Comunismo - Scintilla Rossa

Posts written by Khleb

view post Posted: 13/6/2020, 22:11 L'imperialismo si organizza in Siria - Esteri

Siria: la guerra del pane



Damasco è impegnata a reperire sul mercato internazionale il grano necessario a coprire la domanda interna. Guerra e incendi dolosi minacciano il pane a basso costo, bene essenziale per milioni di siriani

Roma, 12 giugno 2020, Nena News – Il nuovo record negativo non ha sorpreso nessuno. Il dollaro nei giorni scorsi ha sfondato la soglia delle 2000 lire siriane e il costante ribasso della valuta comprometterà il già limitato potere di acquisto della popolazione. Nulla lascia immaginare una inversione di tendenza. Sono tanti e purtroppo consolidati i motivi della crisi economica che rischia di affondare il paese.

La guerra in realtà non è finita anche se l’esercito siriano e le milizie alleate hanno ripreso il controllo di buona parte del territorio. La ricostruzione non è mai cominciata a causa delle pressioni degli Stati uniti e di vari Stati europei, Francia in testa, sull’Onu e le agenzie internazionali. Lo scopo di questi paesi è rendere difficile la vita al presidente Bashar Assad, in realtà la complicano solo alla popolazione siriana. E anche la Russia ha rallentato il suo impegno. E presto contro la Siria entreranno in vigore altre sanzioni dell’Amministrazione Trump.

Pesa inoltre il blocco dei conti bancari in Libano dove i siriani più facoltosi hanno depositato somme significative negli anni passati, così come la riduzione delle rimesse degli emigrati frutto dell’emergenza coronavirus. Che la situazione economica siriana sia fortemente peggiorata lo conferma anche lo scontro frontale in atto tra Assad e il suo cugino miliardario Rami Makhlouf. Il conflitto non è frutto di questioni personali e di lotta per il potere come hanno scritto e detto alcuni, bensì dell’urgenza del governo di attingere ai grandi patrimoni per procurarsi, al più presto, fondi aggiuntivi, essenziali in questa fase.

In gioco c’è la solidità del potere, che passa anche dalla capacità dell’esecutivo di garantire un minimo di stabilità alla popolazione civile, esausta, che ogni giorno fa i conti con disoccupazione, carovita, corruzione, scarsità di carburante e la progressiva scomparsa del welfare per mancanza di fondi. Siamo nel pieno della mietitura e mai come quest’anno il raccolto di grano è centrale per i programmi del governo. Un dato è già noto: non sarà sufficiente a coprire la domanda interna (4,3 milioni di tonnellate).

Damasco perciò è impegnata, più degli anni passati, a garantirsi altro grano sul mercato internazionale, con esiti talvolta positivi – di recente è stato siglato un accordo con l’alleata Mosca che però copre solo una parte della richiesta siriana – e altri meno fortunati. A complicare le cose c’è anche la competizione con l’Amministrazione Autonoma curda nel Rojava per l’acquisto del grano dai produttori.

La Siria nel 2019, secondo le statistiche della Fao, è stata uno dei dieci paesi più colpiti dall’insicurezza alimentare (a rischio circa 6,5 ​​milioni di persone). Anni di guerra e di frammentazione territoriale hanno fatto danni enormi. Anche la siccità ha colpito duro. Nel 2018 la produzione di grano è stata di soli 1,2 milioni di tonnellate, la più bassa dal 1989. La siccità ha colpito principalmente Raqqa, Deir e-Zor, Hasakah e Aleppo nel nord, e Hama nella Siria centrale. Queste aree complessivamente rappresentano il 96% della produzione totale di grano in Siria.

A peggiorare le cose è il sensibile aumento degli incendi di terreni agricoli, non poche volte di origine dolosa innescati da speculatori che puntano al rialzo dei prezzi e, più di rado, da gruppi armati di vario orientamento che sperano aumentare le difficoltà del governo di Damasco di fronte alla popolazione. L’anno scorso sono andati in fumo quasi 85.000 ettari di colture e nel 2020 non andrà meglio. Dati sconfortanti per un paese che un tempo era noto per l’attenzione che dava alla produzione agricola e all’autosufficienza alimentare.

«Occorrono quasi tre milioni di tonnellate di grano per mettere al sicuro il paese nel 2020 e nella prima parte del 2021, altrimenti non ci sarà farina a sufficienza per il pane e per sfamare la popolazione», ci spiega un giornalista siriano che ha chiesto di rimanere anonimo. «Dopo il lockdown dell’economia proclamato dal governo per contenere la pandemia – aggiunge – il pane a basso costo, grazie ai sussidi dello Stato, è diventato ancora di più una linea rossa per i siriani, soprattutto per quelli che appoggiano Assad».

Un mese fa, durante una riunione con il governo, il presidente ha ammesso che «la sfida più difficile è garantire beni di prima necessità (alla popolazione), in particolare i generi alimentari». Quindi ha rimosso il ministro del commercio interno e della protezione dei consumatori, Atef al-Naddaf. Al suo sostituto, Talal al Barazi, è stato dato l’incarico di percorrere ogni strada possibile per tenere bassi i prezzi dei generi alimentari, sottraendoli a monopoli e contrabbando.

I problemi di fondo del settore agricolo siriano non sono destinati a cambiare, almeno non nel medio periodo. Negli ultimi nove anni la produzione di grano si è quasi dimezzata, scendendo da 4,1 milioni di tonnellate nel 2011 a 2,2 milioni nel 2019. La guerra è solo una delle cause del calo. Un impatto notevole l’ha avuto il liberismo economico introdotto a partire dal 2005 da Assad e dai suoi esperti. La priorità è stata data alla crescita dei settori bancario, turistico, immobiliare e delle telecomunicazioni – facendo la fortuna di personaggi come Rami Makhlouf e Firas Tlass – ed è stata messa da parte la vecchia guardia baathista, più socialista e legata al padre del presidente, Hafez al Assad, che aveva sempre dato grande rilievo all’agricoltura.

Dal 2005 al 2009, il tasso di crescita del settore è sceso in media dell’1,5% e 600.000 lavoratori – il 44% della forza lavoro agricola – hanno lasciato il settore. Tra il 2007 e il 2008, l’area totale dedicata alla produzione di grano è diminuita di 180mila ettari. La guerra giunta nel 2011 ha fatto il resto. Molti agricoltori siriani ora sono profughi in Siria, Libano e Giordania e i danni ai sistemi di irrigazione e ai macchinari e i prezzi elevati dei fertilizzanti non lasciano immaginare un loro ritorno. La Siria granaio del Medio oriente ormai è solo un lontano ricordo.

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sulla Siria i preti si dimostrano più onesti della stampa borghese che non fa menzione della crisi economica e alimentare che sta colpendo il paese per colpa della guerra e soprattutto, oggi, per colpa delle sanzioni economiche inflitte dagli yankee e dai loro lacché

Siria: tra sanzioni, pandemia e guerra, la lotta dei siriani per la sopravvivenza



Continua l'agonia del popolo siriano segnato da una guerra lunga ormai 10 anni, piegato dalla crisi economica e da sanzioni internazionali di cui paga gli effetti devastanti. Non è la pandemia a preoccupare ma la priorità oggi è: "sopravvivere". Testimonianze da Damasco e Aleppo. L'appello: "rimuovete le sanzioni". Siamo entrati nell’oblio. Chiediamo comunità internazionale di rimuovere le sanzioni che impoveriscono ogni giorno di più i siriani. Sono contro i diritti umani, sono disumane perché penalizzano tutta la popolazione. Qui la gente sta morendo di fame. Non ci sono medicine. Non c’è lavoro”.

È il monito di mons. George Abou Khazen, vicario apostolico latino di Aleppo, città martire della guerra siriana, entrata ormai nel suo decimo anno. Non è solo il conflitto a preoccupare l’arcivescovo, e nemmeno il Covid-19. A strangolare progressivamente la popolazione siriana, dice, sono “le sanzioni internazionali e i suoi effetti”. L’Ue ha prorogato, il 28 maggio scorso, le misure restrittive contro il regime siriano per un altro anno, fino al 1 giugno 2021. Dal 17 giugno, invece, dovrebbero entrare in vigore quelle decise dal presidente Usa, Donald Trump, contenute nel “Caesar Syria Civilian Protection Act”. Le sanzioni Ue, introdotte nel 2011 in risposta alla repressione del regime siriano della popolazione civile, colpiscono aziende e imprenditori che hanno rapporti commerciali con il regime e con l’economia di guerra. Le sanzioni, tra le altre cose, vietano l’importazione di petrolio, impongono restrizioni su determinati investimenti e su attrezzature e tecnologia che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna. Il “Caesar”, dal canto suo, imporrà sanzioni sui leader siriani, società, Stati e individui che appoggiano militarmente, finanziariamente e tecnicamente il governo di Assad e i suoi alleati Russia e Iran. Altre sanzioni Usa sono in vigore già da prima dell’insurrezione del 2011.

“La comunità internazionale si faccia un esame di coscienza: per noi le sanzioni sono un crimine” rimarca il Vicario -. Siamo molto delusi dall’Ue. Chissà cosa accadrà con l’entrata in vigore del Caesar Act di Trump. Abbiamo bisogno della pace, ma adesso la priorità è sopravvivere”. La vera paura e la crisi del Libano. A confermare al Sir la gravità della situazione in Siria sono alcune fonti locali che vogliono restare anonime: “Ad oggi la vera paura dei siriani non è la pandemia ma la povertà generata da anni di guerra, di sanzioni e di crisi economica”.

Il termometro della crisi oggi è la svalutazione della moneta locale che sta provocando un’impennata dei prezzi per tutti i beni compresi cibo e medicine. A giocare un ruolo determinante nella svalutazione della lira siriana è la crisi finanziaria libanese. Per la Siria, infatti, il Paese dei Cedri è sempre stato una strada aperta verso il mondo esterno, soprattutto dopo l’imposizione delle sanzioni occidentali. In Libano sono depositati i conti e i risparmi di tantissimi siriani e le banche libanesi hanno favorito i commercianti e imprenditori siriani nei loro affari. Almeno fino a pochi mesi, quando le avvisaglie della crisi che avrebbe portato il Libano al default nel marzo di quest’anno, hanno di fatto provocato restrizioni bancarie nella vendita di dollari, nel ritiro dei risparmi e causato il blocco dei depositi siriani nelle banche libanesi. Al crollo della sterlina libanese ha fatto seguito anche quello della valuta siriana.

“Così ogni giorno assistiamo ad un calo della nostra moneta con conseguente salita dei prezzi – dichiarano le fonti -. La gente non ce la fa a comprare da mangiare. Nelle ultime sei settimane la lira siriana ha perso circa il 65% del suo potere di acquisto. Se prima un dollaro era scambiato a 1000 lire siriane, adesso ce ne vogliono oltre 3000. All’inizio della guerra (2011) per un dollaro servivano 50 lire”. E chi sperava che con la fine del lockdown i locali e negozi delle città siriane tornassero a riempirsi si è dovuto ricredere. Per il rilancio dell’economia bisognerà attendere ancora: “Con i prezzi è cresciuta anche la disperazione e la rabbia della gente”. Mancano medicine e chiudono le farmacie. Gravi le ripercussioni anche sul sistema sanitario, già disastrato dalla guerra: “Le industrie farmaceutiche siriane hanno smesso di produrre per mancanza di materie prime molto costose da reperire. Il prezzo di produzione è più alto di quello fissato dal Governo per la vendita. Dunque produrre medicine significa perdere denaro. Ne deriva una carenza di medicinali e la corsa all’accaparramento specie di quelli per le malattie croniche. Molte farmacie hanno chiuso per mancanza di forniture. Ci sono ospedali che faticano a rifornirsi anche di carta igienica e di presidi medici di uso comune”. In questo quadro a tinte fosche, chi continua a curare gratuitamente i più vulnerabili di Damasco e Aleppo sono i tre nosocomi cattolici del progetto “Ospedali Aperti”, ideato dal card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, che ne ha affidato la gestione ad Avsi, organizzazione internazionale che opera su più fronti per dare sostegno alla popolazione siriana.

Nell’Ospedale Italiano e Francese di Damasco, e in quello di St. Louis ad Aleppo, spiegano da Avsi, “si continua a curare la popolazione. L’impegno è cercare di accogliere un numero sempre più alto di malati e salvare più vite possibile. In questi anni sono cresciute patologie gravi come i tumori, specie tra i giovani”.

Contro le sanzioni. Chi si sta battendo contro le sanzioni alla Siria è l’ong New Humanity, con la sua associata Amu – Azione per un Mondo Unito, che ha lanciato un appello per chiederne l’immediata sospensione “almeno per le forniture sanitarie e i materiali destinati alle cure mediche e per i fondi necessari per pagarle”. I destinatari dell’appello, firmato fino ad oggi da oltre 17 mila persone, sono tra gli altri António Guterres, Segretario Generale Nazioni Unite; Donald J. Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America e David M. Sassoli, Presidente Parlamento europeo.
Un’iniziativa, spiegano al Sir le ong promotrici che fanno capo al movimento dei Focolari, “al di sopra di qualsiasi orientamento politico o ideologico con l’obiettivo di salvaguardare la popolazione civile siriana”. “Le sanzioni – dicono le ong – bloccano investimenti e transazioni finanziarie rendendo difficili i commerci, importazioni e esportazioni. I siriani che sono all’estero non riescono più a far arrivare soldi ai loro parenti”. Le ong non mancano di segnalare “un velo di ipocrisia sul tema delle sanzioni:
hanno posto l’embargo all’acquisto del ferro perché potrebbe essere usato a fini bellici e poi fanno arrivare qui in Siria armi da ogni dove.
Piuttosto che impoverire il popolo siriano con le sanzioni, Ue e Usa dovrebbero trovare strade di dialogo per una soluzione negoziata del conflitto. In Siria prima d’ora non abbiamo mai visto gente che cerca cibo nell’immondizia e persone che vendono reni per avere soldi”.
view post Posted: 10/6/2020, 12:33 Porcate degli USA - Esteri
manifestante uccisa in Ohio dalla polizia, muore dopo due giorni di agonia.

view post Posted: 10/6/2020, 12:31 Rizzo, l’ultimo comunista - Bar Toto Cutugno
view post Posted: 10/6/2020, 12:30 Paranoie - Canalisation d'égout
L'ultima da yankeeland: secondo uno studio di Harvard il fatto che un giorno x del 2019 ci fossero 100 macchine in più nel parcheggio dell'ospedale di Wuhan rispetto ad un giorno x dell'anno precedente sarebbe segno del gomblotto cinese.



ovviamente non ci si poteva che buttare a pesce il più leccaculo fra i sionisti e filoyankee italiani

view post Posted: 8/6/2020, 21:40 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti

Una importante giornata di lotta. Avanti verso il Fronte Unico di Classe




Comunicato della Segreteria Nazionale del FGC

La mobilitazione del 6 giugno lanciata dalle forze sindacali e di classe che convergono sulla prospettiva della costruzione di un fronte unico di classe è stata un successo, segnando una tappa importante nel processo di unione delle lotte dei lavoratori, degli studenti, dei disoccupati. Molto partecipata la piazza a Roma, importanti i cortei a Milano, Bologna, Napoli e Piacenza, accompagnati da manifestazioni e presidi a Torino, Genova, Bergamo, Venezia, Ravenna, Pisa, Cosenza, Taranto, Palermo, Messina, Catania e Olbia. Una boccata d’ossigeno importante in un paese che oggi sconta una forte arretratezza del movimento operaio e delle forze rivoluzionarie.

Una giornata di lotta che va guardata per quello che è. Si tratta indubbiamente di una coagulazione di settori di avanguardia del mondo operaio, delle forze sindacali e politiche, ancora ben lontana da ciò che servirebbe costruire per rispondere all’offensiva padronale che inizia con la nuova crisi economica scatenata dalla pandemia. Ma è un risultato importante, perché questo percorso ha saputo già unire alcuni dei settori più combattivi e coscienti del movimento operaio in Italia. Importante a tal proposito la presenza in piazza, sul piano delle organizzazioni sindacali, di sigle come SI Cobas, SLAI Cobas, ADL Cobas e diverse altre specialmente a livello locale. I militanti del Fronte della Gioventù Comunista hanno animato la quasi totalità delle piazze, impegnandosi con una determinante partecipazione numerica nel bilancio complessivo della giornata a livello nazionale, portando alla mobilitazione di giovani lavoratori e degli studenti, nella prospettiva di una loro presenza stabile al fianco delle lotte del movimento operaio.

Il bilancio positivo che traiamo da questa giornata non deve lasciare spazio all’idea che possa trattarsi di un punto di arrivo. Le piazze del 6 giugno hanno dimostrato la forza materiale che si può mettere in moto sin da subito, con un livelli di mobilitazione sicuramente significativo. Ma ancora non segnano la compiuta definizione del fronte unico di classe, che deve ancora aspirare a catalizzare una maggiore partecipazione di sindacalisti conflittuali e settori di lavoratori in lotta. E che deve trovare lo sviluppo di chiare delimitazioni politiche e organizzative nelle forme di coordinamento. Dalle mobilitazioni del 6 giugno questa prospettiva uscirà rafforzata anche e soprattutto se saremo capaci di promuovere la più ampia unità e convergenza dei lavoratori su questo percorso, anche in modo trasversale alle appartenenze sindacali; se sapremo promuovere forme di coordinamento vero dell’azione e della lotta che vada al di là della semplice adesione ideologica; se si chiarirà fino in fondo, discutendone in modo aperto e franco, il carattere che questo percorso dovrà avere.

Esistono oggi ancora visioni differenti sulla natura di questo percorso da parte delle diverse forze. Crediamo che non vadano nascoste o ignorate, ma che sia necessario discuterne apertamente per sciogliere questo nodo. Parlare di un fronte di classe o di un fronte anticapitalista non significa dire la stessa cosa: si tratta di prospettive diverse. Abbiamo affermato la necessità di costruire un fronte di classe, che veda al centro il movimento operaio organizzato e le sue forze più combattive e sia capace di legare attorno a sé gli studenti, i disoccupati e le classi popolari schiacciate dalla crisi. Un fronte di lotta che si contrapponga al fronte unico dei padroni che già esiste; che delimiti un campo a partire dalle forze che si oppongono alla logica della concertazione, alla “pace sociale” che i capitalisti chiedono per poter scaricare liberamente la crisi sui lavoratori; che non ceda ai tranelli dell’unità nazionale, delle chiamate patriottiche dei sovranisti, delle illusioni riformiste del centro-sinistra. Pensiamo che questa prospettiva debba vedere al centro le forze sindacali e i lavoratori, che debba essere più ampia di un semplice patto d’azione tra le sigle sindacali. Al contempo, non pensiamo invece che sia utile la concezione di un “fronte anticapitalista”, che pone l’enfasi principale nel coordinamento delle forze politiche, che porterebbe questo processo in costruzione a ripercorrere strade errate già percorse. La mera sommatoria di forze politiche non ha prospettiva di successo. Altra cosa è affermare che le forze politiche oggi esistenti devono promuovere, e non ostacolare la ricomposizione in senso unitario dei settori più avanzati della classe operaia e dei sindacati conflittuali, sostenere politicamente questa prospettiva contribuendo allo sviluppo politico e all’ampliamento del radicamento reale.

La decisione di costituire un’assemblea nazionale dei delegati sindacali più avanzati è in questo senso un passaggio molto importante, che riafferma la centralità dei quadri operai evitando di riproporre schemi fallimentari e che siamo pronti a sostenere con tutte le nostre energie. Su questo piano sta la diversità del percorso che si sta articolando, su questo poggiano le prospettive di portare avanti un reale avanzamento della lotta di classe in Italia. La migliore prospettiva “anticapitalista” che possiamo mettere in campo è questa, sul piano concreto della lotta, unendo il conflitto nei singoli luoghi di lavoro alle forme della lotta politica, dando un reale indirizzo di classe e rivoluzionario, lavorando materialmente per la costituzione del proletariato in classe, per il collegamento e l’orientamento delle lotte d’avanguardia.

L’offensiva dei padroni arriva. Lo schieramento delle forze borghesi è diviso su molte cose, ma sono d’accordo su un punto: bisogna salvare i profitti delle grandi imprese e dei monopoli, a pagare la crisi dovranno essere i lavoratori e le classi popolari. Si moltiplicano gli appelli all’unità nazionale, alla responsabilità, alla solidarietà. Non cascare in questo tranello, rispondere all’offensiva padronale colpo su colpo è nostro compito. Nella divisione e nella frammentazione, per i lavoratori c’è solo la sconfitta. Licenziamenti, repressione, compressione di salari e diritti: un’azienda alla volta, ma l’attacco arriva ovunque, e sarà accompagnato da una nuova stagione di austerità e politiche antipopolari. In questi giorni cominciano già a moltiplicarsi i contesti di lotta in molti settori diversi. Se ne svilupperanno molti altri, conseguentemente all’intensificazione dell’attacco padronale. Se queste lotte resteranno isolate e scollegate permetteremo ai padroni di schiacciarle ad una ad una, senza possibilità di difesa e contrattacco. Unire le lotte dei lavoratori e delle classi popolari, costruire un vero fronte unico di classe rappresenta una necessità non derogabile. Abbiamo un mondo da guadagnare.
view post Posted: 7/6/2020, 23:18 Porcate degli USA - Esteri


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view post Posted: 7/6/2020, 14:51 Porcate degli USA - Esteri
CITAZIONE
Qualcosa di parecchio inquietante. Pare vi siano degli audio(appena trovo qualcosa, posto tutto) in cui ordinano a militari ed agenti di compiere questo tipo di contenimento psicologico delle proteste. Tecniche psicologiche per abbassare i livelli di aggressività delle folle per poi contrattaccare

tecnica già sperimentata nelle loro guerre imperialiste:


view post Posted: 4/6/2020, 20:13 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE
rimane il fatto che si tratta di un ottimo esperimento sociale

sì, purtroppo, da ambo le parti si sta dimostrando un tristissimo esperimento social
queste continui batti e ribatti, frecciate e frecciatine a mezzo facebook stanno diventando stucchevoli.
view post Posted: 4/6/2020, 09:27 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE
Che ne pensate dell'ipotesi di Mustillo(io sono parecchio scettico)? Qualcuno sa qualcosa di più? È proprio così o la storia è diversa?
E soprattutto: di che alleanza si trattava?

mi pare una lettura piuttosto unilaterale quella dei laziali. In realtà, da quello che si è percepito da fuori (e che poi mi è stato confermato da alcuni diretti interessati) lo scopo della proposta dei "giovani" (romani, fgc e altri) non era quella di fare alleanze elettorali così, sic et simpliciter, ma quella più generalmente di dialogare, sempre mantenendo assolutamente l'indipendenza, sia con altre forze comuniste, sia con i movimenti, che soprattutto con le forze sociali (sindacati di base etc...). Il discorso di queste aperture al dialogo tra l'altro erano state portate avanti da Rizzo stesso - le famose foto con PaP e altri quando ci fu la famosa manifestazione di ottobre - salvo poi essere ricusate. Sicuramente l'ala dei critici della dirigenza con Mustillo in testa ha probabilmente sbagliato a lavare i panni sporchi in pubblico, passatemi il termine, soprattutto dalle dimissioni di Mustillo però questo scritto non tiene conto delle questioni politiche, sia teoriche che pratiche, sollevate dai giovani: eccessiva attenzione alle pratiche elettoralistiche, propaganda destra, l'atteggiamento settario del partito e la necessità di radicarsi maggiormente fra i lavoratori. Invece pare che la si stia cercando di buttare in caciara facendo emergere: "Mustillo se la voleva fare con PaP, noi abbiamo difeso l'indipendenza del partito". Insomma mi pare una lettura piuttosto parziale (e forse anche scorretta in larga misura), io non ho mai inteso che da parte dei critici della dirigenza ci fosse la volontà di creare accrocchi con le forze eclettiche del movimentismo e rinunciare all'indipendenza del partito. Ne abbiamo discusso anche sul forum. Ci sono stati errori da entrambe le parti, questo senza dubbio, le critiche dei giovani andavano ascoltate (e magari limate laddove esse fossero più estremiste) e non liquidate in quel modo, il commissariamento arrivato in periodo di covid e denunciato come poco trasparente, e anche paraculo visto che a fine anno si sarebbe dovuto tenere il congresso, dimostrano a chi è fuori (e forse anche a chi è dentro?) che non c'è stata nessuna dialettica interna, nessun tentativo di risolvere le contraddizioni emerse. Da parte dei giovani forse si poteva provare ad esternare diversamente il dissenso cercando fino alla fine di farlo senza scuotere così il partito - però ecco questo non sappiamo se è successo, se ci hanno effettivamente provato e si sono dovuti scontrare con la realtà dei fatti, parlo da quello che si è visto pubblicamente. Se fra i giovani ci possono essere delle "teste calde" è senz'altro sicuro che fra la dirigenza c'è una pesante incrostazione di tutte quelle esperienze opportuniste (a cominciare dal PdCI di cui molti facevano parte) che sono tipiche del revisionismo moderno, sia talvolta nella teoria (vedi le morbidezze verso il passato del PCI revisionista, e ora pare qualche ambiguità sulla Cina attuale) sia soprattutto nella pratica, anche negli atteggiamenti interni stessi. Queste sono mie opinioni ovviamente, da esterno quindi con tutti i limiti del caso. Sta di fatto che purtroppo questa incapacità di riuscire a risolvere in maniera positiva la contraddizione, di saper gestire la lotta fra le due linee (che si erano palesate apertamente anche prima dello scoppio della bomba) ha fatto un grosso danno ad una realtà che tutti noi guardavamo mi pare con interesse, vediamo come va a finire, anche se ormai la rottura pare definitiva. Un passo avanti e due indietro.

ps. questa è un'opinione mia che è senz'altro incompleta essendo una visione da esterno, non si possono sapere tutti i retroscena, certo quelli morbosi e ridicoli fra i soggetti interessano poco, di più invece possono interessare gli scontri sul lato politico che ci sono stati in merito a queste situazioni che hanno portato alla rottura e che magari non emergono nella loro completezza. Perciò se c'è qualcuno che ha delle considerazioni, soprattutto se conosce meglio la situazione, sarebbe interessante da ascoltare.
view post Posted: 4/6/2020, 08:45 Porcate degli USA - Esteri

Violenza e soprusi, ma il problema degli Stati Uniti è l’incarcerazione di massa



Il delitto di Minneapolis ha fatto riemergere tutti i difetti del sistema: in America si arresta un cittadino ogni tre secondi. Quasi 5 milioni di americani sono stati in prigione, molti dei quali per delle infrazioni lievi. E gli afroamericani finiscono in galera a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi

Non c’è modo di capire l’ultima settimana di storia americana senza vedere cosa succede dall’altro capo dell’arresto e della morte di George Floyd a Minneapolis. Da un lato della vicenda quattro poliziotti arrestano e ammanettano un cittadino sulla parola dei commessi di un negozio, che lo accusano di aver pagato le sigarette con venti dollari contraffatti.

Dall’altro c’è il sistema di incarcerazione di massa, nel quale si può entrare anche per colpe anche più lievi di una (presunta) banconota falsa e che fa degli Stati Uniti la nazione con più detenuti al mondo.

Sono 2,3 milioni le persone attualmente dietro le sbarre, sparsi tra oltre 7mila carceri statali, federali e locali: un tasso di 698 detenuti su 100mila abitanti. Secondo i dati di Prison Policy, uno dei tanti progetti di riforma del sistema carcerario, mezzo milione sono in attesa di giudizio.

Spesso non hanno i soldi per aspettare la sentenza da persone libere, perché la cauzione costa in media 10mila dollari, o otto mesi di stipendio. I numeri del problema diventano ancora più imponenti se guardiamo quanti cittadini ogni anno vengono arrestati dalla polizia: secondo gli ultimi dati aggregati dall’FBI sono 10,3 milioni, un tasso di 3,152.6 per 100,000 abitanti.

Parliamo di un ingresso nel sistema penale ogni tre secondi, la maggior parte dei quali non porterà a nessuna incriminazione e nessun processo. I numeri hanno una scala da pandemia: quasi 5 milioni di americani sono stati in prigione, 77 milioni hanno un «criminal record». Poco meno di uno su due (113 milioni) ha un parente diretto che è stato in carcere a un certo punto della sua vita.

È come se ormai essere arrestati facesse parte dell’esperienza americana, soprattutto per minoranze e poveri. Non è sempre stato così: dalla fine della Guerra civile nel 1865 alla war on crime di Lyndon B. Johnson 184mila persone erano state in prigione.

Da lì alla guerra alla droga di Reagan sono raddoppiati e la corsa non si è più fermata. Il dato attuale vuol dire un aumento del 943% in mezzo secolo. Come è successo, visto che i crimini violenti sono calati del 51% dagli anni ’90 a oggi?

È quello che Alexandra Natapoff nel suo libro Punishment Without Crime (Castigo senza delitto) ha definito «massive misdemeanor system», l’impostazione punitiva che da anni nutre l’apparato penale.

Quella dei misdemeanor è la vasta categoria delle infrazioni lievi per le quali un poliziotto può ammanettarti in America: attraversare fuori dalle strisce, stare seduto sul marciapiede, guidare senza cintura di sicurezza o con uno stop rotto, bere quando non hai l’età legale per farlo.

Lo spettro di quello che è considerato punibile negli Stati Uniti è una rete da pesca a strascico lanciata ogni giorno sulle città. Nel suo libro, Natapoff calcola che l’80% degli arresti a livello nazionale è per un’infrazione di questo livello, un’aneddotica di cui la stampa locale è piena: bambini arrestati a scuola perché iperattivi, sceriffi che organizzano retate di adolescenti accusati di avere una birra.

Questa impostazione porta devastazione nella vita delle persone, può far perdere il lavoro, la casa, le borse di studio, l’affidamento dei figli, minare la salute fisica e mentale, e soprattutto crea un numero spropositato di interazioni pericolose e non necessarie tra le forze dell’ordine e i cittadini.

Questo sistema si intreccia con la discriminazione razziale, ed è qui che il mix sociale diventa esplosivo. È una chiave di lettura importante per capire la rabbia dopo i fatti di Minneapolis.

Gli omicidi della polizia sono la miccia che fa detonare un disagio più ampio, perché per un afroamericano la questione con la polizia e con la giustizia è un sempre fatto personale. Gli afroamericani sono il 13% della popolazione ma rappresentano circa il 40% dei detenuti.

Secondo i dati del Sentencing Project, i neri in America sono incarcerati a un tasso cinque volte superiore a quello dei bianchi, in cinque stati (e tra questi c’è il Minnesota di George Floyd) a un tasso dieci volte superiore.

Ci sono dodici stati in cui la metà della popolazione carceraria è composta da neri, ce ne sono undici in cui un maschio adulto afroamericano su venti è attualmente in cella (in Oklahoma uno su quindici).

Tra i ragazzi della classe 2001 uno su tre finirà in manette a un certo punto della sua vita. Statisticamente, per un afroamericano nato dopo il 1965 senza un diploma superiore è più probabile finire in carcere che non finirci.

La California e il Michigan spendono più soldi per tenere in prigione i giovani che per istruirli. È provato che le politiche scolastiche e le carceri sono collegate da una specie di tunnel sociale: la school-to-prison pipeline.

C’è una correlazione con le sospensioni ed espulsioni, le politiche scolastiche di tolleranza zero fanno uscire adolescenti neri e ispanici dal sistema dell’istruzione e li fanno entrare negli anni successivi in quello penale.

Nessuno può discutere sul fatto che ci sia disparità nel trattamento, sui motivi invece si dibatte da decenni: istruzione, disoccupazione, povertà, l’eredità della segregazione urbana finiscono in un calderone che non ha prodotto risposte univoche.

A ogni scala lo si guardi, il sistema ha un suo guasto specifico da riparare, ma in questi giorni è delle forze dell’ordine che si parla di più. The Atlantic addirittura si chiede: sono diventate un esercito?

Uno dei testi per capire l’attività dei poliziotti americani è The End of Policing di Alex S Vitale, sociologo e coordinatore del Policing and Social Justice Project del Brooklyn College. Vitale racconta come la vita di un membro delle forze dell’ordine sia «99% noia e 1% puro terrore».

Arrestare un vero criminale (per un «felony»), è un evento raro, passano anni senza che accada, è un picco di carriera, la storia da raccontare ai nipoti. Nella vita quotidiana quello che fanno è raccogliere denunce, compilare rapporti e pattugliare le strade alla ricerca di violazioni e infrazioni da perseguire.

Sono armati come soldati al fronte (per una legge del 1997 le forniture militari in eccesso vengono passate alle forze di polizia) e con poco da fare. Spesso hanno delle quote di arresti da rispettare o degli incentivi alla «produttività».

Vitale racconta che in alcuni distretti sono tenuti a seguire il booking process fino alla fine e che un arresto a fine turno è un modo per accumulare paga e straordinari. Più si abbassa la gravità del reato e più aumenta la discrezionalità. In un caso di omicidio, non importa che tu sia bianco, nero, ispanico.

È nel perseguire i reati più lievi che le pattuglie hanno libertà di scegliere a cosa dedicarsi ed è qui che l’incarcerazione di massa prende i contorni di una persecuzione. Nel 2018 Johnnie Rush stava tornando a casa in North Carolina dopo un turno da 13 ore come lavapiatti, è stato fermato da due poliziotti che gli hanno contestato di non aver attraversato sulle strisce, anche se era notte e non c’erano macchine.

Lo hanno ammanettato, hanno usato il taser, lo stavano soffocando, anche lui ha detto: «I can’t breathe». L’America è piena di storie così: quello che colpisce, prima ancora della violenza ingiustificata contro un cittadino disarmato, è l’evitabilità della situazione.

Un attimo prima, c’è una persona non pericolosa che sta tornando a casa pensando ai fatti suoi. Un attimo dopo c’è una colluttazione arbitraria, violenta e pericolosa, tutto per qualcosa per cui un europeo non accetterebbe nemmeno una multa.

Rush si è salvato, quando un video è stato diffuso è stato anche scagionato da ogni accusa, mentre il poliziotto ha perso il lavoro ed è stato incriminato. A George Floyd non è andata bene, purtroppo.

Si discute di riformare la polizia, migliorarne la preparazione, aumentare le bodycam, incoraggiare il dialogo con comunità, essere più efficaci con i violenti, sicuramente Derek Chauvin avrà una lunga pena. Ma probabilmente niente cambierà finché l’America resterà il paese che arresta un cittadino ogni tre secondi.
view post Posted: 3/6/2020, 18:43 Porcate degli USA - Esteri
Se vai a guardare i post precedenti in questa stessa discussione ci sono diversi messaggi circa la brutalità della polizia, e in generale sulla questione della repressione interna negli USA (oltre a quella esterna). Non credo questa discussione sia OT in questo senso, almeno, per il momento si può anche evitare dispersività aprendo altri thread. Poi se le cose dovessero evolvere in maniera inaspettata potremmo sempre aprire un altro thread.

Ps. cmq la tua proposta non l ho vista, l hai postata qui?
1058 replies since 7/11/2014