Comunismo - Scintilla Rossa

Posts written by Sandor_Krasna

view post Posted: 15/7/2021, 10:55 L'economia Cinese e la sua strada Anti-Marxista - Marxismo
CITAZIONE (Nikos Zachariadis @ 15/7/2021, 05:29) 
Scusa compagno, ma qui Lenin dice:
"La base materiale del socialismo non può che essere la grande industria meccanizzata capace di riorganizzare anche l'agricoltura. Ma non dobbiamo limitarci a questa tesi generale. Deve essere specificato. Una grande industria, all'altezza della tecnologia moderna e capace di riorganizzare l'agricoltura, suppone l'elettrificazione dell'intero paese. (Vladimir Ilyich Ulyanov, Lenin; Rapporto al Terzo Congresso del Comintern - La base materiale del socialismo e il piano
per l'elettrificazione della Russia, 1921)"

Quindi, anche se in questo piccolo estratto dal Rapporto al Terzo Congresso del Comintern chiamato "La base materiale del socialismo e il piano per l'elettrificazione della Russia" si parla appunto, come suggerisce il titolo, della Russia, c'è da dire che comunque questo termine che utilizza, ovvero "generale" fa pensare che effettivamente la priorità dell'industria pesante fosse un principio universale, infatti la Treccani ci dice: generale¹ [dal lat. generalis, der. di genus -nĕris "stirpe, genere"]. - ■ agg. 1. a. [che è comune a tutti, a molti, a un complesso di cose: principi, caratteri g.; opinione g.] ≈ collettivo, comune, condiviso, globale, totale, universale.
Se si stesse riferendo unicamente alla situazione russa avrebbe dovuto utilizzare uno tra questi termini: individuale, particolare, personale, singolare, speciale, specifico.

Sempre dal dizionario che hai citato: "4. Locuz. avv. in generale, in modo generico, per sommi capi, senza specificare: esporre, discorrere, parlare in g.". Due frasi dopo, entrando nel dettaglio, Lenin parla specificamente dell'elettrificazione.

CITAZIONE
Come mai quindi non ritieni che la priorità allo sviluppo dell'industria pesante sia un prinipio universale?

Perché per il marxismo non esistono "principi universali" ai quali adattare diversi gradi di sviluppo sociale ed economico. Non si parte dalle idee per deformare la realtà. Imitare il modello russo dove non esistevano le condizioni era impossibile prima ancora che sbagliato.
view post Posted: 15/7/2021, 00:22 Sospensioni - Bacheca-Comunicati
Sospendo Adam C. per una settimana.
view post Posted: 15/7/2021, 00:08 L'economia Cinese e la sua strada Anti-Marxista - Marxismo
CITAZIONE (Adam C. @ 15/7/2021, 00:59) 
E rieccallà con le solite accuse messe a casaccio per sentirsi migliori e più intelligenti degli altri. "Lenin sta esplicitamente parlando della specifica situazione russa" ma non mi dire capitan ovvio! Seguendo il tuo ragionamento dovremmo buttare via tutto il leninismo perchè era applicabile solamente alla Russia del tempo.

Taglio questa sequela di cazzate.
Il marxismo-leninismo distingue sempre le leggi generali dello sviluppo storico dai contesti specifici in cui si verificano. Va da sé che Lenin non ha mai preteso di spacciare lo sviluppo dell'industria pesante a scapito dell'agricoltura come dogma eterno. Qui l'accusa di dogmatismo ci sta tutta: per voi tre, non per il marxismo.
Nell'attesa che le chiappe la smettano di farti male, ti regale una settimana di vacanza. I libri per la spiaggia li hai già.
view post Posted: 14/7/2021, 22:58 L'economia Cinese e la sua strada Anti-Marxista - Marxismo
CITAZIONE (Generico Marxista leninista @ 14/7/2021, 23:47) 
Se la Cina ancora era un paese feudale, cosa riguardo cui siamo concordi , allora di conseguenza avrebbe dovuto sviluppare il capitalismo per poi passare al socialismo...

Taglio il resto perché ci siamo capiti. Ragioni in modo meccanicistico e astratto. Non te ne importa nulla di indagare una situazione specifica, ma di applicare sempre il tuo trenino di deduzioni. Ormai te l'ha detto tutto il forum, Generico.
view post Posted: 14/7/2021, 22:18 L'economia Cinese e la sua strada Anti-Marxista - Marxismo
CITAZIONE (Generico Marxista leninista @ 14/7/2021, 23:00) 
Compagno , tu hai postato la tua opinione nella quale spiegavi che le frasi di Lenin sul ruolo base della industria pesante erano relative alla Russia del 1921 e non erano quindi concetti applicabili alla Cina maoista , io mi sono semplicemente limitato a riportare delle frasi del 1893( e quindi di 28 anni prima rispetto al 1921) dove Lenin spiega che per assicurare lo sviluppo economico del paese occorre il primato dei mezzi di produzione e quindi della industria pesante. Poi nello scritto del 1893 Lenin parla anche di tutt'altro rispetto a quello di cui si stava discutendo, ma
rimane il fatto che parla in modo esplicito di prioritario sviluppo dei mezzi di produzione rispetto al mercato dei beni di consumo , per permettere lo sviluppo economico del paese ( in questo caso per permettere alla Russia di fine 800 di sviluppare appieno il capitalismo) , in una fase( 1893)in cui l'industria russa era incredibilmente arretrata. La Russia del 1893 era tanto più avanzata nello sviluppo industriale rispetto alla Cina degli anni 70?

Generico, i miei sospetti si fanno più solidi.
Un babbeo ha postato un delirio in qui il leninismo diventa metafisica. Io e altri utenti del forum abbiamo fatto presente che il vostro modo di ragionare è astratto, anti-dialettico, dogmatico. Tu rispondi postando un frammento in cui Lenin parla chiaramente di sviluppo del capitalismo industriale in Russia alla fine dell'Ottocento.
Ora, tu hai tutto il diritto arrabattare tutte le citazioni fuori contesto che riesci a trovare, sperando che suonino un po' come le tue idee strampalate, ma non puoi pretendere che l'intero forum continui a darti retta.

CITAZIONE
Che poi se vogliamo è proprio Marx a spiegare per primo il ruolo della industria pesante , in"l'ideologia tedesca"

Nell'Ideologia tedesca Marx non parla della costruzione del socialismo in un paese pre-capitalista, quindi hai cannato un'altra volta.
view post Posted: 14/7/2021, 21:23 L'economia Cinese e la sua strada Anti-Marxista - Marxismo
CITAZIONE (Generico Marxista leninista @ 14/7/2021, 20:43) 
Non sono d'accordo , Lenin già nel 1893 aveva polemizzato con i populisti russi ,spiegando come per lo sviluppo economico russo fosse fondamentale dare la priorità allo sviluppo dei mezzi di produzione , piuttosto che agli investimenti nella agricoltura, e delineando le leggi generali dello sviluppo economico di un paese:

Generico, correggimi se sbaglio, ma ho il vago sospetto che tu stia qui sul forum soltanto per prendere in giro gli altri utenti. Rileggi quello che ho scritto, poi rileggi quello che hai postato (uno scritto di Lenin del 1893 in cui parla di tutt'altro).
view post Posted: 14/7/2021, 17:45 L'economia Cinese e la sua strada Anti-Marxista - Marxismo
CITAZIONE (Adam C. @ 14/7/2021, 17:00) 
"La sola base materiale del socialismo può essere la grande industria meccanica, capace di riorganizzare anche l'agricoltura." (Lenin, Opere complete, volume 32, pagina 434)
"A questo proposito debbo ancora una volta sottolineare che l'unica possibile base economica del socialismo è la grande industria meccanica. Chi lo dimentica non è comunista." (Ibidem, pagina 467)

Ecco cosa succede quando si cita di rimando un testo del quale non si è letta una riga. Nel paragrafo 9 delle Tesi per il rapporto sulla tattica del Partito Comunista di Russia al III congresso dell'Internazionale Comunista (1921), "La base materiale del socialismo e il piano di elettrificazione della Russia", Lenin sta esplicitamente parlando della specifica situazione russa: dedica un intero paragrafo (il 3) ai rapporti di classe ("il proletariato, educato da decenni da una grande industria meccanica molto giovane ma moderna, e i piccoli contadini che costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione"), dopo aver ripetuto per anni che la Russia era a tutti gli effetti un paese capitalista, sia pure arretrato. Nel testo che hai citato senza conoscere, Lenin fa un'analisi concreta della situazione concreta, non pretende neanche per una riga di spacciare dogmi eterni, astratti e sempre validi. Lo stesso vale per La tattica del Partito Comunista Russo (1921), dal quale hai ripreso (per sentito dire) la seconda citazione.
Solamente un imbecille (cioè l'autore della notarella bisunta che hai postato in apertura della discussione) può pensare di adattare quell'analisi specifica a un paese, la Cina, appena uscito dal feudalesimo, con un proletariato industriale e una borghesia nazionale ai minimi termini. Soltanto un povero idealista dogmatico avrebbe seguito pedissequamente il modello russo in un contesto nel quale non poteva esistere.

CITAZIONE
Come possiamo vedere qui qualcuno non è comunista. Come vuole sottolinerare e dimostrare, e lo fa egregiamente, l'autore dell'articolo Mao ha posto l'accento sull'agricoltura e non sull'industria pesante dunque andando contro gli insegnamenti di Lenin.

Lenin non ha mai insegnato a procedere per dogmi, ma l'esatto contrario: analisi concreta della situazione concreta. Il fatto che un qualunque babbeo raccatti a caso dei frammenti di un discorso sullo sviluppo produttivo russo del 1921 e li trasformi in dogmi validi per tutto il movimento comunista, in tutto il mondo, per tutte le epoche, è soltanto un problema di questo scribacchino e di chi gli dà retta, non certo dei materialisti dialettici.

Finita la sculacciata, ti faccio un regalo. Qui trovi tutte le opere complete di Lenin in italiano. Studia queste invece di ripetere sciocchezze.
view post Posted: 2/3/2021, 01:23 Partito della Rifondazione Comunista - Partiti e movimenti comunisti

La questione comunista oggi, 30 anni dopo Rifondazione


di Paolo Spena (segreteria nazionale FGC)

La tesi principale di questo articolo, scritto a pochi giorni dalla ricorrenza dei 30 anni dalla nascita del Movimento per la Rifondazione Comunista, è che i limiti che hanno caratterizzato quell’esperienza hanno continuato nel tempo a viziare i tentativi di tenere aperta un’ipotesi comunista in Italia, e soprattutto continuano a farlo ancora oggi. L’assenza di una vera rottura con l’opportunismo, che non è una attitudine umana ma una precisa concezione politica, ideologica e organizzativa, ha impedito il bilancio critico che sarebbe davvero necessario per avanzare. È al contempo una critica e un’autocritica e contiene dei giudizi che, specie a chi è stato parte di questa storia, possono apparire aspri. Il dibattito politico tra i comunisti in Italia lo è, quando è reale e non ammantato dai formalismi. L’intento è stimolare il dibattito e la riflessione collettiva, individuare i problemi che chiunque cerchi costruire una prospettiva comunista nell’Italia del 21° secolo dovrebbe porsi. In questo, la franchezza vale più dei formalismi e anche delle invettive. E credo sia questo lo spirito che dobbiamo avere nel confronto.

Era il 3 febbraio 1991 quando circa 90 delegati su 1259, al congresso della “Bolognina” in cui Achille Occhetto tramutò il PCI nel PDS, annunciarono in conferenza stampa a Rimini che non avrebbero aderito al nuovo partito. Una settimana dopo, il 10 febbraio, si tenne al Teatro Brancaccio di Roma la prima assemblea del “Movimento per la Rifondazione Comunista”, con un esecutivo provvisorio che avrebbe portato, nel dicembre dello stesso anno, al primo congresso del Partito della Rifondazione Comunista.
Quel percorso, e ciò che ne è scaturito poi, ha fallito nel compito che si era dato. Sarebbe in realtà interessante anche chiedersi quali compiti si fosse effettivamente dato; su questo torneremo tra poco. Ma è un dato di fatto che, 30 anni dopo, la classe operaia in Italia è molto meno organizzata, molto più debole, e non individua nei comunisti il proprio riferimento politico e il proprio reparto d’avanguardia. I partiti e le organizzazioni che si definiscono comuniste e che vengono, nel bene o nel male, dalla diaspora infinita di Rifondazione, sono oggi ridotte al lumicino e danno forse il peggiore spettacolo di sé quando si contendono tra loro percentuali insignificanti in questa o quella elezione regionale.
È una situazione che pesa e viene percepita oggi, nel momento in cui per l’ennesima volta ci ritroviamo a dirci che noi comunisti giungiamo impreparati dinanzi a un appuntamento storico, un nuovo approfondimento della crisi capitalistica accelerata dalla pandemia.
Certo bisogna ricostruire, aggregare, tornare ad avanzare. Ma si può avanzare a testa alta e senza voltarsi indietro e forti della propria storia solo se i conti col passato sono davvero stati chiusi. Rimettere insieme i cocci, ce lo siamo detti spesso, servirebbe a molto poco senza capire perché il vaso si è rotto. Ed è per questo che un bilancio critico, compiuto, maturo dell’esperienza storica del movimento comunista, compresa quella più recente, è non solo fondamentale, ma anche necessaria per chi si pone il problema di ricostruire oggi una presenza comunista in Italia che sia degna di questo nome. Con questo spirito è concepita la riflessione che segue.

Il vero e più grande limite che abbiamo ereditato da Rifondazione
In molti credono che il problema di Rifondazione fosse l’eterogeneità tra le diverse componenti che la animavano. Fuochino, ma non proprio. O meglio, è sicuramente una considerazione che descrive la realtà di un partito in cui confluirono davvero tante anime tra loro inconciliabili. Ma il punto è perché è successo questo. La ragione sta nei presupposti a monte su cui fu costruito quel partito. Il problema è aver concepito la “rifondazione” comunista come la costruzione di un partito di consenso attorno a una identità politica, cioè il volersi chiamare e proclamare comunisti, senza una vera sintesi politica sulle principali questioni strategiche e senza un bilancio della storia del PCI e dell’Unione Sovietica. Proprio la necessità di questo bilancio, anzi, veniva liquidata con l’idea di “rifondare” il comunismo stesso. Fu innanzitutto a causa di questa chiamata alla mera aggregazione identitaria se in quel partito si tentò di far convivere tutto e il contrario di tutto.
Mancarono, invece, la capacità e anche la volontà di costruire davvero un partito di lotta, un partito di classe che fosse realmente tale e non solo per autoproclamazione. Il PRC aggregò al suo interno, o esercitava ampia influenza, su settori importanti della CGIL e sulla quasi totalità del sindacalismo di base. Eppure, anche quel patrimonio fu concepito come un mero strumento utile a rafforzare l’immagine del partito e la sua proiezione elettorale. Ci si limitava ad utilizzare ciclicamente figure provenienti dal mondo sindacale come candidati di punta alle elezioni o per proposte di coalizione con il centro-sinistra, ma non si mise mai all’ordine del giorno quale dovesse essere l’iniziativa dei comunisti nei luoghi di lavoro e nei sindacati per il rilancio di un’offensiva di classe in senso conflittuale.
È un tema su cui vale la pena soffermarsi, perché ha afflitto non solo il PRC sin dagli albori, ma anche tutte le formazioni comuniste nate negli anni e decenni successivi. Ogni volta che si pensa di ovviare al problema – enorme – della riconnessione delle avanguardie politiche alla classe semplicemente facendo parlare un sindacalista da un palco o mettendolo in lista alle elezioni, in realtà non si sta muovendo un solo passo in avanti rispetto a ciò che già si faceva ai tempi della prima Rifondazione. Non è questa la strada.
La questione dell’aggregazione su base identitaria è ben descritta dalle parole di Armando Cossutta, vero padre del PRC prima e del PdCI poi, ricordate nel suo ultimo libro pubblicato (Una storia comunista, Rizzoli 2004). «Io non voglio scissioni, ma voi non potete impedirmi di essere comunista», è il succo dell’intervento di Cossutta all’ultimo congresso del PCI. L’assemblea al teatro Brancaccio che lanciò il Movimento per la Rifondazione Comunista viene descritta così: «Erano in tanti quelli venuti da altre città d’Italia per manifestare il desiderio e l’orgoglio di chiamarsi comunisti». Di questo si trattava: affermare un’identità politica che veniva mortificata dalla tramutazione in PDS, anche e soprattutto sul piano simbolico (l’abbandono del nome e del simbolo della falce e martello) che era stato il vero “shock” per decine di migliaia di militanti, più che sul piano politico visto che in realtà era la continuazione di una linea (nei fatti) socialdemocratica che il PCI aveva assunto già da decenni. Questa impostazione sarà una costante negli anni.
Il problema della ricostruzione comunista è stato costantemente concepito mettendo al centro l’esigenza di affermazione della propria identità politica, di autodefinizione volontaristica in cui chiamarsi comunisti era molto più importante del chiedersi cosa dovesse significare nel concreto. I giovani compagni che in questi anni si sono formati sui classici di Lenin, che discutono su cosa significhi nel concreto essere un partito di classe, essere organici alla massa, essere avanguardia, resterebbero spiazzati dinanzi alle parole che venivano usate da chi 25-30 anni fa cercava di tenere aperta un’ipotesi comunista in Italia.
Il risultato delle elezioni del 1992, che registrano un buon risultato del PRC che col 5,6% dei voti ottiene 35 deputati e 20 senatori, vede questo commento da parte di Cossutta: «Nasce dal popolo comunista, il popolo comunista è comunista e ha dato un grande successo al nostro partito […] Punte più avanzate dove c’è più forte il popolo comunista, la tradizione comunista». E a questo aggiunge, nel libro citato, che quelle elezioni dimostrarono «l’esistenza di uno spazio politico che Rifondazione poteva e doveva occupare a sinistra del Pds». Uno spazio politico. Potranno sembrare parole innocue, ma già quando si usano queste parole c’è un mondo. Intendiamoci, è ovvio che ciò che si muove nella politica borghese e sul piano elettorale influenza l’attrattività di un partito sul piano mediatico, in termini di consenso e riconoscibilità. Il M5S emerge quando centro-destra e centro-sinistra sostenevano insieme il governo Monti creando uno “spazio” per una forza basata sulla polemica contro la casta; il FGC si è affermato negli anni anche perché ha colmato il vuoto lasciato dallo svuotamento delle precedenti organizzazioni giovanili i cui gruppi dirigenti migravano altrove. Si potrebbero fare tanti altri esempi per ribadire che è ovvio che anche le condizioni oggettive di questo tipo hanno la loro importanza. Il problema è assumere questa concezione come unico orizzonte.
Il punto è che si diceva candidamente che l’obiettivo non era costruire il partito di avanguardia della classe lavoratrice, costituito cioè dagli elementi più combattivi di quella classe. Tutt’altro. Si concepiva il partito comunista come un partito che dovesse ritagliarsi uno “spazio” nella politica borghese, per capitalizzare sotto forma di deputati, senatori, consiglieri regionali, l’esistenza di un “popolo comunista” che esisteva in Italia, e che esiste ancora oggi in forma molto più ridotta. Un popolo fatto di milioni di persone che volevano bene a Berlinguer”, rimaste orfani del PCI e che avevano bisogno di una nuova “casa”, di un riferimento politico ed elettorale. Non si tratta – attenzione – di fare polemica sulle elezioni in sé, che da sempre sono contemplate nella tattica leninista – ma di capire che è esistito un problema enorme nella concezione stessa del Partito. Un problema che è figlio, ovviamente, di limiti politici e ideologici, ma anche e soprattutto del fatto che almeno allora questa prospettiva fosse resa materialmente possibile dall’esistenza di un popolo orfano del PCI.
L’esistenza di un attaccamento “emotivo” all’immaginario e alla tradizione comunista di una parte della popolazione italiana, per ragioni personali e di storia familiare, è un elemento di per sé positivo. È importante non fraintendere questo punto nella riflessione. Si tratta chiaramente di sacche in esaurimento, perché questo sentimento non si trasmette automaticamente alle nuove generazioni che non hanno mai visto né il PCI né il “popolo comunista”, ma è ovvio che ogni progetto di ricostruzione comunista deve saper valorizzare anche questo sentimento e tenere viva la tradizione comunista. È piuttosto la scelta di fondare su questa sensibilità la ragione stessa di esistenza di un partito che finisce per non avere nessun ruolo nella lotta di classe e nessuna “utilità” reale per la classe lavoratrice, che alla fine mortifica anche questo sentimento genuino e finisce per svuotare sempre di più un bacino che diventa sempre più residuale.
Questa impostazione errata è stata replicata in modo non dissimile pochi anni dopo con il PdCI, fondato dallo stesso Cossutta, Diliberto, Rizzo con l’obiettivo di sostenere il governo di centro-sinistra. Il paese intero guardò e ricorda oggi quell’operazione per quello che effettivamente fu: una scissione per sostenere una maggioranza di governo, come tante se ne vedono nella politica borghese. Ma tra i comunisti circolava anche un’altra versione. Il gruppo che diede vita al PdCI fece il capolavoro di presentare quella scissione come una difesa dell’identità e della tradizione comunista, contro le tendenze eclettiche di Bertinotti, considerato (non a torto) esponente di una visione antagonista e movimentista. «Era chiaro che Fausto Bertinotti intendeva cambiare la strategia di fondo di Rifondazione spostandola dal binomio “autonomia e unità” al terreno dell’antagonismo e del primato del movimento» – scrive Cossutta – «L’eredità comunista comincia a essere percepita come un fardello di cui sbarazzarsi per navigare nel mare magnum di un indistinto antagonismo».
Oggi potrebbe suonare strano il richiamo all’ortodossia e alla tradizione comunista per sostenere un governo di centro-sinistra, ma è un corollario fondamentale del “cossuttismo”: finché ci si chiama comunisti e si ha la falce e il martello, si può fare qualsiasi cosa, anche entrare in un governo che vota riforme antipopolari contro i lavoratori e partecipa alla guerra contro la Jugoslavia.
Da quelle vicende oggi andrebbe tratto un bilancio onesto. La segreteria bertinottiana di Rifondazione sancì indubbiamente un approfondimento del carattere opportunista di quel partito, l’abbandono ancora più marcato del marxismo-leninismo e dell’esperienza (più che della “tradizione”) del movimento operaio e comunista in favore di tendenza eclettiche, il cui risultato si può misurare oggi alla prova dei fatti. Ma se Bertinotti fu questo, il PdCI si distinse per la costante disponibilità nella partecipazione ai governi borghesi del centro-sinistra, per il costante sforzo nella legittimazione anche sul piano teorico di quella prospettiva. Se il movimentismo e l’antagonismo di Bertinotti erano la risposta sbagliata e sconclusionata a un problema reale (l’esigenza di una conflittualità anche solo simulata), chi invece fu costantemente disponibile alla compromissione con il governo nel nome dei superiori “interessi nazionali” e del contrasto al centro-destra, incarnò più di ogni altro l’essenza dell’opportunismo di quegli anni.

Rompere con l’opportunismo. Ne abbiamo sottovalutato l’importanza
L’autocritica sull’opportunismo è diventata popolare tra i comunisti in Italia da quando le elezioni vanno male e non si riesce più a diventare deputati. Così è detta in modo un po’ brutale, ma il dato è davvero questo. Dovrebbe farci riflettere.
Dal 2008, anno della disfatta della Sinistra Arcobaleno con cui tutte le formazioni comuniste rimasero fuori dal Parlamento italiano, sono passati 13 anni. Non sono pochi, eppure il bilancio di quell’imbarazzante epilogo è ancora monco, parziale e viziato da un problema di fondo: si parla di opportunismo in modo più retorico che concreto. Nei fatti, è mancato un bilancio su cosa significasse davvero rompere con l’opportunismo. Questa questione è stata sottovalutata, e spesso si è pensato che enunciarla bastasse a produrre effetti.
L’opportunismo è una categoria ben precisa e rigorosa, per i comunisti. Lenin lo definisce come il «sacrificare gli interessi fondamentali delle masse agli interessi temporanei di un’infima minoranza di operai, oppure, in altri termini, nell’alleanza degli operai con la borghesia, contro la massa del proletariato». O ancora: «La difesa della collaborazione delle classi, il ripudio dell’idea della rivoluzione socialista e dei metodi rivoluzionari di lotta, l’adattamento al nazionalismo borghese, il dimenticare il carattere storicamente transitorio delle frontiere di una nazionalità o della patria, la trasformazione in feticcio della legalità borghese, la rinunzia al punto di vista di classe e alla lotta di classe per paura di allontanare da sé le “larghe masse della popolazione” (leggi: piccola borghesia): queste sono, indubbiamente, le basi ideologiche dell’opportunismo». A leggere queste parole sembrerebbe di sentir riecheggiare alcune teorizzazioni che ancora oggi alcuni hanno il coraggio di presentare come “innovazioni” al marxismo.
Eppure, con un pressappochismo davvero ingiustificabile, la parola opportunismo viene usata da anni solo nel suo significato colloquiale riferita all’attitudine di singole persone (“tizio è opportunista”) che orientano la loro azione al proprio tornaconto, o come sinonimo di disponibilità alle alleanze col centro-sinistra. Chi la utilizza per il suo significato leninista viene poco compreso o accusato di muovere una critica personale a questo o quell’altro “guru” del comunismo italiano. Questo equivoco, che è teorico e ideologico prima di essere linguistico, ha contribuito a impedire un bilancio degli errori del passato.
È anche per questo se le formazioni comuniste degli ultimi decenni e quelle esistenti ai nostri giorni sono state incapaci di produrre un avanzamento reale. Gli echi della concezione del partito e della politica che fu alla base della prima Rifondazione sono presenti tutt’oggi e fanno sentire il loro peso nella permanenza dell’idea di costruire il partito attraverso il consenso (non solo elettorale ma più in generale di opinione), la comunicazione e il richiamo ideologico-identitario, e non attraverso il radicamento effettivo nella classe.
Dopo la disfatta del 2008 si è fatta strada, ed è stata venduta come “definitiva” rottura con l’opportunismo, una mera variante “di sinistra” dei mantra cossuttiani sull’identità comunista, riassumibile come segue: non saremo mai alleati elettoralmente col centro-sinistra o con la sinistra, manterremo sempre il nostro simbolo e non lo tradiremo come quelli che hanno voluto fare l’Arcobaleno, poi la lista Ingroia, poi la lista Tsipras, e così via. Le formazioni opportuniste appena citate, appartenenti al campo della “Sinistra Europea”, erano ogni volta considerate tali non per il loro carattere di classe e per la natura intrinseca di quei progetti, ma “solo” perché avevano rinunciato al nome e al simbolo o erano alleate a livello locale col centro-sinistra. «Se rientreremo in parlamento, lo faremo col nostro nome e il nostro simbolo», si è detto per anni non cogliendo il punto della questione.
La stessa enfasi posta sulla coerenza identitaria nel campo elettorale, lungi dall’essere la dimostrazione di chissà quale rinnovata ortodossia, tradisce spesso il problema della concezione di fondo. Un partito rivoluzionario può fare le scelte che ritiene opportune nella tattica elettorale: il PCV venezuelano ha corso alle ultime elezioni con una lista denominata “Alternativa Popolare Rivoluzionaria” assieme ad altre forze di classe, il KKE greco aggira alcuni limiti posti dalla legge elettorale presentandosi alle elezioni amministrative con liste denominate “Raggruppamento popolare” il cui simbolo è un garofano rosso, il Partito Operaio Russo si è presentato per anni alle elezioni con il Fronte Russo Unito del Lavoro (ROT Front) assieme a partiti di sinistra e sindacati, giusto per fare degli esempi noti. Non è la tattica elettorale che definisce il carattere di un partito. Semmai, il punto è che in Italia molti hanno cercato di spacciare per tattica elettorale la visione che individuava l’orizzonte strategico nella costruzione di partiti opportunisti legati alla Sinistra Europea, l’abbandono della prospettiva rivoluzionaria in favore di una nuova socialdemocrazia dalle tinte “radicali”. Ma già dire questo, che il carattere rivoluzionario di un partito non è definito dal richiamo identitario (che, intendiamoci, non va rinnegato ed è anzi utile specialmente in una fase di costruzione e affermazione di un partito) nelle elezioni borghesi, è l’esatto opposto della concezione di questo “cossuttismo di sinistra” che afferma al contrario che finché si mantiene nome e simbolo e si rifiutano le alleanze elettorali a sinistra si può fare e dire sostanzialmente di tutto.
Questa visione, particolarmente incarnata per anni dal PC di Rizzo ma, a dirla tutta, diffusa anche in settori interni ad altre formazioni, prefigura una “rottura” con l’opportunismo a parole, che non è affatto una rottura con le concezioni della politica e del partito tipiche di quella stagione, perché continua a girare nello stesso schema. Alla domanda su perché i comunisti hanno perso consenso, si risponde che l’hanno perso perché “hanno tradito” il loro popolo, alleandosi col centro-sinistra e rinunciando alla simbologia, e che per ricostruire bisogna ripetere per anni che “tornano i comunisti, torna il partito comunista”. Preso atto dell’insufficienza di questa prassi dopo ben 10 anni di ospitate televisive, il vertice del PC ha optato per una vistosa svolta politica e teorica in direzione “sovranista” al costo, come è noto, di una rottura con un pezzo consistente del partito (tra cui 6 membri su 10 dell’Ufficio Politico di un anno fa) e con tutta la gioventù comunista. Ma attenzione: questa è la conseguenza, il sintomo, ma le ragioni sono sempre le stesse e stanno nel mancato abbandono di quella solita concezione a monte. Semplicemente, oggi si postula che i lavoratori si sono spostati a destra, e che per “recuperarli” bisogna parlare strizzando l’occhio a quei temi, riprenderne almeno in parte gli slogan e così via. Si afferma che la rottura con le vecchie concezioni opportuniste del partito sarebbe dimostrata dalle invettive quotidiane contro la “sinistra fucsia”, ma in realtà si resta sempre lì, al partito “leggero”, al partito di consenso. Cambiare tutto per non cambiare nulla, al massimo la collocazione nello spettro di valori della politica borghese, per miopi ragioni di opportunità. Si passa da Vladimir Luxuria a Vladimir Putin, ma Vladimir Lenin è ancora rimasto nel cassetto.
In merito a tutto questo, dobbiamo essere capaci di un’autocritica onesta e franca. Chi ci ricorda che per anni siamo stati al fianco di Marco Rizzo, che molti di noi sono stati quadri e dirigenti del PC e che “all’improvviso” ci siamo svegliati, è ingeneroso ma non dice una cosa del tutto falsa. La verità è che abbiamo sbagliato. Abbiamo sottovalutato il pericolo rappresentato da alcune tendenze, affermazioni e comportamenti che vedevamo, e di cui abbiamo sempre percepito i segnali, e che alla fine sono evoluti apertamente nella svolta politica opportunista che tutti hanno sotto gli occhi. Il nostro errore è stato sottovalutare e pensare che una dinamica collettiva potesse arginare e compensare quelle che consideravamo incrostazioni del passato, e accompagnare nella sua maturazione un partito che – con tutti i limiti – si era posto degli obiettivi e delle questioni corrette e si era legato alla componente più avanzata e rivoluzionaria del Movimento Comunista Internazionale. Ci siamo accontentati di una rottura con le vecchie concezioni opportuniste formalizzata a parole, anche se il riscontro concreto faticava ad arrivare, e della formalizzazione di posizioni sempre più avanzate nei documenti politici ufficiali, sottovalutando la tendenza neanche troppo celata a considerare quei documenti come carta straccia. Abbiamo scoperto poi che un elastico si può tendere, ma prima o poi rimbalza all’indietro. In un tempo straordinariamente breve, il livello dell’analisi politica è regredito a quello di dieci anni fa, quando si pubblicavano libri che descrivevano la UE come un progetto franco-tedesco “neocarolingio” in toni apertamente nazionalisti; si presentano candidati a sindaco il cui programma enunciato nella prima dichiarazione pubblica è “attrarre gli investimenti esteri della nuova via della seta” e il partito ritorna uno strumento ad uso e consumo privato utile alle comparsate televisive e poco altro. Abbiamo capito tardi di aver sottovalutato ciò che oggi è emerso agli occhi di tutti. L’attuale gruppo dirigente del FGC è quello che ha voluto, a cavallo tra il 2016 e il 2017, l’unità d’azione col PC sulla base della condivisione delle posizioni politiche internazionali, nel solco della parte più avanzata del Movimento Comunista Internazionale, e della rottura con le concezioni opportuniste. Come è chiaro ormai a molti, entrambi i punti hanno subito una radicale regressione nell’ultimo anno e mezzo. Aver portato una nuova generazione di comunisti, tirata su dalle lotte reali e formatasi nelle nostre fila, ad avere a che fare con determinati personaggi è una responsabilità che abbiamo. Allo stesso modo, ci siamo assunti quella di evitare la capitolazione politica di tanti giovani proletari verso quelle vecchie concezioni opportuniste.
Si è citato il PC non a caso o per vecchi rancori, ma perché è il partito che nell’ultimo decennio aveva tentato di fare della lotta contro l’opportunismo una propria bandiera e di darvi un briciolo di sistemazione teorica. Le parole “opportunismo”, “opportunista” compaiono in totale 9 volte nel documento del III Congresso del PC (2020), successivo alla recente spaccatura, e comparivano ben 22 volte nel documento del II Congresso (2017). È significativo, invece, che nelle tesi congressuali del PCI di Alboresi (2018) e del PRC (2017) queste parole semplicemente non compaiono mai. Non è una colpa di per sé, intendiamoci, perché il problema è sempre la sostanza, ma fa riflettere su quanto siano davvero mancati gli strumenti per un vero bilancio critico del passato.
La prima delle altre due formazioni citate, il PCI di Mauro Alboresi, è nata nel 2016 dalle ceneri del vecchio PdCI e dopo una serie di cambi di nome, puntando anche ad una “operazione nostalgia” neanche troppo mascherata. “Ricostruiamo il PCI di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer” è stato lo slogan di quella operazione, condotta nella convinzione che bastasse di nuovo riunire sotto il comune richiamo identitario, riducendo al minimo la discussione politica sui temi strategici considerata “divisiva”. Non è un caso che quel partito abbia avuto la sua prima scissione meno di un anno dopo la sua costituzione, dinanzi alla scelta di sostenere o meno Potere al Popolo (che allora era ancora una lista e non un’organizzazione come oggi). E anche in quel caso, i compagni che rompevano con quell’esperienza neonata non lo facevano affatto aprendo dibattito di natura strategica su che partito si volesse effettivamente costruire: semplicemente, si puntava il dito contro la rinuncia al nome e al simbolo nella tattica elettorale. Ironia della sorte, il richiamo nostalgico e identitario che si rivolgeva contro il gruppo dirigente che l’aveva sventolato.
Il PRC, o quel che ne resta, ha invece mantenuto negli anni una sua “coerenza” opportunista dovuta alla sua permanenza come principale e più stabile riferimento italiano nel Partito della Sinistra Europea. L’obiettivo del gruppo dirigente di Rifondazione resta tutt’oggi la costituzione di una formazione sul modello di Syriza o di Podemos. Un progetto che continua a fallire da più di un decennio anche perché, per riprendere il concetto dello “spazio politico” che anche l’attuale segretario Maurizio Acerbo utilizza frequentemente nei suoi interventi, questo spazio è stato portato via alla sinistra radicale nel decennio scorso dal Movimento Cinque Stelle, in un contesto politico italiano che (se proprio vogliamo mettere tutto su un’analisi “politicista” tanto in voga nel mondo accademico) differiva da quello di altri paesi europei per il fatto di aver già vissuto una crisi del sistema dei partiti negli anni ’90. Questo non significa che a questo dato di fatto dovremmo controbattere, come fanno altri, che invece “esiste lo spazio politico per i comunisti”. Il punto dovrebbe essere, ancora, uscire fuori da quello schema.
Quello che è evidente, invece, è che nei 30 anni che ci separano dallo scioglimento del PCI e dall’inizio del travaglio della ricostruzione comunista, nessuna organizzazione si è posta concretamente il problema di come costruire un partito di classe, di come riconnettere davvero i comunisti alla classe a partire dal movimento reale. Si è legittimata l’idea che il partito comunista si potesse definire a partire da una affermazione volontaristica e di auto-definizione, e non dal dato concreto e materiale di essere l’avanguardia della classe lavoratrice che si costituisce in Partito. Si è continuato a ragionare in termini “politicisti”, a concepire la collocazione del partito rispetto al sistema di partiti della politica borghese, a vivere cavalcando l’onda lunga del PCI mentre questa si indeboliva sempre più, sebbene di rifiutasse di ammetterlo.
Un esempio di quest’ultima tendenza: solo pochi giorni fa Giovanni Bacciardi, storico compagno di Firenze e dirigente del PRC prima, del PdCI poi, ha diffuso un appello chiamando all’unità cinque organizzazioni comuniste italiane, FGC compreso, con queste parole che vale la pena riportare perché rendono l’idea: «Una ricomposizione semplice di queste organizzazioni […] di per sé sarebbe la condizione per attrarre le migliaia di comunisti che non aspettano altro che trovare una collocazione».
No, compagni, con tutto il rispetto. È il momento di capire che là fuori non ci sono più migliaia di comunisti che attendono il nostro proclama per organizzarsi. È finita, davvero. Non la storia dei comunisti, ci mancherebbe. È finita la stagione in cui ci si poteva accontentare di raschiare il fondo del barile del vecchio PCI e vivere di rendita di quello. La ricomposizione delle avanguardie politiche oggi frammentate è un problema concreto e complesso, ed è giusto porselo invece di ignorarlo o fingere che non esista. La ricostruzione comunista è evidentemente anche il problema di come riaggregare una parte della “diaspora” dei comunisti. Sottovalutare questo aspetto sarebbe sbagliato. Ma non si può nutrire nessuna illusione in senso inverso, pensando che basti ricomporre per far accorrere le migliaia di comunisti che esistevano qualche decennio fa. Quell’onda non solo ha esaurito la sua spinta, ma è refluita già da un bel po’. Chi pensa che la prospettiva sia questa è destinato all’autoerotismo su uno 0,8%, ad accontentarsi di galvanizzarsi con le foto di piazze di poche decine di persone accorse da tutta la regione, o a rivolgersi verso altri lidi speranzoso di ottenere risultati maggiori. Perseverare e continuare a fare solo finta di porsi questi problemi, nelle condizioni attuali, è davvero diabolico.

È finito il tempo del culto delle ceneri. Accendiamo un nuovo fuoco
Si obietterà che piuttosto si è cercato di evitare che le braci si spegnessero, ma ci siamo capiti. Definire le esperienze comuniste di questi anni come “post-comuniste” sarebbe sbagliato, perché implicherebbe che il comunismo come movimento reale sia un fenomeno esaurito e che soprattutto le ragioni della sua esistenza siano finite. Non è così, perché quelle ragioni sono sotto i nostri occhi e sono più attuali che ai tempi di Marx, perché l’ingiustizia e l’insostenibilità del capitalismo sono una realtà molto più di quanto non lo fossero ai tempi di Marx. È forse giusto, invece, definirle “post-PCI”, perché sono state effettivamente gli ultimi fuochi prodotti dal patrimonio umano e culturale del partito storico, e si sono spente perché non sono riuscite a porre rimedio ai problemi profondi che avevano incancrenito quel partito, ma anzi li hanno riprodotti, senza nessuna capacità di sviluppare una risposta marxista e rivoluzionaria ai nuovi problemi del nostro tempo, ai bisogni contemporanei dei lavoratori e alle esigenze concrete della lotta di classe.
L’obiettivo oggi è accendere di nuovo il fuoco. La lotta per il socialismo è la lotta che caratterizza la nostra epoca, perché è la contraddizione insanabile tra il carattere sempre più sociale della produzione, e un profitto sempre più esclusivo dei capitalisti a renderla tale. Questo dato oggettivo non viene meno con le temporanee battute d’arresto della storia, ma sta a noi rimetterla in modo.
È il compito più difficile, ma è davvero l’unico terreno su cui si può vincere. Perché i lavoratori, la classe operaia, le nuove generazione che questo sistema condanna a un futuro di precarietà e disoccupazione, probabilmente non “vogliono bene a Berlinguer” e non si emozionano con la falce e martello, ma hanno bisogno di imparare a lottare contro l’oppressione che vivono ogni giorno. Sono loro il nostro popolo, è a loro che le piccole avanguardie politiche oggi esistenti devono dare coscienza, organizzazione, costituirle in partito rivoluzionario.
Il dibattito su cosa dovesse essere il partito risalente ai tempi di Lenin nella socialdemocrazia russa si concluse con la massima bolscevica secondo cui il partito deve essere costituito dagli elementi di avanguardia della classe lavoratrice, che significa innanzitutto che il partito è una parte della classe, o che è organico ad essa per dirla con Gramsci. Il dibattito, dal chiedersi come riprendere voti e consenso, dovrebbe forse essere spostato su come possa avvenire oggi che gli elementi più avanzati della classe si costituiscano in partito, consapevoli che l’intera esperienza storica del movimento operaio e gli elementi di maturazione acquisiti non possono essere cancellati pensando di ripercorrere tutte le tappe che sono state storicamente necessarie dalla metà del XIX secolo. Se storicamente nascono prima i sindacati e solo più tardi i partiti operai, è evidente che oggi le due prospettive devono marciare dialetticamente insieme.
Cento anni fa avvenne con una scissione, all’indomani di una insurrezione generalizzata nel continente europeo sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre, insurrezione che aveva fallito proprio per la carenza dell’elemento soggettivo. Dopo quella sconfitta storica, nella maggior parte dei paesi si produsse la scissione delle frazioni più avanzate dei partiti socialisti, che costituirono i partiti comunisti rompendo con la socialdemocrazia e contendendo a questa la direzione e l’egemonia in un movimento operaio ancora in fermento.
La situazione odierna in Italia è molto diversa. A stento si può affermare che esista un ampio movimento operaio organizzato. Esistono piccole avanguardie sindacali combattive, spesso costituite su impulso di militanti politici di formazione marxista, a fronte dei sindacati concertativi i cui vertici portano la principale responsabilità della paralisi e della stagnazione del movimento operaio. Ed esistono piccole formazioni politiche, che raramente possono vantare la minima capacità di influenza o direzione su settori anche ristretti della classe, proprio perché per anni ci si è posti altri problemi a causa di una una errata concezione del ruolo e del carattere del partito. Da scindere c’è rimasto molto poco, e non tanto perché si è pochi, ma perché nessuna scissione politica che avvenga oggi corrisponde davvero a qualsivoglia movimento reale interno alla classe che ne orienti specifici settori, fosse anche ristretti.
Da questa situazione derivano due cose: a) La costituzione di un partito comunista oggi non può prescindere dal recupero del legame organico con la classe lavoratrice che da tempo i comunisti hanno perso, e b) la costituzione in partito delle avanguardie di questa classe oggi può avvenire solo per attraverso la ricomposizione di forze che allo stato attuale sono divise e disomogenee.
È un problema serio, grosso, impegnativo. Si tratta di sporcarsi le mani con le contraddizioni che smettono di essere una parola proveniente dal campo della filosofia e diventano un concetto molto più concreto e palpabile. Ma pensare di bypassare questo problema dedicandosi semplicemente alla rincorsa della comparsata mediatica o alla politica da social, ripetendosi che va bene perché “oggi la politica si fa così”, è una forma di autoconsolazione buona come palliativo, ma a lungo termine non porterà nessun risultato se non la mutazione genetica (o la progressiva estinzione) di chi si presta a questo gioco.
Per ragioni comprensibili, applicare questa riflessione alle strutture politiche è molto più complicato. Le divisioni oggi esistenti tra le forze politiche comuniste non sono frutto di personalismi o egoismi dei rispettivi gruppi dirigenti, ma sono la conseguenza di profonde divergenze di natura strategica, politica, ideologica. A testimonianza di ciò, le divisioni in Italia riflettono quelle esistenti nel Movimento Comunista Internazionale su tutti i principali nodi strategici.
Questo rende semplicemente impensabile l’idea di replicare la chiamata all’unità come si fece ai tempi della nascita del PRC e come si tenta di fare ciclicamente con risultati discutibili. Bisognerebbe valutare, al contrario, l’opportunità di fare l’esatto opposto. Non l’unità a tutti i costi senza discutere dei temi divisivi ma, al contrario, aprire un tavolo di discussione franca tra tutte le forze che si pongono il problema della ricostruzione comunista, senza vincoli legati a scadenze organizzative o elettorali. È solo così che si possono davvero produrre, attraverso il dibattito franco e il confronto anche aspro tra le posizioni che diventa patrimonio collettivo, quegli avanzamenti teorici, politici e ideologici che sono presupposto per ogni progetto di costituente comunista che si possa davvero definire tale e non sia semplicemente una trovata propagandistica per denominare il proprio congresso.
La ricostruzione del Partito comunista deve marciare su due gambe solide. Le abbiamo citate: il radicamento nella classe e la capacità di organizzare i suoi elementi più combattivi; una solidità politico-ideologica capace di far vivere e dare nuovo fermento al marxismo-leninismo nel XXI secolo, di formare anche sul piano della cultura, dell’informazione, degli studi accademici, della produzione artistica, letteraria, musicale, quella massa critica capace di rispondere all’egemonia culturale delle classi dominanti.
Tutto questo, è chiaro, non si realizza con uno schiocco di dita. Non smetteremo di zoppicare in un giorno mentre le nostre gambe e le nostre ossa si rafforzano. Ma se a 30 anni dalla fine del PCI, con una crisi del movimento comunista che si è solo approfondita, cominciassimo a porci i problemi giusti sarebbe già un passo avanti.
Basterebbe capire che se si sceglie ancora di non farlo, di illudersi che possano esistere delle scorciatoie, e che invece di mettersi in marcia si possa semplicemente sbattere le braccia come se fossero ali, il risultato non è spiccare il volo ma schiantarsi a terra.
view post Posted: 13/2/2021, 21:52 Canali sul comunismo e filosofia generale - Off topic
CITAZIONE (Stefano Lorenzin @ 13/2/2021, 21:26) 
Se volete bannarmi...non vi biasimo.
Buona serata.

Vi voglio bene, lo sto affermando da “sana”.

Non c'è motivo di bannarti.
view post Posted: 11/2/2021, 21:16 Sulla questione di Stalin e della Cina - Documenti e Dossier
CITAZIONE (Generico Marxista leninista @ 11/2/2021, 21:01) 
CITAZIONE (Sandor_Krasna @ 11/2/2021, 18:52) 
Questo babbeo cita a memoria libri letti decenni fa e di cui non ricorda nemmeno l'autore. Andiamo bene.
Il libro è Storia della guerra del Vietnam (1983) di Stanley Karnow.

Libro consigliabile o spazzatura?

È interessante solo come riassunto degli eventi, anche se abbastanza dettagliato. C'è qualche aneddoto biografico di dubbio interesse e un po' di zavorra soggettivista. Può meritare una rapida lettura se lo trovi gratis o in biblioteca.
view post Posted: 11/2/2021, 18:52 Sulla questione di Stalin e della Cina - Documenti e Dossier
CITAZIONE (Generico Marxista leninista @ 11/2/2021, 18:23) 
La frase di Mao sul Vietnam mi ricordo di averla tratta da un libro dei primi degli anni '80 dal titolo "La guerra del Vietnam" di un giornalista liberal americano Philip Karnov

Questo babbeo cita a memoria libri letti decenni fa e di cui non ricorda nemmeno l'autore. Andiamo bene.
Il libro è Storia della guerra del Vietnam (1983) di Stanley Karnow.
view post Posted: 31/1/2021, 01:05 Fronte della Gioventù Comunista (FGC) - Partiti e movimenti comunisti
Segnalo che il FGC sta lavorando alla creazione di un Fronte Comunista.
www.facebook.com/FronteComunista
www.frontecomunista.it/

Nasce il Fronte Comunista


La crisi capitalistica, aggravata dalla pandemia di Covid-19, ha fatto emergere con forza aspetti cruciali della società nella quale viviamo. La continuità dell’attività dei settori economici legati alla produzione, alla distribuzione e al trasporto delle merci, i quali non hanno sperimentato alcuna chiusura neppure durante il lockdown, dimostra il ruolo insostituibile della classe operaia per la sopravvivenza dell’intera società. Le scelte compiute in materia di chiusure dai capitalisti e dai governi che li rappresentano hanno messo in chiara luce l’inconciliabilità fra massimizzazione del profitto dei padroni e salute delle classi popolari. In questo contesto, le disuguaglianze sono aumentate a ritmo esponenziale, in sintonia con la tendenza generale della distribuzione della ricchezza in condizioni capitalistiche: i ricchi sono divenuti sempre più ricchi mentre il proletariato e i ceti popolari hanno visto peggiorare ulteriormente la propria condizione. I processi di ristrutturazione del capitale stanno producendo e produrranno un’ulteriore concentrazione della ricchezza e la formazione di nuovi monopoli, consentendo ai padroni di continuare a massimizzare i propri profitti anche attraverso un sempre più massiccio attacco ai salari, ai diritti dei lavoratori e alle condizioni di vita delle classi popolari in generale.
La crisi pandemica ha reso evidenti, se ancora ce ne fosse bisogno, tutte le contraddizioni del sistema capitalistico, rendendo palese la sua natura inconciliabile con gli interessi del proletariato e dei lavoratori. Riteniamo pertanto insostituibile la lotta per l’abbattimento del capitalismo e del potere borghese attraverso un processo rivoluzionario che, affermando il ruolo centrale ed egemone della classe operaia, abbia per suo fine l’edificazione del socialismo-comunismo come unica alternativa al capitalismo e allo sfruttamento, come unica via per il superamento delle crisi, delle guerre e delle loro conseguenze sulla società.
La chiarezza programmatica è per noi essenziale e per questo abbiamo costituito il Fronte Comunista nel mese di novembre dello scorso anno, dopo una lunga fase di discussione e approfondimento che ha coinvolto tutti i livelli dell’organizzazione. Ribadendo che la ricostruzione comunista in Italia deve passare per una rottura definitiva con il riformismo, con l’opportunismo e con le derive elettoraliste intese come adozione del parlamentarismo come principale orizzonte di lotta. Siamo convinti che l’azione dei comunisti debba essere votata allo spirito internazionalista e basarsi sulla lettura leninista dell’imperialismo e sul netto rifiuto di posizioni che pongano i comunisti alla coda di interessi di classe borghesi.
Siamo altresì consapevoli che la ricostruzione della soggettività politica comunista in Italia non passa esclusivamente dall’individuazione dei corretti nodi teorici, ma debba misurarsi su un terreno che presenta una fortissima disgregazione delle forze di classe. Questa disgregazione riguarda innanzitutto la classe operaia stessa che noi individuiamo come motore del cambiamento sociale. Compito di chi si pone l’obiettivo di essere avanguardia è dunque mettersi al lavoro per avviare un processo di ricomposizione di classe.
Gli obiettivi strategici di questa fase non possono, dunque, che avanzare su un doppio binario, non parallelo e altamente dialettico, che lega la ricostruzione di una soggettività politica comunista all’altezza dei tempi con la riaffermazione di un movimento reale dei lavoratori. Siamo convinti che gli importantissimi nodi teorici da noi individuati possano sciogliersi unicamente in una costruzione a caldo, nel fuoco della lotta, a cui i nostri compagni sentono di appartenere. La costituzione del Fronte Comunista vuole essere in questo senso un elemento essenziale nella costruzione di un partito comunista che sia effettivamente avanguardia dei processi di lotta concreti della classe operaia. Lavorare in questa direzione esige innanzitutto un’analisi scientifica della composizione di classe della società, dello stato e delle dinamiche del movimento operaio in Italia, per individuare e superare le cause della sua attuale debolezza e frammentazione politica e sindacale. Sul piano sindacale, hanno influito e influiscono negativamente le scelte, arrendevoli, rinunciatarie e addirittura cogestionali, delle dirigenze dei sindacati confederali, alle quali gli elementi più avanzati del sindacalismo di base solo in parte sono riusciti a contrapporre una prospettiva di lotta generalizzata, stanti la loro stessa frammentazione e il loro radicamento non uniforme in tutti i settori. Sul piano politico, pesa negativamente l’incapacità di quei soggetti politici di area comunista che, nell’arco del trentennio successivo allo scioglimento di un PCI già deviato su una prospettiva socialdemocratica, revisionista e riformista, si sono limitati a riprodurne derive e storture in partiti via via sempre più minoritari e distanti dalla classe operaia, senza volere o riuscire a rompere con l’opportunismo.
Siamo, pertanto, convinti che la costruzione del partito rivoluzionario della classe operaia, che nella fase attuale si ponga l’obiettivo immediato e imprescindibile della ricomposizione del proletariato e della ricostruzione della sua coscienza di classe, debba avvenire nel mezzo di processi reali di lotta di classe. Solo su questa base si potrà ripristinare la funzione storica dei comunisti come avanguardia della classe operaia che, organizzandone gli elementi più avanzati, sia in grado di guidarla alla conquista del potere politico.
view post Posted: 21/12/2020, 23:52 Stalin - Storia

La questione di Stalin e il movimento comunista. Non abbiamo una storia di cui vergognarci


Essere comunisti oggi significa, come lo significava già decenni fa, doversi confrontare con l’impatto che la figura di Stalin ha nell’opinione pubblica. È indubbiamente l’elemento più immediato, che nell’immaginario collettivo è legato all’intera impalcatura della narrazione anticomunista che oggi si impone come verità unica. L’intera narrazione ideologica sul “totalitarismo”, categoria dal discutibile valore scientifico e figlia della produzione accademica statunitense degli anni della Guerra Fredda, si fonda sul parallelismo tra la figura di Stalin e quella di Hitler, dispositivo necessario per raggiungere l’obiettivo ultimo delle classi dominanti: l’equiparazione tra il comunismo e il nazismo, che a suo volta rappresenta la base di ogni tentativo di criminalizzazione dei comunisti. Oggi non a caso questa narrazione da Guerra Fredda diviene dottrina ufficiale dell’Unione Europea, e finisce al contempo per fare da sponda alla persecuzione contro i comunisti nei paesi dell’Est Europa.
A questo si somma l’utilizzo che negli anni, a sinistra, è stato fatto di questa polemica da parte della socialdemocrazia e degli opportunisti, da quei settori che sostenendo la necessità di abbandonare il marxismo e con esso ogni parvenza di politica rivoluzionaria e di lotta di classe, facevano propria una battaglia contro lo “stalinismo” spesso indistinguibile da quella del campo avversario. Lo stesso smantellamento dei sistemi socialisti nell’Europa dell’Est è stato accompagnato proprio da parole d’ordine simili a queste. Durante la perestrojka fu Gorbaciov a riesumare la vecchia polemica kruscioviana contro lo “stalinismo”, che già negli anni ’60 aveva accompagnato le riforme economiche che reintroducevano elementi di capitalismo nell’economia sovietica.
Proprio per la rilevanza che questo tema ha sempre avuto resta fondamentale sviluppare una riflessione in merito e saper inquadrare correttamente la questione, anche e soprattutto sul piano del metodo.

Alcuni elementi sul dibattito nel movimento comunista
Negli ultimi anni una parte importante del movimento comunista a livello internazionale ha intrapreso un percorso di grande maturazione politica e ideologica, dopo gli anni seguiti alla crisi dell’89-91, che ha portato molti partiti ad adottare un programma politico apertamente rivoluzionario e a rompere con la stagione dell’opportunismo. Un prodotto di questo avanzamento, che è avvenuto anche sul terreno del bilancio critico della storia del socialismo e del movimento operaio, è stata la nascita dell’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa (ICWPE), i cui partiti membri oggi portano avanti uno sforzo per rafforzare lo scambio, la discussione comune e il coordinamento dell’azione fra i comunisti di tutti i paesi. Sarebbe però sbagliato e riduttivo pensare che l’essenza di questo processo di maturazione, che avviene a livello internazionale tra i partiti che hanno fatto propria una linea rivoluzionaria e marxista-leninista, stia semplicemente nel “recupero” della figura di Stalin. Questa è al contrario proprio la ricostruzione caricaturale che vorrebbero fare i peggiori settori dell’opportunismo. Quello che sta avvenendo è piuttosto un processo di riaffermazione della matrice marxista-leninista nel movimento comunista, che oggi si pone il problema di come costruire una nuova avanzata del movimento operaio nel XXI secolo, e che nel fare questo si interroga sulla strada da percorrere, sui nuovi problemi che il mondo di oggi ci mette dinanzi, e al contempo si pone seriamente la questione di un bilancio della storia del movimento comunista, del socialismo in Urss e nei paesi dell’Est, delle ragioni della controrivoluzione e della degenerazione riformistica di numerosi partiti nati dalla Terza Internazionale. Oggetto delle riflessioni in atto nei settori più avanzati del movimento comunista internazionale sono, ad esempio, l’analisi dell’imperialismo e l’attualità dell’analisi leninista contro l’affermarsi di tendenze che di fatto finiscono per negarla; un giudizio critico sulle “vie nazionali al socialismo” e sull’idea delle “tappe” intermedie nella lotta per il socialismo, un bilancio dell’esperienza dei fronti popolari e della svolta impressa ai partiti operai con quella strategia, etc.
Il giudizio su Stalin e sull’esperienza del socialismo reale, che spesso ha fatto da spartiacque tra i comunisti e l’opportunismo, è parte integrante di questa maturazione, sebbene come detto non la esaurisca. Non si tratta tanto di chiedersi se Stalin faccia parte o no dei “grandi maestri”. La questione è ben altra rispetto al simbolismo e al culto para-religioso di immagini e citazioni, perché questo è un modo idealistico e dogmatico di intendere la questione che sta all’esatto opposto del marxismo e della dialettica. Alla nuova generazione di comunisti non deve interessare il feticcio di Stalin, bisogna piuttosto trarre lezione dal suo pensiero. Tutto il lavoro teorico-organizzativo di Stalin è prezioso proprio perché offre lucidissime analisi di queste stesse deviazioni idealistiche e borghesi che intendono adorare la figura del dirigente spogliandolo dal suo significato politico e rivoluzionario. Il nostro compito deve fondarsi quindi sulla riconquista della capacità dei comunisti di analizzare e tracciare un bilancio critico della propria storia e delle sue contraddizioni, sgombrando il campo dall’influenza dell’ideologia borghese.
A chiusura di queste considerazioni vale la pena riportare per intero un passaggio dall’intervento di Kemal Okuyan, segretario del Partito Comunista di Turchia (TKP), all’ultimo European Communist Meeting del dicembre 2019, che inquadra correttamente l’approccio che i comunisti dovrebbero avere: «Dobbiamo stare attenti ed evitare, dal nostro lato, gli atteggiamenti che faciliterebbero i tentativi di demonizzare il movimento comunista. Cosa intendo? Che il movimento comunista dovrebbe evitare di dare di sé un’immagine maldestra, nostalgica e obsoleta. Dovremmo lavorare sugli elementi che sono utilizzati dagli anticomunisti per caricaturizzare le organizzazioni comuniste, e dirci che siamo irrilevanti. Questo non deve necessariamente significare diventare sleali ai nostri principi e alle nostre tradizioni. Al contrario, il movimento comunista può essere moderno, contemporaneo e fermamente rivoluzionario allo stesso tempo. E in realtà, se i nostri partiti non riescono a raggiungere questo, non saremo capaci di discutere con la classe operaia di oggi e a trasformarla in senso radicale. Compagni, la “trappola Stalin” dovrebbe essere studiata con cautela. Condannare Stalin, per qualsiasi ragione, è anticomunismo. Stalin non era una figura infallibile, ma indietreggiare nel rispondere alle critiche contro Stalin rafforza l’anticomunismo. Nelle discussioni su Stalin non dovremmo mai arrenderci, e tuttavia, dovremmo essere coscienti che un “feticcio di Stalin” fa il più grande danno all’eredità di questo geniale rivoluzionario stesso. La dialettica della lotta attorno al compagno Stalin dovrebbe essere ben calcolata». Considerazioni che condividiamo, frutto dell’elaborazione di uno dei partiti più ideologicamente maturi del continente.

La demonizzazione e la funzione storica del “mito negativo”
L’impatto del mito negativo costruito su Stalin, tanto sulla società e sulla classe operaia in generale quanto su coloro che dovrebbero esserne gli elementi più avanzati, è stato ben descritto da Cristiano Armati nella postfazione a quella che – non vorremmo sbagliarci – è la più recente raccolta di scritti di Stalin pubblicata in lingua italiana, col titolo di “Il libro rosso di Stalin” (Red Star Press, 2014). Un compagno che chiarisce subito di non venire dal marxismo-leninismo, e forse anche per questo è degna di nota la sua critica a quello che definisce «il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui […] un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare? Questo particolare genere di “sinistri” lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il “complesso di Saturno” e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, “come Stalin”, sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia. Risultato di questo diffuso modo di ragionare? Meglio non fare mai nulla».
Il punto di arrivo del mito negativo su Stalin e sul socialismo, il suo impatto sulle nuove generazioni così come sulle vecchie, è proprio l’idea che ogni tentativo di trasformazione rivoluzionaria della società sia destinato a finire con una sconfitta, o per costruire una società peggiore di quella contro cui si combatteva. È un messaggio oggi onnipresente, che permea persino opere letterarie e cinematografiche. Per citare un esempio recente e familiare a molti, l’intera trama della trilogia distopica per ragazzi degli Hunger Games, di Suzanne Collins, da cui sono stati tratti quattro film, si basa sull’idea che anche i rivoluzionari finiscono per tradire il popolo dopo aver preso il potere.
Perché questa operazione ideologica, che di per sé ha come bersaglio tutto il movimento operaio e rivoluzionario, si è focalizzata sulla figura di Stalin? Le ragioni sono essenzialmente storiche e risalgono ai tempi in cui questo attacco è avvenuto e al prestigio unanimemente riconosciuto di cui godeva prima del 1956, tanto nel mondo operaio e socialista quanto più in generale da parte dell’intera politica mondiale dopo il 1945. All’URSS di Stalin guardavano i lavoratori di tutto il mondo come a un faro di speranza, la possibilità concreta che conquistare il potere e liberarsi dei padroni era possibile. I popoli oppressi vedevano nell’URSS un prezioso alleato nella lotta anticoloniale. In Italia le numerose pubblicazioni clandestine del PCI, da “l’Unità” a “Stato Operaio”, contenevano articoli e report sulle conquiste dei lavoratori nell’URSS. Nell’Italia occupata dai nazisti, una delle prime azioni della resistenza partigiana nella capitale fu tappezzare i muri di scritte e manifesti “Viva l’Urss”, “viva Stalin”. Ancora, un aneddoto diffuso vuole che i partigiani delle Brigate Garibaldi catturati dai fascisti e messi alla forca, saltassero per primi dallo sgabello urlando proprio “viva Stalin”. Un prestigio accresciutosi enormemente nel dopoguerra, quando anche i non comunisti si trovarono ad omaggiare una figura che veniva riconosciuta come l’artefice principale della sconfitta del nazismo, e che ebbe un ruolo non secondario nell’adesione di decine di migliaia di lavoratori al comunismo negli anni ’40-50.
In un momento storico in cui l’avanzata del movimento comunista e del campo socialista minacciava concretamente e in misura sempre maggiore gli interessi del capitale, ogni attacco politico e ideologico al comunismo non poteva non fare i conti con la figura di Stalin e adottarla come bersaglio. E questo è quello che avvenne, anche all’interno dell’Urss. Ma come molti già allora denunciarono, si attaccava Stalin per attaccare Lenin, e con loro tutto il sistema socialista e la legittimità di quelle esperienze rivoluzionarie. Quando questo divenne chiaro, era ormai tardi. L’operazione ideologica è proseguita, e a distanza di decenni una figura che nell’immaginario collettivo veniva considerata il simbolo della sconfitta di Hitler oggi è considerata addirittura peggio di quest’ultimo. L’impatto che questa distorsione ha sulle classi popolari, in termini di rassegnazione dinanzi all’esistenza e all’idea che nessun cambiamento reale sia possibile, è un elemento con cui quotidianamente dobbiamo fare i conti.

Come combattere la falsificazione, alcune questioni di metodo
Il dato ormai incontrovertibile che vede coincidere l’attacco alla figura di Stalin con l’attacco al socialismo nel suo complesso ci aiuta però a comprendere qual è il punto fondamentale da affrontare e in che direzione deve andare chi voglia contestare la faziosità di questa narrazione. Ogni “difesa di Stalin” che venga posta in questi termini, nella forma della “controstoria” e della battaglia a colpi di numeri e fonti, è certo utile ma lascia il tempo che trova se non si procede innanzitutto a un inquadramento generale della vicenda storica in questione.
Per capire cosa intendiamo basti pensare a come oggi si studia la storia della Rivoluzione francese. Una vicenda storica di enorme violenza, con 2,5 milioni di morti in un’Europa che aveva 200 milioni di abitanti, che dal 1789 alla sconfitta di Napoleone nel 1815 sconvolge il volto della Francia e dell’Europa intera. Eppure non ci si fa problemi a riconoscere pacificamente che i rivoluzionari di Francia erano in quel momento dalla parte giusta della storia. Non esiste, o quantomeno non esiste oggi, un mito negativo su Robespierre o su chicchessia che sia paragonabile a quello di Stalin, né sulle vittime che vi furono durante quegli avvenimenti storici. Tutto questo invece esiste per la Rivoluzione d’Ottobre e l’Urss, ed esiste esattamente perché quella rivoluzione e le sue idee minacciarono concretamente il potere del capitale, cioè il potere che tutt’oggi caratterizza la nostra epoca.
Un’osservazione del genere è utile a comprendere che, innanzitutto, bisogna sgombrare il campo dall’idea che possa esistere una lettura storica univoca e oggettiva. O meglio, e questa distinzione è centrale, esiste e deve esistere una sola verità nel momento in cui ci si riferisce ai fatti storici. Il numero stimato di vittime in una guerra civile può essere attendibile entro una certa forbice o viceversa totalmente inattendibile, e sulla definizione dei fatti è bene che avvenga il dibattito tra gli storici e che si basi sulle fonti. Su questo terreno deve avvenire la battaglia contro il revisionismo storico e il tentativo di distorcere la storia a uso e consumo di una certa narrazione dominante. Detto ciò è bene avere chiaro da subito che sulla lettura di determinati fatti è difficile pretendere che possa esistere una visione univoca. Del resto, è difficile credere che i nobili che all’inizio del 1800 avevano fretta di rimettersi le parrucche in testa potessero condividere con i sanculotti un giudizio sulle violenze della rivoluzione francese.
Per quel che riguarda la Rivoluzione d’Ottobre e la storia dell’URSS nei decenni immediatamente successivi ad essa, i comunisti partono proprio da questo principio, dall’inquadrare la vicenda storica dal punto di vista della lotta del proletariato. Ecco allora che bisogna avere chiaro che la questione di Stalin per i comunisti non si esaurisce nel contrastare la falsificazione storica che oggi viene costruita sull’Holodomor, sugli esiti della collettivizzazione, sullo scontro che avviene nel partito bolscevico, ecc. Tutto questo va inserito nel quadro di una lettura complessiva di cosa è stata la costruzione del socialismo e di cosa è avvenuto nel contesto di quel processo. Quello che manca anche negli studi storici, ad esempio, è una lettura che inquadri la vicenda della collettivizzazione e dello scontro con i kulaki (che poi la propaganda di guerra nazista durante l’occupazione militare del ’41 ha abilmente trasformato nel mito dell’Holodomor oggi ripreso per intero dalla storiografia borghese) come la conferma della tesi della continuazione della lotta di classe nel socialismo. Nel famoso libro “Stalin. Storia e critica di una leggenda nera”, sebbene scritto con altra impostazione e intenti rispetto a quelli che enunciamo qui, Losurdo sembra in parte avvicinarsi a questo principio e pone la questione in questi termini: nella Russia rivoluzionaria e in Urss c’è stata non una, ma tre guerre civili. La prima è quella che segue alla presa del potere e vede l’Armata Rossa difendere il paese dall’invasione degli eserciti capitalisti e far avanzare la rivoluzione in tutto il paese; la seconda è lo scontro con i proprietari kulaki nelle campagne durante il periodo del primo piano quinquennale, la terza è quella che logora all’interno il gruppo dirigente bolscevico nel periodo delle purghe.
Indipendentemente dal giudizio sulla giustezza di questa impostazione, è già evidente che parlare di uno scontro interno al paese è molto diverso rispetto al “genocidio ucraino ordinato da Stalin” di cui si parla su certi testi. O ancora la questione delle purghe, citata prima, non si può comprendere se non la si legge assieme a ciò che avviene contemporaneamente in Germania con l’ascesa del nazismo, che dall’inizio ebbe l’obiettivo proclamato di distruggere l’Urss, e dunque con il lavoro di infiltrazione svolto dai servizi segreti tedeschi che – oggi è noto – costruirono quinte colonne praticamente in ogni paese europeo in preparazione dell’invasione. Ludo Martens ad esempio insiste molto su questo aspetto e sul dimostrare i legami con questa operazione di chi fu sottoposto a processo; Anna Strong al contrario sembra suggerire che molti degli errori di quel periodo, di cui finirono vittima anche dirigenti validi, furono proprio il frutto di un lavoro di apparati di infiltrazione della Germania nazista.
Abbiamo citato rapidamente e a titolo di esempio alcune singole questioni, che evidentemente non possono essere affrontate qui in forma estesa ma che rendono idea della complessità rispetto ad alcune vicende. Ma quello che ci preme di più sottolineare è una questione di fondo. Il periodo della dirigenza di Stalin nell’Urss rivoluzionaria è il periodo del consolidamento del potere politico dei bolscevichi e della costruzione del socialismo nel campo economico, processi che incontrano resistenze, danno luogo a conflitti e anche ad eccessi tipici di una situazione di conflitto e di scontro, che si inquadrano nel contesto della continuazione della lotta di classe nel socialismo. Questa è la principale chiave di lettura da comprendere per procedere verso un giudizio complessivo su quelle vicende storiche.

La “riscoperta” strumentale di Stalin da parte della borghesia russa e di alcuni settori nazionalisti
Vale la pena in ultimo spendere qualche parola su un fenomeno nuovo, che ha interessato progressivamente la Russia capitalista dopo la controrivoluzione e oggi fa breccia anche in alcuni settori del movimento comunista. È evidente da anni un recupero da parte del governo russo di elementi identitari ed estetici della storia sovietica, costantemente svuotati del loro contenuto rivoluzionario e tuttavia utili per la propaganda di un progetto politico che oggi punta alla riaffermazione del peso della Federazione Russa nella politica internazionale. È chiaro che 70 anni di socialismo, un periodo che ha abbracciato intere generazioni e in cui un paese medioevale ha conosciuto uno sviluppo a ritmi fino ad allora mai visti, non possono essere rimossi facilmente dalla memoria di un popolo, né è possibile riproporre la stessa demonizzazione di quel periodo così come la conosciamo noi e pretendere che le persone la facciano propria pur conoscendone la falsità.
La borghesia russa lo sa bene, e oggi preferisce utilizzare strumentalmente la storia dell’Unione Sovietica, torcendone il significato in chiave unicamente patriottica e nazionalista rendendola a proprio uso e consumo. Questo processo, già visto da tempo per quanto riguarda la “grande guerra patriottica” (così in Russia ci si riferisce da sempre alla seconda guerra mondiale) che oggi viene descritta come una vittoria della nazione russa e non del sistema socialista, non risparmia neanche la figura di Stalin e si spinge all’esaltazione dell’Urss nei termini dell’“impero” sovietico, come glorificazione del periodo in cui la Russia è stata una grande potenza mondiale. La stessa figura di Stalin, che oggi in Russia gode di grande popolarità, viene trasformata nell’incarnazione della politica da grande potenza. A questa operazione, che con lo stesso intento recupera anche il pensiero “geopolitico” del primo ‘900 sull’Eurasia (Mackinder, etc…) si sono prestati purtroppo anche i settori del movimento comunista russo maggiormente legati alla gestione politica della nuova Russia capitalista, e questa impostazione oggi esercita un’influenza anche all’esterno, venendo recepita persino da quel settori nazionalisti che oggi cercano di esercitare un’influenza sul movimento comunista.
Dinanzi a un’operazione del genere, dalla quale già Lenin metteva in guarda nella celebre introduzione al suo “Stato e Rivoluzione”, bisogna avere la capacità di ribadire che la questione centrale dell’importanza storica di Stalin sta proprio nel fatto di essere stato un dirigente rivoluzionario e comunista, un dirigente della classe operaia nel periodo storico della costruzione dei rapporti di produzione socialisti. Ogni apologia che sottolinei esclusivamente il ruolo avuto nella sconfitta del nazismo e i risultati militari dell’Urss (la bomba atomica, ecc), dimenticando invece l’elemento fondamentale, rischia di essere un enorme regalo a settori del campo borghese piuttosto che una difesa di principio di un dirigente rivoluzionario della classe operaia.
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