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Damasco è impegnata a reperire sul mercato internazionale il grano necessario a coprire la domanda interna. Guerra e incendi dolosi minacciano il pane a basso costo, bene essenziale per milioni di siriani Roma, 12 giugno 2020, Nena News – Il nuovo record negativo non ha sorpreso nessuno. Il dollaro nei giorni scorsi ha sfondato la soglia delle 2000 lire siriane e il costante ribasso della valuta comprometterà il già limitato potere di acquisto della popolazione. Nulla lascia immaginare una inversione di tendenza. Sono tanti e purtroppo consolidati i motivi della crisi economica che rischia di affondare il paese. La guerra in realtà non è finita anche se l’esercito siriano e le milizie alleate hanno ripreso il controllo di buona parte del territorio. La ricostruzione non è mai cominciata a causa delle pressioni degli Stati uniti e di vari Stati europei, Francia in testa, sull’Onu e le agenzie internazionali. Lo scopo di questi paesi è rendere difficile la vita al presidente Bashar Assad, in realtà la complicano solo alla popolazione siriana. E anche la Russia ha rallentato il suo impegno. E presto contro la Siria entreranno in vigore altre sanzioni dell’Amministrazione Trump. Pesa inoltre il blocco dei conti bancari in Libano dove i siriani più facoltosi hanno depositato somme significative negli anni passati, così come la riduzione delle rimesse degli emigrati frutto dell’emergenza coronavirus. Che la situazione economica siriana sia fortemente peggiorata lo conferma anche lo scontro frontale in atto tra Assad e il suo cugino miliardario Rami Makhlouf. Il conflitto non è frutto di questioni personali e di lotta per il potere come hanno scritto e detto alcuni, bensì dell’urgenza del governo di attingere ai grandi patrimoni per procurarsi, al più presto, fondi aggiuntivi, essenziali in questa fase. In gioco c’è la solidità del potere, che passa anche dalla capacità dell’esecutivo di garantire un minimo di stabilità alla popolazione civile, esausta, che ogni giorno fa i conti con disoccupazione, carovita, corruzione, scarsità di carburante e la progressiva scomparsa del welfare per mancanza di fondi. Siamo nel pieno della mietitura e mai come quest’anno il raccolto di grano è centrale per i programmi del governo. Un dato è già noto: non sarà sufficiente a coprire la domanda interna (4,3 milioni di tonnellate). Damasco perciò è impegnata, più degli anni passati, a garantirsi altro grano sul mercato internazionale, con esiti talvolta positivi – di recente è stato siglato un accordo con l’alleata Mosca che però copre solo una parte della richiesta siriana – e altri meno fortunati. A complicare le cose c’è anche la competizione con l’Amministrazione Autonoma curda nel Rojava per l’acquisto del grano dai produttori. La Siria nel 2019, secondo le statistiche della Fao, è stata uno dei dieci paesi più colpiti dall’insicurezza alimentare (a rischio circa 6,5 milioni di persone). Anni di guerra e di frammentazione territoriale hanno fatto danni enormi. Anche la siccità ha colpito duro. Nel 2018 la produzione di grano è stata di soli 1,2 milioni di tonnellate, la più bassa dal 1989. La siccità ha colpito principalmente Raqqa, Deir e-Zor, Hasakah e Aleppo nel nord, e Hama nella Siria centrale. Queste aree complessivamente rappresentano il 96% della produzione totale di grano in Siria. A peggiorare le cose è il sensibile aumento degli incendi di terreni agricoli, non poche volte di origine dolosa innescati da speculatori che puntano al rialzo dei prezzi e, più di rado, da gruppi armati di vario orientamento che sperano aumentare le difficoltà del governo di Damasco di fronte alla popolazione. L’anno scorso sono andati in fumo quasi 85.000 ettari di colture e nel 2020 non andrà meglio. Dati sconfortanti per un paese che un tempo era noto per l’attenzione che dava alla produzione agricola e all’autosufficienza alimentare. «Occorrono quasi tre milioni di tonnellate di grano per mettere al sicuro il paese nel 2020 e nella prima parte del 2021, altrimenti non ci sarà farina a sufficienza per il pane e per sfamare la popolazione», ci spiega un giornalista siriano che ha chiesto di rimanere anonimo. «Dopo il lockdown dell’economia proclamato dal governo per contenere la pandemia – aggiunge – il pane a basso costo, grazie ai sussidi dello Stato, è diventato ancora di più una linea rossa per i siriani, soprattutto per quelli che appoggiano Assad». Un mese fa, durante una riunione con il governo, il presidente ha ammesso che «la sfida più difficile è garantire beni di prima necessità (alla popolazione), in particolare i generi alimentari». Quindi ha rimosso il ministro del commercio interno e della protezione dei consumatori, Atef al-Naddaf. Al suo sostituto, Talal al Barazi, è stato dato l’incarico di percorrere ogni strada possibile per tenere bassi i prezzi dei generi alimentari, sottraendoli a monopoli e contrabbando. I problemi di fondo del settore agricolo siriano non sono destinati a cambiare, almeno non nel medio periodo. Negli ultimi nove anni la produzione di grano si è quasi dimezzata, scendendo da 4,1 milioni di tonnellate nel 2011 a 2,2 milioni nel 2019. La guerra è solo una delle cause del calo. Un impatto notevole l’ha avuto il liberismo economico introdotto a partire dal 2005 da Assad e dai suoi esperti. La priorità è stata data alla crescita dei settori bancario, turistico, immobiliare e delle telecomunicazioni – facendo la fortuna di personaggi come Rami Makhlouf e Firas Tlass – ed è stata messa da parte la vecchia guardia baathista, più socialista e legata al padre del presidente, Hafez al Assad, che aveva sempre dato grande rilievo all’agricoltura. Dal 2005 al 2009, il tasso di crescita del settore è sceso in media dell’1,5% e 600.000 lavoratori – il 44% della forza lavoro agricola – hanno lasciato il settore. Tra il 2007 e il 2008, l’area totale dedicata alla produzione di grano è diminuita di 180mila ettari. La guerra giunta nel 2011 ha fatto il resto. Molti agricoltori siriani ora sono profughi in Siria, Libano e Giordania e i danni ai sistemi di irrigazione e ai macchinari e i prezzi elevati dei fertilizzanti non lasciano immaginare un loro ritorno. La Siria granaio del Medio oriente ormai è solo un lontano ricordo. _______________________________________________________________________ sulla Siria i preti si dimostrano più onesti della stampa borghese che non fa menzione della crisi economica e alimentare che sta colpendo il paese per colpa della guerra e soprattutto, oggi, per colpa delle sanzioni economiche inflitte dagli yankee e dai loro lacché Siria: tra sanzioni, pandemia e guerra, la lotta dei siriani per la sopravvivenza Continua l'agonia del popolo siriano segnato da una guerra lunga ormai 10 anni, piegato dalla crisi economica e da sanzioni internazionali di cui paga gli effetti devastanti. Non è la pandemia a preoccupare ma la priorità oggi è: "sopravvivere". Testimonianze da Damasco e Aleppo. L'appello: "rimuovete le sanzioni". Siamo entrati nell’oblio. Chiediamo comunità internazionale di rimuovere le sanzioni che impoveriscono ogni giorno di più i siriani. Sono contro i diritti umani, sono disumane perché penalizzano tutta la popolazione. Qui la gente sta morendo di fame. Non ci sono medicine. Non c’è lavoro”. È il monito di mons. George Abou Khazen, vicario apostolico latino di Aleppo, città martire della guerra siriana, entrata ormai nel suo decimo anno. Non è solo il conflitto a preoccupare l’arcivescovo, e nemmeno il Covid-19. A strangolare progressivamente la popolazione siriana, dice, sono “le sanzioni internazionali e i suoi effetti”. L’Ue ha prorogato, il 28 maggio scorso, le misure restrittive contro il regime siriano per un altro anno, fino al 1 giugno 2021. Dal 17 giugno, invece, dovrebbero entrare in vigore quelle decise dal presidente Usa, Donald Trump, contenute nel “Caesar Syria Civilian Protection Act”. Le sanzioni Ue, introdotte nel 2011 in risposta alla repressione del regime siriano della popolazione civile, colpiscono aziende e imprenditori che hanno rapporti commerciali con il regime e con l’economia di guerra. Le sanzioni, tra le altre cose, vietano l’importazione di petrolio, impongono restrizioni su determinati investimenti e su attrezzature e tecnologia che potrebbero essere utilizzate per la repressione interna. Il “Caesar”, dal canto suo, imporrà sanzioni sui leader siriani, società, Stati e individui che appoggiano militarmente, finanziariamente e tecnicamente il governo di Assad e i suoi alleati Russia e Iran. Altre sanzioni Usa sono in vigore già da prima dell’insurrezione del 2011. “La comunità internazionale si faccia un esame di coscienza: per noi le sanzioni sono un crimine” rimarca il Vicario -. Siamo molto delusi dall’Ue. Chissà cosa accadrà con l’entrata in vigore del Caesar Act di Trump. Abbiamo bisogno della pace, ma adesso la priorità è sopravvivere”. La vera paura e la crisi del Libano. A confermare al Sir la gravità della situazione in Siria sono alcune fonti locali che vogliono restare anonime: “Ad oggi la vera paura dei siriani non è la pandemia ma la povertà generata da anni di guerra, di sanzioni e di crisi economica”. Il termometro della crisi oggi è la svalutazione della moneta locale che sta provocando un’impennata dei prezzi per tutti i beni compresi cibo e medicine. A giocare un ruolo determinante nella svalutazione della lira siriana è la crisi finanziaria libanese. Per la Siria, infatti, il Paese dei Cedri è sempre stato una strada aperta verso il mondo esterno, soprattutto dopo l’imposizione delle sanzioni occidentali. In Libano sono depositati i conti e i risparmi di tantissimi siriani e le banche libanesi hanno favorito i commercianti e imprenditori siriani nei loro affari. Almeno fino a pochi mesi, quando le avvisaglie della crisi che avrebbe portato il Libano al default nel marzo di quest’anno, hanno di fatto provocato restrizioni bancarie nella vendita di dollari, nel ritiro dei risparmi e causato il blocco dei depositi siriani nelle banche libanesi. Al crollo della sterlina libanese ha fatto seguito anche quello della valuta siriana. “Così ogni giorno assistiamo ad un calo della nostra moneta con conseguente salita dei prezzi – dichiarano le fonti -. La gente non ce la fa a comprare da mangiare. Nelle ultime sei settimane la lira siriana ha perso circa il 65% del suo potere di acquisto. Se prima un dollaro era scambiato a 1000 lire siriane, adesso ce ne vogliono oltre 3000. All’inizio della guerra (2011) per un dollaro servivano 50 lire”. E chi sperava che con la fine del lockdown i locali e negozi delle città siriane tornassero a riempirsi si è dovuto ricredere. Per il rilancio dell’economia bisognerà attendere ancora: “Con i prezzi è cresciuta anche la disperazione e la rabbia della gente”. Mancano medicine e chiudono le farmacie. Gravi le ripercussioni anche sul sistema sanitario, già disastrato dalla guerra: “Le industrie farmaceutiche siriane hanno smesso di produrre per mancanza di materie prime molto costose da reperire. Il prezzo di produzione è più alto di quello fissato dal Governo per la vendita. Dunque produrre medicine significa perdere denaro. Ne deriva una carenza di medicinali e la corsa all’accaparramento specie di quelli per le malattie croniche. Molte farmacie hanno chiuso per mancanza di forniture. Ci sono ospedali che faticano a rifornirsi anche di carta igienica e di presidi medici di uso comune”. In questo quadro a tinte fosche, chi continua a curare gratuitamente i più vulnerabili di Damasco e Aleppo sono i tre nosocomi cattolici del progetto “Ospedali Aperti”, ideato dal card. Mario Zenari, nunzio apostolico in Siria, che ne ha affidato la gestione ad Avsi, organizzazione internazionale che opera su più fronti per dare sostegno alla popolazione siriana. Nell’Ospedale Italiano e Francese di Damasco, e in quello di St. Louis ad Aleppo, spiegano da Avsi, “si continua a curare la popolazione. L’impegno è cercare di accogliere un numero sempre più alto di malati e salvare più vite possibile. In questi anni sono cresciute patologie gravi come i tumori, specie tra i giovani”. Contro le sanzioni. Chi si sta battendo contro le sanzioni alla Siria è l’ong New Humanity, con la sua associata Amu – Azione per un Mondo Unito, che ha lanciato un appello per chiederne l’immediata sospensione “almeno per le forniture sanitarie e i materiali destinati alle cure mediche e per i fondi necessari per pagarle”. I destinatari dell’appello, firmato fino ad oggi da oltre 17 mila persone, sono tra gli altri António Guterres, Segretario Generale Nazioni Unite; Donald J. Trump, Presidente degli Stati Uniti d’America e David M. Sassoli, Presidente Parlamento europeo. Un’iniziativa, spiegano al Sir le ong promotrici che fanno capo al movimento dei Focolari, “al di sopra di qualsiasi orientamento politico o ideologico con l’obiettivo di salvaguardare la popolazione civile siriana”. “Le sanzioni – dicono le ong – bloccano investimenti e transazioni finanziarie rendendo difficili i commerci, importazioni e esportazioni. I siriani che sono all’estero non riescono più a far arrivare soldi ai loro parenti”. Le ong non mancano di segnalare “un velo di ipocrisia sul tema delle sanzioni: hanno posto l’embargo all’acquisto del ferro perché potrebbe essere usato a fini bellici e poi fanno arrivare qui in Siria armi da ogni dove. Piuttosto che impoverire il popolo siriano con le sanzioni, Ue e Usa dovrebbero trovare strade di dialogo per una soluzione negoziata del conflitto. In Siria prima d’ora non abbiamo mai visto gente che cerca cibo nell’immondizia e persone che vendono reni per avere soldi”. |