tendenziale omogeneizzazione sociale del lavoro, fenome¬no che investe sia il lavoro produttivo sia quello improduttivo. Le possibili diverse mansioni di uno stesso lavoratore salariato esibiscono un’alternanza di lavoro produttivo e improduttivo, senza per questo cambiare procedura. Si è già ripetutamente sostenuto come ciò contenga una precisa indicazione sui caratteri da indagare per comprende¬re la nuova composizione di classe [<=].
Così, prima di aver dato l’“addio al proletariato” e al lavoro salariato, gli ideo¬logi del nuovismo avevano già fatto cadere con noncuranza anche la diverse determinazioni di lavoro produttivo e improduttivo. Noncuranti di cosa sia il lavoro salariato (in quanto lavoro dipendente dal comando del capitale come forma del rapporto sociale dominante, dunque caratteristico anche del lavoro prestato per lo stato – del capitale appunto), volutamente ignorano quale deb¬ba essere la distinzione e la proporzione tra lavoro produttivo e improduttivo, tra produzione e circolazione, sotto le leggi del capitale e del suo plusvalore. Di conseguenza, implicitamente il nuovismo simula un linguaggio [<=] e dei con¬cetti pertinenti solo ad un modo di produzione, inconfessabilmente fuori da quello capitalistico. Al contrario vanno ancòra ripetute, con Marx, due cose: anzi¬tutto che 1) essere lavoratore produttivo non è affatto una fortuna ma per il sin¬golo può rappresentare una disgrazia, in quanto condanna alla creazione di plusvalore; in secondo luogo e conseguentemente, l’ 2) essere lavoratore impro¬duttivo non costituisce né una colpa né un motivo di vergogna e neppure di abbassamento del riconoscimento sociale. È dunque nel solo “mondo ideale dei valori”, della loro produzione immediata come merci, che si può e si deve prescindere dal lavoro improduttivo. Quando si tratta della produzione capitalistica di merci, ossia produzione con plusva¬lore, si circoscrive l’analisi sempre al solo lavoro produttivo, l’unico che ri¬sulta immediatamente rilevante per la spiegazione scientifica dei nessi profondi del modo di produzione capitalistico. Non deve stupire, pertanto, che stimabili critici assoluti della teoria del valore e del plusvalore, anche quando, o proprio perché, si richiamino fortuitamente alla tradizione economica classica, attraverso la reinterpretazione sraffiana, ben più pesantemente influenzata dalla logica keynesiana, lascino cadere la distinzione proficua tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
 
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