Comunismo - Scintilla Rossa

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view post Posted: 29/4/2020, 20:52 Razza Padrona - Varie
Profitti, "filantropia" e riconversioni: come i capitalisti affrontano la crisi

Pierpaolo Mosaico e Alessio Angelucci | senzatregua.it

13/04/2020

L'emergenza sanitaria con cui stiamo convivendo da ormai più di un mese sta dispiegando i suoi effetti non solo sul piano strettamente relativo alla salute pubblica, ma anche su quello economico-sociale. Mentre sono ancora del tutto insufficienti le misure a sostegno dei lavoratori e delle classi popolari, con milioni di persone che affrontano enormi difficoltà in assenza di qualsiasi tipo di introito nel contesto delle restrizioni per il contenimento dell'epidemia, il Governo ha come priorità assoluta il sostegno alle imprese. Ma di fronte ad un calo stimato del PIL annuo del nostro Paese che si attesterebbe almeno al -8,5%, le pressioni della Confindustria non si limitano all'interlocuzione con il governo e rispondono alle multiformi strategie che i vari settori della borghesia italiana stanno seguendo e che riteniamo necessario analizzare.

Produrre ad ogni costo


L'esigenza primaria per tutti i capitalisti è quella di non fermare le proprie attività per nessun motivo, pena la perdita di posizioni sul mercato e la conseguente diminuzione dei profitti. Questo bisogno spiega il motivo per cui la borghesia italiana si sia mossa compattamente per condizionare la gestione della crisi da parte del governo. Esemplificativo da questo punto di vista il caso della provincia bergamasca, non a caso una delle più colpite dal Coronavirus, e le pressioni esercitate dalla Confindustria di cui abbiamo già parlato in un precedente articolo (link).

La prima fase della crisi è stata caratterizzata dal tentativo da parte dei padroni di non interrompere alcuna attività, così da continuare a guadagnare il più possibile, non curandosi minimamente delle condizioni dei lavoratori e dell'impatto in termini di vite umane, o meglio proletarie, di un aumento della diffusione del Covid. Nei fatti le misure del Governo hanno seguito questo indirizzo, ritardando di oltre due settimane la chiusura dei settori non essenziali e consentendo così agli industriali di intensificare la produzione per fare magazzino, facendone pagare il prezzo a milioni di operai costretti non solo ad esporsi alla possibilità del contagio, ma anche turni prolungati ed estenuanti.

Uno delle argomentazioni impiegate per attirare sostegno a queste richieste, che in questi giorni di sensibile calo dei contagi si fa più intenso, è il tentativo di convincerci dell'esistenza di una relazione di identità tra il prosieguo delle loro attività economiche e la sopravvivenza del paese, facendo leva anche sulla disperazione di quei lavoratori per i quali continuare a lavorare a tutti i costi spesso è l'unica alternativa per poter mangiare. Poco importa se la prospettiva messa davanti a quegli stessi lavoratori dai capitalisti è quella di scontrarsi, anche nel continuare le attività lavorative, con la messa a repentaglio della loro incolumità, in virtù delle inesistenti condizioni di sicurezza nella stragrande maggioranza dei posti di lavoro.

A partire da ciò, l'ondata di scioperi spontanei precedenti al decreto sul "lockdown" e la diffusione esponenziale del virus, hanno obbligato provvedimenti, comunque parziali, di chiusura di alcune attività non essenziali. Provvedimenti che hanno comunque risposto in parte ad alcune esigenze dei padroni stessi. Infatti, in un contesto di forte crisi della domanda in alcuni settori, come quello automobilistico, la possibilità di sospendere le attività produttive e di utilizzare strumenti come la Cassa Integrazione (1), che sgravano le imprese dal costo del lavoro, è stata vista come una ghiotta occasione per non intaccare i propri patrimoni. Inoltre bisogna sottolineare come, in ogni caso, le maglie delle chiusure e dei controlli sull'effettivo rispetto dei decreti sono stati piuttosto larghe, consentendo anche molte via d'uscita per continuare a mantenere in funzione gli stabilimenti.

Dopo i decreti del governo, ad oltre un mese dall'inizio dell'emergenza nel nostro paese, possiamo individuare alcune tendenze.

Tempo di crisi, tempo di affari

In primo luogo una parte dei grandi capitalisti, al netto del continuo piagnisteo sulla difficoltà del momento fatto dalla Confindustria, sta facendo profitti d'oro.

Esemplificativo di ciò è l'ormai famoso video (link) che Urbano Cairo, presidente di Cairo Communication e RCS Mediagroup, ha registrato per motivare ed incoraggiare la sua rete vendita (in particolare per La7 e Corriere della Sera) che in questo momento di emergenza, a quanto pare, "sta reagendo bene", in linea con gli aumenti dei guadagni che si rilevano nei settori televisivo, della comunicazione e dell'editoria.

Il discorso di Cairo racconta, infatti, una realtà totalmente opposta rispetto a quella da contesto di guerra e sacrifici con cui gli stessi mezzi di comunicazione di cui è proprietario ci stanno bombardando quotidianamente. Non fa menzione del disagio di chi ha perso il lavoro, di chi sta lavorando senza DPI o delle famiglie che hanno difficoltà a fare la spesa. Non ci parla neanche dei "punti in percentuale sul PIL" che stiamo perdendo su cui Confindustria tanto fa pressione per obbligare la riapertura delle aziende, contrariamente a quanto vorrebbero la comunità scientifica e i lavoratori in generale. Al contrario, ci fa sapere che è pieno di eccitazione come quando diede vita alla sua prima azienda pubblicitaria. Ci dice che "l'ascolto di La7 sta esplodendo" aumentando gli ascolti del 30%, "il traffico del Corriere.it tre volte tanto", "le copie dei nostri settimanali, periodici, vanno bene". Ci dice che anche molte altre aziende stanno aumentando i propri guadagni, in particolare quelle legate al settore della grande distribuzione alimentare, e che questi potranno aumentare ancora di più con la collaborazione dei suoi canali di comunicazione a fargli da megafono. Insomma, la classe padronale sta guardando all'attuale emergenza come una nuova e avvincente esperienza: niente di tragico, solo "buone condizioni commerciali". E senza vergogna, afferma che quest'anno si presenta una "grande opportunità" da capitalizzare. Peccato però che per la maggior parte della popolazione non stia vivendo la sua stessa favola.

Il principale settore che in questo periodo sta vedendo aumentare i propri profitti è, ovviamente, quello alimentare con tutta la sua catena di distribuzione e quindi i colossi dei supermercati. Situazione determinata per lo più dall'aumento del cibo che le persone consumano, restando chiusa in casa, e dalla paura che questo finisca portando alla necessità di fare scorte. Aumentano, infatti, le vendite di farina (+186,5%), burro (+79,7%), riso (+37,9%) pasta (+22,6%), latte a lunga conservazione (+34,1%), uova (+53,7%). Non aumentano notevolmente, però, soltanto le vendite legate ai prodotti essenziali, ma anche quelle legate al cosiddetto "comfort food" (patatine +25,7%, spalmabili dolci +61,3%e pizza surgelata +45,7%). In questo contesto di evidente necessità, le maggiori aziende del settore stanno provando a contendersi il mercato, utilizzando proprio lo strumento pubblicitario al fine fare leva sui sentimenti dei consumatori, tramite una retorica patriottica volta alla fidelizzazione. Basta accendere la TV, infatti, per accorgersi della comunicazione monopolizzata di Barilla, Parmigiano Reggiano, Grana Padano, costantemente presenti con una narrazione che le presenta come umili aziende che si stanno sacrificando in prima linea per garantirci i prodotti essenziali. Dietro questa retorica si nasconde ben altro, una realtà fatta di sfruttamento dei lavoratori del settore agroalimentare e dei braccianti in ambito agricolo, che scompaiono nella retorica rassicurante delle aziende con spirito familiare che si preoccupano con amore di portare il cibo sulla tavole degli italiani. E quanto di grosso e marcio c'è in ballo viene confermato dalle preoccupazioni del ministro Bellanova per l'assenza nei campi di almeno duecentomila lavoratori e dalla volontà di istituire "corridoi verdi" per organizzare l'afflusso garantito di lavoratori da pagare 2,5€ l'ora. Sulle braccia di queste persone e di quelle senza contratto - quasi la metà degli occupati - si regge il tanto millantato "Made in Italy".

Questo quadro ci permette di capire molto bene il tipo di operazione che, ad esempio, Giovanni Rana e Ferrero tentano di compiere, quando comunicano i benefici che starebbero elargendo ai propri dipendenti. Non si tratta di un'azione dettata da un vero spirito di beneficenza, ma di una molto più semplice operazione commerciale possibile soprattutto grazie all'esponenziale aumento dei profitti di queste imprese. Giovanni Rana afferma di aver aumentato del 25% il salario per gli operai che continueranno a lavorare, Ferrero, invece, di garantirgli 750 euro lordi. Il primo, in un tavolo sindacale pre Covid-19, aveva già ridotto lo stipendio dei propri dipendenti di mille euro; il secondo, ha previsto che i lavoratori che, invece, sceglieranno di restare a casa, lo faranno pagando di tasca propria metà delle ferie. Chiaro che questi aumenti siano utili a contenere eventuali proteste dei lavoratori, per la mancanza di sicurezza o in solidarietà con i propri colleghi altre aziende in difficoltà, in un momento in cui le attuali vendite e le rosee previsioni di guadagni futuri necessitano che si lavori a pieno regime (anzi, di più). In tutto ciò non c'è niente di solidaristico, anzi, la retorica del "padrone magnanimo" è utile a queste imprese soltanto per un'operazione simpatia indirizzata a conquistare un'importante fetta di "consumatori".

La logica del profitto, però, oltre ad animare questi presunti slanci filantropici dei padroni del settore agroalimentare e della grande distribuzione, crea anche dei problemi a cui il capitalismo non riesce a dare risposta nei tempi necessari. Prima del Coronavirus alcuni beni, benché necessari in determinati ambiti, in Italia venivano prodotti da un numero molto esiguo di imprese poiché la produzione sul nostro territorio non garantiva ampi margini di profittabilità. Questo è il motivo per cui in piena emergenza e con esportazioni bloccate ci siamo trovati senza mascherine, disinfettanti e via dicendo. Questa mancanza di dispositivi di protezione individuale è stata un problema enorme, che ha esposto decine di migliaia di medici e operatori sanitari al contagio proprio nei momenti di maggiore pressione, mettendo in ginocchio il sistema sanitario. Mancanza che ha esposto i milioni di lavoratori costretti al lavoro, in settori essenziali o meno, senza le adeguate protezioni per garantire gli interessi degli industriali. Ciò mette in luce come il solo metro del profitto non riesce a garantire gli interessi della collettività, ci permette di sentire molto concretamente quanto sarebbe necessaria la pianificazione centralizzata sotto il controllo dei lavoratori come criterio razionale di produzione sulla base delle esigenze contemporanee delle masse popolari. Solo nel momento della diffusione del virus invece abbiamo visto un boom della produzione, certo assolutamente imprescindibile, di materiale necessario per proteggere la salute della popolazione, che però è arrivato in ritardo rispetto al momento di maggiore bisogno. E non si può ignorare che questo aumento di produzione si arrivato solo nel momento in cui questa scelta è stata ritenuta più profittevole viste le condizioni di necessità immediata su larga scala, e che spesso sia stato portato avanti sempre mettendo tutto il peso sulle spalle dei lavoratori. Sono diversi nel settore i casi in cui gli orari lavorativi sono aumentati senza assumere nuovo personale, e senza che venissero forniti ai lavoratori gli adeguati dispositivi di sicurezza - grazie anche alle maglie larghe dei decreti in ambito di sicurezza sul lavoro. Anche in ambito di produzione di materiale sanitario e nel settore farmaceutico, quindi, si segnano impennate. Tra le aziende che stanno facendo maggiori guadagni possiamo citare l'Angelini che dall'inizio dell'emergenza ha aumentato la produttività di oltre il 60% con un incremento dei guadagni, nei soli mesi di Gennaio e Febbraio, dell'800% rispetto allo scorso anno. Analizzando le vendite di mascherine riscontriamo un aumento del +427%, solo nel centro Italia. Aumenti di tal genere si riscontrano anche nella produzione di guanti, respiratori, camici, disinfettanti, occhiali ecc.

Se parliamo di guadagni al tempo del coronavirus, giusto per completezza, non possiamo non guardare anche oltre al nostro paese e citare il ruolo che in questo momento stanno avendo le grandi piattaforme digitali, da Netflix a Disney+, passando per Google e tutti quei gestori di servizi indispensabili per la digitalizzazione di alcune attività, per non parlare di Amazon che beneficiando della temporanea riduzione della mobilità della popolazione sta aumentando esponenzialmente il volume delle vendite.

Riconversioni e donazioni


La carenza strutturale di dispositivi sanitari per la sanità pubblica, oltre ad aprire la gara delle raccolte fondi, è diventata un'occasione per molti dei principali monopoli del Paese - come Armani, FCA, Luxottica, Campari e molti altri - ma anche per molte imprese di dimensioni inferiori. La possibilità, cioè, di riconvertire alcune delle proprie linee produttive, che si è trasformata in un immediato spot pubblicitario per tutte le imprese che hanno percorso questa strada, senza che ne venisse in alcun modo misurato l'effettivo impatto ed utilità nel sostegno alle esigenze del sistema sanitario. Ma non si tratta solo di marketing.

Ciò che vediamo è che, dopo aver esercitato pressioni per ritardare il più possibile la chiusura dei propri impianti, nei fatti alcune imprese abbiano usato la possibilità di riconvertire parte delle linee produttive per poter rientrare tra i codici Adeco considerati "essenziali". Ed in questo modo riescono a mantenere attiva la produzione anche di tutte le merci abitualmente prodotte che non rientrano tra le "essenziali", assicurandosi con un escamotage un grosso vantaggio competitivo. Altro che sforzo di solidarietà, dietro ai titoli di giornali che parlano di sacrifici delle imprese per produrre, e a volte donare in quantità risibili, materiale sanitario, c'è in realtà semplicemente un'operazione imprenditoriale. Come se non bastasse queste stesse imprese ottengono anche dalla finanza pubblica incentivi per agevolarle nella riconversione, infatti il DL Cura Italia prevede per chi riconverte sostegni per 50 milioni di cui hanno già usufruito centinaia di aziende.

Già da ora iniziano a circolare le mascherine e i camici che Armani sta producendo e vendendo sul mercato, così come i respiratori prodotti da FCA oppure i disinfettanti firmati Campari.

Ma questa corsa alla riconversione non è soltanto italiana. Anche nel resto del mondo grandi gruppi principalmente dei settori tessili, cosmetici e automobilistico stanno andando nella stessa direzione. Lo fanno ad esempio Zara, il gruppo LVMH di Bernard Arnault (terzo uomo più ricco al mondo), Ford, General Motors…

Considerando quanto stiano crescendo i guadagni di alcuni gruppi non ci meravigliamo nemmeno delle varie donazioni che hanno occupato le prime pagine dei giornali per settimane.

I principali mezzi di comunicazione si stanno impegnando nel promuovere l'idea per cui saremmo tutti sulla stessa barca, mentre è palese esattamente il contrario. Mentre si sprecano gli appelli all'unità nazionale, al fare ognuno la propria parte, al sostenere in egual modo gli stessi sacrifici. Si sprecano anche quelli alla solidarietà e sulla beneficenza provenienti da parte di figure impresentabili della borghesia nazionale, che in questo periodo stanno cogliendo la palla al balzo per attuare un'operazione di immagine ed incrementare i propri profitti. Uno su tutti Silvio Berlusconi che, dopo aver condotto la progressiva privatizzazione e lo smantellamento del Sistema Sanitario Nazionale, ha dato notizia di aver destinato 10 milioni di euro - indirizzati ovviamente ad una fondazione privata - per l'allestimento di un reparto di terapia intensiva nella Fiera di Milano, tentando così di nascondere le proprie responsabilità politiche dell'attuale emergenza sanitaria e di portare avanti un'operazione di marketing. L'ospedale è stato inaugurato pochi giorni fa, ma è privo di medici, privo di posti letto sufficienti - solo 24, dovevano essere 600 - a garantire un adeguato ricovero dei pazienti Covid e ci sono molteplici dubbi su quanto effettivamente sia stato speso per l'intera opera - i soldi raccolti, per come era stato sbandierato, avrebbero dovuto essere più che sufficienti. A rendere ancora più ridicola questa operazione il fatto che molti dei gruppi che stanno facendo donazioni, magari sono gli stessi che hanno portato da tempo le proprie sedi all'estero per non pagare le tasse in Italia, contribuendo quindi in maniera indiretta alla riduzione delle risorse della fiscalità generale che sarebbero potute andare a potenziare il sistema sanitario.

Non bisogna dimenticarsi inoltre che anche le donazioni che rientrano sempre in una valutazione costi-benefici. Con cifre minime rispetto all'entità dei propri patrimoni questi gruppi riescono ad ottenere un ottimo ritorno pubblicitario. Senza contare che comunque la risoluzione dell'attuale crisi, chiaramente alla loro maniera, rientra nella sfera d'interesse dei padroni così da poter tornare il prima possibile a fare affari normalmente.

Le perdite? Le pagano i lavoratori!

Così come in questo momento esistono dei settori i cui guadagni stanno schizzando alle stelle ce ne sono anche altri in cui si verificano forti perdite.

È il caso del settore automobilistico che nel mese di Marzo di quest'anno ha segnato un -85% della produzione rispetto allo scorso anno. Oppure del settore aereo con un traffico ridotto del 70%, con picchi del 90% per alcune tratte europee. Ma anche del settore turistico che soffre chiaramente delle limitazioni imposte alla mobilità.

In molti casi queste diminuzioni stanno comportando anche richieste di taglio dei salari dei lavoratori alla ripresa delle attività. Ne è un esempio il gruppo FCA che si prepara ad esigere dai propri dipendenti una riduzione del 20% delle mensilità, tentando di addolcire la richiesta mostrando riduzioni anche nei compensi dei dirigenti. Poco importa se i salari dei primi saranno salari ancor più da fame e gli stipendi dei secondi resteranno milionari.

La diminuzione della produzione industriale in Italia (a Febbraio -2,4% su base annua) e il crollo dei commerci (il WTO stima un crollo fra il 13% e il 32% nel 2020) stanno fisiologicamente determinando anche delle perdite nei patrimoni dei principali capitalisti italiani che hanno interesse in una molteplicità di settori e di conseguenza sono interessati da una crisi come quella attuale che ne tocca svariati.

Secondo il Bloomberg Index sono colpiti da queste perdite tutti i principali capitalisti italiani, i dati ci dicono che da inizio 2020 Giovanni Ferrero abbia perso in dollari 3,97 miliardi, Leonardo del Vecchio 7,13 miliardi, Paolo Rocca 2,72 miliardi, Silvio Berlusconi 2,08 miliardi, Giorgio Armani 1,96 miliardi.

Ma se qualcuno fosse in apprensione per le vite di questi poveri miliardari non avrebbe molto da preoccuparsi poiché, qualora non bastassero per sopravvivere gli altri svariati miliardi di cui dispongono nei loro conti e sotto forma di proprietà, questi sfortunati imprenditori avranno a disposizione anche il pieno sostegno da parte del Governo che giusto pochi giorni fa ha annunciato un trionfale piano di sostegno alle impese quantificabile in oltre 400 miliardi di euro di garanzie nei loro confronti. Si ricordi invece che lo stanziamento di sostegni straordinarie per far mangiare le famiglie erano quantificabili nella misera cifra di 400 milioni, per di più erogati con modalità discutibili.

Dove prenderanno tutti questi soldi? Chiaramente a garantire sarà direttamente lo Stato, quindi la fiscalità generale, quindi in larghissima parte i soldi dei lavoratori o dei pensionati che pagano le tasse. Questo proprio perché una parte delle aziende di questi imprenditori, come già visto, non hanno la sede legale nel nostro paese o comunque beneficiano di una fiscalità che è tutt'altro che progressiva. Lo stesso discorso vale anche per qualsiasi manovra a livello sovranazionale come l'utilizzo del MES o l'emanazione di Eurobond, i cui costi in termini di dispendio per la finanza pubblica saranno soddisfatti attingendo direttamente dalle tasche dei lavoratori.

Le condizioni di accesso a queste forme di aiuti sono concepite in modo da favorire il più possibile le grandi concentrazioni di capitale, tanto che ad esempio nel decreto di sostegno alle imprese del Governo Conte basta osservare le fasce di garanzia dei prestiti per rendersi conto che nel primo scaglione si equipara il piccolo commerciante che fattura 30.000 euro l'anno con un'impresa che fattura fino a 1,5 miliardi. Inoltre, leggendo le condizioni d'accesso a queste garanzie risulta chiaro che la stragrande maggioranza dei fondi saranno indirizzati alle grandi imprese. Ciò non ci deve stupire, infatti, così come la crisi del 2008 aveva comportato un aumento della concentrazione della proprietà, anche con l'attuale crisi si verificherà il medesimo risultato. Un risultato che non è figlio soltanto di precise scelte politiche, ma semplicemente della tendenza inevitabile nel sistema capitalistico alla concentrazione della proprietà in poche mani. La piccola e media borghesia italiana andrà dunque, nel tentativo di difendere la propria condizione, sempre più incontro a un bivio: o tentare di compiere un salto per aumentare le proprie possibilità, intensificando lo sfruttamento dei lavoratori, e trasformarsi in grande borghesia - un salto che ben pochi saranno in grado di fare - oppure essere sopraffatta dai grandi capitali finendo con l'ingrossare la massa dei lavoratori salariati o dei disoccupati.

Un punto di vista di classe

Conclusa questa disamina ci sembra evidente una cosa: a cadere in piedi in questa crisi, come sempre, saranno i padroni. C'è chi vede i propri profitti gonfiarsi, chi è pronto a farsi riempire gli ammanchi di bilancio direttamente dai governi, chi chiede ulteriori sacrifici ai lavoratori e chi prova a comprarsi la loro fedeltà lasciandogli qualche briciola.

La realtà è drammatica, ma sbaglia chi crede lo sia per tutti. Accanto alla grande massa di popolazione esclusa dagli ammortizzatori sociali messi in campo dal decreto Cura Italia, quella su cui violentemente si stanno abbattendo le conseguenze economiche dell'attuale crisi, c'è la schiera di padroni che, in questo periodo, stanno vedendo impennare i propri profitti, sfruttando in tal modo l'emergenza sanitaria. Padroni che si presentano come dei benefattori, la cui straordinaria benevolenza va lodata senza sollevare alcuna critica. In questo contesto l'unica cosa straordinaria è l'ingiustizia di un sistema in cui in molti, per accedere a diritti e servizi fondamentali, spesso rischiano di dipendere da sporadiche donazioni di miliardari che hanno costruito la loro fortuna su decenni di sfruttamento. Per loro, come ci ha spiegato Cairo, questa "è una grande opportunità da capitalizzare". Inutile farsi illusioni. Non dimentichiamocelo ad emergenza finita.

Note:

1) La cassa integrazione prevede il pagamento in misura ridotta della retribuzione dei lavoratori da parte dello Stato, spalmando quindi l'onere economico sulla collettività e sottraendolo dai bilanci delle imprese.
view post Posted: 29/4/2020, 18:21 Repressione e dintorni - Varie
Il 25 aprile a Milano un gruppo di compagni è sceso in strada per ricordare la cosiddetta liberazione ribadendo la volontà di riuscire finalmente a liberarsi dal giogo capitalista demo-fascista. La polizia è intervenuta, al solito modo, gettando a terra violentemente i compagni.
http://www.milanotoday.it/video/polizia-vi...-25-aprile.html
https://radiocane.info/app/uploads/2020/04/25aprile.mp3
Ma questa non è la sola bruttezza di questi giorni. Gli episodi di repressione violenta riguardano molti e molte. Riportiamo alcuni episodi.
Il 20 aprile a Torino, in corso Giulio Cesare, compagni e abitanti del quartiere sono scesi in strada perché la polizia pestava due ragazzini forse colpevoli di furto. La risposta poliziesca, con l’aggiunta di carabinieri ed esercito, ha portato quattro arresti dopo un grande accanimento soprattutto sulle donne.
Inoltre
http://www.osservatoriorepressione.info/sa...la-liberazione/
https://contropiano.org/regionali/campania...ockdown-0127230
e altri allegati con quanto attaccato a Genova nella notte fra il 24 e il 25 e la mattina del 25 aprile

Da Pennatagliente
view post Posted: 26/4/2020, 22:35 Repressione e dintorni - Varie
I poliziotti non gradiscono la celebrazione del 25 aprile di un gruppo di ragazzi in via Padova a Milano

A qualcuno non va proprio giù che la gente abbia voglia di festeggiare il 25 Aprile, nemmeno a distanza. Ieri mattina, nei dintorni di via Padova e via Democrito a Milano, un piccolo gruppo di ragazzi, meno di dieci, di un centro sociale percorre una strada in bicicletta, mezzo che persino un bambino sa che non permette di stare appiccicati sennò si cade.

I giovani indossano mascherine, guanti, portano qualche bandiera rossa e stanno andando a mettere fiori sulle lapidi del quartiere che ricordano i partigiani caduti. Improvvisamente da una via laterale sbucano poliziotti che in pochi minuti bloccano con alcune auto la strada e i ragazzi che protestano dicendo: «Non abbiamo fatto niente di male. Stiamo andando a ricordare i partigiani».

I poliziotti non gradiscono, buttano le biciclette sull’asfalto, trascinano alcuni giovani per la strada, altri li sbatacchiano sulle auto o li bloccano a forza al suolo, una ragazza che grida «Ma cosa state facendo?» si prende un manrovescio che la butta per terra. La gente si affaccia, filma, qualcuno scende in strada, si mette a cantre Bella ciao, gli strattonamenti continuano finché i ribelli sono chiusi in un angolo. I video sono stati pubblicati da Milanotoday.it che, sentita la questura, riporta la loro versione che parla di «semplici controlli per i decreti sul coronavirus».

Ah, questo coronavirus viene davvero buono per un sacco di cose, tipo permettere di valutare la distanza inter personale con due pesi e due misure a seconda dell’estro: è ammessa se si sta fermi e ligi quando si è in coda al supermercato o alla farmacia, diventa sovversiva e sospetta se si va in bicicletta il 25 Aprile. Nel corpo a corpo ingaggiato dai poliziotti, che indossavano la regolare mascherina, è stato messo in atto un tale pigia pigia che, se qualcuno avesse il virus, lo ha di sicuro spalmato attorno.

Tenere le mani a posto e lasciar pedalare quei ragazzi non sarebbe stata una cattiva idea, anche perché stavano solo andando a ricordare chi, morendo, ha garantito la libertà di espressione, ma non di botte, anche a quelli che indossano la divisa.

Mariangela Mianiti
view post Posted: 26/4/2020, 16:30 Circa il Sig. Barbero - Bar Toto Cutugno
CITAZIONE (Majakovskij @ 26/4/2020, 15:32) 
Sinceramente condivido poco alcune posizioni sull'intervento di Barbero.
Nel senso che lui ha parlato di metodi di repressione simili tra Stalin e Hitler ma con fini diversi e spinti da un'ideologia ed un obiettivo totalmente differenti. Sicuramente si poteva dire meglio, ma fatico a vedere il falso storico in queste frasi: Stalin ha dovuto usare dei metodi repressivi in alcuni momenti per combattere i nemici interni al socialismo, perché si ritrovò vittima delle azioni di Ezhov. Qual è il problema? Sappiamo che è così, sappiamo cosa dice Marx in merito.

Dovrei riascoltare, ma sono quasi sicuro che Barbero abbia detto che Hitler e Stalin adottarono metodi repressivi comuni e che anche il totalitarismo del sistema sovietico in epoca stalinista era simile a quello della Germania nazista. Già questa è un'affermazione errata a meno che non si voglia comparare i lager nazisti con i campi di rieducazione, attraverso il lavoro, sovietici. Ma in realtà è andato ben oltre, infatti, ha anche detto che i fini del comunismo sono diversi da quelli del nazismo, ciò che NON ha detto è che tali strumenti si sono resi necessari dalla lotta di classe interna al paese, aggravata dalla minaccia e dal concreto pericolo di essere aggrediti invasi e annientati, elementi che hanno caratterizzato la storia dell'Unione Sovietica all'epoca della dirigenza staliniana. In realtà Barbero dice il contrario nella parte in cui auspica che i compagni vadano incontro alla risoluzione del Parlamento UE quando equipara il nazismo allo stalinismo. Ciò non è possibile ovviamente né in linea di principio né comparando gli strumenti di concreta applicazione.
CITAZIONE
Stessa cosa sul patto Molotov-Ribentropp, del quale ha parlato in chiave storicamente perfetta: gli inglesi preferivano Hitler piuttosto che Stalin, i polacchi dissero "Con i tedeschi perderemo la nostra libertà, con i sovietici la nostra anima". Dunque Stalin non aveva altre opzioni a livello di politica internazionale, anche qui Barbero ha sottolineato quando il georgiano fu cinico ma anche quanto quel cinismo era l'unica soluzione e ha pagato dei dividendi importantissimi per il futuro dell'Europa intera.

Idem come sopra, dovrei risentire, ma a me non pare che Barbero abbia affermato che il patto di non aggressione fosse la mossa più sensata o addirittura inevitabile per porsi in una posizione di vantaggio rispetto al nemico. Anche dopo aver chiosato sulla errata interpretazione fornita dagli anticomunisti continua, impropriamente, a parlare di alleanza tra sovietici e nazisti.ma è quando parla di fare il bilancio che supera se stesso. Insomma, Barbero vuole veramente utilizzare la stessa misura per pesare il danno d'immagine provocato ai danni del comunismo internazionale (tutto da provare) con la necessità tattica di vincere contro un nemico che intendeva invadere il primo paese socialista della Storia imponendo una terribile accelerazione all'oppressione delle masse?
view post Posted: 25/4/2020, 22:22 Circa il Sig. Barbero - Bar Toto Cutugno
Barbero riprende l'insulsa retorica dei campi di sterminio Staliniani, del totalitarismo e della repressione simili a quelli nazisti. Ci racconta la favola che anche gli Inglesi e i Francesi vorrebbero fermare Hitler all'inizio. Arriva anche a confondere il significato, molto chiaro, del patto Molotov-Ribbentrop. Come ha ben detto Carre è un personaggio televisivo, gli piacciono quei circoli e d'altronde è molto più semplice scrivere testi accademici in quel contesto lì, senza tralasciare il fatto che così vende molto più materiale divulgativo
.
Bene hanno fatto i compagni a precisare e sottolineare le sue corbellerie sebbene forse in modo fin troppo educato.
Forse sarebbe anche il caso di chiudere definitivamente ogni collaborazione con lo "storico" Barbero.

Edited by RedSioux - 26/4/2020, 10:48
view post Posted: 23/4/2020, 08:19 corona virus, un altro punto di vista - Varie
"Il 25 aprile il Paese intero canti Bella Ciao, c'è bisogno di speranza e unità"
13 Aprile 2020

Il 25 aprile #bellaciaoinognicasa alle ore 15: l'appello della Presidenza e della Segreteria nazionali ANPI. Aderiscono, tra gli altri: ARCI, CGIL, CISL, UIL, Le Sardine, PD, Confederazione italiana tra le Associazioni combattentistiche e partigiane, Unione degli Universitari, Rete degli studenti medi, Rete della Conoscenza, Istituto nazionale Ferruccio Parri, Comune di Firenze, ANPPIA, Articolo UNO, ANED, FIAP, Articolo 21, Rete #NOBAVAGLIO, Libertà e Giustizia

L'Italia ha bisogno, oggi più che mai, di speranza, di unità, di radici che sappiano offrire la forza e la tenacia per poter scorgere un orizzonte di liberazione. Il 25 aprile arriva con una preziosa puntualità. Arrivano le partigiane e i partigiani, il valore altissimo della loro memoria. L'ANPI chiama il Paese intero a celebrarlo come una risorsa di rinascita. Di sana e robusta rinascita. Quest' anno non potremo scendere in piazza ma non ci fermeremo. Il 25 aprile alle ore 15, l'ora in cui ogni anno parte a Milano il grande corteo nazionale, invitiamo tutti caldamente ad esporre dalle finestre, dai balconi il tricolore e ad intonare Bella ciao. In un momento intenso saremo insieme, con la Liberazione nel cuore. Con la sua bella e unitaria energia.

I partigiani morti si rivoltano nella tomba, mentre quelli vivi che fanno?
view post Posted: 21/4/2020, 21:55 corona virus, un altro punto di vista - Varie
CITAZIONE (primomaggio1945 @ 21/4/2020, 01:10) 
la questione è il bilanciamento tra diritto fondamentali, provo a riformulare:

Esatto! Perciò ritengo poco consono il richiamo all'eccezione dei luoghi di culto che peraltro è solo una delle deroghe alla generale limitazione della libertà. La libertà di manifestare il proprio pensiero non può essere soppressa dalla tutela della salute se si adottano le giuste cautele per evitare la compromissione di quest'ultima.
Poi non so quanto saranno utili tutti questi discorsi quando l'istanza finirà sulla scrivania di qualche imbrattacarte agl'ordini del questore.
Detto ciò abbiamo il dovere, anche in questo preciso momento storico, di riappropriarci della nostra memoria storica anche con atti di disobbedienza o i passi indietro saranno visti come segnali di debolezza. Mettere in luce le contraddizioni come questa che vede il divieto di ricordare in piazza il 25 aprile, ma la possibilità riprendere il lavoro di centri di produzione tutt'altro che essenziali sia grazie a provvedimenti espliciti sia grazie al meccanismo del silenzio assenso. In questa fase sta venendo meno la funzione preventiva e sanitaria delle misure e sta lasciando spazio alla funzione di controllo!
view post Posted: 20/4/2020, 08:22 corona virus, un altro punto di vista - Varie
Lodevole iniziativa, tuttavia non farei riferimento alla deroga dei luoghi di culto, in diritto le eccezioni non sono suscettibili di interpretazione analogica come dispone l'art. 14 delle Preleggi.
view post Posted: 18/4/2020, 08:47 Rizzo, l’ultimo comunista - Bar Toto Cutugno


CITAZIONE (Kollontaj_2 @ 16/4/2020, 18:23) 
se andiamo sulla pagina dei capoccia di casapound, non ci troviamo decine di commentatori che ad ogni post gli fanno notare che sono di sinistra ma lo apprezzano perchè è uno "intelligente".

Forse l'unica colpa di Rizzo in questo caso è di avere i tratti facciali (e capelluti) di sua eccellenza capovolta
view post Posted: 15/4/2020, 18:10 corona virus, un altro punto di vista - Varie
Lo sviluppo capitalistico e la diffusione delle epidemie

Da qualche giorno è online l’Ordine Nuovo, una nuova rivista comunista a cui collaboriamo e che nasce con l’ambizione di rappresentare uno strumento di formazione, di dibattito e di radicamento nella classe. Invitando chi ci segue a farla girare e, soprattutto, a leggerla e discuterla, pubblichiamo di seguito il nostro contributo al primo “numero”.

Nel giro di alcune settimane un patogeno microscopico ha messo in crisi le lunghe catene del valore dell’economia capitalista. Un microrganismo che la scienza fatica perfino a classificare tra gli esseri viventi si è così trasformato nel fatidico granello di sabbia capace di inceppare i meccanismi della globalizzazione, riuscendo a rallentare o, in alcuni casi, addirittura a fermare la produzione. In questo momento milioni di salariati sono confinati nell’isolamento, mentre ad altri viene imposto, nonostante il rischio di contagio, di andare a lavorare e sacrificarsi in nome del profitto. Una pandemia che sta progressivamente investendo tutti i paesi del mondo, a partire da quelli a capitalismo avanzato, ma in cui anche la capacità di risposta della sanità pubblica e la tenuta dei rispettivi sistemi di welfare si stanno trasformando in fattori decisivi nella competizione inter-imperialistica.

Sarebbe però riduttivo provare a interpretare quanto sta avvenendo esclusivamente attraverso la lente della crisi sanitaria o, al più, della incipiente crisi economica. E non perché questi aspetti non siano entrambi drammaticamente reali, ma perché così rischieremmo di non cogliere alcuni delle contraddizioni sistemiche che proprio l’epidemia sta facendo emergere.

Partiamo ponendoci una prima domanda: questa pandemia, così come le altre epidemie che pure l’hanno preceduta, era davvero imprevedibile? Si è trattato realmente di un evento “straordinario”? Il sistema informativo mainstream e le classi dirigenti continuano a raccontarla come una sorta di “calamità imponderabile”, uno di quei disastri naturali che, al pari dei terremoti, delle eruzioni vulcaniche o dei meteoriti, rimangono inevitabili per quanto ci si possa poi adoperare per minimizzarne le conseguenze. Questa posizione, però, oltre a rappresentare un’evidente autoassoluzione per le classi dominanti, rischia di consegnarci allo stoicismo o, peggio ancora, al fatalismo, ma soprattutto è scientificamente infondata. Come giustamente nota David Quammen1 in “Spillover”, un libro del 2012 che gli eventi recenti hanno trasformato in un best seller, “non si tratta di meri accidenti, ma di conseguenze non volute di nostre azioni. Sono lo specchio di due crisi planetarie convergenti: una ecologica ed una sanitaria”.

Non a caso almeno dal 1997, dalle avvisaglie della cosiddetta “influenza di Hong Kong” (causata da un ceppo del virus H5N1), tra gli epidemiologi il tema di quale sarebbe stata la prossima grande epidemia è stato talmente ricorrente da spingerli ad affibbiargli anche un nomignolo, the Next Big One, facendogli individuare proprio nelle “zoonosi”, ovvero nelle infezioni trasmesse all’uomo da animali che svolgevano la funzione di “ospiti serbatoio” o di “ospiti di amplificazione”, il rischio principale. In una popolazione mondiale in rapida crescita, con molti individui che sono esposti a nuovi patogeni, l’arrivo di una nuova pandemia era dunque solo questione di tempo e lo aveva ripetuto più volte la stessa Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), l’ultima in un report2 dello scorso settembre in cui si ricordava che solo dal 2011 al 2018 erano state registrate più di 1483 epidemie, comprese Ebola e SARS, che avevano coinvolto ben 172 paesi.

Sappiamo ormai dal secolo scorso di come sia di fatto impossibile determinare la violenza di un virus, ovvero il suo tasso di mortalità, senza tener conto di alcuni “fattori di contesto” che incidono anche pesantemente, come l’alimentazione, le condizioni economiche, il tipo di cure mediche disponibili e le capacità di risposta del sistema sanitario. Alla luce di queste semplici considerazioni e degli avvertimenti che ciclicamente si sono ripetuti in questi anni parlare di “imprevedibilità” risulta dunque inappropriato, e il numero delle vittime che si sarebbero potute salvare se solo ci si fosse preparati adeguatamente rappresenteranno per sempre un j’accuse inappellabile contro le élite dominanti

Occorre però spingersi oltre ponendoci un altro quesito, forse ancora più importante di quello precedente: esiste un nesso di causalità tra il sistema economico dominante, il modo di produzione capitalistico, e l’insorgenza sempre più frequente di epidemie? Si tratta di una domanda tutt’altro che retorica, soprattutto perché ci inchioda, come comunisti, ad un ritardo di analisi e, conseguentemente, di azione politica, su una questione che si sta mostrando in tutta la sua drammatica attualità e che non può essere semplicemente liquidata con una generica sentenza di colpevolezza nei confronti del capitalismo. Occorre indagare in maniera scientifica su quale sia esattamente il rapporto tra la sfera socioeconomica e la natura, che non possono essere pensate come realtà separate, perché gli esseri umani sono al tempo stesso produttori e prodotti del loro ambiente, Società e Natura sono legate dialetticamente, da questo punto di vista il capitalismo non va dunque interpretato solo come un sistema socioeconomico, ma anche come un modo di “organizzare” la natura, uno specifico regime ecologico3.

Torniamo quindi alla relazione tra capitalismo ed epidemie. Stando alle parole dell’epidemiologo Paolo Vineis, recentemente intervistato dal Corriere della Sera, secondo alcuni studi recenti più del 25% delle malattie infettive emergenti e più del 50% delle malattie zoonotiche nell’uomo sono dovute al consumo del territorio per scopi agricoli e zootecnici legati soprattutto all’allevamento intensivo di maiali e pollame che contribuisce a rendere possibile il processo di concentrazione urbanistica nei paesi della periferia e della semiperiferia capitalista. In un testo del 2016, Big Farms Make Big Flu4, il biologo Robert Wallace ha dimostrato in maniera esaustiva il rapporto di causalità che esiste tra l’agrobusinnes, l’urbanizzazione capitalista e l’eziologia di alcune epidemie recenti come la SARS ed Ebola.

L’agroindustria capitalistica, rimpiazzando ecosistemi naturali complessi con sistemi più produttivi, ma biologicamente più “semplici”, crea infatti le condizioni perfette perché gli agenti patogeni possano evolvere fino a sviluppare fenotipi sempre più virulenti e contagiosi. L’allevamento industriale di animali domestici è caratterizzato, per esigenze ovvie di mercato, da un’elevatissima omogeneità genetica e da ambienti con alta densità di popolazione, questo finisce col rimuovere ogni tipo di barriera immunologica in grado di rallentare la possibile trasmissione di infezioni. A questo va poi aggiunto l’effetto della ricerca incessante del raggiungimento di cicli produttivi sempre più brevi, capaci cioè di portare l’animale al peso di macellazione nel minor tempo possibile in modo da ridurre quello che Marx chiamava il tempo di produzione e conseguentemente anche il tempo di rotazione del Capitale, e quindi la massa di plusvalore realizzabile, ad esempio, in un anno.

La logica interna del modo di produzione capitalistico diventa così essa stessa un fattore evolutivo capace di trasformare dei ceppi virali prima isolati o inoffensivi in patogeni sempre più aggressivi. Questo perché il ritmo produttivo sempre più serrato impone indirettamente (ma in maniera estremamente efficace) una pressione selettiva sui patogeni “costringendoli” ad evolvere in ceppi sempre più virulenti, capaci di svilupparsi su ospiti con cicli vitali sempre più brevi. Come già accennato l’alta concentrazione produttiva dell’agroindustria è poi, al tempo stesso, presupposto e conseguenza dei processi di urbanizzazione che hanno portato oltre il 55% della popolazione mondiale a vivere nelle grandi città e nelle megalopoli globali, spesso in condizioni igenico-sanitarie estremamente precarie, soprattutto nei paesi della periferia e della semiperiferia capitalista, creando così i presupposti per i continui salti zoonotici e la successiva diffusione dei patogeni.

Non è certo quindi per una sfortunata coincidenza che molte delle nuove epidemie abbiano avuto origine proprio in Cina, e la ragione non può essere ricercata, come pure si è tentato di fare, nelle “stravaganti” abitudini culinarie e culturali dei cinesi o in qualche esperimento militare sfuggito di mano, ma ha a che vedere con la geografia economica globale e la progressiva concentrazione nel paese della produzione manifatturiera internazionale che, in un arco di tempo relativamente breve, ha fatto della Cina “la fabbrica del mondo”. Proprio come per l’Europa e gli Stati Uniti dei secoli scorsi, gli alti tassi di sfruttamento che sono stati alla base del “miracolo economico” hanno determinato per milioni di proletari, oltre che un aumento delle diseguaglianze sociali, anche condizioni di vita estremamente precarie, soprattutto nelle enormi megalopoli spuntate come funghi in questi anni, determinando così le condizioni adatte per il potenziale sviluppo delle epidemie.

Al vorticoso tasso di crescita del Pil cinese di questi ultimi decenni e al conseguente “grande balzo in avanti” tecnologico non ha fatto da contrappunto un altrettanto rapido miglioramento del tenore di vita dei milioni di contadini che sono stati strappati alle campagne e proletarizzati per andare a lavorare nelle Zone Economiche Speciali. Nonostante gli enormi sforzi messi in campo in queste ultime settimane la spesa sanitaria cinese5 rimane limitata, stimata in 398 dollari per persona, poco più di un terzo di quello che investe Cuba, per intenderci. In questa sorta di accumulazione originaria che dovrebbe permettere al paese di risalire le catene del valor internazionale gran parte della spesa pubblica continua ad essere indirizzata alle infrastrutture fisiche: ponti, strade ed energia a basso costo per le industrie. Da questo punto di vista anche la città in cui ha avuto origine l’epidemia di Sars-CoV-2 ha un alto valore simbolico. Wuhan è infatti considerata come la capitale cinese dell’industria delle costruzioni ed ha conosciuto un’espansione rapidissima proprio a partire dalla crisi del 2008, quando il governo cinese varò un piano di stimoli di oltre 4 trilioni di yuan, pari al 14% del Pil, destinati soprattutto a progetti infrastrutturali ed edilizi.

Arrivati a questo punto, e prima di concludere, è necessario però chiarire come nel caso dell’ultima epidemia da Sars-CoV-2 la vicenda si sia dimostrata più complessa rispetto ai casi dell’influenza suina (2009) e aviaria (2003) che invece erano più chiaramente associati al nucleo del sistema agroindustriale capitalistico. Sembrerebbe infatti ormai acclarato che “l’ospite serbatoio” sia stato una qualche specie di pipistrello, macellato e commercializzato nel mercato umido di Wuhan, e che il contagio non sia quindi passato attraverso l’intermediazione di un animale domestico. Ancora una volta è però il lavoro teorico di Robert Wallace a far emergere i nessi di causalità stringenti a cui ci siamo riferiti finora.

Se è vero, infatti che ormai a livello globale, e soprattutto in Cina, la produzione di cibo da animali selvatici sta diventando in modo sempre più effettivo un settore economico a sé, è anche vero che la sua relazione con l’agricoltura industriale va ben oltre il fatto che entrambe queste filiere possano essere controllate dagli stessi capitali. I processi di espansione della produzione agricola intensiva e, al contempo, di sussunzione dell’agricoltura “di periferia” alle logiche del Capitale non solo determinano la progressiva distruzione degli agroecosistemi tradizionali ma, più o meno direttamente, aumentando l’interfaccia con ecosistemi che fini a quel momento erano rimasti relativamente isolati aumentando le probabilità dello “spillover” di nuovi agenti patogeni. In sostanza, man mano che l’accumulazione capitalista sottomette nuovi territori distruggendo gli equilibri eco-sistemici preesistenti, le specie animali vengono progressivamente spinte in zone meno accessibili in cui entrano in contatto con ceppi patogeni fino ad allora isolati. Quelle stesse specie animali spesso diventano poi oggetto di mercificazione finendo nelle catene del valore capitalista.

Questo diminuisce la distanza tra l’uomo e i potenziali “ospiti serbatoio” creando così le condizioni per il salto di specie di patogeni protopandemici. L’esempio della recente epidemia di Ebola in Guinea (2013) è, da questo punto di vista, emblematico. La cessione da parte del governo di grosse estensioni di territorio ai conglomerati agroindustriali internazionali per la produzione dell’olio di palma ha determinato, non solo la deforestazione e la distruzione di ecosistemi complessi, ma l’imposizione di una monocoltura che è poi è risultata particolarmente attrattiva nei confronti quei pipistrelli che fungono da serbatoio naturale del virus. Si è trattato, come scrive il sito dell’ISS6, della più grande epidemia di Ebola, sia per numero di focolai che per numero di casi e decessi segnalati: un totale di 28.652 casi confermati, probabili e sospetti, con 11.325 decessi in dieci Paesi (Liberia, Guinea, Sierra Leone, Mali, Nigeria, Senegal, Spagna, Regno Unito, Italia e Stati Uniti d’America).

La crisi pandemica di questi giorni, che dopo decenni torna a coinvolgere le capitali del Nord globale, è un’ulteriore dimostrazione del fatto che il capitalismo è un regime ecologico insostenibile. Nonostante le retoriche imperanti sulla cosiddetta green economy, le leggi interne che lo governano sono le stesse che approfondiscono le contraddizioni ambientali. La lotta per l’uguaglianza e la giustizia sociale deve quindi necessariamente intersecarsi con quella per la giustizia ambientale, perché solo affidando alla collettività il compito di decidere cosa, quanto e, soprattutto, come produrre, l’umanità nel suo complesso potrà provare a superare questa contraddizione. Ma affinché questo accada è necessario colmare il ritardo di analisi che abbiamo accumulato in questi anni.



1) Quammen D. (2014), Spillover, Adelphi

2) https://apps.who.int/gpmb/assets/annual_re...report_2019.pdf

3) Moore J. W. (2015), Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, Ombre Corte

4) Wallace R. G. (2016), Big Farms Make Big Flu, Monthly Review Press

5) https://apps.who.int/iris/bitstream/handle...1565707-eng.pdf

6) www.epicentro.iss.it/ebola/epidemia-africa-2014
view post Posted: 14/4/2020, 17:32 La grande crisi - Varie
Fmi: recessione globale nel 2020 (-3%) e per l’Italia Pil in calo del 9%
Le previsioni del Fondo per il 2020: «Dati molto peggiori sono possibili e forse probabili». Incerta la ripresa (5,8%) nel 2021
Una contrazione del 9,1%: è questa la ferita che la pandemia di coronavirus lascerà sull’economia italiana nel 2020, secondo il Fondo monetario internazionale, che martedì 14 aprile ha diffuso le previsioni di primavera. Un rapporto quanto mai atteso: l’economia mondiale entra in recessione, con una contrazione del 3% per l’anno in corso, seguita da un incerto rimbalzo del 5,8% nel 2021. A gennaio, prima dello scoppio della pandemia, l’Fmi stimava per il 2020 una crescita del 3,3%.

«La perdita cumulata in termini di Pil tra il 2020 e il 2021 - scrive nel suo blog la capoeconomista dell’Fmi, Gita Gopinath - potrebbe essere di circa 9mila miliardi di dollari, più grande delle economie di Giappone e Germania insieme». Il Pil pro-capite scenderà quest’anno in 170 Paesi.

I dati
L’Italia è tra i Paesi più colpiti. Nel 2021 il rimbalzo previsto sarà del 4,8%, ma in Europa, solo la Grecia accuserà quest’anno una riduzione del Pil più acuta, con un calo del 10%. Oltre i confini europei, sono solo 3 i Paesi per i quali l’Fmi prevede uno shock peggiore: il Libano (-12%), il Venezuela (-15%, che però segue il -35% del 2019) e Macao (-29,6%). Per la Germania, la contrazione sarà del 7% quest’anno, seguita da un rimbalzo del 5,2% l’anno prossimo.

Nell’Eurozona, che nel complesso vedrà il Pil ridursi del 7,5% (con ripresa del 4,7% nel 2021), il Fondo raccomanda interventi mirati a sostegno dei Paesi più colpiti.

Per gli Stati Uniti, la contrazione sarà del 5,9%, alla quale seguirà una crescita del 4,7%. La Cina si salverà dal segno meno, ma la sua crescita si fermerà quest’anno all’1,2%, per poi accelerare oltre il 9%. Gli indicatori relativi a produzione industriale, vendite al dettaglio, investimenti fissi, «suggeriscono che la contrazione dell’economia cinese nel primo trimestre del 2020 potrebbe essere stata dell’8% su base annua», scrive il Fondo.
i salverà dal segno meno, con una crescita dell’1,9% quest’anno e del 7,4% nel 2021.

La disoccupazione
Lo shock avrà un impatto pesante sul mercato del lavoro. Per l’Italia, il Fondo prevede una disoccupazione in aumento dal 10 al 12,7%. In Portogallo, il tasso raddoppierà a quasi il 14%. In Spagna salirà al 20,8%, in Grecia al 22,3%. L’Eurozona nel suo complesso vedrà i senza lavoro salire al 10,4%, con la Germania virtuosa che resta sotto il 4%.

Drammatico il balzo negli Stati Uniti: dal 3,7% del 2019 al 10,4% del 2020. Al rallentamento dell’attività economica si accompagnerà una generalizzata gelata sull’inflazione, con indici dei prezzi allo 0,2% nell’Eurozona e allo 0,6% negli Usa.


I tromboni della borghesia ventilano la prossima catastrofe economica, un po' perché ci sarà davvero un po' per sfruttare la proiezioni catastrofiche al fine di effettuare la chiamata alla "responsabilità" delle classi sfruttate.
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