Comunismo - Scintilla Rossa

Posts written by Sandor_Krasna

view post Posted: 17/9/2020, 17:22 L'imperialismo si organizza in Venezuela - Esteri

Lettera del Partito Comunista del Venezuela (PCV) ai partiti comunisti e operai del mondo


Il Partito Comunista del Venezuela (PCV) e l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria: Accumulare forze per una soluzione rivoluzionaria alla crisi del capitalismo dipendente e redditiero venezuelano.

Cari compagni e compagne,
Prima di tutto riceviate il cordiale e fraterno saluto dell’UP del CC del Partito Comunista del Venezuela (PCV). La presente comunicazione ha come obiettivo quello di aggiornarvi sulla politica tracciata dal CC della nostra organizzazione, in risposta all’acuirsi della crisi del capitalismo dipendente e redditiero venezuelano, accentuata dall’aggressione multiforme dell’imperialismo statunitense e dall’applicazione da parte del governo di politiche liberiste in favore del capitale, che rendono criticamente povere le condizioni di vita della classe operaia e del popolo lavoratore della città e della campagna, specialmente nel contesto della pandemia del Coronavirus e delle prossime elezioni dell’Assemblea Nazionale.
Agli inizi di luglio e agosto di quest’anno, abbiamo tenuto, rispettivamente, il XVII e XVIII plenum del CC avendo come tema centrale l’analisi del quadro politico internazionale e nazionale con l’obiettivo di adeguare la nostra tattica politica alle nuove condizioni di sviluppo della lotta di classe in Venezuela, considerando anche le prospettive di accumulazione di forze nel quadro delle prossime elezioni parlamentari indette dal Consiglio Nazionale Elettorale per il prossimo 6 dicembre 2020.
Dopo un profondo e produttivo dibattito il XVII Plenum del Comitato Centrale (2 e 3 luglio) ha approvato l’orientamento politico di “promuovere la costruzione di una Alleanza Alternativa Rivoluzionaria, di carattere ampio, unitario, non escludente, patriottica e antimperialista, che assuma un programma combattivo un’uscita rivoluzionaria dalla crisi del capitalismo dipendente e redditiero venezuelano, che trascenda il fatto elettorale e esprima l’unità rivoluzionaria operaia-contadina, comunarda e popolare e l’ampia alleanza patriottica e antimperialista”.
Tale decisione, corrisponde all’applicazione della politica approvata dal 15° Congresso Nazionale del PCV (giugno 2017) e sviluppata dalla nostra 14° Conferenza Nazionale (febbraio 2018) che precisò: “Costruire nuovi rapporti di forza, guidati da una solida unità rivoluzionaria operaia-contadina, comunarda e popolare, è un obiettivo strategico, per assicurare l’attuazione di politiche, misure e azioni di governo che puntino non solo a uscire dalla crisi del sistema capitalistico in favore della classe operaia e del popolo lavoratore della città e della campagna, ma anche al trionfo del proletariato e della rivoluzione popolare…”.
Su queste formulazioni del nostro Congresso e della Conferenza Nazionale e sul loro successivo sviluppo da parte del Comitato Centrale si basa la costruzione dell’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR) secondo il punto di vista del PCV.
Nel quadro della 14° Conferenza Nazionale, il nostro Partito approvò il suo sostegno alla candidatura presidenziale del compatriota Nicolás Maduro Moros per le elezioni presidenziali di maggio 2018. A tal proposito, il 26 febbraio 2018, Maduro firmò l’”Accordo Quadro Unitario PSUV-PCV per affrontare la crisi del capitalismo dipendente e redditiero del Venezuela con azioni politiche e socioeconomiche antimperialiste, patriottiche e popolari.”
Nei 30 mesi trascorsi dalla firma del documento e fino al XVII Plenum del CC del PCV, il governo del Presidente Nicolás Maduro e la dirigenza nazionale del PSUV, nonostante gli sforzi del PCV, non hanno mostrato alcuna volontà politica di discutere e tanto meno di adempiere a nessuno degli impegni, inerenti al livello nazionale, contenuti nell’Accordo bilaterale. Sono state concordate solo iniziative internazionali di ricerca di solidarietà con il popolo venezuelano e di denuncia dell’aggressione dell’imperialismo statunitense e dei suoi alleati europei.
Inoltre, le contraddizioni nelle relazioni tra il PCV e il governo del PSUV si sono acuite in misura dell’attuazione di una politica economica del governo sempre più subordinata agli interessi del capitale e lesiva delle conquiste e dei diritti conquistati dagli operai, dai contadini e dai settori popolari nel corso del processo bolivariano e, in particolare, con l’amministrazione del Presidente Hugo Chávez. L’attuazione di una politica economica liberista, riformista e privatizzatrice, totalmente opposta a quanto stabilito nell’Accordo Quadro Unitario PSUV-PCV, delinea una rottura del governo e della maggioranza della dirigenza del PSUV con la classe operaia e il popolo lavoratore della città e della campagna. Questa rottura a livello programmatico e pratico, come era prevedibile, pone indubbiamente il PCV sul terreno delle rivendicazioni popolari e della difesa delle conquiste raggiunte.
Questa realtà concreta consiste nell’attuazione di una politica salariale regressiva, che si traduce nel forte calo del reddito reale dei lavoratori, nell’eliminazione dei diritti contrattuali contenuti negli accordi collettivi, nell’evaporazione della previdenza e dei servizi sociali, negli illegali licenziamenti di massa di lavoratori dei settori pubblico e privato con l’aperta complicità delle autorità del Ministero del Lavoro.
La caduta dei salari è aggravata da una politica di apertura e dollarizzazione dell’attività economica, dalla completa subordinazione agli interessi dell’imprenditoria per quanto riguarda la fissazione dei prezzi dei beni essenziali del paniere alimentare fondamentale e dal progressivo deterioramento dei servizi pubblici che, in alcuni casi, avanzano verso la privatizzazione o la concessione al settore privato a condizioni gestionali eccezionali.
L’inevitabile precarizzazione delle condizioni di vita della classe operaia ha suscitato una combattiva resistenza al crescente arretramento dei diritti dei lavoratori, alla quale lo Stato venezuelano ha risposto con la repressione, la criminalizzazione e la persecuzione giudiziaria delle legittime lotte sindacali contro la configurazione di queste nuove condizioni di sfruttamento della forza lavoro nel contesto della crisi capitalista.
Anche nel settore agricolo gli interessi dei settori capitalistici dell’agrobusiness e la ricostituzione della proprietà terriera sono stati imposti nelle campagne. Negli ultimi due anni l’offensiva criminale dei proprietari terrieri contro i contadini e lavoratori agricoli si è intensificata con l’aumento degli sfratti di famiglie contadine dalle loro terre, l’assassinio e la persecuzione di dirigenti contadini. Il 31 ottobre 2018 fu assassinato per ordine dei proprietari terrieri il compagno Luís Fajardo, membro del CC del PCV e leader contadino della zona di Sur de Lago, insieme al popolare attivista Javier Aldana e, ad oggi, non è stata fatta giustizia né rispetto ai criminali, né per le 300 famiglie contadine in lotta. È solo un caso tra tanti.

Il PCV: l’Ampia Alleanza Patriottica e Antimperialista
L’attuazione di questa politica di liberalizzazione economica, portata avanti dalla corrente riformista privatizzatrice che controlla il governo, è stata accelerata e approfondita proprio nel momento in cui si intensifica l’aggressione imperialista contro il popolo del Venezuela e le sue istituzioni legittime. Nei mesi precedenti il 2020 e persino in piena espansione della pandemia mondiale, l’imperialismo statunitense e i suoi alleati europei non hanno cessato la loro pressione politica, economica e militare, diretta a provocare un cambio di governo in Venezuela. L’appropriazione illegale di beni del Venezuela all’estero, le sanzioni coercitive unilaterali, dirette a bloccare le operazioni commerciali e le fonti di finanziamento del Venezuela e la mobilitazione di forze militari per accerchiare il Venezuela per terra e per mare, sono aumentate nel corso dell’anno. Il coinvolgimento del Venezuela nella disputa mondiale tra grandi multinazionali acuisce le contraddizioni interne e intercapitaliste.
Di fronte a questo complesso scenario di assedio imperialista che annulla sovranità e l’autodeterminazione del paese, il Partito Comunista del Venezuela (PCV) insiste nella necessità di costruire la più ampia alleanza di forze democratiche, popolari, patriottiche, progressiste, antimperialiste e rivoluzionarie che trascenda il momento congiunturale e prenda corpo in una direzione collettiva e in un programma comune per sconfiggere l’aggressione imperialista attraverso la trasformazione rivoluzionaria della società venezuelana.
Per il PCV la lotta coerente contro l’assedio imperialista e in difesa della sovranità è inseparabile dalla lotta per un’uscita rivoluzionaria alla crisi capitalistica. In questo senso, il rafforzamento delle antipopolari politiche liberiste di austerità aumenta soltanto il peso della crisi capitalistica e delle sanzioni imperialiste sulle spalle dei lavoratori, mentre indeboliscono le capacità del movimento operaio e popolare di intervenire nelle urgenti questioni dello sviluppo agricolo e industriale indispensabili per contrastare le sanzioni, il bloqueo e il sabotaggio all’economia nazionale. Nel PCV siamo convinti che l’imperialismo non può essere sconfitto con le concessioni e la subordinazione agli interessi dei capitalisti.
Da questo punto di vista e con il comune riconoscimento che l’imperialismo è il nemico principale del nostro popolo, l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR) non rappresenta pertanto, una rottura con il Governo del Presidente Nicolás Maduro, né con il Grande Polo Patriottico Simon Bolivar (GPPSB) e ancor meno con la nostra linea di costruzione di un’ampia alleanza patriottica e antimperialista per far fronte all’imperialismo. Il PCV è coerente con la sua tattica unitaria di fronte alle attuali minacce imperialiste e, pertanto,continueremo a lavorare e ad insistere sulla necessità di fondare questa unità sulle basi solide degli accordi programmatici al fine di riprendere gli obiettivi della rivoluzione di liberazione nazionale con la loro natura democratica, antimperialista e antimonopolistica, così come sulla necessità di costruire spazi di dibattito e elaborazione collettiva delle politiche tra le forze democratiche, patriottiche, antimperialiste e rivoluzionarie.
Nelle risoluzioni del XVIII Plenum del CC (1° agosto 2020), ciò viene formulato così:
4. Questo adeguamento della tattica politica non è una dichiarazione di rottura del PCV con il governo guidato dal presidente Nicolás Maduro, che consideriamo il presidente legale e legittimo della Repubblica Bolivariana del Venezuela, né con il GPPSB, con cui concordiamo nel combattere le aggressioni dell’imperialismo statunitense e i suoi alleati europei, ma comporta un approfondimento della presa di distanza a livello delle politiche interne: sul piano ideologico, politico, agricolo e, pertanto, nella concezione dello sviluppo economico produttivo del paese, nel ruolo e nel carattere della partecipazione democratica e protagonista delle masse che devono esercitare la direzione e il controllo sociale sui processi di organizzazione sociale, produzione e distribuzione, così come sugli aspetti etico-morali che affliggono gravemente la società e, in particolare, la gestione del governo.
5. Il PCV non esce dal GPPSB, né abbandoniamo le nostre relazioni con le organizzazioni politiche e sociali che lo compongono. Lo consideriamo uno spazio che può servire per coordinare, quando il PSUV-Governo lo decide, azioni puntuali o di grande portata contro l’aggressione imperialista. (…) Non ci ritiriamo nemmeno dal Governo, dato che non ne facciamo parte: nessuno può andarsene da dove non è mai stato e mai appartenuto. Tanto meno ci ritiriamo dal processo rivoluzionario venezuelano e mondiale, che è uno spazio che va al di là del governo e del quale il PCV fa parte fin dalla sua fondazione il 5 marzo 1931.


Il PCV e l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR)
Come abbiamo spiegato all’inizio del documento, l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR) è uno sforzo unitario diretto a costruire un referente organico delle correnti rivoluzionarie nel campo operaio, contadino, comunardo e popolare, nel quadro dello sviluppo della nostra politica di “affrontare, demarcare, raggruppare e accumulare forze per avanzare e trionfare contro l’imperialismo e il riformismo privatizzatore”. Si tratta di un adeguamento della tattica politica del PCV nelle nuove condizioni dell’aggressione imperialista e dell’acuirsi della lotta di classe generata dall’avanzata delle politiche riformiste e privatrizzatrici.
L’Alternativa Popolare Rivoluzionaria è un progetto di costruzione unitaria che trascende la congiuntura elettorale. Il suo obiettivo immediato è avanzare nel raggruppamento di tutte le organizzazioni politiche e sociali rivoluzionarie, delle correnti comunarde e popolari, così come di importanti nuclei del chavismo di base popolare, che concordano sulla necessità di costruire nuovi rapporti di forza per difendere le conquiste sociali dei lavoratori e il popolo in generale, sconfiggere l’aggressione imperialista con l’azione combattiva del popolo lavoratore della città e della campagna e per conquistare un’uscita rivoluzionaria dalla crisi capitalistica che apra la via alla rivoluzione socialista in Venezuela.
È da questa prospettiva strategica che il Partito Comunista del Venezuela (PCV), insieme ai partiti politici e ai movimenti sociali rivoluzionari, alle correnti popolari e a nuclei del chavismo di base popolare, costituisce l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR) e parteciperà alle elezioni parlamentari del 6 dicembre 2020, presentando proprie candidature indipendenti nelle liste e circoscrizioni di tutto il territorio nazionale, come espressione vera dell’unità nella diversità popolare rivoluzionaria, costruita nella consultazione dinamica dalle e con le basi delle nostre organizzazioni.
Questa decisione politica legittima del PCV, coerente con gli interessi e gli obiettivi della classe lavoratrice della città e della campagna, nel contesto già descritto di offensiva dei capitalisti contro le loro conquiste e i loro diritti sociali, è oggetto di un attacco sproporzionato da parte di settori della direzione nazionale del PSUV e del Governo, che assumiamo come una dinamica oggettiva che è espressione di interessi di classe contrapposti. Si utilizza il complesso quadro dell’assedio imperialista al Venezuela al fine di squalificare l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR), etichettando i suoi componenti come traditori e divisionisti che fanno il gioco dei piani imperialisti e cercando di negare le contraddizioni oggettivamente esistenti, che richiedono risposte e cambiamenti nella politica governativa.
Questi attacchi hanno come obiettivo di impedire che si configuri un punto di riferimento delle forze popolari e rivoluzionarie, intorno al quale si organizzi la resistenza di classe contro il corso incoerente che sta assumendo la politica del governo. Queste intenzioni hanno trovato conferma nella recente sentenza emessa dal Tribunale Supremo di Giustizia (TSJ) nel procedimento in merito al Partito Patria per Tutti (PPT), che insieme al PCV, a Sinistra Unita (IU) e al Partito Rivoluzionario dei Lavoratori (PRT) aderisce al Fronte Popolare Antimperialista e Antifascista (FPAA), istanza promotrice dell’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR). Anche se per altre ragioni, c’è stato anche il pronunciamento sul Movimento Rivoluzionario Tupamaro (MRT), la cui corrente principale, non ammessa alle elezioni, si è incorporata all’APR.
Su questi fatti, il PCV ha espresso il suo energico ripudio dei pronunciamenti giudiziari sui partiti politici, avvertendo che tali procedure, imponendo alla direzione dei partiti la frazione contrapposta che si identifica con il Governo del PSUV, violano l’esercizio della loro democrazia interna e la sovranità dei militanti sulla propria organizzazione e rappresentano un grave pericolo per le libertà democratiche sancite dalla Costituzione della Repubblica Bolivariana del Venezuela.
Nonostante i sistematici attacchi contro l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR), questo progetto si sta consolidando e raccogliendo sempre più gente in tutto il territorio nazionale. In poco meno di due mesi l’APR è stata costituita nei 24 stati del paese e in questo momento iniziano a formarsi le Assemblee Costituenti Popolari nei municipi e nelle località di tutto il paese.
Le elezioni parlamentari saranno un importante scenario della lotta di classe e ci auguriamo che l’Alternativa Popolare Rivoluzionaria (APR), attraverso le proprie candidature operaie e popolari e le proprie proposte programmatiche per l’uscita rivoluzionaria dalla crisi capitalista, continuerà a compiere passi avanti nell’aggregazione di forze intorno a questo sforzo unitario e a promuovere un profondo dibattito politico-ideologico tra le masse lavoratrici.

L’essenza delle contraddizioni
Come è stato dimostrato in questa comunicazione, l’essenza delle contraddizioni che determinano l’adeguamento della tattica politica del PCV e la promozione dell’APR, è essenzialmente di classe. Non è una questione burocratica di “ripartizione di quote di potere” o “richiesta di posti” all’Assemblea Nazionale, al governo, o al PSUV.
Queste contraddizioni oggi si manifestano nitidamente nell’esistenza di progetti politici che esprimono interessi di classe diversi. Da una parte, le frazioni borghesi e piccolo-borghesi che, con fraseologia pseudo-socialista, si sono impadronite della direzione del governo venezuelano e attuano una politica liberista borghese (parlano anche di creare una “borghesia rivoluzionaria”), di arretramento dalle conquiste del popolo durante il processo bolivariano. La loro condotta pratica è di carattere riformista e privatizzatore. Questa è la loro concezione di soluzione alla crisi generale nella quale siamo immersi, risultato del logoro modello di capitalismo dipendente e redditiero venezuelano, aggravata dagli effetti dell’aggressione imperialista e dalla politica governativa.
Dall’altra parte, ci sono i settori del movimento popolare rivoluzionario e le sue correnti operaie, contadine e della pesca, comunardi e indigeni, donne e giovani, professionisti e intellettuali, credenti e non credenti, civili e militari patrioti, tutta la diversità delle espressioni organizzate del nostro popolo. Perciò riteniamo, come già abbiamo detto, che la lotta coerente contro l’assedio imperialista e in difesa della sovranità sia inseparabile dalla lotta per una uscita rivoluzionaria dalla crisi capitalista e siamo convinti che non è attraverso le concessioni e la subordinazione agli interessi dei capitalisti che si potrà sconfiggere l’imperialismo.
È a partire da queste premesse che, nei vari colloqui avuti con rappresentanti del governo e la direzione del PSUV (di persona con Jorge Rodriguez il 30 giugno; in videoconferenza con Jorge Arreaza il 20 agosto e con Diosdado Cabello – Aristóbulo Istúriz il 21 agosto 2020), abbiamo loro proposto: poniamo in discussione la politica, proponiamo cambiamenti profondi di politica economica e di sviluppo produttivo nazionale, lavorativo-salariale e sindacale, in risposta alle lotte e alle richieste operaie, contadine e comunarde, di inversione dei processi di privatizzazione e ricostituzione dei latifondisti nella campagna venezuelana, di lotta a fondo contro le mafie, la corruzione e l’impunità. Non è stato possibile aprire questo dialogo, costruire gli spazi per il dibattito, l’analisi autocritica e critica, l’esercizio della costruzione collettiva della politica. Non è stato possibile perché sono progetti che esprimono interessi di classe diversi, mentre il governo ha trovato possibile sedersi, dialogare e accordarsi con importanti settori dell’opposizione borghese perché gli interessi di classe coincidono e, inoltre, essa ha una forza interna che si accompagna con l’ingerenza e la pressione esterna. Questo è il punto, cari compagni e compagne.

La richiesta del PCV ai partiti fratelli
La presente comunicazione non ha come oggetto la richiesta di vostri pronunciamenti di solidarietà con il PCV né di mettere in discussione il Governo – PSUV. Il suo unico fine è tenervi informati rispetto alla Linea Politica che il Partito Comunista del Venezuela (PCV) porta avanti nel territorio della Repubblica Bolivariana del Venezuela, in quanto partiti fratelli con cui ci ritroviamo nel dibattito, coincidente o divergente, nella diversità di ciò che oggi chiamiamo Movimento Comunista Internazionale.
Riconosciamo e ringraziamo per l’immensa solidarietà con la classe operaia e il popolo lavoratore venezuelano della città e della campagna, con la sua resistenza e le sue lotte contro l’aggressione imperialista e sionista e le politiche del riformismo privatizzatore che ci colpiscono. Siamo convinti che questa solidarietà internazionalista e proletaria si manterrà, come sempre è stato tra Partiti Comunisti e Operai del mondo di fronte alle giuste cause dei nostri popoli, in lotta per conquistare la liberazione nazionale e il vero socialismo-comunismo.

Ringraziamo per l’attenzione e siamo a vostra completa disposizione per qualsiasi scambio, ulteriori informazioni e opinioni, chiarimenti che ritenete rilevanti o interviste.
Un abbraccio fraterno e solidale.

VIVA L’INTERNAZIONALISMO PROLETARIO!

Ufficio Politico del CC del Partito Comunista del Venezuela (PCV)
Oscar Figuera
Segretario Generale del CC del PCV
Carolus Wimmer
Segretario per le Relazioni Internazionali
view post Posted: 30/8/2020, 16:01 Bielorussia, Lukashenko rieletto presidente. I diritti sociali in primis - Esteri
CITAZIONE (Nikos Zachariadis @ 30/8/2020, 15:59) 
Il "Comintern (Stalinista-Hoxhaista)" pensa che sia un revisionista perché - mi pare- non condividono la tattica di Dimitrov del fronte popolare usata durante la Guerra Civile Spagnola

Mamma mia.
view post Posted: 26/7/2020, 17:31 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE (Petruzza @ 26/7/2020, 17:41) 
Leggetevi questo articolo e ditemi sin quanto l'autore ha ragione!

DOVE VA IL FRONTE DELLA GIOVENTÙ COMUNISTA? di FDP

www.sollevazione.it/2020/07/dove-v...62MTXaeG6rYabHY

Non ha ragione, come al solito.
view post Posted: 16/7/2020, 02:28 Nei Quaderni filosofici di Lenin: lo studio della Logica e la lettura del proprio tempo - Filosofia

Nei Quaderni filosofici di Lenin: lo studio della Logica e la lettura del proprio tempo


Nel corso degli anni ‘50 e ‘60 del Novecento, collocandosi lungo la scia tracciata da Galvano Della Volpe, Lucio Colletti sviluppa in Italia una requisitoria contro Hegel e segnatamente contro quegli elementi della filosofia hegeliana che, in modo più o meno volontario, erano penetrati all’interno del marxismo, inficiandone, a suo avviso, la consistenza scientifica. Tre i vizi speculativi tramandati, secondo lo studioso italiano, dalla Scienza della logica e dalla Fenomenologia dello Spirito: 1) l’assorbimento del quadro storico nel quadro ontologico, vale a dire il complessivo disinteresse verso la «molteplicità del reale», portata a vanificarsi entro «una genericità o un’idea che non rimanda né si riferisce a questo o a quell’aspetto del reale, ma si presenta al contrario essa stessa come la sola e intera realtà»1; 2) lo «scambio», per usare la terminologia aristotelica, «del genere con la specie»2; 3) la tendenza a cedere reiteratamente alle lusinghe delle «ipostasi», categorie incapaci «di servire come ipotesi e criteri per l’esperienza» in quanto non desunte da scrupolose osservazioni dell’Oggetto, ma apparse come «un’introduzione surrettizia di contenuti immediati, non controllati»3.
Sarebbe alquanto facile replicare a Colletti come simili forme di dogmatismo, che costituiscono alcune delle configurazioni che assume il concetto di ideologia in Marx4, siano in ultima analisi anche alcune delle configurazioni che assume il concetto di intelletto astratto in Hegel – ripartito a sua volta tra l’astrattezza del particolare e l’astrattezza dell’universale. Ma altri sono gli aspetti che qui preme evidenziare: partendo dalle convinzioni di cui sopra, l’allievo di Della Volpe rimprovera a Lenin la tendenza ad allinearsi «nella sostanza» sempre più «alla logica hegeliana»5. Si tratterebbe di un allineamento a concezioni teologiche, coscienzialiste e mistiche, quali erano quelle che, a suo avviso, la filosofia classica tedesca promuoveva, inclini a contaminare la coscienza del dirigente russo verso forme di speculazione deteriore. È un punto che viene ribadito con fermezza: la «logica» e la «dialettica hegeliana» avevano posto tra gli occhi di Lenin e il mondo un’insidiosa «lente deformante»6.
Come giudicare queste accuse? Lo studio della filosofia di Hegel concorre realmente a indebolire la comprensione che Lenin maturerà del mondo? Per rispondere a queste domande occorre tornare indietro fino al 1914, allo scoppio della Prima guerra mondiale. Guerra che vedrà un altissimo numero di vite falcidiate, in massima parte appartenenti agli strati sociali meno abbienti. In quel mentre, nei parlamenti inglese, francese, austriaco e tedesco, i deputati socialisti che pur si ergevano a portavoci delle masse popolari, votavano favorevolmente ai crediti di guerra. È una vicenda che suscita l’indignazione di Rosa Luxemburg: «l’immortale appello del Manifesto comunista» di Marx ed Engels (“proletari di tutti i paesi unitevi”) «subisce» ora, «un completamento essenziale...secondo la correzione apportatavi da Kautsky...: “Proletari di tutti i paesi unitevi in pace e sgozzatevi in guerra!”»7.
In un tale contesto, mentre operai e contadini seguitavano a perdere la vita sui campi di battaglia e gli esponenti più illustri della Seconda Internazionale reiteravano, anche sul piano teorico, la scelta di legittimare il bagno di sangue, Lenin, al tempo in esilio, si rifugia in una biblioteca svizzera a studiare la Scienza della logica di Hegel. Tale atto non deve tuttavia essere recepito come una forma di indifferenza, da parte del futuro dirigente bolscevico, per le sorti del mondo e del proprio paese, e tanto meno come il desiderio di soddisfare un interesse di semplice erudizione. Le ragioni, a ben vedere, erano altre: Lenin non si limita a voler condannare la guerra, ne intende comprendere l’essenza e con essa i centri nodali degli errori teorici commessi dai socialdemocratici. Se infatti il marxismo della Seconda Internazionale assemblava, all’interno del proprio orizzonte filosofico, elementi di materialismo volgare, evoluzionismo, positivismo e neokantismo, nelle elaborazioni del filosofo di Stoccarda Lenin poteva individuare l’argine più resistente da opporre all’espansione di queste correnti. Tra le pagine di Hegel egli cerca quindi i principi fondamentali di un marxismo autentico da contrapporre a quello empirista e positivista della Seconda Internazionale, e nelle critiche che l’autore della Fenomenologia rivolge a Kant, intravede argomentazioni più ricche e preziose, rispetto a quelle precedentemente rinvenute in Diderot, per combattere le idee di Mach e degli empiriocriticisti. I Quaderni filosofici riportano fra le loro pagine un brano della Logica:
«Il pensiero vale qui come un’attività puramente soggettiva e formale, e l’oggettività, di contro al pensiero, come un che di stabile e di esistente per sé. Però questo dualismo non è il vero, ed è un procedimento insensato prendere le determinazioni della soggettività e dell’oggettività così semplicemente e non porsi la questione della loro origine”...In effetti, la soggettività è soltanto uno stadio si sviluppo dall’essere e dall’essenza, e, poi, questa soggettività, “in quanto dialettica, spezza il suo limite” e, “attraverso il sillogismo, si apre all’oggettività»8.
Sotto questo passo, il seguente commento di Lenin: «molto profondo e intelligente! Le leggi della logica sono il rispecchiamento dell’oggettivo nella coscienza soggettiva dell’uomo»9.
Lungi da quanto sosteneva Colletti, la lettura della Logica, possiamo osservare, si rivela per il dirigente russo una fonte inesauribile di acquisizioni teoriche.

Salti e interruzioni di gradualità
In altri studi abbiamo avuto modo di valutare l’importanza che svolge in Lenin il concetto di compenetrazione degli opposti10, corrispettivo filosofico di quanto con riferimenti di carattere più contingente andrà esplicandosi ne La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky del 1918 e ne La NEP e i compiti dei centri di educazione politica del 1921. Ma la principale categoria che desterà l’attenzione del futuro statista sarà quella di salto o interruzione di gradualità11. Si tratta di un concetto che, com’è stato dimostrato, rinvia alla frattura temporale originatasi con lo scoppio della Rivoluzione francese e che, a ben vedere, era già apparso nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito del 1807:
«Come nella creatura, dopo un lungo e tranquillo nutrimento, il primo respiro interrompe, con un salto qualitativo, quella gradualità del processo di accrescimento unicamente quantitativo, e il bambino è nato; così lo Spirito che va formandosi matura lentamente e silenziosamente verso la nuova figura...questo graduale sgretolamento, che finora non alterava la fisionomia della totalità, viene infine interrotto dal sorgere del sole che, come un lampo improvviso, fa apparire, in un colpo solo, la struttura del nuovo mondo»12.
La categoria di Salto qualitativo, se svolge un ruolo importante in Hegel, aveva tutto fuorché centralità in quelle trame narrative tessute dagli esponenti della Seconda Internazionale per illustrare le proprie teorie della trasformazione.
In polemica con Rosa Luxemburg, ad esempio, Karl Kautsky insisteva particolarmente sul fatto che, per dare vita a un nuovo assetto storico, occorreva non già annientare, ma lentamente logorare13 il sistema in vigore. Così, ne I presupposti del socialismo del 1899, Bernstein presenterà la fase di transizione dal vecchio al nuovo sistema sociale come un lungo processo che si sarebbe dovuto svolgere gradualmente e soprattutto attraverso l’intermediazione storica della democrazia liberale. L’opera in questione si scaglia quindi con violenza contro quelle che vengono definite le «insidie del metodo dialettico hegeliano», colpevoli ai suoi occhi di aver condotto Marx alla teoria della «lotta di classe» e della «rivoluzione»14.
Per diradare la nebbia ideologica che tali convinzioni avevano contribuito a diffondere, la categoria di Salto qualitativo appare a Lenin particolarmente proficua. Essa gli consente di riformulare una filosofia della storia entro la quale le rotture rivoluzionarie potevano vantare un proprio legittimo statuto ontologico. La Logica gli insegna invero che
«la gradualità senza salti non spiega niente»15. Il suddetto Salto, tuttavia, suscettibile di produrre la rottura storica osservata, non viene inteso dal dirigente russo come un espediente estemporaneo, ma come risultato di un processo dialettico che si consuma per intero entro l’orizzonte della necessità. L’opera in questione gli aveva d’altronde fatto comprendere – a proposito del rapporto tra Freiheit e Notwendikeit – che nel fiume del divenire «la necessità...diventa libertà non perché svanisca, ma soltanto perché la sua identità ancora interna si manifesta»16. Vale a dire che la libertà non comincia nel punto in cui la catena della necessità viene a spezzarsi, ma in quello in cui questa comincia ad apparire, a vedere se stessa, a transitare, direbbe Hegel, dalla condizione dell’An sich a quella del Für sich. Si tratta, a ben vedere, di una prospettiva ereditata anche da Marx: a suo avviso infatti l’autentico soggetto rivoluzionario non si incarna nel ceto lavoratore in quanto tale, ma in quel ceto lavoratore che ha acquisito coscienza di classe, che ha dunque dimostrato la capacità di compiere il passaggio dall’An sich sein al Für sich sein. È un aspetto, quello della dimensione coscienziale, sul quale insisterà particolarmente anche Gramsci nei Quaderni. Significative, a tal proposito, alcune sue considerazioni intorno al fattore ultimo che ha innescato l’89 francese:
«Nel suo compendio di storia della Rivoluzione Francese, il Mathiez, opponendosi alla storia volgare tradizionale, afferma che verso il 1789 la situazione economica era piuttosto buona immediatamente, per cui non si può dire che la rottura dell’equilibrio esistente sia dovuta a una crisi di immiserimento...la rottura dell’equilibrio non avvenne per causa di un immiserimento del gruppo sociale che aveva interesse a rompere l’equilibrio e di fatto lo ruppe, ma avvenne per un conflitto di carattere superiore, per "prestigio" di gruppo, in un certo senso, per esasperazione del sentimento di indipendenza del proprio gruppo ecc.».
Da quanto osservato possiamo ben comprendere come per Lenin i concetti di Salto o Interruzione di gradualità costituissero un’importante acquisizione teorica che, se da un lato rompeva con l’evoluzionismo riformista caro ai teorici della Seconda Internazionale, dall’altro si manteneva anche a debita distanza da quelle forme di volontarismo e soggettivismo che contraddistinguevano, in ultima analisi, il nucleo speculativo della tradizione anarchica.

Proporzionalità di cause ed effetti
Nei Quaderni filosofici Lenin riporta un passo – appartenente alla sezione interna de La dottrina dell’Essenza (La realtà) – nel quale Hegel fornisce una delucidazione teorica intorno al rapporto di causa ed effetto:
«in quanto si ammetta il rapporto di causa ed effetto...l’effetto non può essere più grande della causa...quegli arabeschi storici, in cui da un esile stelo si vede plasmarsi una gran figura, sono quindi una trattazione ingegnosa, ma sommamente superficiale».
Le riflessioni del filosofo tedesco sono qui esplicitamente rivolte agli eventi storici e Lenin riassume il brano pressoché alla lettera: «nella storia si è soliti addurre aneddoti come piccole “cause” di grandi eventi, che nel fatto sono soltanto occasioni, soltanto äussere Erregung»17.
Hegel, che «accostò con passione Tucidide»18, ne tradusse «una ragguardevole parte»19 e, come emerge dalla Lezioni sulla filosofia della storia, lesse ampiamente Polibio, doveva aver ben presente la distinzione che questi avevano tracciato tra causa occasionale e causa profonda della guerra. Distinzione che trova una propria corrispondenza semantica, e persino una certa affinità linguistica, in quella tracciata nella Logica tra occasioni (ovvero sollecitazioni esteriori) e grandi cause tracciata nella Logica. È una lezione da cui Lenin trarrà enorme giovamento allorché si troverà ad interrogarsi sui fattori scatenanti della Prima guerra mondiale.
Allo scoppio del conflitto si moltiplicano le narrazioni a sostegno dell’intervento. In Italia, Cesare Battisti, deputato socialista, presenta lo scontro come una «quarta guerra d’indipendenza» inclinandone «a sinistra la forza di coinvolgimento nazional-popolare»20. Parallelamente le potenze dell’Intesa, fatta eccezione per la Russia, lo dipingono via via come uno scontro per la salvezza dei «valori democratico-liberali»21, presi di mira dal dispotismo degli Imperi centrali, che, dal canto loro, imputavano al nemico di veicolare l’instabilità governativa e «la decadenza dei costumi sessuali»22. La corruzione dell’ethos e del pathos era un tema da cui muoveva, sul fronte opposto, anche Giovanni Gentile, per il quale la guerra costituiva «la soluzione di una profonda crisi spirituale» nonché la grande opportunità di «cementare una volta nel sangue [la] Nazione» producendo «un solo pensiero, un solo sentire»23. La battaglia si ridefiniva in tal senso come uno scontro tra forze morali e forze immorali. Non troppo diversa la posizione dei Futuristi, per i quali la guerra, «sola igiene del mondo» veniva chiamata a svecchiare culture e società stantie. Pullulavano inoltre le ricostruzioni che tendevano ad illustrare la rivalità bellica come un conflitto tra razze. E non mancava chi si riservava di attribuire le responsabilità dello scontro planetario, ora alla voracità austriaca ora al nazionalismo serbo, in ogni caso alla volontà di un esiguo numero di dirigenti nazionali24.
Nel complesso, un tale spazio occupava all’interno del dibattito pubblico la lunga serie di cause fittizie e cause occasionali, che gran parte dell’intellighenzia europea si era convinta di discutere intorno agli aspetti e alle ragioni di una “guerra lampo”. La durata del conflitto, tuttavia, se smentì le previsioni temporali, non mutò la sostanza degli orientamenti.
Sensibilmente diversa la prospettiva di Lenin. Questi comprese fin da subito, dalla dimensione che il conflitto aveva assunto, come esso dovesse nascondere cause ben più profonde e remote di quelle prevalentemente diffuse. Si trattava, a ben vedere, di una guerra che affondava le radici nel «quadro complessivo dell’economia capitalistica mondiale, nelle sue relazioni internazionali ai primordi del secolo XX». E questa causa profonda, ben diversa rispetto a quelle presentate dalla narrazione liberale, getta nuova luce sul conflitto stesso, suscettibile di apparire ora sotto tutt’altra veste: non, allora, uno scontro tra democrazia e dispotismo, non una lotta tra consuetudini e trasgressioni, non un conflitto tra moralità e immoralità, ma «una guerra imperialista (cioè di usurpazione, di rapina, di brigantaggio) da ambo le parti...una guerra per la spartizione del mondo, per una suddivisione e nuova ripartizione delle colonie, delle sfere di influenza del capitale finanziario»25.
Intento primario dell’opera in questione era pertanto quello di smascherare «le contraddizioni» profonde dell’imperialismo, a partire dall’analisi della sua «sostanza economica...senza la quale non» sarebbe stato «possibile comprendere né la guerra...né la situazione politica»26 corrente. Dacché, in sostanza, gli approcci idealistici dominavano il discorso pubblico, il lavoro di Lenin intendeva non soltanto rintracciare le grandi cause, le cause profonde che si celavano dietro il conflitto, ma anche smascherare l’insieme di cause fittizie e cause occasionali, vale a dire l’insieme di piccole cause la cui propaganda ostacolava una corretta stima degli avvenimenti. Nei Quaderni filosofici il dirigente russo trascrive ancora un altro passo della Logica hegeliana: «nel movimento, nell’impulso e simili la contraddizione rimane nascosta alla rappresentazione dietro la semplicità di queste determinazioni». A lato il seguente commento: «occultata dalla semplicità»27. Quella della “semplicità che occulta” costituisce senz’altro una dinamica ricorrente nei processi storici, ma con lo scoppio della Prima guerra mondiale, il proliferare delle cause semplici o delle piccole cause, l’aveva riportata prepotentemente alla ribalta.

Logica dialettica e intelletto astratto
Ancora nei Quaderni, Lenin trascrive un passo della Logica in cui Hegel illustra il cosiddetto principio di azione reciproca: «L’interazione si presenta, anzitutto, come una mutua causalità di sostanze presupposte e condizionantesi; ciascuna è dinanzi all’altra, una sostanza insieme attiva e passiva»28. É un principio «acuto e giusto», ad avviso del dirigente russo, quello secondo cui «ogni cosa concreta, ogni qualcosa concreto sta in rapporti diversi e spesso contraddittori con tutto il rimanente»29. In esso viene ritratto uno degli aspetti che distingue la logica dialettica dalla logica dell’intelletto30. Se la prima pensa in termini di inestricabilità, la seconda è eclettismo, ovvero ragiona in termini di giustapposizione.
Su questa differenza prospettica sembra fondarsi la polemica intorno alla questione dei sindacati del ‘20-21 contro Trotsky e Bucharin. Questi i termini della questione: il comandante dell’Armata Rossa intendeva intensificare la militarizzazione della manodopera procedendo ad una dissoluzione dei sindacati nello Stato, stimando quest’ultimo quale reale incarnazione degli interessi degli operai. Lenin replicherà chiarendo che lo Stato russo, in quel dato momento, non costituiva affatto uno Stato operaio, bensì una struttura fondata su un delicato equilibrio in cui venivano tenuti insieme interessi degli operai e interessi di altri strati sociali (contadini e piccola borghesia in primis). Tanto più che ci si stava apprestando all’interruzione del comunismo di guerra e all’introduzione della Nep. Il compito di vigilanza che in quella fase veniva richiesto all’apparato statale, rendeva necessario lasciare espletare le funzioni pedagogiche (e a ben vedere anche quelle protettive) ad organizzazioni differenti. Queste ultime erano state individuate da Lenin nei sindacati, i quali costituivano, spiega, «una scuola sotto tutti gli aspetti: una scuola di unione, una scuola di solidarietà, una scuola di difesa dei propri interessi, una scuola di gestione economica, una scuola di amministrazione»31.
Due, secondo il dirigente russo, i principali «errori teorici»32 di Trotsky:
1) egli incorre nella «più disperata confusione d’idee», in una «“confusione ideologica” veramente illimitata»33 giacché «tutte le sue tesi sono concepite dal punto di vista del “principio generale”»34, e supportate «da discorsi intellettualistici o da ragionamenti astratti o da ciò che talvolta sembra “teoria”, ma in realtà è errore, errata valutazione delle particolarità del periodo di transizione»35. Sì, il ragionamento di Trotsky procede per «tesi generali, astratte, “vuote di contenuto”, teoricamente errate e formulate in modo intellettualistico, dimenticando quanto vi è di più concreto e pratico»36. Per scongiurare i vizi di una simile impostazione, afferma Lenin, bisogna al contrario proprio «studiare l’esperienza pratica» in quanto «la pratica è cento volte più importante di qualsiasi teoria», che nel suo astrattismo rischia di aumentare la «fretta», il desiderio immediato di sorpassare «ogni limite» creando «formule teoricamente errate»37. Oltre al sillogismo del fare, concetto in cui Lenin si imbatte nella Scienza della logica, riecheggia qui un principio appreso dall’Introduzione alle Lezioni sulla storia della filosofia: «se il vero è astratto allora non è vero. La sana ragione umana aspira al concreto […] La filosofia è massimamente ostile all’astratto e riconduce al concreto»38. È tale insegnamento che verrà impiegato contro Trotsky e Bucharin: «la logica dialettica», rammenta nel corso della polemica sui sindacati, «insegna che non esiste verità astratta, la verità è sempre concreta»39.
2) Oltre a non riuscire a far propria la logica dialettica per quanto essa impiega come piano di analisi il pratico e il concreto, Trotsky non riesce a servirsene neppure per quanto concerne il modo di pensare la differenza. Tutto il suo ragionamento costituisce una «messa in oblio del marxismo» per mezzo di «una definizione teoricamente errata, eclettica, del rapporto tra politica ed economia»40. Se già «la sostituzione dell’eclettismo al rapporto dialettico tra politica ed economia» rappresenta una caratteristica del pensiero di Bucharin, così «tutto l’opuscolo di Trotski, Funzione e compiti dei sindacati, del 25 dicembre, è permeato da capo a fondo dello stesso modo di pensare»41. Egli affronta in modo eclettico un numero considerevole di questioni, non riuscendo a cogliere una lunga serie di rapporti. Tra questi: a) il «rapporto tra politica ed economia»; b) «il rapporto tra “scuola” e “apparato”»42 a proposito dei sindacati; c) il rapporto tra produzione e consumo43.
Verso il comandante dell’Armata Rossa, Lenin impiegherà epiteti roventi e toni segnatamente accesi: «il servizievole Trotski» scriveva già nel 1914, «è più pericoloso di un nemico...egli ha interesse a speculare sul manifestarsi dei dissensi...non ha mai avuto opinioni ferme su nessuna questione importante del marxismo»44. E nella polemica sui sindacati dopo aver rubricato le tesi di Trotsky come «politicamente dannose»45, invita il partito a temprarsi «nella lotta contro una nuova malattia (nuova nel senso che dopo la Rivoluzione d’Ottobre l’avevamo dimenticata): il frazionismo»46.
Le due critiche osservate sopra – la prima di astrattismo o intellettualismo, la seconda di meccanicismo o eclettismo – costituiscono a ben vedere le medesime che, per ragioni diverse, verranno rivolte proprio a Trotsky anche da Antonio Gramsci. In uno scritto del 1925 l’intellettuale sardo, parlando dell’ex Commissario del popolo agli affari esteri, rammenta come «la lunga militanza tra i menscevichi [avesse] lasciato in lui tracce profonde» offuscandogli la vista sulla complessità degli scenari storici che erano venuti ad aprirsi. Sì, scrive Gramsci, «la vecchia ideologia menscevica ha impedito a Trotskij di applicare» alla nuova situazione politica «i criteri del leninismo»47. E nei Quaderni del carcere «Bronstein» viene dapprima accusato di essere «il teorico politico dell’attacco frontale in un periodo in cui esso è solo causa di disfatta»48 e successivamente di dar seguito a un semplice «temperamento giacobino senza un contenuto politico adeguato... [cioè non] secondo i nuovi rapporti storici [ma] secondo un’etichetta letteraria e intellettualistica»49.
Ma accanto a questa accusa di astrattismo e intellettualismo, interviene anche quella di meccanicismo ed eclettismo. Così scriveva nella seconda lettera a Togliatti del 1926:
«Le opposizioni rappresentano in Russia tutti i vecchi pregiudizi del corporativismo di classe e del sindacalismo che pesano sulla tradizione del proletariato occidentale e ne ritardano lo sviluppo ideologico e politico»50.
Qualche anno più tardi, nei Quaderni del carcere, allorché infuriava il dibattito sul “socialismo in un paese solo” e il “socialismo in tutto il mondo”, Trotsky viene accusato di non aver compreso il nesso nazionale/internazionale e la sua teoria della rivoluzione permanente deprecata come «una forma di "napoleonismo" anacronistico e antinaturale»51. L’errore proviene da un modo di pensare meccanicista che Gramsci inscrive pienamente nell’alveo della II Internazionale. Così egli commenta i giudizi formulati dal dirigente russo su Antonio Labriola: «È stupefacente che nelle sue Memorie Leone Bronstein [Trotskij ndc] parli di "dilettantismo" del Labriola...Non si capisce questo giudizio...se non come un riflesso inconsapevole della pedanteria pseudoscientifica del gruppo intellettuale tedesco che ebbe tanta influenza in Russia»52.
Ben si comprendono allora le ragioni per cui in un articolo pubblicato su l’Unità il 27 luglio del 1926, dal titolo Provvedimenti del CC del PC dell’URSS, l’intellettuale sardo invita i compagni a non far mancare il proprio appoggio al governo sovietico, sollecitando «tutta la Internazionale» a «stringersi solidamente intorno al Comitato centrale del Partito comunista della URSS per approvarne l’energia, il rigore e lo spirito di decisione nel colpire implacabilmente» quelle che definisce le «correnti disgregatrici» (l’Opposizione Unificata messa in piedi da Kamenev, Zinov’ev e Trotsky), le quali, attentando «all’unità del partito», giungevano a mettere seriamente a repentaglio «non soltanto l’avvenire della rivoluzione operaia russa, ma anche una delle più importanti condizioni per il successo della rivoluzione proletaria negli altri paesi»53.
La battaglia condotta da Gramsci e Lenin contro Trotsky e Bucharin assume dunque la fisionomia di una lotta condotta contro l’intelletto astratto (nelle sue due varianti di genericità ed eclettismo) e contro le sue deleterie ripercussioni sul piano politico.
Vediamo, in sintesi, come la lettura approfondita di Hegel, la comprensione della logica dialettica, la tendenza a tener conto dell’Intero, dei suoi molteplici aspetti e delle sue relazioni concrete senza cadere in balia di posizioni di principio, in modi di ragionare unilaterali e astratti, tutto ciò (unito all’esperienza pratica) abbia consentito a Lenin e Gramsci di sviluppare non soltanto una coscienza filosofica ma anche una coscienza politica di gran lunga superiore a quella di Trotsky e Bucharin. Quanto a Lucio Colletti, non è difficile constatare oggi come sia distante rispetto al pensiero del filosofo di Treviri l’esito politico a cui l’ha condotto il marxismo antihegeliano della fase giovanile.

Note
1 COLLETTI 1976, p. 154.
2 Ivi, p. 152.
3 Ivi, p. 154.
4 Cfr. ALESSANDRONI 2014, il cap. su Marx, Engels e l’ideologia come falsa coscienza.
5 COLLETTI 1976, p. 167.
6 Ibidem.
7 LUXEMBURG 1970, p. 449.
8 LENIN 1973, pp. 447-48.ù
9 Ivi, p. 448. Poco prima (cfr. p. 444) Lenin aveva peraltro riportato «due aforismi» nei quali veniva sollevato il «problema della critica del kantismo contemporaneo, del machismo, ecc.» polemizzando contro il procedimento meccanicista di Plekhanov e di quei «marxisti» che «hanno criticato (all’inizio del secolo XX) i kantiani e gli humiani più alla maniera di Feuerbach (e di Büchner) che non alla maniera di Hegel».
10 Cfr. ALESSANDRONI 2014a.
11 Cfr. LENIN 1973, pp. 396-400.
12 HEGEL 2001, p. 61.
13 Cfr. SALVADORI 1976.
14 BERNSTEIN 1974, p. 265.
15 LENIN 1973, p. 398.
16 Ivi, p. 430.
17 Ivi, p. 428.
18 ROSENKRANZ 1974, p. 79.
19 Ivi, p. 33.
20 LUCCINI–SANTAGATA 2015, p. 22.
21 Ivi, p. 56.
22 Ivi, p. 57.
23 GENTILE 1934, p. 8.
24 Cfr. ALBERTINI 2010a, 2010b, 2011; SMITH 2014.
25 LENIN 1968.
26 Ivi, p. 570.
27 LENIN 1973, p. 412.
28 Ivi, p. 430.
29 Ivi, p. 409.
30 Cfr. Ivi, pp. 460-61.
31 LENIN 1975, p. 349.
32 Ivi, p. 297.
33 Ivi, p. 340.
34 Ivi, p. 299.
35 Ivi, p. 302.
36 Ivi, p. 339.
37 Ivi, p. 309.
38 LENIN 1973, p. 512.
39 LENIN 1975, p. 347.
40 Ivi, p. 339.
41 Ivi, p. 345.
42 Cfr. Ivi, p. 349-50.
43 Cfr. Ivi, p. 356.
44 LENIN 1968, pp. 533-34.
45 Ivi, p. 316.
46 Ivi, p. 357.
47 GRAMSCI 1974, p. 308.
48 Gramsci 2001, Q 6, 138.
49 Ivi, Q 19, 24.
50 GRAMSCI 1973, p. 155.
51 GRAMSCI 2001, Q 14, 68.
52 Ivi, Q 11, 70.
53 GRAMSCI 1974, p. 401.
view post Posted: 2/7/2020, 20:19 Perché siamo passati da Gramsci al PD? - Storia
CITAZIONE (Kollontaj @ 2/7/2020, 20:48) 
mi pare anche molto fan di Rizzo

Rizzo è una calamita per disperati. Li attira tutti lui.
view post Posted: 30/6/2020, 13:08 Partito Comunista - Partiti e movimenti comunisti

Conquistare l'operaio che vota Lega o diventare leghisti


Da alcuni mesi è in corso un dibattito in seno al Partito Comunista che ha coinvolto anche il FGC portando alla sospensione del patto d’azione tra le due organizzazioni. La richiesta di un congresso e la possibilità di svolgere questo dibattito in quella sede sono definitivamente sfumate con la decisione di non rinnovare il tesseramento in blocco a centinaia di iscritti del PC in diverse parti d’Italia, impedendone conseguentemente la partecipazione al congresso. In questi mesi molte delle vicende sono state trattate –spesso da ambo i lati – con semplificazioni. Non essendoci più prospettiva alcuna del dibattito interno richiesto, e ritengo che una parte delle questioni che hanno animato il dibattito siano elementi importanti nella discussione strategica sulla ricostruzione comunista e non costituiscano patrimonio esclusivo degli iscritti o ex iscritti al PC. Sono altrettanto e sempre convinto della necessità che la ricostruzione comunista in Italia si conduca tra lotte reali e serrato dibattito ideologico. Per questa ragione pubblicherò sull’Ordine Nuovo le principali questioni che hanno animato il dibattito in questi mesi. Forse ridare spazio alla politica contribuirà a dare a quel dibattito il livello politico dovuto, sottraendolo al botta e risposta su aspetti secondari per certi versi deleteri. La scelta di partire da questo tema è dettata più che dalla sua individuazione come elemento principale rispetto agli altri, dalla centralità che stanno assumendo nella discussione e nelle reciproche critiche. Non è dunque un ordine di priorità ma di contingenza.

La maggioranza dei lavoratori vota a destra.

La questione può essere riassunta così utilizzando le stesse parole utilizzate da Rizzo in un ufficio politico, che ebbi premura di segnare tra i miei appunti: “La maggioranza dei lavoratori oggi vota a destra, perché odia la sinistra. Per riconquistare i lavoratori dobbiamo attaccare la sinistra, degli immigrati dei diritti civili, distanziandoci chiaramente su questi temi. Solo prendendo quella critica che oggi dice Salvini possiamo riconquistare i lavoratori ”. La tesi per come venne impostata fu criticata nell’ufficio politico, ma come spesso accadeva la critica e la richiesta di spostare il campo dell’attacco non ebbe seguito. Anzi pochi giorni dopo uscì la famigerata intervista a Il Giornale[1], poi ripresa da altri, a tutt’oggi priva di smentita.
La tesi è sbagliata, sia nelle premesse che nelle conclusioni. Partiamo dalle premesse. Dire che la maggioranza dei lavoratori vota a destra è scientificamente errato, perché finisce per assolutizzare una tendenza presente in alcuni settori di classe, assumendola come dato generalizzato da cui partire, di fronte ad una realtà più complessa e diversa.
In primo luogo oggi esiste in Italia una particolare fascia di lavoratori a cui è impedito legalmente il diritto al voto. Nel 2018 un indagine condotta dal Ministero del Lavoro[2] ha evidenziato come in Italia risultino impiegati 2.422.864 stranieri regolari, che costituiscono all’incirca il 10,5% della manodopera complessiva. Più del 70% di questi è impiegato come operaio. Dal conteggio sono ovviamente esclusi i lavoratori irregolari che non figurano nelle statistiche ufficiali. Solo questo dato ci dice che oltre il 10% dei lavoratori non vota perché è impossibilitato per legge a votare, non essendo consentito in Italia il voto dei lavoratori stranieri, salvo per i cittadini comunitari alle europee e alle comunali. Si tornerà su questo aspetto nella parte dedicata ai “diritti civili”, basti qui considerare che una parte dei lavoratori non entra neppure nell’elenco degli aventi diritto al voto.
In secondo luogo quest’analisi tralascia l’impatto sempre maggiore dell’astensione. Alle ultime elezioni europee ha votato appena il 56.1% degli aventi diritto, nelle scorse politiche il 73%. In entrambi i casi con una riduzione media del 2% su base di tornata elettorale. Sebbene esistano analisi non perfettamente coincidenti, i flussi elettorali siano qualcosa di molto complesso e manovrato ad uso e consumo di vari interessi, è unanimemente riconosciuto che il “primo partito” tra i lavoratori e le classi popolari è proprio l’astensione. Indagare sulle ragioni di questo dato sarebbe il primo punto di partenza di un’analisi di una forza comunista rispetto alle elezioni, e forse proprio a questa porzione si dovrebbe guardare, possibilmente in ottica non meramente elettorale ma anche e soprattutto di potenziale organizzazione. Nel calderone dell’astensione c’è di tutto, ma – secondo le statistiche – circa il 35% tra chi si definisce di sinistra si astiene[3]. Forse un primo indizio su dove andare a guardare in prima battuta.
Solo a questo punto è possibile parlare della tendenza che vede oggettivamente una parte numericamente importante dei lavoratori votare a destra. Rispetto alle europee 2019 – che sono state il risultato più alto della Lega di Salvini – circa il 50% dei lavoratori che hanno partecipato al voto ha espresso il suo consenso a Lega e FDI. Una percentuale importante, non trascurabile, ma che considerando i dati elencati costituisce circa il 25-27% della popolazione lavoratrice complessiva, dato ben lontano dalla maggioranza teorizzata in premessa. Una percentuale inoltre, in larga parte compatibile con una radicalizzazione a destra/riarticolazione interna dell’area di centrodestra che fin dall’inizio degli anni ’90 con la discesa in campo di Berlusconi ha intercettato consensi anche tra i lavoratori. Non si nega qui la presenza di settori un tempo di sinistra o addirittura elettori comunisti che oggi esprimono simpatia o consenso per la destra. Ciò che si nega è farne una regola generale, analisi molto in voga nelle redazioni televisive, ma assai riduttiva e poco rappresentativa nella realtà.
Quindi semplicemente affermare che la maggioranza dei lavoratori vota a destra è assumere una circostanza errata come base su cui impostare la propria strategia.
Sia chiaro: strappare settori delle classi popolari all’influenza nefasta della destra è un compito importante dei comunisti, che nessuno ha mai negato. Tuttavia, in una condizione di particolare arretratezza e disorganizzazione del movimento operaio nel suo complesso, identificare come obiettivo principale conquistare “l’operaio che vota Lega” è una precisa scelta di campo nella costruzione di un partito di consenso rispetto a un partito di classe. Se è vero che una parte importante dei lavoratori vota Lega, quella parte è in ogni caso la più retriva, indisponibile ad un’ottica di lotta effettiva sui posti di lavoro, più incline a un’ottica di conciliazione sociale e nazionale. In poche parole significa puntare alla retroguardia della classe operaia, in una condizione in cui non esiste una compiuta avanguardia organizzata. Significa porsi la questione sotto forma di crescita di consenso del Partito e non di suo radicamento effettivo nelle lotte, a partire dalla conquista delle posizioni più avanzate e della loro organizzazione. Anzi, proprio le modalità errate di condurre la lotta ideologica nei confronti delle organizzazioni di sinistra e dell’arretratezza sindacale, insieme con l’assunzione di categorie funzionali ad intercettare il consenso del famoso “operaio che vota Lega” hanno finito per restringere il campo di operazione effettivo del Partito, alienando la simpatia naturale di settori di avanguardia dei lavoratori, respinti proprio da queste tesi.
In ultimo, non sfuggirà, che anche a volersi porre sul semplice terreno elettoralistico e di consenso – che come detto andrebbe superato – la scelta di rivolgersi all’elettorato della destra in una fase di avanzamento della destra, riconoscibilità di suoi leader e organizzazioni di riferimento, non comporta alcun risultato apprezzabile neppure in termini di consenso. D’altronde come amava dire qualcuno “tra l’originale e la fotocopia, si sceglie sempre l’originale” (Cit.), o più prosaicamente, se un partito al 30% dice le stesse di uno che oscilla tra lo 0,3 e lo 0,9% è facile intuire chi sarà preferito nell’urna. Il tutto, di fronte ad una percepita assenza di una forza politica “a sinistra”, ossia dell’assenza di una soggettività politica in grado di intercettare come in altri paesi europei una parte del malcontento popolare in questa direzione, assenza che avrebbe consentito ai comunisti, con un’altra impostazione, di potersi direttamente intestare questo compito senza subire la presenza di elementi intermedi, come avvenuto altrove nel continente.

Sinistra opportunista o “sinistra fucsia”?

Ma una volta impostata la questione in ottica di consenso e non di radicamento, escluso un piano reale di inserimento e lotta nelle contraddizioni materiali, le conclusioni del ragionamento non possono che porsi su un piano errato e pericoloso, per cui il recupero del consenso dei lavoratori avviene a suon di comunicati sul terreno della critica di precisi aspetti della sinistra, con ciò consentendo di rientrare in connessione con i sentimenti dei lavoratori.
L’idea è sostanzialmente che i lavoratori odino la sinistra perché percepita come la sinistra dei “diritti civili”, degli immigrati, del buonismo, dei radical chic, della globalizzazione, della distanza dalla condizione reale delle classi popolari del Paese. Come sempre anche qui esiste un fondo di verità che intreccia un piano reale – quello dell’abbandono di una prospettiva di classe da parte della sinistra radicale e del passaggio a pieno nel campo avversario della socialdemocrazia, dell’inversione del radicamento di classe delle organizzazioni della sinistra, che interessa ai comunisti – con la visione ideologica, qui intesa nel senso deleterio e propriamente marxista del termine, come falsa coscienza, che riporta alle categorie moralistiche e nazionalistiche della destra. Il fatto che in larghi settori degli strati popolari questa seconda visione sia dominante, è un dato storico che ha a che fare con l’arretratezza e l’assenza di radicamento delle organizzazioni di classe, in assenza delle quali ha prevalso la narrazione utile alle classi dominanti alimentata da centrodestra e centrosinistra di spostare il terreno dello scontro politico dall’ottica del conflitto capitale/lavoro in cui centrodestra e centrosinistra sono dalla stessa parte della barricata.
Un conto è criticare la sinistra per l’abbandono dell’ottica del conflitto capitale/lavoro, per l’abbandono della prospettiva del rovesciamento dei rapporti sociali esistenti. Ben altro è criticarla – da destra – sul terreno dei “diritti civili”, cioè assumendo l’impostazione moralistica e culturale come determinante, in una critica volutamente ambigua perché tramite ambigue formulazioni si dovrebbe realizzare la riconnessione con i settori di classe che sono preda delle posizioni reazionarie.
Emblema di tutto ciò la scelta terminologica costantemente utilizzata da Rizzo – nonostante per mesi l’Ufficio Politico abbia chiesto la sostituzione di questa espressione – di “sinistra fucsia”. Basterebbe farsi un giro sulle pagine dei partiti fratelli per cercare a livello internazionale qualcosa di simile, ma si rimarrà delusi trovando categorie proprie dei comunisti come “sinistra opportunista” “post-comunista” ecc… Al contrario non si impiegherà molto tempo a rinvenirne l’utilizzo in tutti quei settori di destra che predicano una presunta trasversalità antisistema o in quanti – come Fusaro e Vox – dichiarano di avere “idee di sinistra e valori di destra” oppure sul primatonazionale. Parlare di “sinistra fucsia” “sinistra liberal” non è altro che un modo per deviare il piano della critica alle forze opportuniste e socialdemocratiche – critica che per i comunisti deve essere quella dell’accettazione politica del capitalismo come orizzonte – su un piano moralistico. Anche un bambino si rende conto che criticare la sinistra su quell’ottica significa cadere sul terreno della destra. Al posto di disvelare gli elementi strutturali che si nascondono dietro la disputa ideologica tra destra e sinistra, si finisce per porsi su questo piano riuscendo a concepire come elementi di distacco dalla sinistra opportunista solo le categorie proprie della destra.
La proiezione politica immediata è stata alimentare ad uso e consumo di questa differenziazione posticcia, una meccanica distinzione tra “diritti sociali” e “diritti civili” che finisce per non cogliere la complessità della vicenda e sottomettere all’esigenza di una semplificazione mediatica, fenomeni più complessi. A ben vedere uno degli aspetti centrali della critica marxista alla società borghese risiede nella contraddizione tra estensione universale dei diritti in senso formale, e la negazione concreta del carattere universale di quei diritti nella società divisa in classi. In questa ottica la società socialista-comunista eliminando la divisione in classi elimina questa distinzione tra formale e reale. Non è qui il caso di andare oltre su questa analisi, ma ciò che è chiaro è che, anche assumendo questa differenza tra “diritti civili” e “diritti sociali” come categorie, esistono relazioni dialettiche tra le due, che hanno per giunta un ancoraggio evidente proprio in dinamiche di classe.

Una coppia omosessuale che vede riconosciuta l’unione civile, equiparata sotto il profilo fiscale e assistenzialista al matrimonio potrà godere di diritti che oggi vengono assicurati normalmente a coppie di lavoratori eterosessuali, come una pensione di reversibilità, diritto a permessi familiari, legge 104, ecc.., che oggi l’ordinamento riconosce in casi di matrimonio. Difficile sostenere che questa misura riguardi interessi borghesi. Il grande stilista, il produttore cinematografico, l’attore di successo non hanno di certo bisogno di una pensione di reversibilità o di una giustificazione per assentarsi dal posto di lavoro in caso di malattia del proprio partner. Il magazziniere, il commesso del supermercato, il maestro di scuola, sì. Per quale ragione dunque porre le questioni in aperta contraddizione, quando nei fatti il principale beneficio di questi diritti ricade proprio sugli strati sociali più bassi? Certo nei limiti di ciò che il diritto borghese e le conquiste dei lavoratori in una società borghese possono ottenere, non eludendo il piano della critica complessiva dei comunisti a questo modello di concessioni parziali interne alla società capitalistica. Ma questo vale per tutto.

I comunisti e l’immigrazione.

Ciò a maggior ragione sul lato dell’immigrazione, la cui questione è stata artificiosamente inserita nell’ambito dei “diritti civili” quando tocca molteplici aspetti di classe, e dimostra – più di ogni altra – che esiste una connessione e non una separazione meccanica tra queste categorie.
Recentemente sono stato attaccato per aver sostenuto una tesi che rimarco: un conto è criticare anche aspramente il provvedimento del Governo firmato dalla Bellanova per la sua insufficienza e, per come formulato, un sostegno di fatto ai capitalisti del settore agricolo. Ben altro conto è dire in assoluto che la regolarizzazione dei lavoratori immigrati nei campi non è una battaglia dei comunisti perché attiene a diritti di carattere formale, “civili” per l’appunto. Questa tesi sostiene che i diritti sociali da conquistare sarebbero orari di lavoro massimi, parità salariale ecc.. Sono certamente d’accordo sugli obiettivi. Ma se un lavoratore non esiste perché irregolare, non potrà mai firmare un contratto. In che modo questi diritti gli potranno essere riconosciuti nei fatti? Di fronte a questa evidenza, si schianta contro il macigno della realtà l’assolutezza della distinzione tra diritti civili e sociali, così come macchiettisticamente presentata. Non ci vuole molto a comprendere che la regolarizzazione non assicura di per sé i diritti sociali, che questi dovranno essere conquistati con le lotte, ma che senza la regolarizzazione non può esistere lo strumento materiale con cui quei diritti conquistati si sanciscono in una società borghese: banalmente un contratto. Non ci vuole molto a capire che se il padrone dispone di un’arma di ricatto in più perché sei irregolare e può minacciare di farti espellere dal Paese, il capitale potrà spremere di più i lavoratori immigrati, peggiorando la condizione di vita in prima battuta dei lavoratori immigrati e in secondo luogo dei lavoratori tutti.
La seconda obiezione che mi è stata rivolta può essere così sintetizzata: “ma questi diritti sono pur sempre riconosciuti in una società borghese, quindi non sono rivoluzionari”. La prima risposta è che intanto, al momento, non sono riconosciuti e che quindi in ogni caso la società borghese per interessi dei capitalisti li nega. In secondo luogo, a voler ragionare di diritti posti su un piano di battaglia non rivoluzionaria si dovrebbe travolgere anche le stesse rivendicazioni di “diritti sociali” come la parità salariale e i limiti orari di lavoro. Anche queste sono a ben vedere conquiste intermedie e non rivoluzionarie visto che il fine dei comunisti è l’abbattimento del lavoro salariato non una sua regolamentazione. Nessuno – neppure Bordiga[4] – si è mai sognato di sostenere che i comunisti debbano disinteressarsi al piano delle conquiste intermedie, perché la differenza tra porsi su un piano riformistico e rivoluzionario sta nel diverso significato e ruolo che si riconosce alle conquiste intermedie. Questo discorso vale per tutto: non limitarsi al piano di riconoscimento di diritti formali, ma lavorare per il riconoscimento di diritti reali, significa per lavorare ad una piena e reale estensione non anteporre un rifiuto.
Quando si parla ad esempio di diritto di voto agli immigrati, si liquida frettolosamente la questione come ininfluente, o addirittura parte di quell’insieme di rivendicazioni radical chic. Forse potrà esserlo nell’ottica di quei settori della sinistra opportunista e borghese che inquadrano l’intera questione dell’immigrazione al di fuori di categorie di classe, ma è singolare che non esista una riflessione dei comunisti sul fatto che il 10.5% dei lavoratori – pur lavorando in Italia, producendo ricchezza per i capitalisti italiani – in quanto cittadini stranieri, non hanno diritto al voto. Al di fuori di ogni esaltazione fuori tempo del suffragio universale, e ben consapevole del limite storico del voto in una società borghese, si dovrebbe ragionare sul fatto che un pezzo importante della classe operaia è escluso giuridicamente dal diritto di voto e quali ne siano le conseguenze. Si tratta di lavoratori impiegati per lo più in settori ad elevato tasso di sfruttamento, con mansioni non qualificate. Spesso molti lavoratori immigrati apportano un contributo essenziale e di primo piano alle lotte, in settori come la logistica, il bracciantato. Quindi ad essere esclusi sono proprio settori più combattivi e tutt’altro che secondari nelle lotte. Si tratta di problemi nuovi, ma di fronte al crescente impiego di lavoratori immigrati nelle catene del lavoro capitalistico, la loro automatica espulsione dalla vita civile significa nei fatti espulsione di pezzi di classe operaia, mutamento della base elettorale rispetto alla base sociale del Paese. Solo nel caso in cui si disconosca completamente il piano elettorale allora si può decidere di ignorare la questione. Ma anche dove si riconosca quel minimo valore collaterale della dinamica elettorale nel piano d’azione complessivo del Partito, la questione non può essere ignorata e quantomeno denunciata per il suo carattere classista, non semplicisticamente bollata come buonista.
E qui giungiamo al centro della critica sulla vicenda dell’immigrazione, gettata interamente in una distorta interpretazione dell’ “esercito industriale di riserva” piegata ad uso e consumo della costruzione di una espressione utile a creare quella connessione empatica con la visione populista e reazionaria dell’immigrato che toglie il lavoro. Con un escamotage linguistico si è così mascherata la propria scelta di campo, schierandosi mediaticamente, ma evitando invece qualsiasi forma di lavoro effettivo nella classe anche attraverso l’organizzazione materiale di settori dei lavoratori immigrati. Si è nascosto poi, presentando l’idea di un lavoratore immigrato disposto a tutto, chino a lavorare senza fiatare e per questo più utile ai capitalisti, che molti lavoratori immigrati sono nei fatti all’avanguardia nelle lotte in interi settori economici.
Se nella realtà non si ha notizia del rinvenimento del famigerato “giornalista siriano che dorme negli scantinati di La7 e lavora per 600 euro al mese” che tanto faceva sciogliere sentimenti di composta empatia il conduttore di turno, la realtà ci parla di picchetti ai magazzini, scioperi nei campi, braccianti bruciati, in settori dove lo sfruttamento è portato al massimo livello. La realtà è fatta di migliaia di euro di multe per i decreti sicurezza, espulsioni, allontanamenti. Di tutto ciò neppure l’ombra nelle dichiarazioni. Al posto di ricomporre su un terreno di classe la spaccatura prodotta dalla retorica della destra su base nazionale e etnica, a tutto vantaggio dei capitalisti, nei fatti il PC si è reso corresponsabile di questa divisione con l’aggravante di aver ammantato il tutto di una retorica fintamente marxista, più sofisticata, ma altrettanto pericolosa perché rivolta a settori potenzialmente cruciali.
Nel periodo di maggiore intensità della crisi migratoria, lungi dal condurre una seria campagna politica di controinformazione sui dati[5], combattendo la vulgata dell’invasione di massa, Rizzo ha dato anche qui sfoggio di tutta l’ambiguità e pericolosità della sua concezione. L’equilibrio tentato in alcuni comunicati di Partito – anche a firma di Rizzo – perché redatti collettivamente, si infrangeva inevitabilmente nelle dichiarazioni individuali dove non era possibile alcun intervento preventivo o di mediazione. Dire che la questione immigrazione non deve ridursi a porti chiusi o porti aperti disinteressandosi del resto, è giusto a patto che si precisi che in ogni caso non si lasciano morire o stazionare per settimane le persone in mare, e che quindi alla fine i porti devono comunque essere aperti. L’alternativa secca non risolve il problema, ma ciò non nega che i comunisti non posso restare indifferenti di fronte alla condizione di migliaia di persone.
Il comunicato del KKE rilasciato negli stessi giorni[6] lanciava messaggi come “Sappiamo bene cosa avete passato. Avete lasciato le vostre case, le vostre famiglie, la vostra vita e i vostri sogni. Siamo qui! Siamo dalla vostra parte per aiutarvi!” o ancora “I rifugiati-immigrati sono persone sradicate, la maggior parte delle quali vuole lasciare la Grecia! Non sono invasori! Lavoratori, donne, uomini e giovani del popolo del nostro paese: isolate il razzismo e la xenofobia!”. Parole che qui sarebbero state bollate come tipiche espressioni della “sinistra fucsia”.
Non si comprende infatti per quale ragione il piano di denuncia dell’imperialismo e delle responsabilità capitalistiche non debba estere esteso alla conseguenza diretta di solidarizzare con le sue vittime primarie, preferendo restare nell’ambiguità di formulazioni che ben possono essere intese all’orecchio dell’elettore di destra come una conferma della giustezza di quelle posizioni. La critica da fare alla sinistra borghese non è sull’apertura dei porti – bollandola erroneamente come inutile – ma sul piano dell’aperto sostegno all’imperialismo, sulla mancata rottura delle criminali regole europee in materia di accoglienza, sull’assenza di diritti reali garantiti agli immigrati. Una critica che chiede di più, non di meno, che evidenzia il limite storico dei democratici e dei socialdemocratici, non che chiede di tornare indietro persino rispetto a loro. E che di certo non si compone di affermazioni come quelle rilasciate negli appuntamenti video settimanali, in cui addirittura si arriva a criticare le ragioni di chi scappa!

Conclusioni

Quest’ottica, potrà non essere condivisa da una parte dei lavoratori e degli strati popolari che subiscono i risultati della propaganda nazionalista e reazionaria, in un momento storico particolarmente arretrato. Ma rinunciando alla critica di questa impostazione e soprattutto al lavoro materiale nelle contraddizioni per unire le rivendicazioni e non alimentarne la divisione orizzontale, il risultato è confermare dall’ottica dei comunisti le tesi della destra. Un piano di questo tipo può essere realizzato concretamente solo se viene costruito e non declamato, perché si attua sul piano reale del radicamento e dell’organizzazione, innestando in questo contesto una battaglia politica-ideologica per far avanzare le proprie concezioni. Perché qui si riconosce l’impostazione di Partito e la differenza che i comunisti dovrebbero avere dalle forze borghesi: se si concepisce il Partito come elemento che intercetta flussi di consenso al pari dei partiti borghesi allora bisogna dire ciò che gli elettori vogliono sentirsi dire. Ma questo va bene per una forza borghese il cui compito in definitiva è difendere lo status quo, accomodarsi al senso comune che in ultima istanza riflette le esigenze e gli interessi delle classi dominanti. Questo piano diviene insostenibile per una forza marxista-leninista il cui compito è rovesciare i rapporti sociali esistenti, e per far questo, combattere aspramente ogni forma di falsa coscienza anche a costo di rinunciare a facili consensi immediati.
Se si analizzano le parole e le posizioni espresse si coglierà una differenza che a prima vista potrà passare inosservata, ma che in realtà è dirimente. Noi siamo dell’idea che il razzismo, le discriminazioni sul piano del genere o dell’orientamento sessuale, siano elementi che vadano combattuti anche in seno alla classe operaia e agli strati popolari, elevando il grado di coscienza dei settori popolari più arretrati. Non per certificare semplicemente un’uguaglianza formale, né tantomeno per sostituire categorie di classe con altre come fatto dalla sinistra opportunista, ma perché teorie e idee che dividono sulla base di razza, genere, orientamento sessuale ecc.. sono un ostacolo alla comprensione dei meccanismi ultimi dello sfruttamento capitalistico e si convertono nei fatti in un potente alleato delle classi dominanti. Come affermato anche in queste settimane dalla riflessione di partiti fratelli, queste questioni sono problemi aperti nelle classi popolari, perché i capitalisti non si dividono tra loro sulla base di questi elementi, i proletari sì[7]. Combattere quindi queste teorie è importante proprio in ottica di unire la classe, impedendo divisioni artificiose.
Può apparire simile, ma è diametralmente opposta l’ottica di chi finisce per considerare che l’esistenza di questi fattori sia di per sé elemento di divisione della classe operaia. In tal caso a ben vedere ad essere combattute, non sono le idee e teorie che separano sulla base della razza, nazionalità, sessualità ecc… ma l’esistenza stessa di queste differenze, vista come fattore materiale di divisione, magari sulla base di presunte volontà di “poteri forti” internazionali di alimentarle per dividere i popoli al loro interno, per proporre piani di omologazione culturale e imposizione di modelli o in ottica geopolitica. In questa concezione l’immigrazione non seguirebbe a ragioni strutturali connesse con l’imperialismo ma piani di destabilizzazione nazionale organizzati da élite mondialiste, l’omosessualità sarebbe parte di un disegno globale per mutare le tradizioni e omologare la cultura mondiale, e così via. È chiaro che con tali impostazioni i comunisti non possono avere nulla a che vedere, dovendole anzi considerare a tutti gli effetti ideologie da combattere, parte dell’arsenale di cui dispone il campo avversario. Tuttavia è proprio a questi settori che si finisce per rivolgersi – basta vedere commenti e condivisioni dei post sui social – quando si utilizzano formulazioni volutamente ambigue o si crea una contrapposizione tra queste questioni e la lotta di classe, come se fossero tra di loro in aperta contraddizione e non semplicemente operanti su piani distinti e, in alcuni casi, persino connessi tra loro.
Alla fine del percorso intrapreso da Rizzo, il risultato che si ottiene non è quello di elevare il grado di consapevolezza storica e coscienza di classe, strappando settori degli strati popolari tanto al riformismo quanto alle teorie nazionaliste e reazionarie, ma di abbassare l’avanguardia organizzata nel Partito Comunista alla rincorsa di un senso comune reazionario, neutralizzando i potenziali elementi di soluzione. Il tutto nella ricerca di un consenso e non del radicamento nei settori di lotta, adottando la logica propria dei partiti elettoralisti: andare dove tira il vento.
Ma anche i risultati effettivi danno il senso delle scelte. Alla prova dei fatti, nessun “operaio che vota Lega” ha chiesto l’iscrizione al Partito in questi mesi. La stragrande maggioranza delle richieste di iscrizione sono venute in questi anni dalla diaspora del movimento comunista e della sinistra radicale politica e/o sindacale e, negli ultimi mesi, sempre più da settori ambigui. Ad essere attratti sul versante opposto non sono lavoratori ma singoli personaggi politicizzati a destra, quindi adesioni intellettuali non basate sul ripensamento delle posizioni politiche in ottica di classe, ma nel riconoscimento delle proprie idee e categorie come apertamente riproposte o riproponibili in seno al PC di Rizzo, parallelamente ai continui apprezzamenti ricevuti da settori politici e mediatici tradizionalmente di destra, che hanno ripetutamente usato tutto ciò come conferma della correttezza delle proprie tesi.
Seguiranno riflessioni sugli altri punti oggetto del dibattito, a partire dalla natura del Partito, al modo di intendere le alleanze sociali, alle questioni internazionali e alle modalità interne di funzionamento e discussione.

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[1] https://www.ilgiornale.it/news/politica/le...ra-1757978.html
[2]https://www.lavoro.gov.it/notizie/Pagine/Ottavo-Rapporto-annuale-Gli-stranieri-nel-mercato-del-lavoro-in-Italia.aspx
[3]https://www.ipsos.com/sites/default/files/ct/news/documents/2019-05/elezioni_europee_2019_-_analisi_post-voto_ipsos.pdf
[4] Cito testualmente dalle Tesi di Roma (1922) stilate da Bordiga e Terracini: “Il Partito Comunista non sosterrà la tesi superficiale del rifiuto di tali concessioni perché solo la finale e totale conquista rivoluzionaria meriti i sacrifizi del proletariato, in quanto non avrebbe nessun senso il proclamare questo, con l’effetto che il proletariato passerebbe senz’altro al seguito dei democratici e dei socialdemocratici restando ad essi infeudato…”
[5] Sarebbe bastato dire ad esempio che la questione degli sbarchi, su cui si polarizzava l’attenzione incide in termini assolutamente trascurabili sul numero generale di immigrati e denunciare lo sciacallaggio della destra sulla condizione di migliaia di persone lasciate in mare in balìa della propaganda politica e del vergognoso rimpallo tra stati dell’Unione Europea con pesanti responsabilità di tutti;
[6] Cito la Grecia perché insieme all’Italia è stato il Paese più interessato da sbarchi in una dinamica molto simile a quella dell’Italia. Il confronto diretto è dunque particolarmente rilevante date le condizioni simili http://it.kke.gr/it/articles/Immediata-lib...e-destinazione/
[7] http://www.nuevo-rumbo.es/2020/06/11/inter...nto-sin-salida/
view post Posted: 20/6/2020, 22:15 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti

Avanti con il Patto d’azione per la costruzione di un Fronte unico di classe anti-capitalista


Riportiamo il comunicato comune uscito dall’assemblea virtuale di martedì 16 giugno, che ha visto un centinaio di partecipanti da tutta Italia e da varie realtà politiche, sindacali e di movimento discutere i prossimi passi del Patto d’Azione sulla scia della manifestazione nazionale del 6 giugno.

Ancora un’assemblea [martedì 16 giugno] con centinaia di partecipanti e oltre 20 interventi di varie realtà, organizzazioni sindacali e politiche, movimenti sociali.
La giornata di mobilitazione nazionale, dislocata sulle varie città, del 6 Giugno è ampiamente riuscita, ed e’ stata una prima verifica sul terreno concreto del patto d’azione per la costruzione di un fronte unico di classe anti-capitalista, non solo per i numeri più che confortanti (ottimi a Milano e Bologna, buoni a Piacenza, Genova, Napoli, Roma, Torino e Mestre, e comunque è positivo che ci siano state 18 piazze che hanno coinvolto un agglomerato militante anche in molte città minori), ma anche per la “qualità” dei partecipanti, non limitata a una sommatoria di gruppi che hanno preso parte alle assemblee telematiche, ma che in alcuni casi ha coinvolto pezzi di lavoratori, studenti e movimenti sociali.
L’assemblea, prima di rilanciare altre iniziative a livello nazionale, ritiene necessario:
1) Innanzitutto “strutturare” il Patto d’azione, sia sui territori che sul piano nazionale. Sui territori bisogna fare sì che le realtà aderenti al Patto si incontrino in assemblee cittadine o di zona, valutando le condizioni per agire in maniera congiunta anche a livello locale al di là di ogni artificio organizzativistico o petizione di principio.
Quello che sta succedendo a Milano è un esempio molto efficace: l’assemblea di sabato scorso, scaturita dalla manifestazione del 6 giugno e dalla lotta alla TNT di Peschiera Borromeo, ha già mostrato come il Patto d’azione può rappresentare un utile moltiplicatore di forze e di visibilità delle battaglie sindacali che assumono una caratteristica più generale e politica. Lo sciopero ed il picchetto del 18 sta dimostrando l’efficacia di questo percorso coinvolgendo oltre che centinaia di operai del SI Cobas anche molti solidali e militanti attorno alla dura battaglia dei lavoratori e lavoratrici della Tnt contro i licenziamenti.
La costruzione di nuclei locali, di momenti di confronto e di iniziativa su base territoriale può essere utile a selezionare gli elementi più interessanti e a verificare se effettivamente sussistono le condizioni per un livello di convergenza più ampio.
2) Entro la prima settimana di luglio l’assemblea ha deciso di convocare una riunione nazionale a Bologna con delegati dalle varie città per una prima riunione nazionale non in videoconferenza. Questa decisione nasce dal fatto che – pur essendo stato fondamentale lo strumento telematico per costruire e mantenere relazioni – questo non può sostituire il confronto, la discussione diretta e la necessità di un coordinamento del Patto d’azione che sia strutturato.
Inoltre l’assemblea chiarisce che il percorso è aperto ancora a tutti e tutte coloro vogliano aderire attorno alle posizioni ed i punti programmatici condivisi nelle assemblee. Non è intenzione dell’assemblea perimetrare il Patto d’azione su se stesso: la funzione di questo percorso è quello di un patto per la costruzione di un fronte unico di classe anti-capitalista nel paese.
Il percorso che vogliamo costruire è rivolto in primo luogo ai lavoratori, ai proletari, ai disoccupati, ai movimenti e alle soggettività anti-capitaliste, disponibili a collegare lotte in una prospettiva più generale.
In quest’ottica i 12 PUNTI di programma politico, inseriti nella mozione della seconda assemblea, rappresentano uno spartiacque e una carta d’identità più che sufficiente. Una carta d’identità che col dibattito può essere senz’altro estesa, approfondita e ampliata, ma mantenendo quel carattere inclusivo e di apertura che ne ha finora garantito il successo in termini di partecipazione e coinvolgimento di forze vive evitando di ricadere in una dinamica da intergruppi.
3) L’inclusività del Patto d’azione è una scelta convinta, così come l’adesione al Patto d’Azione, deve essere fatta in maniera convinta. Chi sostiene il percorso si impegnerà e lavorerà attivamente alle iniziative di lotta come alla propaganda del percorso utilizzando i propri canali di comunicazione. Su quest’ultimo punto, l’assemblea ha condiviso la necessità di riflettere per la costruzione di canali unitari di comunicazione per dar vita alle prossime iniziative.
La crisi capitalistica tende ad acuirsi e spingerà sul terreno della lotta una moltitudine di proletari; avremo ben altri compiti con cui fare i conti più che quello di formare l’ennesimo coordinamento sommatoria di gruppi che discute di petizioni di principio. Il percorso del Patto d’azione rappresenta in quest’ottica una “palestra” per verificare se siamo in grado, insieme, di essere all’altezza dello scontro in atto e di esercitare il ruolo politico e organizzativo per un movimento che vada al di là dei nostri attuali confini numerici.
4) Sostegno e lavoro coordinato per far crescere l’Assemblea Nazionale dei Delegati e Delegate, questo è un elemento centrale della discussione: un appuntamento che spetterà alle organizzazioni sindacali, ai lavoratori e ai delegati definire.
Entro 10 giorni è stato comunicato che verrà indicata la data per l’iniziativa e si procederà a far circolare un appello per le adesioni nazionali.
5) Nell’esprimere la totale vicinanza e solidarietà con il movimento di massa che ha sconvolto di Stati Uniti d’ America e che sta vedendo una grande mobilitazione internazionale in solidarietà al proletariato americano, l’assemblea, inoltre, converge sull’ipotesi che nelle prime settimane di Luglio si indica una giornata di mobilitazione contro la vergognosa “sanatoria” del Ministro Bellanova del Governo Conte, tenendo dentro l’elemento di lotta “contro il nemico di casa nostra” e la solidarietà internazionale e internazionalista ai milioni di proletari in lotta negli USA.
L’assemblea nazionale si riconvocherà tra due settimane dando la possibilità di svolgere i passaggi e la costruzione dei nodi locali.

Edited by Sandor_Krasna - 21/6/2020, 18:29
view post Posted: 13/6/2020, 20:38 Pmli new highlights - Canalisation d'égout
"In questi giorni, in cui le nostre attività consuete sono fortemente limitate dal coprifuoco imposto, giunge alta e potente la voce del nostro amato Partito tramite l'Editoriale del compagno Segretario generale Giovanni Scuderi, un intervento che reputo completo, preciso e corretto". (Lettera di Andrea Bartoli)
view post Posted: 11/6/2020, 21:44 Porcate degli USA - Esteri

Sull'omicidio di George Floyd negli USA


I partiti comunisti e operai esprimono la solidarietà con la classe operaia multinazionale degli Stati Uniti e con il popolo nordamericano che è sceso per strada mobilitandosi contro il razzismo, la repressione, la disoccupazione e altri gravi problemi causati dal sistema di sfruttamento capitalistico.

L’omicidio di George Floyd non fa eccezione, è la regola della politica razzista, contro afroamericani, latini e migranti di altre nazionalità. Allo stesso modo, il sistema di sfruttamento affronta la classe lavoratrice nel suo insieme, come dimostrato dalla pandemia di Covid-19, che attualmente ha più di due milioni di contagiati e quasi 113.000 morti. Mentre molte vite potevano essere salvate, un sistema sanitario privatizzato è risultato nefasto perché il suo criterio è il profitto capitalista.

Povertà, disoccupazione, attacco ai diritti dei lavoratori, politica anti-immigrazione, brutalità della polizia, attacchi imperialisti contro altri popoli, decomposizione sociale, droghe, criminalità, dimostrano che il capitalismo è barbarie e che il socialismo è necessario e attuale.

I partiti comunisti e operai esprimono:

– La condanna dell’omicidio razzista di George Floyd e dei manifestanti, vittime della politica di repressione dell’amministrazione Trump.

– La solidarietà con i lavoratori e il popolo degli Stati Uniti, che in tutte le città dimostra contro il razzismo e la repressione.

– La solidarietà con i lavoratori e le persone degli Stati Uniti colpiti da COVID-19.

– La condanna dell’Amministrazione Trump, attualmente responsabile della Casa Bianca, che implementa campagne razziste, anti-migranti, xenofobe e anticomuniste. Condannano il coprifuoco e il pattugliamento della Guardia Nazionale, l’arresto e l’omicidio di dimostranti.

Da che parte stai? I partiti comunisti e operai insieme ai lavoratori e al popolo nordamericano, contro il capitalismo e la barbarie.

Proletari di tutti i paesi, unitevi!

Partito Comunista d’Austria
Partito Comunista d’Australia
Partito Comunista Brasiliano
Partito Comunista Boliviano
Partido Vanguardia Popular (Partito Comunista del Costa Rica)
Partito comunista iracheno
Partito Comunista del Canada
Partito Comunista degli Stati Uniti
Partito Comunista del Messico
Partito socialista popolare del Messico
Partito popolare socialista- raggruppamento politico nazionale
Partito popolare palestinese
Comunisti della Catalogna
Partito Comunista dei Lavoratori di Spagna
Partito Comunista di Grecia
Partito Comunista Paraguay
Partito Comunista Portoghese
Partito Comunista Peruviano
Partito Comunista, Italia
Partito Comunista di El Salvador
Forza della rivoluzione. Repubblica Dominicana
view post Posted: 8/6/2020, 22:21 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti

Alcune riflessioni sul fronte unico di classe


La giornata del 6 giugno ha visto scendere in piazza per la prima volta l’insieme delle forze sindacali e politiche che hanno condiviso in queste settimane la necessità di costruzione di un fronte unico di classe e di lotta. Al di là del risultato delle manifestazioni – senza dubbio positivo in questa fase, con numeri maggiori delle mobilitazioni messe in campo separatamente da qualunque spezzone politico e sindacale in questo periodo – la costruzione di un fronte unico di classe è un percorso articolato e complesso, al quale non basta dare un supporto materiale/organizzativo, ma serve anche garantire un supporto teorico che contribuisca a delineare la strada da percorrere. Definire il fronte unico è dunque non solo importante ma anche necessario, per chiarirne la natura, gli scopi, respingere accuse infondate che sono rivolte e allo stesso tempo, farne avanzare concretamente la prospettiva delineando obiettivi chiari che evitino la riproposizione di errori del passato, dando a questa prospettiva un salto di qualità effettivo rispetto ai compiti che abbiamo davanti nella nostra fase storica.

1) Un fronte unico di classe per organizzare la lotta di classe, contro l’idea dell’uscita dalla crisi con un rinnovato patto sociale tra capitalisti e lavoratori.

Lo scopo del fronte unico è tanto semplice quanto complesso: unire i lavoratori attorno ai segmenti più avanzati di classe, insieme con disoccupati e studenti nella prospettiva della costruzione di un fronte di classe e di lotta che consenta di affrontare l’attacco padronale. Abbiamo detto spesso che il covid è stato fattore naturale involontario di proiezione su una scala globale e più elevata di una crisi capitalistica che acuirà i processi di concentrazione e centralizzazione capitalistica, l’attacco ai lavoratori, la precarizzazione del lavoro, la riduzione salariale. Il salvataggio dei grandi gruppi capitalistici operato dai governi e dall’UE – la classica socializzazione delle perdite per consentire la continuazione della privatizzazione dei profitti – sarà spalmata sotto forma di debito pubblico sui lavoratori e sulle classi popolari che ripagheranno a suon di tagli alle spese sociali, incremento della tassazione effettiva, riduzione di sussidi e diritti, i debiti dei padroni. Un enorme scaricabarile sulla pelle delle classi popolari che vede protagonisti i gruppi padronali, le loro associazioni di categoria, i governi e l’Unione Europea come terreno di contesa tra gruppi nazionali contrapposti nel tentativo di strappare qualcosa in più a livello nazionale, ma assolutamente uniti e concordi nella visione generale di far pagare ai lavoratori la crisi. In queste settimane abbiamo avuto solo l’assaggio di quello che accadrà: Arcelor Mittal dichiara oltre 3000 licenziamenti, la FCA rinvia la ripartenza a Pomigliano, licenziamenti e lotta alla TNT ecc…
Di fronte a un attacco del genere e a una crisi epocale, la classe operaia italiana si presenta disarticolata e priva di coscienza, nonostante, proprio il periodo di lockdown, abbia dimostrato la sua assoluta centralità: tutto si è fermato tranne le fabbriche, la logistica e la distribuzione evidenziando davvero chi produce la ricchezza mandando avanti la società.
Le sue organizzazioni di riferimento, tanto a livello sindacale quanto a livello politico sono frammentate, poco presenti nei luoghi di lavoro e nei territori, assenti nel dibattito politico generale come punto di riferimento. Se guardiamo al quadro sindacale la situazione è fortemente arretrata.
Oggi la maggioranza assoluta dei lavoratori non è iscritta ad alcun sindacato. Questo risultato è il prodotto di diversi fattori che attengono da un lato alle caratteristiche della struttura produttiva del Paese, come ad esempio alla forte presenza di piccole e medie imprese e della deregolamentazione e frammentazione del lavoro con la progressiva trasformazione delle forme contrattuali. Dall’altro lato è il prodotto delle responsabilità politiche delle organizzazioni sindacali più rappresentative, delle sconfitte storiche – politiche e sindacali – del movimento operaio, dell’incapacità dell’esplicita compromissione delle dirigenze confederali con le politiche padronali.
La maggioranza dei lavoratori sindacalizzati (maggioranza quindi assolutamente relativa) sono nei sindacati confederali, che vivono tuttavia una crisi profonda e irreversibile: diminuzione costante di tesseramento, prevalenza dei pensionati sui lavoratori, torsione del sistema delle iscrizioni in forme di assistenzialismo più che reale radicamento sui luoghi di lavoro ecc… Questa perdita di iscritti non è assorbita – se non in parte assolutamente minima – dalle organizzazioni sindacali “di base” e conflittuali. Il percorso è esattamente speculare a quello avvenuto in termini di consenso politico tra i partiti della sinistra radicale e quella socialdemocratica e di governo: a una crisi dell’una non segue una radicalizzazione e presa di coscienza, ma un attacco complessivo all’idea di organizzazione dei lavoratori.
Le organizzazioni confederali si sono poste anche di fronte a questa situazione di crisi, dal lato della concertazione, dell’unità nazionale, dell’idea – per usare le parole di Landini – che “dalla crisi si esce con un rinnovato patto sociale tra aziende e lavoratori”. Questa scelta è la riprova di un tradimento strategico di queste organizzazioni di fronte agli interessi antagonistici dei lavoratori.
Costruire un fronte unico di classe significa organizzare le lotte sul piano del rifiuto della prospettiva strategica della concertazione e dell’unità interclassista: dalla crisi non si esce con un rinnovato patto sociale, ma con rinnovati rapporti sociali. Non con capitalisti e lavoratori uniti, ma attraverso uno scontro esplicito tra interessi di classe opposti.
Questa è la pietra fondante: respingere ipotesi riformiste, non lasciare che le classi popolari siano schiacciate nelle alternative borghesi, opporre al fronte unico dei capitalisti il fronte unico dei lavoratori e delle classi popolari. Per questo a nostro parere il fronte unico deve assumere la denominazione di fronte unico di classe, in quanto punta ad unire la classe operaia e i lavoratori tutti insieme con i disoccupati, gli studenti degli strati popolari. Un passaggio di costituzione unitaria di classe, che rompe l’isolamento, la frammentazione, la polverizzazione di classe oggi presente, a partire da un’azione comune delle sue organizzazioni sindacali e politiche di riferimento. Questo è l’obiettivo che deve animare l’azione comune di tutti, ed è allo stesso tempo la premessa concreta di ogni avanzamento politico della lotta di classe in Italia.

2) Analizzare concretamente la situazione e fuggire da costruzioni artificiose e prettamente teoriche

La costruzione di un fronte unico che lavori per realizzare un’unità reale dei settori più avanzati dei lavoratori richiede di poggiare su un’analisi concreta della realtà concreta, e fuggire da costruzioni artificiose e prive di riscontri effettivi.
Il tentativo di costruzione del FUL (Fronte Unito dei Lavoratori) lanciato anni fa dal Partito Comunista è fallito sia per una scarsa propensione organizzativa al lavoro per la sua costruzione, sia perché presupponeva di partire da una condizione irrealizzabile: costruire un fronte di carattere politico-sindacale con un referente politico unico, che tuttavia non esprimeva alcuna posizione di rilievo in ambito sindacale. Il PC pretese di agire da soggetto politico unificante con auto-riconoscimento univoco, senza che la propria aspirazione corrispondesse a rapporti di forza reali. Una costruzione che poteva esistere solo sul lato teorico, ma che non aveva alcuna possibilità di realizzazione pratica, semplicemente perché frutto di un passaggio politico errato, viziato a monte da autorappresentazione, presunzione di poter applicare modelli internazionali – in realtà neanche ben riportati, e semplificati fino a snaturali – non replicabili meccanicamente e senza un adattamento, data la differenza di condizioni e rapporti di forza, mancanza di presenza reale effettiva e di legame organico con la classe, o quantomeno con i suoi settori più avanzati.
Un’avanguardia è tale se opera ed è riconosciuta come tale dalle masse – o almeno dai loro settori più avanzati, vista l’arretratezza della fase – non semplicemente se si autoproclama tale. I processi reali devono poggiare sulla base reale delle condizioni per come si presentano concretamente: negare il punto di partenza presupponendo situazioni più avanzate di quelle reali, su cui basare la propria tattica, significa impedire da principio la possibilità di elevare il piano materiale ad un livello superiore.
In Italia la frammentazione sindacale si incrocia spesso con quella politica, e ancor più spesso ne è diretta conseguenza. Ogni settore sindacale – sindacato o frazione interna che sia – ha propri riferimenti politici, con forme di controllo diretto o indiretto da parte delle varie organizzazioni politiche che oggi compongono il quadro di frammentazione delle forze comuniste. Facciamo nomi che tutti sanno: sinistra e opposizione CGIL sono in gran parte composte da quadri delle formazioni trozkiste; l’USB è composto al vertice da quadri della Rete dei Comunisti; in SGB convivono militanti di varie formazioni compresi quadri e dirigenti del PC; la CUB è un insieme di tendenze diversissime territorio per territorio, il SI-Cobas ha al suo interno gruppi di derivazione bordighista, così come settori dell’autonomia, ADL-Cobas settori dell’autonomia ex “disobbedienti” del nord est ecc…
In questo quadro è assolutamente impossibile concepire l’idea di un avanzamento unitario sul terreno del sindacalismo conflittuale se tale avanzamento non vede il consenso comune delle forze politiche che esprimono, di fatto, orientamento, compartecipazione o addirittura direzione di questi segmenti sindacali.
Ecco perché se lo scopo è quello di riunire le forze sindacali più avanzate, orientando l’azione nella costruzione di un sindacato di classe in Italia, il fronte unico inevitabilmente presuppone un piano di accordo politico per realizzarlo. Un accordo che impedisca un sistema dei veti incrociati, che finirebbe per paralizzare sul nascere qualsiasi possibilità di organizzazione unitaria delle lotte. È questo il centro dell’accordo tra le forze politiche che vi partecipano che non presuppone la rinuncia alle questioni politiche e ideologiche, né la rinuncia alla soggettività politica nello scioglimento in un fronte indistinto: tutte queste questioni continuano a esistere e marciare parallelamente alla costruzione di un fronte unico di lotta ponendosi su un piano diverso, che non impedisce una collaborazione concreta sul piano della costruzione di mobilitazioni e di lotte. Chi sostiene che sia possibile costruire il Fronte Unico senza un piano di confronto e accordo in questa direzione anche tra le forze politiche, fa finta di ignorare la realtà dei fatti, e semplicemente sbandiera una posizione di principio che nega nella sua unica possibilità pratica di concretizzazione.
Poi ovviamente esistono delle differenze sindacali reali, alcune delle quali pongono questioni serie e concrete che attengono al modo di fare sindacato e alla funzione del sindacato stesso in questa fase. Nessuno può avere la presunzione di superare questi elementi con un tratto di penna, né di negarli e non vedere le contraddizioni. Ma l’altro elemento positivo di una tattica di fronte unico è quello di non chiedere scioglimenti, non chiedere annullamenti organizzativi neanche sul fronte sindacale, ma di costruire piattaforme unitarie e di lotta comuni. In poche parole di configurarsi come necessaria tappa intermedia, strettamente aderente alla fase attuale. Sarà poi lo svolgersi dei processi storici a determinare le opzioni che prevarranno, se – come ci auguriamo – nell’unità effettiva delle lotte, nella capacità di organizzare la resistenza dei lavoratori alle politiche antipopolari, saremo capaci anche di far avanzare la proposta della necessità organizzativa della costruzione del sindacato di classe.
È chiaro che questo processo ha dei limiti, anche molto evidenti, ma sono il prodotto dello stato attuale della situazione, sono il grano con cui siamo chiamati a fare la farina, e da cui anche noi non siamo esenti da debolezze e mancanze. Si può, si deve criticare lo stato di arretratezza della condizione reale, ma mai astraendosi dai processi reali sarà possibile far avanzare concretamente un movimento di classe.
Uno dei drammi della nostra epoca è la separazione forzosa che si è venuta a creare tra coscienza politica rivoluzionaria da un lato e la pratica materiale delle lotte di classe nelle loro varie forme. Questa separazione ha portato da una parte a lotte parziali, frammentate, spesso sconclusionate che finiscono per sfociare in un’ottica tradunionista, riformista, e spesso in vicoli ciechi. Dall’altra ha trasformato gli elementi coscienti in spettatori della situazione, che giustificano proprio con l’arretratezza del piano di lotte la loro astrazione dal reale. Non partiti di avanguardia, ma circoli politici più o meno ristretti, privi di qualsiasi collegamento reale con lo stato materiale delle lotte.
Superare questa scissione, che è da sempre una delle questioni aperte nella storia del movimento operaio, è uno dei principali compiti rivoluzionari di questa fase. Tanto più che oggi, questa divisione finisce per assumere proporzioni grottesche e toni aprtamente farseschi data la condizione di arretratezza generale delle lotte e del movimento di classe nel suo complesso, nel confronto diretto con la profondità dell’attacco padronale rivolto ai lavoratori.

3) La differenza tra la tattica del fronte unico e le alleanze elettorali con le forze borghesi.

Questa separazione viene alimentata continuamente quando si confonde il piano dell’indipendenza politica dei comunisti dalle forze borghesi, con quello delle contraddizioni interne alla classe operaia e ai suoi segmenti di avanguardia, sindacali e politici, o addirittura con la necessità di operare nelle contraddizioni reali per strappare lavoratori e classi popolari dall’influenza delle forze borghesi.
Mente – ben sapendo di mentire – chi tenta di mettere nello stesso calderone la pratica opportunista delle alleanze con il centrosinistra, che ha portato al tradimento degli interessi dei lavoratori e alla sottomissione a quelli capitalistici, con la tattica del fronte unico. Una tattica che mira a unire le lotte, a fornire direzione alle rivendicazioni politiche dei lavoratori in senso rivoluzionario, a partire dal rifiuto della gestione capitalistica della crisi e dalla linea della concertazione e dell’unità tra capitalisti e lavoratori che è stata professata dalle forze democratiche e dalle direzioni dei sindacati confederali. Le due opzioni sono esattamente opposte.
Inutile quindi appigliarsi a falsi paragoni e fallacie logiche di ogni tipo per evitare la discussione reale. Il piano delle contraddizioni che presenta oggi il fronte unico non è quello della collaborazione tra borghesia e proletariato – che tutti i partecipanti escludono – ma quello del modo di organizzare le lotte, della loro direzione, della prospettiva strategica generale di un rovesciamo dei rapporti sociali esistenti e di come realizzare questa prospettiva. Le contraddizioni esistono e sono grandi ma sono contraddizioni interne al proletariato e alle classi popolari, che mai potranno essere risolte in modo favorevole se i comunisti se ne chiameranno fuori. E soprattutto mai potranno avere vita reale, se non si pone la questione di elevare la lotta complessiva su un piano materiale superiore, in cui le attuali divisioni abbiano un reale senso storico e attuale e non la riduzione a semplici tifoserie inconcludenti. Chi continua a alimentare la separazione tra il movimento di lotta concreto e i comunisti, portatori di una visione strategica di cambiamento, fa un danno reale all’avanzamento della lotta di classe in Italia, costruendo una falsa patente di ortodossia e radicalità a quella che diventa in realtà una teoria dell’immobilismo.
Un conto è l’indipendenza strategica dalle forze borghesi, il rifiuto della compartecipazione comunista alla gestione del potere capitalistico, la critica senza appello ai limiti storici della socialdemocrazia e al tradimento degli interessi dei lavoratori. Nessuno ha intenzione di mettere in discussione questi principi. Ben altro conto è teorizzare la separazione di fatto dei comunisti dall’insieme del movimento di classe per come è storicamente dato, con tutte le sue arretratezze e difficoltà, in una linea generale il cui risultato finale è semplicemente chiamarsi fuori dalla lotta, per quanto arretrata spesso sia, rinunciando a farla evolvere sul piano più radicale e rivoluzionario, e sostituendola con una generica ricerca di consenso rivolta ai settori più arretrati della classe lavoratrice e delle classi popolari. Settori per giunta, che mai, in questa fase arretrata, potrebbero porsi sul terreno della lotta concreta, finendo per abbassare e snaturare le proprie parole d’ordine per inseguirne il consenso, e non al contrario per elevare le parole d’ordine di quei settori di classe. Abbassare i rivoluzionari al livello degli strati più arretrati della classe, rendendoli ulteriore megafono della deriva reazionaria del Paese. Chi agisce in questo modo non lo fa per difendere l’indipendenza del proletariato dal campo avversario, ma semplicemente si chiama fuori dal lavoro materiale da compiere, limitandosi a proclami massimalisti, ma disinteressandosi del come far avanzare concretamente una prospettiva rivoluzionaria in Italia.
view post Posted: 6/6/2020, 15:56 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti
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Costruiamo la nostra Fase 2


Domani saranno passati circa tre mesi dall’inizio della crisi epidemica e dall’entrata in lockdown del Paese. Tre mesi che, come scriveva qualcuno che di rivoluzioni ne capiva, potrebbero davvero valere come anni, a dimostrazione che il tempo della politica non scorre mai in maniera lineare. La crisi epidemica ha avuto quanto meno il “merito” di dimostrare, qualora ce ne fosse ancora il bisogno, l’assoluta insostenibilità del sistema economico dominante. Da anni la comunità scientifica ammoniva sulla inevitabilità di un evento pandemico di questa portata e quello che era in discussione non era tanto il “se”, ma piuttosto il “quando” si sarebbe manifestata una nuova pandemia. E questo perché la corsa all’accumulazione capitalistica tende a generare le condizioni sociali ed ecologiche affinché eventi del genere si verifichino con sempre maggiore frequenza. Eppure le classi dominanti si sono dimostrate sorde a questi appelli, ed anzi hanno contribuito a rendere ancora più fragili i sistemi sanitari nazionali attraverso i processi di spoliazione e privatizzazione che sono stati portati avanti in questi decenni di controriforme neoliberiste, tanto dalla destra quanto dalla cosiddetta “sinistra”.

Anche da questo punto di vista la crisi epidemica ha avuto la capacità di inchiodare alle proprie responsabilità storiche e sociali un’intera classe politica, ma forse a questo punto del ragionamento sarebbe meglio iniziare ad usare il condizionale e scrivere più correttamente che “potrebbe avere” queste potenzialità disvelatrici e “potrebbe assolvere” a queste funzione politica. Perché qui entrano in gioco tutti i nostri limiti e le nostre incapacità politiche che troppo spesso ci impediscono di cogliere al balzo le opportunità che la storia ci pone di fronte. Pensiamo, appunto, alla questione sanitaria. In questi mesi siamo stati sommersi da messaggi retorici sui medici “eroi” e sugli infermieri “angeli delle corsie”, e a propinarceli sono stati gli stessi che solo fino a qualche settimana fa chiudevano gli ospedali e tagliavano posti letto perché rappresentavano un “costo irrazionale”, bloccavano il turn-over, non rinnovavano i contratti ai lavoratori del settore e imponevano il numero chiuso all’università. Gli stessi che non riuscendo a garantire la disponibilità e la distribuzione dei dispositivi di sicurezza adeguati in poche settimane hanno fatto si che oltre 27mila operatori sanitari si contagiassero e che più di 200 di loro morissero. Poi, però, per pulirsi la coscienza li hanno chiamati martiri, quando in realtà sono morti sul lavoro.

Ebbene, nei mesi che ci si profilano davanti dovremo avere la capacità di porre all’ordine del giorno lo lotta contro questo “stato di cose presenti”, per chiedere l’abolizione della regionalizzazione del sistema sanitario, la fine delle privatizzazione e la requisizione degli istituti privati, l’abolizione dell’aziendalizzazione della sanità pubblica, il potenziamento delle piante organiche attraverso la stabilizzazione, l’internalizzazione e l’assunzione dei lavoratori e delle lavoratrici della sanità. Tutte cose che possono sembrare perfino banali agli occhi di un militante politico o sindacale, ma che oggi, alla luce del disastro sanitario che abbiamo vissuto, possono però suonare come “ragionevoli” o addirittura “indispensabili” anche a quei pezzi di classe e di società con cui da tempo fatichiamo a interloquire.

Anche perché la lotta per il diritto alla salute ci permette di andare oltre la singola vertenza, la singola rivendicazione, per quanto importante, e di rimettere in circolo un’idea stessa di società antitetica a quella dominata dal profitto e dal mercato. E lo stesso ragionamento può essere fatto per il diritto allo studio, per quello alla casa o per quello al lavoro. Se non saremo in grado di cogliere questa occasione il rischio, nemmeno troppo lontano nel tempo, è che a pagare il conto della crisi economica che si profila all’orizzonte saranno ancora una volta i salariati di questo paese, attraverso l’aumento del livello di sfruttamento e di precarietà, magari condito con la retorica del sacrificio collettivo e dell’unità nazionale.

Per questa ragione domani pomeriggio scenderemo in piazza, e come noi lo faranno migliaia di lavoratrici e lavoratori in decine di città italiane, con la consapevolezza che si tratta solo di un inizio, che il percorso che porta alla costruzione di un unico fronte di lotta va allargato e approfondito, ma anche con la determinazione di chi sa che da qualche parte si deve pur cominciare. In questo momento, in questo paese, nessuno può pensare di essere autosufficiente o di poter fare in proprio, tutti però possono (e devono) essere utili. Ma perché questo accada occorre avere la forza e la maturità di superare la balcanizzazione di cui da troppo tempo è vittima la sinistra di classe, buttare giù chiesette e parrocchie che davvero non servono più a nessuno e, senza per questo dover rinunciare alla propria specificità, provare a riunire tutte le lotte in un unico fronte di classe. Altrimenti tra qualche mese ci ritroveremo qui a discutere di come, collettivamente, avremo perso l’ennesima occasione per tornare ad essere un’opzione politica e sociale concreta e non più una curiosità folkloristica che sopravvive negli interstizi della società.
view post Posted: 4/6/2020, 22:39 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti
La valuto cercando di essere il più pessimista possibile, così da evitarmi delusioni.
Scherzi a parte, mi fa piacere vedere che sono in tanti a partecipare, e spero che la manifestazione possa portare a un'unità tattica più duratura, ma non è con una sommatoria di piccole organizzazioni che si crea un autentico fronte di classe. Manca il radicamento (forse con l'eccezione dei Cobas), manca la capacità di andare oltre la semplice testimonianza.
In questo senso è ancora più incomprensibile l'assenza del PC di Rizzo, spiegabile solo in parte con la guerra intestina che lo sta dilaniando. Nel giro di pochi mesi ha perso i rapporti con il FGC (che era fondamentale per la penetrazione tra gli studenti e la militanza) e ha mancato all'appuntamento coi Cobas (che avrebbe aiutato il radicamento tra gli operai, al momento scarsissimo). Si è tagliato entrambe le palle, prima la destra e poi la sinistra, e si consola solo perché Potere al Popolo sta ancora peggio.
view post Posted: 4/6/2020, 22:03 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti
CITAZIONE (Ruhan @ 4/6/2020, 22:02) 

Ho cercato qualche informazione sui partecipanti alle manifestazioni del 6 giugno. Ci saranno i SICobas, il Fronte della Gioventù Comunista, i CARC, Proletari Comunisti, il collettivo Militant, il Partito Comunista dei Lavoratori, il Centro Sociale Vittoria di Milano. Partecipano in ordine sparso anche le sezioni bolognesi del PCI e di Rifondazione che aderiscono al Coordinamento Unitario Sinistre di Opposizione (ma a quanto pare non il Coordinamento nazionale).
Per il Partito Comunista parteciperà solo la sezione romana (quella che è stata commissariata dopo la rottura con il FGC), subito ripudiata dalla dirigenza nazionale.
view post Posted: 13/5/2020, 17:36 A PROPOSITO DELLE SPIE FASCISTE IN UNIONE SOVIETICA - Storia
CITAZIONE
Sinceramente sono rimasto sbalordito per Ignazio Silone (al secolo Secondo Tranquilli). Ho letto da ragazzino alcuni suoi libri, in particolare Fontamara, che si richiama un po al verismo di Verga e lo trovo perfetto sotto tutti i punti di vista!

Ignazio Silone è stato una delle peggiori mignotte dell'anticomunismo "di sinistra" per decenni.
541 replies since 6/11/2012