Comunismo - Scintilla Rossa

Antonio Gramsci

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view post Posted on 27/4/2024, 09:13 by: carre
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l 27 aprile 2024 ricorre l’87°anniversario della morte del compagno Antonio Gramsci, il capo della classe operaia del nostro paese assassinato dal fascismo che lo incarcerò e condannò, tramite il “Tribunale speciale per delitti contro la sicurezza dello Stato”, a 20 anni, 4 mesi e 5 giorni di galera.

Quando fu arrestato, l’8 novembre 1926, Gramsci, oltre ad essere il segretario del Partito Comunista d’Italia – sezione della Internazionale Comunista, era anche deputato eletto per la XXVII legislatura del Regno d’Italia. Godeva quindi dell’immunità parlamentare che il fascismo calpestò sfacciatamente.

L’elezione di Gramsci avvenne cento anni fa, nell’aprile 1924. Come e perché venne eletto deputato, per svolgere la lotta comunista anche dalla tribuna parlamentare, secondo le indicazioni di Lenin?

Riteniamo utile ripercorrere questa pagina di storia, poco conosciuta ma molto interessante.

Dal dicembre del 1923 Gramsci si trovava a Vienna, impossibilitato a tornare in Italia. Con l’avvento del regime fascista era stato infatti emesso un mandato di cattura anche nei suoi confronti. Il Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista, di cui Gramsci faceva parte in quanto rappresentante del Partito Comunista d’Italia (PCd’I), gli aveva perciò suggerito di trasferirsi nella città austriaca per seguire più da vicino la situazione e l’attività comunista in Italia, curare l’attività giornalistica e mantenere i collegamenti internazionalisti.

Alla vigilia delle elezioni politiche del 1924, che si svolsero con la famigerata legge-truffa “Acerbo”, la direzione del PCd’I propose, già nel gennaio 1924, un blocco di «unità proletaria», ai due partiti socialisti: il PSI di Turati e il PSU di Matteotti.

Il Partito Comunista nell’avanzare questa proposta escluse la possibilità di un accordo di carattere temporaneo, teso al solo scopo di una modifica numerica dei risultati delle elezioni, ma affermò la necessità di concludere un fronte unico permanente tra i partiti posti sul terreno della lotta di classe, interessati perciò non alla semplice affermazione elettorale, bensì al futuro abbattimento dello Stato borghese.

Vi erano dubbi nel PCd’I sull’opportunità di rivolgere la proposta in tali termini al PSU, pregiudizialmente contrario ad una negazione dei principi democratico-borghesi.

Ma tali dubbi vennero superati dalla convinzione che l’inesistenza in Italia di una possibile opposizione democratica e costituzionale poneva anche i riformisti di fronte al problema della lotta contro lo Stato.

È evidente in questa scelta il riavvicinamento del PCd’I alle direttive date, fin dal giugno 1921, dal III Congresso dell’Internazionale Comunista, alle quali si era opposta la direzione bordighista che, essendo ostile alla fusione con la frazione terzinternazionalista del PSI, considerava il fronte unico esclusivamente sul piano sindacale.

Venne, quindi preparata una lettera firmata da Togliatti, che fu inviata ai due partiti socialisti e comunicata alla stampa.

Nella dichiarazione comunista si posero tre pregiudiziali alla formazione del blocco elettorale.

Con la prima, si chiedeva che il blocco operaio accettasse l’indirizzo tattico comunista in quanto «considera la lotta elettorale come un momento dell’azione che il Partito comunista conduce per la formazione di un fronte unico per la difesa degli interessi economici e politici della classe lavoratrice».

Con la seconda, si «approva e conferma la deliberazione di partecipare alla lotta elettorale», ciò in qualunque condizione, escludendo così un’eventuale astensione del blocco proposto.

Con la terza, venne escluso a priori «lo scopo di una restaurazione pura e semplice delle libertà statutarie» respingendo cioè ogni criterio «volto unicamente ad ottenere uno spostamento nei risultati numerici delle elezioni», che partisse da preoccupazioni esclusivamente elettorali.

La ferma decisione partecipazionista dei comunisti rese problematica un’intesa fra i tre partiti, in quanto, sia per i massimalisti sia per gli unitari, la questione della partecipazione o meno, rimaneva invece aperta. Essi, infatti, ritenevano che a favore dell’astensione ci fossero due dati: la situazione nelle province, dove era impossibile la libera manifestazione di volontà, e la legge elettorale, che assicurava preventivamente il successo al governo.

Dopo il passo ufficiale compiuto tempestivamente dai comunisti, pur criticando la loro decisione partecipazionista, non restò alla direzione del PSI che dare mandato di invitare a Roma per il 26 gennaio le rappresentanze dei tre partiti per «prendere una decisione definitiva circa la formazione del blocco socialista di unità proletaria, sia nel senso dell’astensione, che della partecipazione».

Il PSU, invece, inviò al PCd’I una lettera dal tono piuttosto violento, firmata dal segretario Matteotti. Egli accusò i comunisti di aver voluto rendere impossibile un’intesa fissando le pregiudiziali, cioè imponendo l’adozione del partecipazionismo come tattica elettorale ed escludendo qualsiasi blocco di opposizione al fascismo volto alla restaurazione delle libertà statutarie, magari anche con l’appoggio di elementi non appartenenti ai tre partiti di classe. Matteotti rifiutò perciò l’incontro.

A seguito di contatti, venne convocata una nuova riunione per il 28 gennaio. Ma sia riformisti che comunisti, apparvero sempre più rigidi sulle rispettive pregiudiziali.

I riformisti, per bocca di Matteotti, ribadirono l’impossibilità di un blocco positivo e programmatico e posero una questione di principio: «Noi vogliamo lottare contro il fascismo in nome della libertà, voi in nome della dittatura…. Siete disposti a dichiarare che rinunciate alla dittatura, che siete contro tutte le dittature? Se sì, possiamo senz’altro far la lista comune; se no, ciascuno deve andare per la propria strada».

La loro diversa concezione della lotta di classe, il rifiuto della forza per la conquista del potere e la loro fiducia nella possibilità di accordi con gruppi borghesi antifascisti, impedirono di trovare un punto di incontro con i comunisti.

Il PCd’I dal canto suo, esigeva dai riformisti una scelta tra un blocco operaio classista e un blocco di opposizione costituzionale e borghese. Riproposero a questo scopo i quattro punti del blocco proletario: 1) Parola d’ordine: libertà del proletariato. 2) Blocco classista e proletario. 3) La lotta per la conquista della libertà pone il problema dell’abbattimento dello stato fascista. 4) Blocco non esclusivamente elettorale, ma azione comune in tutti i campi della lotta proletaria.

L’ultimo tentativo di accordo venne compiuto il 29 gennaio 1924, quando il PCd’I ripresentò in forma diversa le stesse proposte, naturalmente incontrando ancora l’opposizione del PSU.

Venne allora avanzata dai delegati massimalisti del PSI una mozione che doveva rappresentare il punto di incontro delle opposte tendenze. Pur auspicandovi, infatti, la formazione di un blocco proletario per la riconquista delle libertà politiche e sindacali e per l’abbattimento del regime fascista, vi era tuttavia contenuto il riconoscimento che tale accordo avrebbe potuto realizzarsi solo nel più assoluto rispetto del programma e della fisionomia dei partiti partecipanti.

Fu quindi proposto di dichiarare subito costituito il blocco, ma di riservare la formulazione del piano di azione immediata ed eventualmente successiva ad un Comitato composto dai delegati dei tre partiti.

La mozione però naufragò sul terreno programmatico, inoltre i comunisti non accettarono che la tattica possa essere astensionista, invece che partecipazionista.

A questo punto il PCd’I avanzò ai massimalisti del PSI una offerta di blocco a due, di cui venne naturalmente ribadito il carattere programmatico.

Il 2 febbraio giunse la definitiva risposta negativa della direzione massimalista riunitasi a Milano e che annunciò, subito dopo, la partecipazione alle elezioni con lista propria. L’Avanti continuò la polemica nei confronti dei comunisti. Naturalmente l’Unità ribatté, accusando gli astensionisti di vigliaccheria.

Il PSI, oltre ad essere travagliato dalla corrente astensionista contraria alle decisioni della direzione, è anche corroso dall’atteggiamento tenuto dai “terzini” (la corrente del PSI guidata da Lazzari, vicina alla Terza Internazionale comunista), i quali il 5 febbraio concordarono con il PCd’I una lista elettorale comune, denominata di «Unità proletaria», la quale ebbe come funzione, sia di sostituire agli occhi delle masse il mancato accordo con i socialisti, sia di permettere ai comunisti di presentare all’Internazionale Comunista un fronte unico, seppure con alleati deboli (però radicati nella Venezia Giulia, nelle Puglie, nella provincia di Siena e nel Lazio).

In conseguenza di tali decisioni la direzione del PSI, riunitasi a Roma il 10 febbraio, approvò un ordine del giorno di radiazione dai quadri del partito delle sezioni e dei singoli iscritti oppostisi alla tattica deliberata per le elezioni.

A questo provvedimento i “terzini” reagirono lanciando, attraverso le pagine dell‘Unità (il nome del giornale fu deciso due mesi prima proprio per fare l’unità con i “terzini”), un’esortazione ai loro compagni a non piegarsi al decreto della direzione e a ritirare ugualmente la tessera del partito per l’anno 1924 25.

Sarà proprio in questa lista di “Unità proletaria” con i “terzini” che Gramsci venne eletto deputato alle elezioni-truffa del 6 aprile 1924.

Gramsci ottenne 6.584 voti di preferenza su 41.059 voti di lista in Piemonte, e 1.856 su 32.383 in Veneto, risultando eletto deputato in quest’ultima circoscrizione.

I risultati delle liste di “Unità proletaria” mostrarono la conquista di importanti settori centro meridionali (dal 8,5% del 1921 al 12,09% nel 1924). I “terzini” confluirono nel PCd’I nell’agosto del 1924.

Nel mese di maggio Gramsci lasciò Vienna e poté rientrare in Italia, dopo due anni, grazie all’immunità parlamentare che lo avrebbe garantito dall’arresto; entrò nell’Esecutivo del Partito comunista d’Italia e si trasferì a Roma.

Nel mese di agosto, nella riunione del CC in cui tenne una relazione sulla lotta al fascismo, per lo sviluppo del processo rivoluzionario (si era aperta la crisi seguente all’assassinio di Matteotti), Antonio Gramsci venne eletto segretario del Partito Comunista d’Italia.

Di Antonio Gramsci deputato va ricordato il discorso sulla massoneria, pronunciato a nome del PCdìI alla Camera il 16 maggio 1925, che si concluse con le parole “Il movimento rivoluzionario vincerà il fascismo”. Un discorso che i compagni e le compagne dovrebbero leggere con attenzione.

27 aprile 2024

Piattaforma Comunista – per il Partito Comunista del Proletariato d’Italia
 
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