Comunismo - Scintilla Rossa

Da "Politica e ideologia", Andrej Zdanov

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Andrej Zdanov
view post Posted on 19/6/2012, 14:29




Da Andrej Zdanov, Politica e ideologia, Edizioni Rinascita, Roma, 1949, Prefazione, pp. VII-X


PREFAZIONE



Quando, il 31 agosto 1948, si sparse fulminea nel mondo la notizia della morte di Andrej Zdanov, segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista (bolscevico) dell’U.R.S.S., i lavoratori e i democratici di tutti i paesi sentirono che con la scomparsa di quel combattente ancor nel fiore degli anni (era nato a Mariupol il 26-14 febbraio 1896) un vuoto si era aperto nelle file dell’umanità in lotta per la libertà, per la pace, per il socialismo.
Su tutti i fronti di questo combattimento, cresciuto alla scuola di Lenin e di Stalin, Andrei Zdanov ha saputo dare il suo contributo decisivo alla vittoria. Il suo nome resta indissolubilmente legato alla lotta delle organizzazioni clandestine e militari del Partito bolscevico nel periodo della prima guerra mondiale, a quella per la costruzione del socialismo, a quella per la difesa della patria socialista contro l’intervento e l’aggressione degli imperialisti, contro le insidie dei loro agenti trotskisti e bukhariniani. Dai problemi di organizzazione a quelli della lotta sul fronte ideologico, dai problemi militari a quelli della costruzione socialista e a quelli del movimento operaio e democratico internazionale, non vi è settore nel quale Zdanov non abbia sperimentato la sua capacità di dirigente geniale, non abbia lasciato una traccia profonda, un ammaestramento che non è solo di parole e di scritti, ma di realtà e di uomini nuovi, che la sua opera, la sua direzione ha forgiati.
Ogni lavoratore, ogni democratico d’avanguardia sa, nel nostro paese, il contributo essenziale che Zdanov ha dato alla lotta dei comunisti e dei democratici italiani con il suo rapporto alla Conferenza dei nove partiti comunisti, che ha riorganizzato, in forme adeguate ai nuovi compiti, il fronte unico dei partiti comunisti e operai contro l’imperialismo, per la democrazia, per la pace. Al rinnovamento della cultura italiana, Zdanov ha dato un contributo non meno essenziale con il suo intervento nella discussione sulla
Storia della filosofia di Alexandrov, che ha suscitato nel pubblico colto italiano un largo fermento di discussioni, e che ha già potentemente contribuito a documentare la funzione d’avanguardia che, anche in questo campo, l'Unione Sovietica assolve. Nell’innalzamento del tono generale della polemica culturale in Italia, la pubblicazione di questo e degli altri suoi scritti di politica e di ideologia raccolti in questo volume, avrà, ne siamo certi, una funzione importantissima. Ma più ancora che gli apporti singoli — pur così importanti — che gli scritti e l’opera di Zdanov recano alla nostra lotta, è proprio dal complesso di questi scritti e di questa opera che sgorga per il nostro lavoro e per la nostra formazione l’ammaestramento più importante e più fecondo.
Non è il tono dei nostri cortesi critici da salotto, che Andrei Zdanov usava nella sua lotta contro i residui della vecchia cultura, ma quello stesso tono che egli usava contro i kulak, al tempo della lotta per la collettivizzazione; contro gli hitleriani e contro i loro agenti, contro gli imperialisti americani e contro i traditori del socialismo. Perchè per Andrei Zdanov, per i popoli sovietici, per i lavoratori del mondo intiero, la cultura non è qualcosa di separato dalla vita e dalla lotta, è qualcosa che importa per la vita e per la lotta, come la costruzione e la difesa delle fabbriche, dei colcos, del socialismo.
Per il nostro paese, per il movimento operaio e democratico italiano, questo insegnamento di una unità, di una totalità di vita e di lotta, che sgorga da tutta l’opera di Andrei Zdanov, ci sembra avere un’importanza tutta particolare. Più ancora che in altri paesi del mondo capitalistico, l’abisso economico e sociale che da noi separa le classi lavoratrici dalle classi possidenti, il peso di una tradizione aulica nella nostra cultura, danno un particolare rilievo alla maledizione della divisione tra teoria e pratica, tra libro e lavoro, tra cultura e vita. Nel movimento operaio stesso, non sono scomparse ancora le tracce di un praticismo limitato e di una attività teorica e culturale distaccata dai compiti concreti di lotta delle masse lavoratrici. Approfondire il significato dell’opera di Zdanov, significherà per noi, per il movimento operaio italiano e per la cultura del nostro paese, fare un passo avanti sulla via del superamento di storiche insufficienze.
Questa unità nella vita e nell’opera di Zdanov non è d’altronde un prodotto casuale delle doti eccezionali di un dirigente bolscevico: è un’unità che nasce e si afferma dal contatto, dal legame indissolubile con le masse innumeri degli uomini semplici, dell’umanità lavoratrice. Da questo legame indissolubile nasceva quella fiducia incrollabile, che dava forza alla direzione di Zdanov quando egli, fra gli orrori della prima guerra imperialistica, organizzava nell’esercito zarista i primi nuclei bolscevichi. Zdanov aveva fiducia negli uomini del suo popolo, nelle masse lavoratrici del mondo intiero, anche quando l’umanità era ridotta, secondo l’espressione di Lenin, a un ammasso sanguinolento di carni maciullate e di fango, nelle trincee della Galizia e di Verdun. Aveva fiducia nelle masse, quando le orde hitleriane erano alle porte di Leningrado, come l’aveva avuta negli anni più duri della costruzione socialista, una fiducia non passivamente ottimistica, ma attiva e organizzatrice di quelle energie inesauribili, che solo il popolo, la classe d’avanguardia sanno sviluppare. E quando si è trovato a lottare sul fronte ideologico e culturale, quando ha recato un apporto nuovo allo sviluppo della dottrina filosofica del marxismo-leninismo, è ancora una volta da questo contatto, da questa fiducia nelle masse che egli ha tratto la sua geniale capacità di additare l’assoluta novità del marxismo come filosofia di massa, che spezza la tradizione della filosofia dei filosofi; la sua capacità di additare nella critica e nell’autocritica la forma di sviluppo dialettico della società socialista nel periodo storico del passaggio al comunismo.
In questa incrollabile, attiva, staliniana fiducia nelle masse dell’umanità lavoratrice, è la scaturigine profonda della forza dei bolscevichi, della capacità di un dirigente bolscevico quale è stato Andrei Zdanov di inserirsi nel processo storico dell’umanità.


Da Ibidem, primo risvolto di copertina

I discorsi riuniti nel presente volume documentano i punti salienti; le tappe decisive della lotta combattuta da Andrei Zdanov per il trionfo del socialismo e per la difesa della pace tra i popoli. Dai problemi di organizzazione del P.C.(b) dell’U.R.S.S. a quelli della lotta sul fronte ideologico, dai problemi della edificazione del socialismo a quelli del movimento operaio e democratico internazionale, non vi è settore nel quale Zdanov non abbia lasciato una traccia profonda, un ammaestramento duraturo e fecondo.
Al rinnovamento della cultura Andrej Zdanov ha dato un contributo essenziale negli ultimi anni della sua vita con i discorsi sulla letteratura, sull’arte e sulla filosofia - raccolti nella seconda parte di questo volume - che hanno potentemente contribuito a documentare la funzione d’avanguardia che, anche in questo campo, l’Unione Sovietica assolve, e ad elevare il tono generale della polemica politica ed ideologica contemporanea.


Da Ibidem, p. IV

I discorsi raccolti nel presente volume sono stati tradotti da Carol Caracciolo-Straneo, a eccezione del secondo, La situazione internazionale, che viene riprodotto nella traduzione pubblicata su l’Unità del 22 ottobre 1947.

Edited by Sandor_Krasna - 28/2/2015, 17:45
 
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view post Posted on 25/1/2015, 02:50
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IL XXIX ANNIVERSARIO DELLA GRANDE RIVOLUZIONE SOCIALISTA D’OTTOBRE


Rapporto tenuto alla seduta solenne del Soviet di Mosca il 6 novembre 1946 e pubblicato lo stesso mese nel n. 21 della rivista Bolscevik.

Compagni!
Oggi i lavoratori dell’Unione Sovietica festeggiano il XXIX anniversario della rivoluzione socialista nel nostro paese.
L’anno passato, abbiamo commemorato la nostra grande festa a breve distanza dalla vittoriosa fine della guerra patria, che ha sbaragliato prima i fascisti tedeschi, poi gli imperialisti giapponesi. Il 1945 è entrato nella storia come l’anno della grande vittoria del popolo sovietico e degli altri popoli amanti della libertà sulle forze del fascismo e dell’aggressione. Il 1946 è il primo anno del dopoguerra. Il popolo sovietico, uscito vittorioso dalla lotta mortale contro gli aggressori fascisti, tornato alle opere di pace, ha impegnato tutte le sue forze per liquidare le gravi conseguenze della guerra, per potenziare e sviluppare ulteriormente il socialismo. Come già durante la guerra patria, anche nella lotta per la realizzazione di questi compiti i cittadini sovietici non risparmiano le loro forze e il loro lavoro, dimostrando un’elevata coscienza degli interessi generali del popolo e dello stato. Il popolo sovietico, appoggiandosi alla invincibile potenza dell’ordinamento socialista, superando con abnegazione le difficoltà del periodo postbellico, avanza con successo sulla via indicataci da Lenin, sulla quale ci guida il compagno Stalin. (Applausi).

Il primo anno del dopoguerra
L’anno passato, il nostro paese sovietico ha ripreso il pacifico sviluppo del socialismo. Lo stato sovietico riedifica l’economia nazionale, adattandola alle condizioni e ai compiti del periodo di pace. Tutto il nostro lavoro è volto all’adempimento dei compiti più immediati dello stato sovietico, indicatici dal compagno Stalin. «Dobbiamo — ha detto il compagno Stalin — risanare al più presto le ferite inflitte al nostro paese dal nemico e raggiungere il livello di sviluppo dell’economia nazionale dell’anteguerra, per poi superarlo notevolmente, nel più breve tempo possibile, per migliorare il benessere materiale del popolo e rafforzare ancor di più la potenza economica e militare dello stato sovietico».
Ognuno di noi comprende che questi sono compiti difficili. I fascisti tedeschi invasori hanno inflitto danni enormi all’economia sovietica. I barbari fascisti hanno distrutto e incendiato decine di migliaia di stabilimenti industriali, di sovcos, di colcos e di stazioni di macchine e trattrici, hanno distrutto tutta la rete ferroviaria della parte occidentale del nostro paese. I fascisti hanno devastato e ridotto in deserto intiere regioni del nostro paese, hanno distrutto i frutti di anni e anni di intenso lavoro del popolo sovietico, hanno lasciato senza tetto milioni di cittadini sovietici. Nella storia della nostra patria non c’erano mai state guerre che avessero stroncato tante fiorenti vite umane, che avessero portato così inaudite devastazioni alle città, ai villaggi, all’industria, ai trasporti, all’agricoltura, come la guerra passata. Qualsiasi altro stato, anche il più potente stato capitalista del nostro tempo, dopo aver subito tali danni, sarebbe stato respinto indietro di decine di anni e ridotto a potenza di secondo piano. Ma all’Unione Sovietica questo non è avvenuto. Dalla seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica è uscita forte e potente. A differenza degli stati capitalisti, il nostro paese è passato all’edificazione pacifica senza scosse e senza crisi di nessun genere. Pure, è noto che la seconda guerra mondiale ha inflitto all’Unione Sovietica danni infinitamente maggiori di quelli subiti da qualsiasi altro paese che abbia combattuto contro la Germania hitleriana.
Non mi riferisco già a paesi come gli Stati Uniti d’America e l’Inghilterra, il cui territorio non fu sottoposto all’occupazione delle truppe nemiche e ai quali, perciò, non si pone il problema di ricostruire l’economia nazionale del dopoguerra. E tuttavia, in questi paesi, il periodo del dopoguerra è legato a profonde crisi economiche e politiche.
Nei paesi capitalisti, il trapasso dal periodo di guerra a quello di pace ha provocato una brusca restrizione del mercato, la caduta del livello di produzione, la chiusura degli stabilimenti, l’aumento della disoccupazione. E’ noto, ad esempio, che negli Stati Uniti d’America la capacità della produzione industriale, nel 1946, si è ridotta, in confronto a quella del 1943, di più di un terzo, mentre il numero dei disoccupati, secondo le cifre ufficiali, ha superato i tre milioni.
Il nostro paese non conosce simili fenomeni. Da noi, nell’Unione Sovietica, il passaggio dal periodo di guerra a quello di pace, la conseguente smobilitazione di notevoli contingenti dell’esercito sovietico, la riduzione delle spese militari ad un terzo, il passaggio nelle fabbriche e nelle officine dalla produzione di guerra a quella di pace non si accompagnano con la chiusura di fabbriche e di officine, con il ristagno della produzione, con il fenomeno della disoccupazione. Il popolo sovietico avanza sicuro, senza temere che si verifichino né crisi economiche né disoccupazione; poiché si appoggia su un altro, più elevato sistema di organizzazione economica, sul sistema socialista, che non conosce né crisi né disoccupazione.
Ciò non significa, però, che, nel dopoguerra, la ricostruzione dell’economia nazionale dell’U.R.S.S. non costerà agli operai, agli impiegati, ai contadini dell’U.R.S.S. dei sacrifici per la causa comune. Si deve tener presente che, senza grandi sacrifici, non sarà possibile liquidare la triste eredità della guerra — la devastazione e la rovina — e ricostruire l’economia nazionale.
Tuttavia, questi sacrifici non possono assolutamente essere paragonati a quelli degli operai e degli impiegati dei paesi capitalisti, che sono straordinariamente gravi, perché i capitalisti non si accollano il peso della ricostruzione postbellica, ma lo fanno gravare esclusivamente sulle spalle degli operai, dei contadini e degli impiegati. Questo peso si manifesta, anzitutto, nell’aumento enorme della disoccupazione e nel licenziamento di milioni di operai e di impiegati dell’industria.
Nel nostro paese non c’è e non ci sarà disoccupazione. Questo è un grande sollievo per gli operai e per gli impiegati del nostro paese. Da noi non esiste l’anarchia nella produzione, caratteristica dei paesi capitalisti, che porta ad un alternarsi di periodi di ascesa e di crisi che sconvolgono radicalmente tutto il sistema economico e creano nei lavoratori una sfiducia costante nel loro domani. La nostra vita economica è guidata da un piano economico nazionale.
Negli anni di edificazione pacifica precedenti la guerra, lo stato sovietico aveva realizzato, mediante un piano generale, la costruzione socialista della nostra economia nazionale. Negli anni della guerra, esso ha mobilitato, secondo un piano, tutte le risorse del paese per le necessità del fronte. Così anche oggi, con un nuovo piano quinquennale, lo stato sovietico organizza i lavori per la ricostruzione e per l’ulteriore sviluppo dell’economia nazionale dell’U.R.S.S. Nel nuovo piano quinquennale di grandi lavori, che dovrà rinnovare e far progredire ancora di più l’U.R.S.S., come potenza socialista in ascesa, troveranno un degno impiego, per le loro forze e per le loro capacità e il loro talento, tutti i cittadini sovietici, uomini e donne. (Applausi).
Il popolo sovietico si è abituato a porre innanzi ad ogni altra cosa l’interesse generale del popolo e dello stato; si è abituato a considerare la causa comune come la sua causa personale, la causa della propria vita. Ecco perché il popolo sovietico ha accolto il nuovo piano quinquennale come un programma di lotta, che risponde ai suoi interessi vitali. L’entusiasmo per il lavoro di edificazione ha preso milioni di persone. In tutto il paese si è sviluppata l’emulazione socialista per realizzare, e realizzare in anticipo, il piano quinquennale. Nella sua aspirazione a progredire, il popolo sovietico va alla ricerca di nuove vie e possibilità per sviluppare ancor più tutti gli aspetti dell’economia e della cultura nazionale. L’amicizia tra i popoli dell’U.R.S.S., rafforzatasi e tempratasi nelle prove della guerra, è la grande leva per l’incremento e lo sviluppo dell’economia e della cultura nazionale nelle condizioni di pace.
Il compagno Stalin aveva detto: «il popolo sovietico, guidato dal partito comunista, non risparmierà forze e lavoro, non solo per realizzare, ma per realizzare in anticipo il nuovo piano quinquennale».
Ora, tutti vedono che queste parole profetiche del nostro capo si stanno felicemente avverando.
I primi risultati della ricostruzione della nostra economia nazionale sono già evidenti. Rivive la terra martoriata dal nemico, dalle rovine risorgono le fabbriche, le officine, le miniere, i colcos, i sovcos, le scuole, le università e gli istituti di ricerche scientifiche. Il paese apprende con un senso di profonda soddisfazione le notizie della ricostruzione e riattivazione di stabilimenti, costruiti durante i piani quinquennali prebellici, che ora nuovamente risorgono dalle ceneri e dalle rovine. Le fabbriche di trattori di Stalingrado, di Kharkov, la fabbrica di macchine agricole di Rostov, la stazione idroelettrica di Nizni-Svirsk, il canale tra il Mar Bianco e il Mar Baltico e molte altre costruzioni gigantesche, sono rientrate nel numero delle imprese attive. L’industria metallurgica del Sud si rialza in piedi. Sono rientrati in azione gli altiforni nelle fabbriche di Konstantinovka, di Makeievka e nella fabbrica Dzerginski. Si avvicina la data della riattivazione della centrale idroelettrica del Dniepr. Il bacino del Don, completamente distrutto dai tedeschi, si avvia decisamente a raggiungere il livello di anteguerra nell’estrazione del carbone. Il popolo saluta la rinascita di questi stabilimenti quasi come una resurrezione di morti, perché sa a qual punto fossero state portate le distruzioni dai mostri fascisti e quali sforzi sia costato al popolo sovietico il ricondurre i nomi gloriosi di questi stabilimenti nello splendido elenco delle fabbriche e officine attive dell’U.R.S.S., nobilitate dalle gesta eroiche del lavoro.
Contemporaneamente si sviluppano le nuove grandi costruzioni. Sono in corso di costruzione, ed in parte sono entrate in funzione, nuove fabbriche metallurgiche e meccaniche; entrano in azione miniere, stazioni elettriche, linee ferroviarie, stabilimenti tessili e chimici e di molti altri rami dell’industria. La ricostruzione e lo sviluppo dell’economia nazionale procede parallelamente alla sua riattrezzatura tecnica. La produzione industriale globale per i consumi civili, nei primi tre quadrimestri del 1946, è aumentata, in confronto allo stesso periodo dell’anno precedente, del 19%. Il carico medio giornaliero dei trasporti ferroviari è aumentato, per lo stesso periodo, del 12%.
Il lavoro di ricostruzione dei villaggi, delle città, delle istituzioni culturali distrutte si è sviluppato come un ampio fronte in tutte le zone danneggiate dall’occupazione tedesca.
Tuttavia, questi non sono che i primi passi, se teniamo presente la misura delle distruzioni e l’entità dei lavori di ricostruzione da compiersi. Il compagno Stalin fa notare che per la ricostruzione delle zone devastate dagli invasori tedeschi saranno necessari sei o sette anni e forse di più. L’anno ormai trascorso ha dimostrato che il nostro paese ha delle grandi possibilità di progredire rapidamente. Tuttavia, procedendo alla realizzazione del piano quinquennale, dovremo sormontare non poche difficoltà.
Il passaggio dell’economia nazionale dal piede di guerra a quello di sviluppo pacifico comporta, già per se stesso, grandi difficoltà di ordine economico, organizzativo e tecnico. Se a questo si aggiunge che il nostro stato non può limitarsi ad utilizzare soltanto il potenziale produttivo esistente, ma che inoltre esso aspira a ricostruire e sviluppare il potenziale produttivo tanto della industria che di tutti gli altri rami dell’economia nazionale, allora si comprenderà quale enorme dispendio di materiali e di mezzi richieda la realizzazione di questo compito. Secondo il nuovo piano quinquennale, i soli capitali centralizzati impiegati nell’economia nazionale debbono ammontare a più di 250 miliardi di rubli. Per assicurare queste spese, dobbiamo potenziare e sviluppare i metodi di amministrazione socialista, il regime di economia e l’esame del bilancio, dobbiamo liquidare decisamente la mancanza di spirito amministrativo, gli organici pletorici e gli alti costi di produzione e mobilitare tutte le nostre risorse interne, tutte le fonti di accumulazione per i bisogni della ricostruzione e dello sviluppo dell’economia nazionale.
Alcuni nostri amministratori non comprendono ancora che il regime di economia, del quale più volte hanno parlato Lenin e Stalin, non è una campagna a breve scadenza, ma un metodo di amministrazione proprio del socialismo. Il popolo sovietico deve ricordare costantemente queste indicazioni e seguirle instancabilmente nel suo lavoro.
Il passaggio ad un piede di pacifico sviluppo presuppone anche l’abolizione del sistema di tesseramento ed il ritorno alla circolazione normale della merce. Il tesseramento è un male inevitabile, quando si è impegnati in una grande guerra, quando si è costretti ad alterare l’economia nazionale, dandole un carattere particolare di guerra, e a indirizzarsi verso la molteplicità dei prezzi e la riduzione del consumo nelle retrovie, per garantire la regolarità dei rifornimenti all’esercito al fronte. Al termine della guerra, quando l’esercito viene smobilitato, viene meno la necessità del sistema di razionamento e la molteplicità dei prezzi diventa un male. Questo male dev’essere eliminato per ritornare alla normale circolazione delle merci e al multiforme sviluppo della produzione e del consumo. La siccità in una serie di province, la diminuzione delle riserve alimentari dello stato hanno reso necessario il rinvio dell’abolizione del tesseramento dal 1946 al 1947. Al duplice scopo di creare le condizioni per l’abolizione del tesseramento e l’unificazione dei prezzi e di avvicinare gli alti prezzi commerciali ai prezzi troppo bassi dei generi tesserati, si è anche imposta tutta una serie di necessarie misure di transizione.
Il governo sovietico conosceva le difficoltà che sarebbero derivate dall’aumento dei prezzi dei generi razionati e comprendeva che erano necessari grandi sacrifici da parte degli operai, degli impiegati e dei contadini, e che, senza quei sacrifici, era impossibile liquidare la grave eredità della guerra e ricostruire l’economia nazionale danneggiata.
Il governo sovietico prese una serie di provvedimenti per alleviare il danno agli operai e agli impiegati, scarsamente e mediocremente retribuiti, aumentando loro i salari.
Il compito di sviluppare la circolazione delle merci e di estendere la produzione dei generi di largo consumo è oggetto di particolare cura e attenzione da parte dello stato sovietico. Se vogliamo preparare le condizioni per ridurre successivamente i prezzi statali unificati, che saranno stabiliti in seguito all’abolizione del tesseramento, il mezzo decisivo è quello di sviluppare notevolmente la produzione dei generi di largo consumo nell’industria statale, cooperativistica e locale. Inoltre, è necessario utilizzare tutte le possibilità di sviluppo della circolazione delle merci, incrementando nella città e nei villaggi operai, accanto al commercio statale, il commercio cooperativistico. Quanto più largamente si svilupperà la circolazione delle merci, tanto più rapidamente aumenterà il benessere dei lavoratori, saranno soddisfatte le loro necessità essenziali, si alzerà il livello del salario reale e si consoliderà il corso del rublo. Per realizzare questi compiti vitali, è necessario che si rafforzi decisamente l’attenzione dei nostri organi sovietici e di partito per i problemi del miglioramento dell’organizzazione commerciale e della produzione dei generi di largo consumo. «Perché la vita economica del paese possa svilupparsi vigorosamente e l’industria e l’economia agricola sentano lo stimolo di accrescere ulteriormente la loro produzione — ci insegna il compagno Stalin — è necessario che si realizzi una altra condizione, cioè, un’ampia circolazione di merci fra la città e la campagna, tra i distretti e le province del paese, fra i vari rami dell’economia nazionale».
Il problema di preparare in numero sufficiente le maestranze per le nostre nuove imprese e costruzioni si è imposto acutamente. Si possono possedere, per la produzione, degli elementi come i capitali e le materie prime; ma, se manca la mano d’opera, i capitali e le riserve di materiali non saranno utilizzati pienamente e il piano di produzione rimarrà campato in aria. Nello stato sovietico non esistono quelle riserve di mano d’opera quali sono, nei paesi capitalisti, gli eserciti di riserva dei disoccupati, che si accrescono continuamente a causa della rovina delle aziende contadine e della piccola borghesia delle città. Da noi, in regime socialista, queste riserve di mano d’opera sono state liquidate. Eppure, una delle condizioni decisive, per realizzare il piano di ricostruzione e di sviluppo dell’economia nazionale, è quella di attirare nuove forze operaie nell’industria dei trasporti, nell’opera di costruzione. Ciò significa che lo stato deve trovare nuovi mezzi per soddisfare l’esigenza di mano d’opera, richiesta dallo sviluppo dell’economia nazionale.
Già prima della guerra, lo stato socialista si era accinto alla soluzione di questo problema, creando riserve statali di mano d’opera, che venivano impiegate là dove lo stato lo riteneva necessario. Questo problema si è presentato ancora più acutamente dopo la guerra. E’ noto che l’Unione Sovietica ha perso irreparabilmente circa sette milioni di uomini, nella lotta contro i tedeschi, in seguito all’invasione e all’occupazione tedesca e all’invio dei cittadini sovietici nelle galere tedesche. Queste colossali perdite sono avvenute a spese della parte più attiva dei lavoratori della società sovietica. Questa perdita influisce certo dolorosamente sul ritmo dei nostri lavori di ricostruzione. Il problema può e deve essere risolto aumentando i contingenti delle riserve di lavoro, che vengono preparate nelle scuole professionali, nelle scuole di apprendistato delle fabbriche e delle officine, creando dei quadri stabili di maestranze operaie negli Urali, in Siberia e nel lontano oriente. Ciò si otterrà migliorando le loro condizioni materiali, assicurando loro gli alloggi, secondo quanto è stato previsto nella nota decisione del Consiglio dei Ministri, ridistribuendo la mano d’opera all’interno dell’industria, nell’interesse della produzione, contribuendo a meccanizzare, radicalmente, i lavori che richiedono molta mano d’opera e aumentando il rendimento del lavoro.
Dobbiamo risolvere compiti enormi anche nel campo della ricostruzione e dello sviluppo dell’agricoltura. La guerra ha fortemente danneggiato la sua base produttiva: si è ridotto notevolmente il numero del bestiame produttivo, dei cavalli da tiro, è diminuito il numero delle macchine agricole e dei trattori. Nei colcos, la mano d’opera è diminuita. In alcune regioni del paese, alle difficoltà provocate dalla guerra, si sono aggiunte anche le difficoltà derivanti dalla siccità. In seguito al cambiamento della distribuzione geografica del raccolto e alla sua varietà, la realizzazione del piano di consegna del grano dell’anno in corso ha ora un’importanza fondamentale. Per iniziativa dei colcosiani degli Altai, nelle ultime settimane i contadini di molte regioni e distretti hanno preso l’impegno di realizzare in anticipo il piano di consegna del grano e di superarlo. In questi fatti non si può non vedere una nuova manifestazione del profondo patriottismo dei contadini sovietici. Le organizzazioni di partito e dei Soviet, con il loro lavoro organizzativo, politico e ideologico, devono aiutare i contadini a mantenere l’impegno preso verso lo stato.
Ora che si pone il compito di sollevare seriamente l’agricoltura, la nostra industria deve aiutare fortemente la campagna, fornirla di trattori, di mieti-trebbiatrici e di altre macchine agricole e dei pezzi di ricambio. Ma non basta. Bisogna anche migliorare seriamente la direzione dei colcos, portare l’ordine necessario nel loro lavoro. Negli ultimi anni, in una serie di regioni, sono state commesse gravissime violazioni allo statuto delle cooperative agricole, tali da minare le basi della struttura colcosiana. Come fu precisato, erano molto diffusi i casi di saccheggio delle terre comuni dei colcos e di furto dei beni colcosiani. Era necessario difendere l’economia sociale dei colcos dalla spoliazione e prendere misure per rafforzare ulteriormente le cooperative agricole, base della struttura colcosiana. Perciò si comprende l’enorme importanza della risoluzione del Consiglio dei Ministri dell’U.R.S.S. e del Comitato Centrale del P.C. (b) dell’U.R.S.S.: Misure per liquidare le violazioni allo statuto della cooperativa agricola nei colcos, presa per iniziativa del compagno Stalin. Per elaborare le misure atte a migliorare lo statuto della cooperativa agricola, ad ampliare sistematicamente l’economia sociale dei colcos, a reintegrare un rigoroso controllo dell’osservanza dello statuto stesso e per difendere i colcos dai tentativi di violazione dello statuto, è stato creato, presso il governo, il Soviet per gli affari dei colcos, nel quale sono largamente rappresentati i lavoratori effettivi dell’edificazione colcosiana.
E’ superfluo dimostrare l’enorme importanza che assumono le decisioni citate, per tutto il lavoro di edificazione colcosiana. E’ stato inflitto un colpo decisivo alle deformazioni della linea bolscevica, nelle questioni dell’edificazione colcosiana, e ai responsabili di quelle deformazioni. Sono state additate, con estrema chiarezza, le serie deficienze della vita dei colcos, le quali portavano a indebolire le basi della società, a diffondere nei colcos elementi di egoismo individualista. La decisione del Consiglio dei Ministri e del Comitato Centrale del P.C. (b) dell’U.R.S.S. ha posto nelle mani di tutti i colcosiani onesti un’arme potente per riportare l’ordine nei colcos, per ricostituire i principi della vita delle cooperative agricole, che, in molte località, sono violati. La decisione è stata accolta nei colcos con grande soddisfazione. Con il Soviet per gli affari dei colcos, che ha anche i propri rappresentanti locali, è stata creata un’organizzazione potente e autorevole che vigila sugli interessi del potenziamento del regime colcosiano. Non v’è dubbio che, grazie all’intervento e all’aiuto del compagno Stalin, la causa del potenziamento dei nostri colcos sia stata messa sulla strada giusta e che essa sarà coronata dal successo. (Applausi).
Compagni! I grandi compiti di edificazione, il compimento dei piani per ricostruire e sviluppare ulteriormente l’economia nazionale del nostro paese richiedono un alto livello ideologico e un grande impulso al lavoro educativo e culturale. Essere un cittadino sovietico cosciente significa comprendere la politica del partito e dello stato sovietico e lavorare, con tutte le forze, per la sua realizzazione. La coscienza socialista accelera lo sviluppo progressivo della società sovietica, moltiplica le fonti della sua potenza. Perciò, l’aumento costante del livello politico e culturale del popolo è una necessità vitale del regime sovietico. La vittoria dell’Unione Sovietica nella guerra patria è frutto, in gran parte, di quell’opera di educazione che il partito ha svolto fra le masse dei lavoratori, inculcando continuamente nella nostra gioventù l’alacrità e la fiducia nelle proprie forze.
Negli anni di guerra, non siamo stati in grado, data la situazione, di soddisfare pienamente le esigenze culturali e ideologiche del popolo sovietico. Il suo livello ideologico e culturale è cresciuto. Tutto ciò porta un’enorme responsabilità a quel gruppo di intellettuali sovietici che sono stati chiamati a soddisfare le esigenze del popolo e dello stato nel campo dell’istruzione, della cultura e dell’arte.
Sapete che il Comitato Centrale del partito ha scoperto, negli ultimi tempi, dei fatti inammissibili di insufficienza ideologica e di apoliticità nella nostra letteratura e nella nostra arte. Noi conosciamo bene la natura di questa insufficienza ideologica. Sono quelle sopravvivenze del capitalismo nella coscienza degli uomini che noi dobbiamo ancora vincere ed estirpare. Le ultime risoluzioni del Comitato Centrale del P.C. (b) dell’U.R.S.S., sui problemi del lavoro politico-ideologico, hanno avuto lo scopo di rafforzare l’intransigenza bolscevica verso le deviazioni ideologiche di qualsiasi genere e di portare a un livello nuovo, più elevato, tutti i mezzi della nostra cultura socialista: la stampa, l’agitazione e la propaganda, la scienza, la letteratura e l’arte. Abbiamo bisogno di un maggior numero di film di alto livello ideologico e artistico, di opere letterarie, teatrali, ecc.
Un’importanza particolarmente grande ha l’educazione politica della nostra giovane generazione. Il regime sovietico non può tollerare un’educazione della gioventù priva di orientamento ideologico, improntata all’indifferenza politica. E’ necessario difendere la gioventù dalle deleterie influenze estranee e organizzare la sua educazione e istruzione nello spirito dell’ideologia bolscevica. Solo così si può educare la schiera ardita dei costruttori del socialismo, fiduciosi nel trionfo della nostra causa, attivi, impavidi dinnanzi a tutte le difficoltà, pronti a sormontare tutti gli ostacoli.
Lo stato sovietico attribuisce un’importanza particolare allo sviluppo della scienza. Il compagno Stalin sottolinea tutta l’importanza del fatto che, nei piani del partito comunista per il prossimo futuro, siano sviluppate le forze della scienza. Sono note le misure energiche prese dal governo sovietico per creare ai nostri scienziati tutte le condizioni indispensabili allo svolgimento dell’attività scientifica e all’assolvimento del compito assegnatole da Stalin: non solo raggiungere, ma superare, in brevissimo tempo, le conquiste fatte dalla scienza oltre i confini del nostro paese. Posso comunicarvi che il numero degli istituti di ricerca scientifica e degli studiosi che si dedicano a questo lavoro ha già notevolmente superato il livello d’anteguerra. La quantità e la qualità della produzione scientifica è in continua ascesa. Gli scienziati sovietici devono continuare arditamente la loro avanzata sulla via delle innovazioni e della decisa applicazione delle conquiste della scienza alla produzione. Bisogna anche augurarsi che il livello di sviluppo delle scienze sociali non rimanga indietro a quello delle scienze naturali e tecniche. In questo senso, dovrà svolgere una funzione importante l’accademia delle scienze sociali, istituita in questi giorni presso il Comitato Centrale del P.C. (b) dell’U.R.S.S., la quale ha il compito di completare e perfezionare i quadri scientifici per le discipline sociali.
Nobili e grandiosi sono i compiti che si pongono a quei gruppi di intellettuali sovietici, i quali sono chiamati a svolgere un lavoro educativo fra il nostro popolo, a diffondere la cultura, a suscitare in esso nuovi gusti ed esigenze, a rafforzarne l’unità morale e politica. Senza alcun dubbio, l’esercito dei nostri propagandisti, dei letterati, degli artisti, dei maestri, degli scienziati e di tutti gli intellettuali sovietici assolverà degnamente il proprio compito. (Entusiastici applausi).
Compagni! Il nostro popolo deve affrontare compiti grandiosi. Noi leninisti siamo sicuri che essi saranno realizzati con successo. Lo dimostra tutta l’esperienza dell’edificazione socialista dell’U.R.S.S. Lo dimostra la saggia politica del partito bolscevico e del grande Stalin. Lo dimostra il consenso unanime di tutto il nostro popolo alla politica del partito. Tutto il mondo ha potuto constatare, recentemente, quale appoggio dia il popolo sovietico alla politica del partito bolscevico. Mi riferisco alle elezioni al Soviet Supremo dell’U.R.S.S. Queste elezioni sono avvenute in un’atmosfera di entusiasmo politico mai visto e hanno dimostrato chiaramente la forza della democrazia sovietica e l’invincibile unità e amicizia dei popoli del nostro paese.
Ciò significa che tutto il popolo sovietico sostiene la politica del partito di Lenin e di Stalin. Nella politica del partito bolscevico, il nostro popolo vede la garanzia dell’ulteriore progresso del nostro paese. Ciò significa che tutti i cittadini sovietici si sono uniti sotto la bandiera del nostro glorioso partito e sono pieni di un sentimento di illimitata fiducia e di grande amore verso il loro capo Josif Vissarionovic Stalin. (Applausi vivissimi).

L’Unione Sovietica e la lotta per una pace stabile
Compagni!
La vittoria degli stati amanti della libertà sugli aggressori tedeschi e giapponesi ha aperto la via allo sviluppo pacifico, ha permesso ai popoli di passare alla soluzione dei compiti dell’assestamento pacifico del dopoguerra.
Che cosa aspettavano e che cosa aspettano, ora, tutti i popoli del mondo amanti della libertà? I popoli sono assetati di una pace stabile, lunga e democratica, che renda possibile risanare le ferite inflitte dalla seconda guerra mondiale, assicurare il libero sviluppo di ogni popolo, grande o piccolo, assicurare ad ogni individuo un’esistenza tranquilla e sicura. Appunto questo desiderano oggi gli uomini «semplici», che, combattendo contro la Germania hitleriana, hanno difeso con il proprio sangue la loro libertà, la loro indipendenza e il loro diritto a una vita pacifica.
L’Unione Sovietica marcia all’avanguardia dei popoli democratici, nella lotta per la pace, come negli anni della guerra era all’avanguardia nella guerra di liberazione contro il fascismo.
La politica dell’Unione Sovietica nei rapporti internazionali è chiara e ben definita. E’ una politica di lotta per una pace stabile e democratica fra i popoli, una politica di potenziamento della collaborazione amichevole fra le nazioni amanti della pace.
Durante l’anno trascorso, i popoli amanti della pace, dopo aver conseguito la vittoria sul fascismo, si sono accinti ad assolvere il compito della ricostruzione del dopoguerra. Il passaggio dalla guerra alla pace è stato cosa non facile; l’instaurare una pace democratica incontra una serie di difficoltà.
Quale origine hanno le difficoltà che sorgono sulla via della edificazione di una pace democratica? Quali sono le ragioni della divergenza fra i punti di vista dei vari stati sull’organizzazione del dopoguerra?
La seconda guerra mondiale aveva un carattere antifascista e di liberazione per i popoli che lottavano contro il blocco fascista. Era naturale aspettarsi che una giusta guerra antifascista sarebbe stata coronata da una giusta pace democratica. A questo sono profondamente interessati, a questo aspirano i popoli di tutti i paesi.
Garantire una pace lunga, stabile, significa assicurare una pace tale che non lasci impunito l’aggressore e non dimentichi i sacrifici sostenuti nella lotta per la comune vittoria. Significa assicurare una pace che miri ad estirpare i residui del fascismo e che rafforzi i principi democratici negli stati ex nemici, una pace che rispetti la sovranità di questi stati e che non tolleri il loro asservimento economico. Una pace simile deve rispondere agli scopi di liberazione che avevano gli alleati e nello stesso tempo agli interessi dei popoli che hanno scosso il giogo del fascismo e si sono messi sulla via dello sviluppo democratico.
E’ noto che l’Unione Sovietica non risparmia gli sforzi per raggiungere appunto una pace di questo genere. A questo scopo sono dedicati la lunga e complessa attività e gli sforzi dei nostri esperti di politica estera, in seno al Consiglio dei Ministri degli Esteri e alla Conferenza di Parigi per la pace, conclusasi di recente.
Si sarebbe potuto supporre che questo programma, chiaro e preciso, di instaurazione della pace e della sicurezza comune potesse essere realizzato senza incontrare particolari difficoltà e divergenze. Ma in realtà non è avvenuto così. Al contrario, quel programma di pace ha urtato contro la resistenza organizzata degli elementi reazionari di una serie di stati, e in primo luogo dell’Inghilterra e degli Stati Uniti. Questi stati, adoperando come paravento alcuni piccoli stati che si sono dimostrati pronti a seguire a qualunque costo e «a dispetto della ragione umana e delle forze della natura» la scia della politica anglo-americana, hanno tentato di mettere i bastoni fra le ruote e di impedire la collaborazione tra i paesi vincitori e gli ex alleati della Germania hitleriana, nei lavori per l’elaborazione dei trattati di pace.
Nell’esame dei progetti dei trattati di pace alla Conferenza di Parigi, queste e altre simili tendenze antidemocratiche si sono manifestate soprattutto nella discussione dello statuto di Trieste e anche a proposito dell’internazionalizzazione del Danubio. La serie delle pretese economiche, che sono state avanzate durante la preparazione dei trattati di pace, non corrispondeva affatto ai principi della giustizia. Alla Conferenza della pace è stato smascherato il principio estremamente ingiusto, quello delle «uguali possibilità», che in sostanza denotava la tendenza dei paesi economicamente potenti a soggiogare i piccoli paesi, che nel corso della guerra avevano subito enormi perdite e sarebbero stati costretti, per molto tempo ancora, a curare le ferite riportate.
Nel corso della Conferenza di Parigi, perfino un principio indiscutibile di pace democratica, la distruzione dei residui del fascismo e il rafforzamento dell’ordine democratico nei paesi partecipanti alla guerra, ha suscitato una resistenza non piccola.
Appunto per queste circostanze non si sono raggiunte decisioni soddisfacenti su molte questioni relative ai trattati di pace con gli ex alleati della Germania. Alla conferenza è stato violato il principio della parità di diritti delle potenze, quando i rappresentanti dell’Inghilterra e degli Stati Uniti e i loro satelliti hanno tentato di imporre la loro volontà ai paesi che lottano per sostenere la sovranità dei loro diritti, nella soluzione dei problemi del dopoguerra.
La conferenza ha dimostrato l’esistenza di due tendenze nella politica del dopoguerra. Queste due tendenze sono risultate particolarmente evidenti quando si è affrontato il problema della direzione in cui si deve sviluppare la collaborazione internazionale nel momento attuale.
La politica che conduce l’Unione Sovietica consiste nel voler realizzare integralmente il principio di costituire un’organizzazione plenipotenziaria internazionale delle Nazioni Unite, la quale abbia a sua disposizione quanto è necessario per rafforzare la pace e prevenire le aggressioni. Questo principio è dettato dalla convinzione che questa organizzazione internazionale non dev’essere un duplicato della Lega delle Nazioni, di triste memoria, ma che debba essere abbastanza forte e autorevole da poter difendere la pace e prevenire una nuova aggressione.
Il compagno Stalin ha dimostrato che l’azione di tale organizzazione internazionale potrà essere abbastanza efficace solo nel caso che le grandi potenze, che hanno sostenuto sulle proprie spalle il peso principale della guerra contro la Germania hitleriana, agiscano, anche in avvenire, in uno spirito di concordia e di collaborazione.
Non c’è bisogno di dimostrare e di ricordare ancora una volta gli sforzi che l’Unione Sovietica ha fatto per difendere questi principi. Di giorno in giorno, passo per passo, l’Unione Sovietica difende la causa della creazione di una pace stabile, lunga, giusta e democratica, la causa del potenziamento della collaborazione internazionale.
Giorni or sono, tutto il mondo ha potuto constatare, dalle risposte del Compagno Stalin alle domande del direttore dell’agenzia United Press, signor Hugh Baillie, quale importanza attribuisca l’Unione Sovietica alla causa della collaborazione internazionale e come ogni passo di politica estera dell’Unione Sovietica sia volto al raggiungimento di questo scopo.
Questo è uno degli orientamenti della politica internazionale.
L’altro orientamento è quello delle forze e dei circoli reazionari, i quali sono già pronti a ritrattare le dichiarazioni che avevano fatto, ancora ieri, e a far vacillare le basi dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e a lasciare via libera alle forze dell’espansione e dell’aggressione.
Gli ispiratori di questo orientamento hanno ora aperto il fuoco, con particolare violenza, contro il principio dell’unanimità delle grandi potenze nella decisione delle questioni al Consiglio di Sicurezza. Contro questo principio è stata ora sferrata una campagna accanita. E’ perfettamente evidente che lo scopo di questa campagna è quello di pregiudicare le basi della collaborazione internazionale e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. E’ noto che le normali basi della collaborazione internazionale non entrano affatto nei piani di tali circoli imperialisti, che sono interessati ad avere le mani libere, per conquistare il dominio mondiale, per espandersi, per aggredire. Ma i nostri popoli non hanno sparso torrenti di sangue prezioso per sgombrare la strada ai nuovi pretendenti al dominio mondiale. Il compito principale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite è quello di contrapporsi agli appetiti di questo genere e alle mire di dominio mondiale.
La campagna per la rottura della collaborazione internazionale, condotta da parte dei nemici, palesi e camuffati, d’una pace stabile, è accompagnata da un violento attacco antisovietico. La sfrenata propaganda «atomica» antisovietica, il ricatto e le minacce di una nuova guerra, che cercano ad ogni costo di creare delle pattuglie di avanguardia nel campo politico e militare e di trovar loro degli alleati, sono utili soltanto ai guerrafondai del genere di Churchill e ai suoi seguaci. Questa campagna antisovietica è diretta dai circoli reazionari imperialisti, per i quali la guerra rappresenta un affare lucroso, e che non desiderano instaurare una pace stabile e democratica e perciò ricorrono ad ogni mezzo per gonfiare la campagna di calunnie contro l’Unione Sovietica, l’autentico campione della pace democratica.
Alla base della propaganda in favore di una nuova guerra sta la paura dei circoli reazionari per le aspirazioni democratiche dei popoli. L’Unione Sovietica, come avanguardia del movimento democratico, è il bersaglio principale di questa campagna. Ed è logico che sia così. L’Unione Sovietica è lo stato che combatte più conseguentemente per la democrazia, contro le aggressioni, contro la politica espansionista.
Non si può non far rilevare che, negli ultimi tempi, la campagna di calunnie condotta contro l’U.R.S.S. ha preso un ritmo particolare. Essa viene condotta su larga scala e ha lo scopo di minare la crescente fiducia e l’autorità di cui gode l’Unione Sovietica tra i popoli dei paesi democratici. Non si può non rammentare anche che l’ostinata propaganda di odio verso l’Unione Sovietica, verso il suo regime, verso gli uomini che la popolano, non è un fatto nuovo e che già, più di una volta, è finita tristemente per i suoi ideatori. E’ noto che, in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, molti giornali e riviste si sono specializzati nel fomentare l’inimicizia, la diffidenza ed il sospetto verso tutto ciò che è sovietico, cercando di far trasparire il meno possibile la verità sulla vita e la situazione nell’U.R.S.S. E’ noto che l’atmosfera che emana da queste «informazioni» sulla Russia, che riempiono le colonne di molti giornali degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, incomincia a diventare irrespirabile perfino per molti uomini politici borghesi, che vedono tutti gli aspetti di questa menzogna nei loro veri moventi. Attualmente, per scrivere qualche cosa sulla Russia, è sufficiente mescolare un po’ di calunnia, un po’ di ignoranza, un po’ di impudenza, e il piatto è pronto. Si è arrivati al punto che un’informazione vera sull’Unione Sovietica è divenuta un’eccezione, mentre quella falsa la regola. Se poi i fatti sono difficili a deformarsi, tanto peggio per i fatti, che vengono semplicemente passati sotto silenzio.
Recentemente, nei giornali americani è apparsa la notizia che l’Istituto per lo studio dell’opinione pubblica negli Stati Uniti d’America, al quesito che era stato posto: se nell’U.R.S.S. i cittadini non iscritti al partito abbiano il diritto di voto, aveva avuto una percentuale bassissima di risposte giuste. Infatti, la maggioranza aveva risposto o che i cittadini senza partito non avevano quel diritto o dicendo di non sapere che cosa rispondere. Alla domanda se nell’Unione Sovietica sia possibile professare una qualsiasi religione, la maggioranza aveva risposto che ciò non è permesso o dicendo di non sapere come rispondere a quella domanda. Se ne conclude che l’americano medio o non riceve affatto informazioni sull’U.R.S.S., oppure le riceve deformate e calunniose.
Negli ultimi tempi, sono apparsi anche molti «studi» che hanno per argomento il carattere del popolo sovietico in generale, il carattere nazionale dei russi in particolare; inoltre, in molti articoli non si risparmiano gli sforzi per rappresentare il popolo sovietico nella luce più ripugnante. Leggendo, viene da meravigliarsi per la rapidità con la quale il popolo russo si è trasformato. Quando, sui campi di battaglia, scorreva il nostro sangue, essi erano entusiasti del nostro valore, del nostro coraggio, delle alte qualità morali, dello sconfinato patriottismo. Ma adesso, quando noi, in collaborazione con altri popoli, vogliamo realizzare il nostro uguale diritto di partecipare alla vita internazionale, cominciano a sommergerci con fiumi di ingiurie e di calunnie, ad oltraggiarci e ad insultarci, ripetendo nello stesso tempo che abbiamo un carattere insopportabile e sospettoso.
Nel giudicare un tale atteggiamento verso di noi, non possiamo non meravigliarci del grado di scorrettezza e di inciviltà al quale possono giungere gli uomini di certi paesi, che credono di essere il «sale» della terra e il «fondamento» della civiltà. Si vede che la guerra trascorsa, che ha dato la vittoria alle forze del progresso e della libertà sulle forze della reazione, del male e della violenza, non ha insegnato nulla agli uomini che tentano di ripercorrere la via che già tanto dolore e infelicità ha portato ai popoli, la via che alimenta l’inimicizia e la diffidenza tra i popoli.
Alcuni giorni or sono, in uno dei suoi discorsi, il signor Wallace ha detto che per ogni centimetro quadrato di critica contro gli Stati Uniti, stampata sulla Pravda, si stampano, per lo meno, delle decine di metri quadrati di critica antisovietica nella stampa americana. E’ difficile poter confutare questa affermazione di Wallace. (Animazione generale nella sala).
In questa complicata situazione internazionale, nella quale i nemici di una pace stabile portano tanti elementi di sfiducia e di preoccupazione, è risuonata in tutto il mondo, con forza particolare, la voce tranquilla, sicura e saggia del compagno Stalin, che ha portato la fiducia e la speranza nei cuori di tutti gli uomini assetati di pace e di sicurezza, i quali conoscono il valore di ogni sua parola. (Applausi vivissimi).
Il compagno Stalin ha dato una buona lezione agli organizzatori della campagna che minaccia una nuova guerra, smascherando il carattere di ricatto e di speculazione di questa campagna e dimostrando la mancanza di un reale pericolo di una «nuova guerra».
Il compagno Stalin ha dimostrato, con ciò, che non si può spaventare l’Unione Sovietica nè con ricatti, nè speculando sulla minaccia di una «nuova guerra».
In questo momento, mentre noi siamo riuniti qui per commemorare il XXIX anniversario della nostra grande rivoluzione, i nostri compagni, che rappresentano lo stato sovietico alle sedute dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York, difendono tenacemente il principio della collaborazione internazionale e la causa della pace. La proposta fatta dal compagno Molotov, in nome della delegazione sovietica, di ridurre, da parte di tutti, gli armamenti, di vietare la produzione e l’utilizzazione dell’energia atomica a scopi di guerra, rappresenta un nuovo, immenso contributo dell’Unione Sovietica alla causa della garanzia della pace e suscita la simpatia e l’appoggio degli uomini progressivi di tutto il mondo. Ancora una volta, l’Unione Sovietica agisce, davanti a tutto il mondo, come l’iniziatrice della lotta per una pace democratica, effettiva e stabile e per una reale collaborazione internazionale. Noi siamo convinti che, malgrado tutte le forze che vogliono impedire l’organizzazione di una pace e di una sicurezza salde e comuni, questa causa, alla fine, sarà realizzata con successo. La nostra convinzione si basa sul fatto che le forze che lavorano a favore della pace crescono di giorno in giorno e poggiano su una base solida. Esse diventano sempre più organizzate e più potenti. L’Unione Sovietica non è isolata nella sua lotta per una salda pace democratica e per la sicurezza collettiva dei popoli. La politica di pace dell’Unione Sovietica trova l’appoggio oltre confine di milioni di persone. «I popoli del mondo — ammonisce il compagno Stalin — non vogliono che si ripetano le calamità della guerra. Essi lottano tenacemente per rafforzare la pace e la sicurezza».
Le perdite e i danni causati da una guerra di cui non si era mai vista l’uguale, le vittorie ottenute sulla Germania hitleriana e sul Giappone imperialista hanno creato una nuova situazione politica in tutto il mondo, hanno messo in movimento le masse popolari, ne hanno accresciuta l’attività politica e hanno dato un potente impulso allo sviluppo della democrazia in tutti i paesi. Le forze della democrazia sono aumentate e si sono moltiplicate, mentre le forze della reazione, malgrado ogni sforzo di rimanere sulle vecchie posizioni e di frenare lo sviluppo democratico dei popoli, si sono indebolite. Basti ricordare le brillanti vittorie della democrazia nei paesi slavi fratelli, in Jugoslavia, in Cecoslovacchia, in Polonia. In questi paesi, si sviluppa una nuova, vera democrazia, conquistata col sangue dei popoli e temprata nel corso della grande, sacra lotta contro l’oppressione hitleriana e fascista. I popoli hanno preso le sorti dei loro paesi nelle proprie mani, vi hanno instaurato un ordine democratico e conducono una lotta attiva contro le forze della reazione e contro i fomentatori di una nuova guerra.
Anche nei paesi che ancora ieri erano satelliti della Germania, in Italia, in Bulgaria, in Romania, in Ungheria e in Finlandia, si verifica una insolita ascesa del movimento democratico e un’insolita attività delle masse popolari. Ancora pochi giorni fa, siamo stati testimoni di una grandiosa vittoria del Fronte Patriottico in Bulgaria, che costituisce una nuova prova del potenziamento delle forze democratiche nell’Europa del dopoguerra.
Non bisogna dimenticare, inoltre, che la sconfitta dei conservatori e la vittoria dei laburisti in Inghilterra — come la sconfitta dei reazionari e la vittoria del blocco dei partiti di sinistra in Francia — denotano un serio spostamento di questi paesi a sinistra.
Infine, è noto che l’aspirazione alla libertà e allo sviluppo democratico ha conquistato anche i popoli delle colonie e dei paesi soggetti, che aspirano a un libero sviluppo nazionale.
In tutti i paesi, milioni di lavoratori si organizzano per difendere la causa della pace. Mi riferisco all’importante Federazione Sindacale Mondiale, che conduce una politica attiva di collaborazione internazionale degli operai, agli sforzi della Federazione internazionale Democratica Femminile e della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica. Anche i rapporti culturali fra i paesi democratici si sviluppano e si consolidano.
Le forze della democrazia si sviluppano, e in ciò è la garanzia che la causa della pace trionferà. (Applausi vivissimi).

* * *


Compagni!
Il primo anno del dopoguerra, come si doveva prevedere, è stato un anno difficile. L’Unione Sovietica ha dovuto superare le conseguenze di una difficile guerra di oltre quattro anni. Si può dire che gli sforzi del popolo sovietico hanno dato i loro risultati. La causa della edificazione pacifica si sviluppa con successo. Ora possiamo affermare che, nel dopoguerra, il nostro paese si è posto saldamente e sicuramente sulla via di una rapida ricostruzione e di una potente ascesa, in tutti i campi dell’economia e della cultura. Nel campo dei rapporti con gli altri paesi, l’Unione Sovietica, con la sua lotta conseguente per una giusta pace democratica, con la ferma difesa degli interessi dei popoli minori, ha rafforzato, ancora di più, le sue posizioni internazionali, ha dato un serio contributo alla causa della instaurazione di rapporti pacifici, di buon vicinato, tra i popoli.
Entriamo in un nuovo anno, il trentesimo anno di esistenza dello stato sovietico. Negli anni passati, lo stato sovietico ha sostenuto due guerre sanguinose, devastatrici. Queste guerre hanno occupato un quarto di tutto il periodo di esistenza dello stato sovietico. Considerando quali grandi sforzi richieda la riparazione dei danni causati dalla guerra, ognuno può comprendere quanto poco tempo abbia avuto il nostro paese per il pacifico lavoro di costruzione. Se il nostro paese, in un periodo così breve della sua storia, è uscito vittorioso da due guerre — dalla guerra contro gli interventisti e dalla seconda guerra mondiale — ed è riuscito a creare una potente industria socialista, una agricoltura socialista altamente sviluppata, ad elevare seriamente il livello culturale ed il benessere materiale delle masse popolari, ciò testimonia l’inesauribile forza vitale del regime sovietico e l’invincibilità di quella causa per la quale il nostro popolo ha combattuto, portando a termine la grande Rivoluzione Socialista di Ottobre. (Applausi vivissimi).
Evviva il popolo sovietico!
Evviva la nostra potente patria, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche!
Evviva il glorioso partito bolscevico!
Evviva il governo sovietico!
Evviva il nostro capo che ci guida verso i nuovi successi della patria sovietica, verso la completa vittoria del comunismo nel nostro paese, evviva il compagno Stalin! (Grande ovazione nella sala, in onore del compagno Stalin. Tutti si alzano).

Edited by Sandor_Krasna - 27/1/2015, 02:47
 
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LA SITUAZIONE INTERNAZIONALE


Rapporto tenuto alla Conferenza di informazione dei rappresentanti di nove partiti comunisti, che ha avuto luogo in Polonia, alla fine del settembre 1947. Pubblicato nel n. 20 del Bolscevik, 30 ottobre 1947.

La situazione mondiale nel dopoguerra
La fine della seconda guerra mondiale ha portato cambiamenti essenziali in tutta la situazione internazionale. La disfatta militare del blocco degli stati fascisti, il carattere antifascista della guerra di liberazione, la parte decisiva avuta dall’Unione Sovietica nella vittoria sugli aggressori fascisti, hanno modificato nettamente i rapporti di forza fra i due sistemi — socialista e capitalista — a favore del socialismo.
In che cosa consistono questi cambiamenti?
Il risultato principale della seconda guerra mondiale consiste nella disfatta militare della Germania e del Giappone, i due paesi capitalistici più militaristi e più aggressivi. In tutto il mondo, specialmente in Inghilterra, negli Stati Uniti d’America e in Francia, gli elementi reazionari avevano riposto particolari speranze nella Germania e nel Giappone, soprattutto nella Germania hitleriana, come nella potenza capace, in primo luogo, di infliggere all’Unione Sovietica un colpo che potesse, se non schiacciarla, almeno indebolirla e minare la sua influenza, e, in secondo luogo, di schiacciare il movimento operaio rivoluzionario e democratico nella Germania stessa e in tutti i paesi che erano stati oggetto dell’aggressione hitleriana, e di consolidare, così, la situazione generale del capitalismo. In questo è consistita una delle cause principali della politica d’anteguerra detta di Monaco, di quella politica di «distensione» e d’incoraggiamento all’aggressione fascista, che fu condotta conseguentemente dai circoli imperialisti dirigenti dell’Inghilterra, della Francia e degli Stati Uniti.
Tuttavia, le speranze che gli imperialisti anglo-franco-americani avevano riposto negli hitleriani non si sono realizzate. Gli hitleriani si sono dimostrati più deboli e l’Unione Sovietica e i popoli amanti della libertà si sono dimostrati più forti di quanto non supponessero gli uomini di Monaco. In conseguenza della seconda guerra mondiale, le forze principali e attive della reazione fascista internazionale sono state disfatte e sono state poste fuori combattimento per un lungo periodo.
In conseguenza, il sistema capitalista mondiale, nel suo complesso, ha subito un nuovo serio colpo. Se il risultato più importante della prima guerra mondiale era stato la rottura del fronte unico dell’imperialismo e il distacco della Russia dal sistema mondiale del capitalismo, e se, in seguito alla vittoria del regime socialista nell’U.R.S.S., il capitalismo ha cessato di essere l’unico sistema che abbracciasse l’economia mondiale, la seconda guerra mondiale, la disfatta del fascismo, l’indebolimento delle posizioni mondiali del capitalismo e il rafforzamento del movimento antifascista hanno portato all’abbandono del sistema imperialista da parte di una serie di paesi dell’Europa centrale e sudorientale. In questi paesi sono sorti nuovi regimi popolari e democratici. Il grande esempio della guerra patria dell’Unione Sovietica e la funzione liberatrice dell’Esercito Sovietico si sono uniti allo slancio dell’imponente lotta di liberazione nazionale dei popoli amanti della libertà contro gli invasori fascisti e i loro complici. Nel corso di questa lotta sono stati smascherati, come traditori degli interessi nazionali, gli elementi filofascisti che avevano appoggiato Hitler e i collaborazionisti, cioè i grandi capitalisti più influenti, i grandi proprietari fondiari, gli alti funzionari, gli ufficiali monarchici. La liberazione dalla schiavitù tedesco-fascista si è accompagnata, nei paesi danubiani, all’allontanamento dal potere degli alti strati della borghesia e dei grandi proprietari terrieri, compromessi per la loro collaborazione col fascismo tedesco, e all’avvento al potere di nuove forze del popolo, che si erano distinte nella lotta contro gli oppressori hitleriani. In questi paesi son giunti al potere i rappresentanti degli operai, dei contadini, degli intellettuali progressivi. Poiché la classe operaia ha dato prova dovunque del massimo eroismo, della massima coerenza e intransigenza nella lotta antifascista, la sua autorità e la sua influenza tra il popolo si sono enormemente accresciute.
In Jugoslavia, in Bulgaria, in Romania, in Polonia, in Cecoslovacchia, in Ungheria e in Albania, il nuovo potere democratico, fondandosi sull’appoggio delle masse popolari, è riuscito a realizzare, in brevissimo tempo, trasformazioni democratiche progressive che la democrazia borghese non è più capace di compiere. La riforma agraria ha dato la terra ai contadini e ha portato alla liquidazione della classe dei proprietari fondiari. In questi paesi, la nazionalizzazione della grande industria e delle banche e la confisca della proprietà dei traditori che avevano collaborato coi tedeschi hanno scalzato radicalmente le posizioni del capitale monopolistico e hanno liberato le masse dalla servitù imperialistica. Nel tempo stesso è stata creata la base della proprietà dello stato socialista, è stato creato un nuovo tipo di stato — la repubblica popolare — in cui il potere appartiene al popolo, in cui la grande industria, i trasporti e le banche appartengono allo stato e in cui la forza dirigente è costituita dal blocco delle classi lavoratrici della popolazione, con alla testa la classe operaia. In conclusione, i popoli di questi paesi non solo si sono liberati dalla morsa dell’imperialismo, ma gettano le basi per passare alla via dello sviluppo socialista.
Come risultato della guerra, l’importanza internazionale e l’autorità dell’U.R.S.S. sono immensamente cresciute. L’U.R.S.S. è stata la dirigente e l’anima delle forze che hanno distrutto militarmente la Germania e il Giappone. Intorno alla Unione Sovietica si sono raccolte le forze democratiche progressive del mondo intero. La stato socialista ha superato le terribili prove della guerra ed è uscito vittorioso dal conflitto mortale contro il fortissimo nemico. L’U.R.S.S. è uscita dalla guerra non indebolita, ma rafforzata.
Anche l’aspetto del mondo capitalista è cambiato in modo sostanziale. Delle sei cosiddette grandi potenze imperialiste (Germania, Giappone, Inghilterra, Stati Uniti, Francia e Italia), tre sono state eliminate in conseguenza della loro disfatta militare (Germania, Italia e Giappone). Anche la Francia è stata indebolita e ha perduto la sua antica importanza come grande potenza. In questo modo son rimaste solo due «grandi» potenze imperialiste mondiali: gli Stati Uniti e l’Inghilterra; ma le posizioni di una di queste, dell’Inghilterra, sono state scosse. Durante la guerra, l’imperialismo inglese è apparso indebolito dal punto di vista militare e politico. In Europa, l’Inghilterra si è dimostrata impotente di fronte all’aggressione tedesca. In Asia, l’Inghilterra — la più grande potenza imperialista — non è riuscita a salvaguardare, con le proprie forze, i propri possessi coloniali. Perduti temporaneamente i suoi legami con le colonie, le quali rifornivano la metropoli di derrate alimentari e di materie prime e assorbivano una parte considerevole della sua produzione industriale, l’Inghilterra si è trovata a dipendere, militarmente ed economicamente, dai rifornimenti militari e industriali dell’America, e, alla fine della guerra, la dipendenza finanziario-economica dell’Inghilterra dagli Stati Uniti ha continuato ad aumentare. Dopo la fine della guerra, l’Inghilterra è riuscita, sì, a ricuperare le sue colonie, ma, in esse, ha dovuto urtare contro l’accresciuta influenza dell’imperialismo americano, che, durante la guerra, aveva sviluppato la sua attività in tutte quelle zone che prima della guerra erano considerate monopolio della sfera d’influenza del capitale inglese (Oriente arabo, Asia sudorientale). Si è rafforzata l’influenza dell’America nei dominion dell’impero britannico e nell’America del Sud, dove la funzione avuta un tempo dall’Inghilterra passa in misura considerevole e sempre crescente agli Stati Uniti.
La crisi del sistema coloniale, accentuatasi in conseguenza della seconda guerra mondiale, si è manifestata nella potente ascesa del movimento di liberazione nazionale nelle colonie e nei paesi dipendenti. Con ciò, le retrovie del sistema capitalista si sono trovate ad essere minacciate. I popoli delle colonie non vogliono più vivere come un tempo. Le classi dirigenti delle metropoli non possono più governare le colonie con i vecchi sistemi. I tentativi di schiacciare il movimento di liberazione nazionale con la forza militare cozzano ora con la resistenza armata, sempre crescente, dei popoli delle colonie e portano a guerre coloniali di lunga durata (Olanda-Indonesia; Francia-Viet Nam).
La guerra, essendo il prodotto dello sviluppo ineguale del capitalismo nei diversi paesi, ha portato una nuova accentuazione di questa ineguaglianza di sviluppo. Di tutte le potenze capitaliste, una sola — gli Stati Uniti — è uscita dalla guerra senza essere indebolita, ma considerevolmente rafforzata, sia economicamente che militarmente. I capitalisti americani si sono considerevolmente arricchiti con la guerra. Nello stesso tempo, il popolo americano non ha sofferto le privazioni che la guerra comporta, il giogo dell’occupazione, i bombardamenti aerei, e le vittime umane degli Stati Uniti, che, di fatto, sono entrati in guerra solo nell’ultima fase, quando la sorte della guerra era ormai già decisa, sono state poco numerose in confronto a quelle degli altri paesi. Per gli Stati Uniti, la guerra ha servito soprattutto come impulso a un vasto sviluppo della produzione industriale a al rafforzamento decisivo dell’esportazione (soprattutto in Europa).
La fine della guerra ha posto agli Stati Uniti una serie di nuovi problemi. I monopoli capitalisti si sono sforzati di mantenere i loro profitti al livello elevato che avevano prima. A questo scopo, essi hanno cercato di fare in modo che la mole delle ordinazioni del tempo di guerra non venisse ridotta. Ma per raggiungere questo obbiettivo, era necessario che gli Stati Uniti conservassero tutti i mercati esteri che durante la guerra avevano assorbito la produzione americana e conquistassero nuovi mercati, poiché, in conseguenza della guerra, la capacità d’acquisto della maggior parte degli stati è nettamente diminuita. Anche la dipendenza finanziario-economica di quegli stati verso gli Stati Uniti è aumentata. Gli Stati Uniti hanno collocato all’estero crediti per un ammontare di 19 miliardi di dollari, senza contare gli investimenti nella banca internazionale e nel fondo valutario internazionale. I principali concorrenti degli Stati Uniti — la Germania e il Giappone — sono scomparsi dal mercato mondiale, e questo fatto ha creato nuove, grandissime possibilità per gli Stati Uniti.
Se prima della seconda guerra mondiale i circoli reazionari più influenti dell’imperialismo americano seguivano una politica isolazionista e si astenevano dall’intervenire attivamente negli affari dell’Europa o dell’Asia, nelle nuove condizioni del dopoguerra i padroni di Wall Street sono passati a una nuova politica. Essi hanno tracciato un programma di utilizzazione di tutta la potenza militare ed economica americana, non soltanto per conservare e consolidare le posizioni conquistate all’estero, durante la guerra, ma anche per estenderle al massimo, sostituendosi sul mercato mondiale alla Germania, al Giappone e all’Italia. L’enorme indebolimento della potenza economica degli altri stati capitalisti ha creato la possibilità di sfruttare a scopo di speculazione le difficoltà economiche del dopoguerra, che rendono più facile la sottomissione di questi stati al controllo americano, e, in particolare, danno la possibilità di sfruttare le difficoltà economiche che la Gran Bretagna incontra nel dopoguerra. Gli Stati Uniti hanno proclamato un nuovo piano, apertamente conquistatore e espansionistico.
Il nuovo piano si è posto lo scopo di stabilire il dominio mondiale dell’espansionismo americano. Allo scopo di consolidare sui mercati la propria situazione di monopolio, che si era creata in seguito alla scomparsa dei due maggiori concorrenti, la Germania e il Giappone, e di indebolire gli alleati capitalisti, l’Inghilterra e la Francia, il nuovo piano della politica degli Stati Uniti si basa su un vasto programma di misure di ordine militare, economico e politico, le quali perseguono lo scopo di stabilire in tutti i paesi, che sono oggetto dell’espansione degli Stati Uniti, il dominio politico ed economico degli Stati Uniti stessi, di ridurre questi paesi allo stato di satelliti, di stabilire in essi regimi interni tali, che elimino ogni ostacolo che può derivare dal movimento operaio e democratico allo sfruttamento di questi paesi da parte del capitale americano. Attualmente, gli Stati Uniti cercano di estendere questo nuovo piano della loro politica non soltanto ai nemici di ieri e agli stati neutrali, ma anche, in misura sempre maggiore, ai loro alleati del periodo della guerra.
Gli Stati Uniti rivolgono, inoltre, un’attenzione speciale nello sfruttare le difficoltà economiche dell’Inghilterra, loro alleata e nel tempo stesso rivale e concorrente da lunga data. Il piano espansionistico americano parte dal presupposto che non solo non bisogna allentare la morsa della dipendenza economica dell’Inghilterra dagli Stati Uniti, che si era stabilita durante la guerra, ma che, al contrario, bisogna rafforzare la pressione sull’Inghilterra, per strapparle a poco a poco il controllo sulle colonie, bisogna scalzare l’Inghilterra dalle sue sfere d’influenza e ridurla alla condizione di potenza vassalla.
Così, con la loro nuova politica, gli Stati Uniti tendono a consolidare la propria posizione di monopolio e contano di mettere i loro alleati capitalisti in una posizione di dipendenza, di subordinazione.
Ma contro le aspirazioni degli Stati Uniti al dominio mondiale si erge l’U.R.S.S., con la sua crescente influenza internazionale, come bastione della politica antimperialista e antifascista, si ergono i paesi di nuova democrazia, sfuggiti al controllo dell’imperialismo anglo-americano, si ergono gli operai di tutti i paesi, compresi quelli dell’America stessa, che non vogliono nuove guerre per il rafforzamento dei loro oppressori. Per questo, il nuovo piano espansionistico e reazionario della politica degli Stati Uniti è basato sulla lotta contro l’U.R.S.S., contro i paesi di nuova democrazia, contro il movimento operaio degli Stati Uniti, contro le forze antimperialiste di liberazione di tutti i paesi.
I reazionari americani, preoccupati dai successi del socialismo nell’U.R.S.S., dai successi dei paesi di nuova democrazia e dallo sviluppo del movimento operaio e democratico in tutti i paesi del mondo nel dopoguerra, tendono ad assumersi il compito di «salvatori» del sistema capitalista dal comunismo.
In questo modo, il programma schiettamente espansionista degli Stati Uniti ricorda in modo straordinario il programma avventuristico, ingloriosamente fallito, degli aggressori fascisti, che di recente hanno preteso anch’essi, come è noto, al dominio del mondo.
Come gli hitleriani, mentre preparavano le loro aggressioni brigantesche, si coprivano con la maschera dell'anticomunismo, per assicurarsi la possibilità di opprimere e di asservire tutti i popoli e in primo luogo il loro stesso popolo, così gli attuali circoli dirigenti degli Stati Uniti mascherano la loro politica espansionista, e perfino la loro offensiva contro gli interessi vitali del loro concorrente imperialista più debole (l’Inghilterra) con il falso pretesto della difesa anticomunista. La corsa febbrile agli armamenti, la costruzione di nuove basi militari e la creazione di piazzeforti per le forze armate americane in tutte le parti del mondo vengono presentate, con farisaica ipocrisia, come misure di «difesa» contro un’immaginaria minaccia di guerra da parte dell’U.R.S.S. La diplomazia americana, che agisce con i metodi dell’intimidazione, della corruzione e del ricatto, strappa facilmente agli altri paesi capitalisti, e in primo luogo all’Inghilterra, il consenso al consolidamento legale delle posizioni di privilegio dell’America in Europa e in Asia, nelle zone occidentali della Germania, in Austria, in Italia, in Grecia, in Turchia, in Egitto, nell’Iran, nell’Afganistan, in Cina, in Giappone e in altre regioni.
Gli imperialisti americani, i quali si considerano la forza principale che si contrappone all’U.R.S.S., ai paesi di nuova democrazia, al movimento operaio e democratico di tutti i paesi del mondo, il bastione delle forze reazionarie, antidemocratiche del mondo intero, si sono accinti, proprio fin dal primo giorno dopo la fine della seconda guerra mondiale, a riorganizzare un fronte di guerra contro l’U.R.S.S. e la democrazia mondiale e a incoraggiare le forze reazionarie e antipopolari — i collaborazionisti e le vecchie colonne del capitalismo — nei paesi europei liberati dal giogo hitleriano e che hanno incominciato a organizzare la loro vita secondo la propria volontà.
Gli imperialisti più arrabbiati, perduto ogni senso di equilibrio, hanno incominciato, seguendo l’esempio di Churchill, a fare dei piani per realizzare immediatamente una guerra preventiva contro l’U.R.S.S., invitando apertamente a utilizzare contro i popoli sovietici l’arma atomica di cui hanno temporaneamente il monopolio. Gli istigatori di una nuova guerra cercano di intimidire e di ricattare non solo l’U.R.S.S., ma anche altri paesi, e in primo luogo la Cina e l’India, rappresentando calunniosamente l’U.R.S.S. come un possibile aggressore e presentando se stessi come «amici» della Cina e dell’India e come «salvatori» dal pericolo comunista, chiamati ad «aiutare» i più deboli. In questo modo si risolve il problema di mantenere l’India e la Cina sottomesse all’imperialismo e di prolungare il loro asservimento politico e economico.

Il nuovo schieramento delle forze politiche del dopoguerra e la formazione di due campi: il campo imperialista antidemocratico, da una parte, e il campo antimperialista democratico dall’altra
I mutamenti radicali, verificatisi nella situazione internazionale e nella situazione dei diversi paesi in seguito alla guerra, hanno cambiato tutto il quadro politico mondiale. Si è formato un nuovo schieramento delle forze politiche. Quanto più ci allontaniamo dalla fine della guerra, tanto più nettamente si delineano le due tendenze fondamentali della politica internazionale del dopoguerra, corrispondenti allo schieramento delle forze politiche che agiscono nell’arena mondiale in due campi principali: da una parte il campo imperialista e antidemocratico e dall’altra il campo antimperialista e democratico.
Gli Stati Uniti sono la principale forza dirigente del campo imperialista. Con essi sono l’Inghilterra e la Francia, poiché l’esistenza del governo laburista Attlee-Bevin in Inghilterra, del governo socialista Ramadier in Francia non impediscono all’Inghilterra e alla Francia di procedere, in tutte le questioni principali, nella scia della politica imperialista degli Stati Uniti, in qualità di loro satelliti. Il campo dell'imperialismo è sostenuto anche da stati coloniali, come il Belgio e l’Olanda, da paesi a regime reazionario antidemocratico, come la Turchia e la Grecia, e anche da paesi dipendenti politicamente e economicamente dagli Stati Uniti, come i paesi del vicino Oriente, l’America del Sud e la Cina.
Lo scopo principale del campo imperialista consiste nel rafforzare l’imperialismo, nel preparare una nuova guerra imperialista, nel lottare contro il socialismo e la democrazia e nel sostenere ovunque i regimi e i movimenti filofascisti, reazionari e antidemocratici.
Per assolvere questi compiti, il campo imperialista non esita ad appoggiarsi alle forze reazionarie e antidemocratiche in tutti i paesi, a sostenere quelli che gli furono avversari nella guerra di ieri contro quelli che gli furono alleati.
Le forze antimperialiste e antifasciste formano l’altro campo. L’U.R.S.S. e i paesi di nuova democrazia ne sono i pilastri. Ne fanno parte anche i paesi che hanno rotto con l’imperialismo e che si sono posti risolutamente sulla via dello sviluppo democratico, come la Romania, l’Ungheria, la Finlandia. Al campo antimperialista aderiscono l’Indonesia, il Viet Nam, e con esso simpatizzano l’India, l’Egitto, la Siria. Il campo antimperialista si appoggia al movimento operaio e democratico di tutti i paesi, ai partiti comunisti fratelli di tutti i paesi, ai combattenti del movimento di liberazione nazionale nelle colonie e nei paesi dipendenti, a tutte le forze progressive e democratiche che esistono in ogni paese. Obiettivo di questo campo è la lotta contro le minacce di nuove guerre e di espansione imperialista, il consolidamento della democrazia e l’eliminazione dei residui del fascismo.
La fine della seconda guerra mondiale ha posto a tutti i popoli amanti della libertà l’importantissimo compito di assicurare una pace democratica stabile, che consolidi la vittoria sul fascismo. Nell’adempimento di questo compito fondamentale del dopoguerra, la funzione dirigente spetta all’Unione Sovietica e alla sua politica estera. Ciò deriva dalla natura dello stato socialista sovietico, profondamente alieno da qualsiasi stimolo all’aggressione e allo sfruttamento e interessato a creare le condizioni più favorevoli per realizzare la costruzione della società comunista. Una di queste condizioni è la pace con gli altri paesi.
L’Unione Sovietica, banditrice di un sistema sociale nuovo e superiore, riflette, nella sua politica estera, le speranze di tutta l’umanità progressiva che aspira a una pace stabile e non può essere interessata a una nuova guerra prodotta dal capitalismo. L’Unione Sovietica è il fedele campione della libertà e dell’indipendenza di tutti i popoli, la nemica dell’oppressione nazionale e razzista, dello sfruttamento coloniale in qualsiasi forma. Il cambiamento avvenuto, in seguito alla seconda guerra mondiale, nel rapporto delle forze tra il mondo capitalista e il mondo socialista, ha accresciuto ancor di più l’importanza della politica estera dello stato sovietico e ne ha esteso il campo di attività.
Intorno al compito di assicurare una giusta pace democratica si sono unite tutte le forze del campo antimperialista e antifascista. Su questa base è nata e si è rafforzata la collaborazione amichevole dell’U.R.S.S. con i paesi democratici, in tutti i problemi di politica estera. Questi paesi, e in primo luogo i paesi di nuova democrazia — Jugoslavia, Polonia, Cecoslovacchia, Albania — che hanno avuto una funzione importante nella guerra di liberazione contro il fascismo, come pure la Bulgaria, la Romania, l’Ungheria e, parzialmente, la Finlandia, che si sono aggregate al fronte antifascista, sono divenute, nel dopoguerra, tenaci combattenti per la pace, per la democrazia, per la propria libertà e indipendenza, contro tutti i tentativi fatti dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra per arrestare il loro sviluppo e trascinarle nuovamente sotto il giogo dell’imperialismo.
I successi e l’aumento del prestigio internazionale del campo democratico non sono riusciti graditi agli imperialisti. Già durante la seconda guerra mondiale, in Inghilterra e negli Stati Uniti, l’attività delle forze reazionarie che tendevano a distruggere l’azione coordinata delle potenze alleate, a tirare in lungo la guerra, a dissanguare totalmente l’U.R.S.S. e a salvare gli aggressori fascisti dalla disfatta completa, erano in costante aumento. Il sabotaggio del secondo fronte, da parte degli imperialisti anglosassoni, capeggiati da Churchill, rifletteva chiaramente questa tendenza, che è, in fondo, la continuazione della politica «di Monaco» nella mutata situazione. Ma finché la guerra continuava, i circoli reazionari dell’Inghilterra e degli Stati Uniti non osavano prendere apertamente posizione contro l’Unione Sovietica e i paesi democratici, ben comprendendo che in tutto il mondo le simpatie delle masse popolari erano, senza riserve, dalla parte di questi. Ma fin dagli ultimi mesi che precedettero la fine della guerra, la situazione cominciò a modificarsi. Già nel luglio 1945, nel corso delle trattative alla Conferenza delle tre potenze a Berlino, gli imperialisti anglo-americani manifestarono la loro riluttanza a tener conto dei legittimi interessi dell’U.R.S.S. e dei paesi democratici.
Nel corso degli ultimi due anni, la politica estera dell'Unione Sovietica e dei paesi democratici è stata una politica di lotta per attuare conseguentemente i principi democratici della pace del dopoguerra. Gli stati del campo antimperialista sono stati combattenti fedeli e conseguenti nella lotta per la realizzazione di questi principi, senza scostarsene di un solo punto. Per questo, la politica estera degli stati democratici, nel dopoguerra, ha come compito principale la lotta per una pace democratica, per la liquidazione dei residui del fascismo, per opporsi alla rinascita delle aggressioni fasciste imperialiste, per consolidare il principio dell’uguaglianza di diritti dei popoli e per il rispetto della loro sovranità, per la riduzione, estesa a tutte le potenze, degli armamenti in genere, e per il divieto dei tipi più distruttivi di armi, destinate allo sterminio in massa della popolazione pacifica. Nell’adempimento di tutti questi compiti, la diplomazia sovietica e la diplomazia degli stati democratici si sono urtate alla resistenza della diplomazia anglo-americana, che, dopo la guerra, segue costantemente e coerentemente una linea di ripudio di tutti i principi comuni di organizzazione della pace, nel dopoguerra, che erano stati proclamati dagli alleati durante la guerra; una linea che tende a sostituire quella politica di pace e di consolidamento della democrazia con una nuova politica, diretta alla rottura della pace generale, alla difesa degli elementi fascisti, e alla persecuzione della democrazia in tutti i paesi.
L’azione concorde della diplomazia dell’U.R.S.S. e degli stati democratici, diretta a risolvere il problema della riduzione degli armamenti e della proibizione di un tipo di arma particolarmente distruttiva — la bomba atomica — ha un’enorme importanza.
Per iniziativa dell’Unione Sovietica, all’Organizzazione delle Nazioni Unite è stata presentata la proposta di una riduzione generale degli armamenti e di una dichiarazione che avesse lo scopo immediato di proibire la produzione e l’utilizzazione dell’energia atomica per scopi di guerra. Questa proposta del governo sovietico ha incontrato l’opposizione accanita degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Tutti gli sforzi dei circoli imperialisti sono stati diretti a sabotare questa decisione, come è stato dimostrato dagli infiniti e infruttuosi indugi e ostacoli d’ogni specie, che sono stati frapposti allo scopo di impedire che fosse presa qualsiasi misura pratica efficace. L’attività dei delegati dell’U.R.S.S. e dei paesi democratici, nelle varie istanze dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, ha un carattere di lotta quotidiana, sistematica, tenace, per i principi democratici della collaborazione internazionale e per la denuncia degli intrighi dei cospiratori imperialisti contro la pace e la sicurezza dei popoli.
Ciò si manifesta in maniera particolarmente evidente, per esempio, nell’esame della situazione alle frontiere settentrionali della Grecia. L’Unione Sovietica, insieme alla Polonia, è intervenuta decisamente contro i tentativi di utilizzare il Consiglio di Sicurezza per screditare la Jugoslavia, la Bulgaria, l’Albania, falsamente accusate dagli imperialisti di atti di aggressione contro la Grecia.
La politica estera sovietica ha, come presupposto, la coesistenza, per un lungo periodo, di due sistemi: il capitalismo e il socialismo. Da ciò deriva la possibilità di una collaborazione tra l’U.R.S.S. e i paesi che hanno un altro sistema; a condizione che sia rispettato il principio di reciprocità e di rispetto degli impegni che sono stati assunti. E’ noto che l’U.R.S.S. è sempre stata e rimane fedele agli impegni che si è assunta. L’Unione Sovietica ha dimostrato la sua volontà e il suo desiderio di collaborazione.
L’Inghilterra e l’America, nell’Organizzazione delle Nazioni Unite, conducono una politica completamente opposta. Esse fanno di tutto per sottrarsi agli impegni che un tempo si erano assunti e avere le mani libere per fare una politica nuova, basata non sulla collaborazione dei popoli ma sull’opposizione reciproca, sulla violazione dei diritti e degli interessi dei popoli democratici, sull’isolamento dell’U.R.S.S.
La politica sovietica segue la linea di una leale osservanza dei rapporti di buon vicinato con tutti quegli stati che manifestano il desiderio della collaborazione. Quanto a quei paesi che si dimostrano veri amici e alleati, l’Unione Sovietica è sempre stata, è e sarà sempre verso di loro una fedele amica e alleata. La politica estera sovietica è basata sul principio di aumentare ancor di più a questi paesi il suo aiuto amichevole.
Difendendo la causa della pace, la politica estera sovietica respinge il principio della vendetta nei riguardi dei popoli vinti.
Come è noto, l’U.R.S.S. è per la formazione di una Germania unita, pacifica, smilitarizzata, democratica. Definendo la politica sovietica nei riguardi della Germania, il compagno Stalin ha affermato che «in breve, la politica dell’Unione Sovietica nella questione tedesca si riassume nella smilitarizzazione e democratizzazione della Germania… La smilitarizzazione e la democratizzazione della Germania sono una delle condizioni fondamentali perché si instauri una pace solida, stabile». Tuttavia, questa politica del governo sovietico nei riguardi della Germania urta contro l’opposizione accanita dei circoli imperialisti degli Stati Uniti e dell’Inghilterra.
La riunione del Consiglio dei Ministri degli Esteri, che ha avuto luogo a Mosca nel marzo-aprile 1947, ha dimostrato che gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia sono pronti non solo a far fallire la democratizzazione e la smilitarizzazione della Germania, ma anche a liquidare la Germania come stato unitario, a smembrarla e a risolvere separatamente la questione della pace.
La realizzazione di questa politica procede in condizioni nuove, adesso che l’America ha rotto con la vecchia politica di Roosevelt ed è passata a una nuova politica, alla politica di preparazione di nuove avventure militari.

Il piano americano di asservimento dell’Europa
Il passaggio dell’imperialismo americano a una politica aggressiva e apertamente espansionista, dopo la fine della seconda guerra mondiale, ha trovato la sua espressione sia nella politica estera che nella politica interna degli Stati Uniti. L’appoggio attivo alle forze antidemocratiche reazionarie del mondo intero, la rottura delle decisioni di Potsdam dirette a democratizzare e a smilitarizzare la Germania, la protezione ai reazionari giapponesi, l’allargamento dei preparativi militari, l’accumulazione di riserve di bombe atomiche, tutto ciò è accompagnato da un’offensiva contro i diritti elementari e democratici dei lavoratori all’interno degli Stati Uniti.
Benché gli Stati Uniti siano stati colpiti dalla guerra relativamente poco, la schiacciante maggioranza degli americani non vuol saperne di una nuova guerra e dei sacrifici e delle restrizioni che ne derivano. Ciò spinge il capitale monopolistico e i suoi servitori dei circoli dirigenti degli Stati Uniti a cercare mezzi straordinari per spezzare l’opposizione interna alla politica aggressiva ed espansionistica e avere le mani libere per continuare ad attuare quella politica pericolosa.
Ma la campagna contro il comunismo, proclamata dai circoli dirigenti americani, che si appoggiano ai monopoli capitalisti, porta, come inevitabile conseguenza logica, ad attentare ai diritti e agli interessi vitali dei lavoratori americani, alla fascistizzazione interna della vita politica degli Stati Uniti, alla diffusione delle «teorie» e concezioni più selvagge e inumane. I gruppi espansionisti americani, che sognano la preparazione di una terza guerra mondiale, sono profondamente interessati a soffocare, all’interno del paese, ogni possibile opposizione alle avventure esterne e ad avvelenare le masse politicamente arretrate e poco colte degli americani medi col veleno dello sciovinismo e del militarismo, ad «istupidire» il cittadino americano con l’aiuto dei vari mezzi di propaganda antisovietica, anticomunista, come il cinema, la radio, la chiesa e la stampa. La politica estera espansionista, ispirata e guidata dalla reazione americana, considera come attività da svolgersi simultaneamente in tutte le direzioni:
1) le misure strategiche militari;
2) l’espansione economica;
3) la lotta ideologica.
La realizzazione dei piani strategici militari per le future aggressioni è legata con la tendenza a utilizzare al massimo l’apparato militare e produttivo degli Stati Uniti, che è aumentato considerevolmente verso la fine della seconda guerra mondiale. L’imperialismo americano conduce una politica sistematica di militarizzazione del paese. Negli Stati Uniti, le spese per l’esercito e per la flotta superano gli 11 miliardi di dollari annui. Nel 1947-48, gli Stati Uniti hanno destinato al mantenimento delle loro forze armate il 35% del bilancio, vale a dire 11 volte più che nel 1937-38.
Se all’inizio della seconda guerra mondiale l’esercito degli Stati Uniti occupava il 17. posto tra gli eserciti dei paesi capitalisti, attualmente esso occupa il primo posto. Gli strateghi americani non si vergognano di dire che negli Stati Uniti, parallelamente all’accumulazione delle bombe atomiche, si preparano le armi batteriologiche.
Il piano strategico militare degli Stati Uniti prevede la creazione, in tempo di pace, di numerose basi e piazzeforti, assai distanti dal continente americano e destinate in anticipo a essere utilizzate per scopi di aggressione contro l’U.R.S.S. e i paesi di nuova democrazia. Esistono, o sono in via di creazione, basi americane militari, aeree e navali nell’Alaska, in Giappone, in Italia, nella Corea Meridionale, in Cina, in Egitto, nell’Iran, in Turchia, in Grecia, in Austria e nella Germania occidentale. Una missione militare americana opera nell’Afganistan e anche nel Nepal. Si fanno febbrili preparativi per utilizzare l’Artico ai fini di un’aggressione militare.
Benché la guerra sia finita da tempo, continua a sussistere l’alleanza militare tra l’Inghilterra e gli Stati Uniti e perfino lo stato maggiore unificato delle forze armate anglo-americane. Sotto l’insegna di un accordo per la standardizzazione degli armamenti, gli Stati Uniti hanno esteso il loro controllo sulle forze armate e sui piani militari degli altri paesi, in primo luogo dell’Inghilterra e del Canada. Sotto l’insegna della comune difesa dell’emisfero occidentale, i paesi dell’America Latina stanno entrando nell’orbita dei piani d’espansione militare degli Stati Uniti. Il governo degli Stati Uniti ha annunziato che era suo compito ufficiale aiutare la modernizzazione dell’esercito turco. L’esercito reazionario del Kuo-Min-Tang viene istruito sotto la guida di ufficiali americani e viene dotato di armi e mezzi tecnici americani. Negli Stati Uniti la cricca militare, fornendo su larga scala uomini di stato e diplomatici, che danno un orientamento militaristico e aggressivo a tutta la politica del paese, diventa una forza politica attiva.
L’espansione economica degli Stati Uniti è un elemento importante per la realizzazione del piano strategico. L’imperialismo americano, come un usuraio, si sforza di sfruttare le difficoltà del dopoguerra dei paesi europei e soprattutto la penuria di materie prime, di combustibili e di derrate alimentari nei paesi alleati che hanno sofferto maggiormente della guerra, per imporre loro le sue schiavistiche condizioni di aiuto. In previsione della crisi economica imminente, gli Stati Uniti si affannano a trovare nuove sfere monopolistiche per l’investimento dei capitali e per lo smercio dei loro prodotti. L’«aiuto» economico degli Stati Uniti persegue il vasto scopo di asservire l’Europa al capitale americano. Quanto più grave è la situazione economica di un paese, tanto più dure sono le condizioni che i monopoli americani si sforzano di imporgli.
Ma il controllo economico porta con sé anche la dipendenza politica dall’imperialismo americano. Così, l’estensione delle sfere monopolistiche di smercio dei prodotti americani si accompagna, per gli Stati Uniti, all’acquisto di nuove piazzeforti per la lotta contro le nuove forze democratiche d’Europa. I monopoli americani, «salvando» un determinato paese dalla fame e dalla rovina, pretendono di privarlo di ogni indipendenza. L’«aiuto» americano porta con sè, quasi automaticamente, un cambiamento della linea politica del paese a cui si estende questo «aiuto»: vanno al potere quei partiti e quelle personalità che sono pronti ad attuare, in base alle direttive di Washington, un programma di politica interna e di politica estera gradito agli Stati Uniti (come in Francia, in Italia, ecc.).
Infine, la tendenza degli Stati Uniti al dominio mondiale e a una politica antidemocratica contempla anche la lotta ideologica. Il compito fondamentale della parte ideologica del piano strategico americano consiste nel ricattare l’opinione pubblica, diffondendo calunnie su una pretesa aggressività dell’Unione Sovietica e dei paesi di nuova democrazia, e nel presentare, così, il blocco anglosassone in veste di blocco difensivo per scaricarlo della responsabilità di preparare una nuova guerra. Durante la seconda guerra mondiale, la popolarità dell’Unione Sovietica è enormemente cresciuta all’estero. Per la sua lotta eroica, piena di abnegazione, contro l’imperialismo, l’Unione Sovietica si è attirata l’amore e la stima dei lavoratori di tutti i paesi. La potenza militare ed economica dello stato socialista, la forza indistruttibile dell’unità morale e politica della società sovietica sono state chiaramente dimostrate davanti a tutto il mondo. I circoli reazionari degli Stati Uniti e dell’Inghilterra si domandano, preoccupati, come dissipare l’impressione incancellabile che l’ordinamento socialista ha suscitato fra gli operai e i lavoratori di tutto il mondo. Gli istigatori di guerra si rendono conto benissimo che per avere la possibilità di mandare i loro soldati a combattere contro l’Unione Sovietica è necessaria una preparazione ideologica prolungata.
Nella loro lotta ideologica contro l’U.R.S.S., gli imperialisti americani, non orientandosi nelle questioni politiche e dando prova della loro ignoranza, partono dall’idea di rappresentare l’Unione Sovietica come una forza antidemocratica, totalitaria, e gli Stati Uniti e l’Inghilterra e tutto il mondo capitalista come la democrazia. Questa piattaforma della lotta ideologica — la difesa della democrazia borghese e l’accusa di totalitarismo al comunismo — unisce, senza eccezione, tutti i nemici della classe operaia, cominciando dai magnati del capitalismo e finendo ai capi dei partiti socialisti di destra, i quali fanno propria, con la massima premura, ogni calunnia contro l’U.R.S.S. che venga loro suggerita dai padroni imperialisti. Il fulcro di questa propaganda brigantesca consiste nell’affermazione che l’esistenza di molti partiti e di una minoranza organizzata d’opposizione sarebbe il contrassegno della vera democrazia. Su questa base, i laburisti inglesi, che non risparmiano le forze nella loro lotta contro il comunismo, vorrebbero scoprire, nell’U.R.S.S., delle classi antagonistiche e la relativa lotta di partiti. Ignoranti in politica, essi non riescono a capire che da tempo, nell’U.R.S.S., non ci sono più né capitalisti e grandi proprietari fondiari, né classi antagoniste, e che, per conseguenza, non vi sono diversi partiti. Essi avrebbero voluto che nell’U.R.S.S. ci fossero i partiti borghesi, così cari al loro cuore, tra cui i partiti pseudosocialisti, quali agenti dell’imperialismo. Ma, per loro sventura, la storia ha condannato a scomparire questi partiti sfruttatori borghesi.
Mentre non risparmiano le parole per aumentare le calunnie contro il regime sovietico, i laburisti e gli altri avvocati della democrazia borghese trovano del tutto normale la dittatura sanguinosa di una minoranza fascista su di un popolo, in Grecia e in Turchia, chiudono gli occhi sulle molteplici, inique infrazioni alle norme della democrazia, anche formale, nei paesi borghesi, tacciono l’oppressione nazionale e razzista, la corruzione, la sfacciata usurpazione dei diritti democratici che ha luogo negli Stati Uniti.
Una delle direttive della «campagna» ideologica che accompagna i piani di asservimento dell’Europa è l’attacco contro il principio di sovranità nazionale, l’appello all’abbandono dei diritti sovrani dei popoli e la contrapposizione, ad essi, dell’idea di un «governo mondiale». Il significato di questa campagna consiste nel presentare sotto una luce favorevole l’espansione sfrenata dell’imperialismo americano, che colpisce sfrontatamente i diritti sovrani dei popoli, e nel presentare gli Stati Uniti in veste di difensori delle leggi generali dell’umanità e coloro che si oppongono alla penetrazione americana quali fautori di un sorpassato nazionalismo «egoistico». L’idea di un «governo mondiale», ripresa dagli intellettuali borghesi sognatori e pacifisti, è utilizzata non soltanto come mezzo di pressione allo scopo di disarmare ideologicamente i popoli che difendono la loro indipendenza dagli attentati dell’imperialismo americano, ma anche come parola d’ordine, rivolta in modo particolare contro l’Unione Sovietica, la quale difende instancabilmente e conseguentemente il principio dell’effettiva uguaglianza di diritti e della tutela dei diritti sovrani di tutti i popoli, grandi e piccoli. Nelle attuali condizioni, i paesi imperialisti, come gli Stati Uniti, l’Inghilterra e gli stati a loro vicini, diventano nemici pericolosi dell’indipendenza nazionale e dell’autodecisione dei popoli, mentre l’Unione Sovietica e i paesi di nuova democrazia sono un sicuro baluardo per la difesa dell’uguaglianza di diritti e dell’autodecisione nazionale dei popoli.
E’ assai caratteristico che alla realizzazione del piano ideologico, tracciato dall’imperialismo americano, collaborino strettamente tanto le avanguardie politiche e militari americane tipo Bullitt, quanto i capi dei sindacati gialli tipo Green, e i socialisti francesi, capeggiati dal patentato apologeta del capitalismo, Blum, il socialdemocratico tedesco Schumacher e i dirigenti laburisti, tipo Bevin.
Espressione concreta delle tendenze espansioniste degli Stati Uniti sono, nelle attuali condizioni, la «dottrina Truman» e il «piano Marshall». In sostanza, questi due documenti rappresentano l’espressione di un’unica politica, anche se si distinguono per il modo di presentare, nei due documenti, la stessa ed unica pretesa americana di asservire l’Europa.
Per quanto riguarda l’Europa, i punti fondamentali della «dottrina Truman» sono i seguenti:
1. Creazione di basi americane nella parte orientale del bacino del Mediterraneo, allo scopo di consolidare il dominio americano in quella zona.
2. Appoggio dimostrativo ai regimi reazionari in Grecia e in Turchia, in quanto bastioni dell’imperialismo americano, contro la nuova democrazia nei Balcani (prestazione di un aiuto militare e tecnico alla Grecia e alla Turchia, concessione di prestiti).
3. Pressione ininterrotta sugli stati di nuova democrazia, che si esprime nelle false accuse di totalitarismo e di tendenze espansioniste, negli attacchi ai principi del nuovo regime democratico, nella continua ingerenza nelle questioni interne di quegli stati, nell’appoggio di tutti gli elementi antistatali, antidemocratici all’interno dei singoli paesi, nella rottura dimostrativa delle relazioni economiche con questi paesi, tendente a crearvi delle difficoltà economiche, a frenare lo sviluppo economico di questi paesi, a far fallire la loro industrializzazione, ecc.
La «dottrina Truman», che è basata sull’offerta dell’aiuto americano a tutti i regimi reazionari, che agiscono attivamente contro i popoli democratici, ha un carattere apertamente aggressivo. La sua pubblicazione ha suscitato un certo turbamento perfino nei circoli capitalisti americani, abituati a tutto. Negli Stati Uniti, e in altri paesi, gli elementi progressivi hanno fatto una protesta energica contro il carattere provocatorio, apertamente imperialista, dell’intervento di Truman.
L’accoglienza sfavorevole che è stata fatta alla «dottrina di Truman» ha reso necessaria la creazione del «piano Marshall» che è un tentativo più velato di condurre la stessa politica espansionista.
L'essenza delle formulazioni nebulose, intenzionalmente velate, del «piano Marshall» consiste nella creazione di un blocco di stati legati da obblighi verso gli Stati Uniti e nell’offerta, agli stati europei, di crediti americani come compenso alla loro rinunzia all'indipendenza economica e politica. Inoltre, il punto fondamentale del «piano Marshall» è la ricostruzione delle zone industriali della Germania occidentale controllate dai monopoli americani.
Il «piano Marshall», come è venuto in chiaro dalle ultime riunioni e dichiarazioni degli uomini di stato americani, consiste nel dare aiuto, in primo luogo, non ai paesi vincitori, alleati dell'America nella lotta contro la Germania, i quali si sono impoveriti, ma ai capitalisti tedeschi. Scopo degli Stati Uniti è quello di creare, dopo aver posto sotto di sé le principali fonti di carbone e di metallo necessarie all’Europa e alla Germania, degli stati che abbiano bisogno di carbone e di metallo e che siano alle dipendenze del potenziale economico ricostruito della Germania.
Benché il «piano Marshall» preveda la definitiva riduzione dell’Inghilterra, come anche della Francia, a potenze di second’ordine, il governo laburista di Attlee in Inghilterra e il governo socialista di Ramadier in Francia si sono attaccati al «piano Marshall» come a un’ancora di salvezza. Si sa che l’Inghilterra ha già quasi completamente consumato il prestito americano di 3.750 milioni di dollari concessole nel 1946. Si sa inoltre che le condizioni schiaviste di questo prestito hanno legato l’Inghilterra mani e piedi. Caduto ormai nel laccio della dipendenza finanziaria dagli Stati Uniti, il governo laburista dell’Inghilterra non ha visto altra via d’uscita che quella di ricevere nuovi prestiti. Perciò ha accolto il «piano Marshall» come una via d’uscita dal vicolo cieco economico in cui si era cacciato, come una possibilità di ricevere nuovi crediti. Inoltre, i politici inglesi contavano di utilizzare la creazione del blocco dei paesi dell’Europa occidentale, debitori degli Stati Uniti, per tentare di svolgere, all’interno di quel blocco, la funzione di principale agente americano, a cui, forse, sarebbe dato di avere dei profitti a spese dei paesi deboli. Utilizzando il «piano Marshall», rendendo servigi ai monopoli americani e sottomettendosi al loro controllo, la borghesia inglese sognava di poter ricuperare le posizioni perdute in una serie di paesi, e, in particolare, di poter ristabilire le sue posizioni nella regione balcano-danubiana.
Per dare una maggior apparenza di «obiettività» alle proposte americane, è stato deciso di includere nel numero dei promotori della realizzazione del «piano Marshall» anche la Francia, che già aveva sacrificato per metà la sua sovranità a vantaggio degli Stati Uniti, poiché il credito concesso nel maggio 1947 dagli Stati Uniti alla Francia era stato condizionato all’allontanamento dei comunisti dal governo francese.
Su direttive di Washington, i governi d’Inghilterra e di Francia avevano invitato l’Unione Sovietica a partecipare all’esame delle proposte di Marshall. Questo passo aveva lo scopo di mascherare il carattere ostile all’U.R.S.S. di tali proposte. Benché fosse ben chiaro in precedenza che l’U.R.S.S. si sarebbe rifiutata di discutere le proposte di soccorso americano, sulla base delle condizioni poste da Marshall, si era calcolato di poter addossare all’U.R.S.S. la responsabilità di «non voler contribuire alla ricostruzione economica dell’Europa», e di poter, così, schierare contro l’U.R.S.S. i paesi europei che hanno bisogno di un aiuto reale. Se, invece, l’Unione Sovietica avesse partecipato alle trattative, sarebbe stato facile trascinare nella trappola della «ricostruzione economica dell’Europa con l’aiuto dell’America» i paesi dell’Europa orientale e sudorientale. Mentre il piano Truman puntava su l’intimazione terroristica di questi paesi, il «piano Marshall» aveva l’obiettivo di saggiare la stabilità della loro situazione economica, di tentare di lusingarli e di legarli, in seguito, mediante un «aiuto» in dollari.
Il «piano Marshall» era destinato, in questo caso, a contribuire alla realizzazione di uno dei compiti più importanti del programma generale americano: restaurare il potere dell’imperialismo nei paesi di nuova democrazia e obbligare questi paesi a rinunciare alla loro stretta collaborazione economica e politica con l’Unione Sovietica.
I rappresentanti dell’U.R.S.S. che hanno acconsentito ad esaminare, a Parigi, insieme ai governi dell’Inghilterra e della Francia, le proposte di Marshall, hanno smascherato, alla conferenza di Parigi, l’inconsistenza del tentativo di elaborare un programma economico per tutta l’Europa e hanno rivelato il tentativo di creare, sotto forma di una nuova organizzazione europea sotto l’egida della Francia e dell’Inghilterra, la minaccia di una ingerenza negli affari interni dei paesi europei e di una violazione della loro sovranità. Essi hanno dimostrato che il «piano Marshall» contraddice ai principi comuni della collaborazione internazionale e porta in sé la scissione dell'Europa, la minaccia, per un certo numero di paesi europei, della loro subordinazione agli interessi del capitalismo americano ed è fondato sulla concessione preferenziale, rispetto agli alleati, di soccorsi ai cartelli monopolistici tedeschi, ai quali, secondo il «piano Marshall», è evidentemente riservata una funzione particolare in Europa.
Questa chiara posizione dell’Unione Sovietica ha smascherato il piano degli imperialisti americani e dei loro agenti anglo-francesi.
La conferenza paneuropea è scandalosamente fallita. Nove stati europei hanno rifiutato di parteciparvi. Ma anche fra quegli stati che avevano accettato di partecipare all’esame del «piano Marshall» e all’elaborazione delle misure concrete per la sua realizzazione, questo piano non ha avuto un’accoglienza particolarmente entusiastica, tanto più che si è visto, ben presto, come fossero assolutamente esatte le supposizioni dell’U.R.S.S. che questo piano sia lontano dal rappresentare un aiuto effettivo, reale. Si è visto che, in generale, il governo degli Stati Uniti non ha nessuna fretta di realizzare le promesse di Marshall. Personalità politiche americane del Congresso hanno riconosciuto che il Congresso non esaminerà il problema di stanziare nuove somme per fare dei crediti ad alcuni paesi europei, prima del 1948.
Così è risultato chiaro che l’Inghilterra, la Francia e gli altri stati dell’Europa occidentale che hanno accettato la «linea di realizzazione» del «piano Marshall» elaborata a Parigi, sono diventati vittime, essi stessi, del ricatto americano.
Ciò nonostante, i tentativi di formare un blocco occidentale sotto l’egida dell’America continuano.
Bisogna notare che la variante americana del blocco occidentale non può non incontrare una seria opposizione perfino nei paesi che già dipendono dagli Stati Uniti, come l’Inghilterra e la Francia. La prospettiva di restaurare l’imperialismo tedesco, come forza reale capace di opporsi alla democrazia e al comunismo in Europa, non può sedurre né l’Inghilterra né la Francia. Qui noi ci troviamo in presenza di una delle principali contraddizioni interne del blocco Inghilterra-Stati Uniti-Francia. Evidentemente, i monopoli americani, come tutta la reazione internazionale, non contano che Franco o i fascisti greci siano un baluardo più o meno sicuro degli Stati Uniti contro l’U.R.S.S. e le nuove democrazie in Europa. Perciò essi fondano speranze particolari sulla restaurazione della Germania capitalista, considerando questa come la più importante garanzia di successo nella lotta contro le forze democratiche in Europa. Essi non hanno fiducia né nei laburisti in Inghilterra, né nei socialisti in Francia, che considerano, malgrado la compiacenza che questi hanno dimostrato, dei «semicomunisti» non del tutto meritevoli di fiducia.
Ecco perché la questione tedesca, in particolare quella del bacino della Ruhr, considerato potenziale base militare-industriale del blocco ostile all’U.R.S.S., è la questione più importante della politica internazionale e il pomo della discordia tra gli Stati Uniti, l’Inghilterra e la Francia.
Gli appetiti degli imperialisti americani non possono non suscitare una seria inquietudine in Inghilterra e in Francia. Gli Stati Uniti hanno fatto comprendere, in maniera inequivocabile, che essi vogliono togliere la Ruhr agli inglesi. Gli imperialisti americani esigono anche la fusione delle tre zone di occupazione e la palese costituzione della Germania occidentale in entità politica a sé, sotto il controllo americano. Gli Stati Uniti insistono perché il livello di produzione dell’acciaio sia elevato nel bacino della Ruhr e perché vengano conservate le imprese capitaliste che sono sotto il controllo degli Stati Uniti. I crediti promessi da Marshall per la ricostruzione dell’Europa sono considerati, a Washington, come un aiuto preferenziale ai capitalisti tedeschi.
Così il «blocco occidentale», che l’America sta creando, non è fatto sul modello del piano Churchill degli Stati Uniti d’Europa, che era stato concepito come strumento della politica inglese, ma come un protettorato americano nel quale, agli stati sovrani d’Europa, non esclusa la stessa Inghilterra, è assegnata una funzione che non si allontana molto da quella del famoso «quarantanovesimo stato d’America». L’imperialismo americano tratta l’Inghilterra e la Francia sempre più insolentemente e rudemente. Le conferenze a due e a tre per determinare il livello di produzione industriale della Germania occidentale (Inghilterra-Stati Uniti, Stati Uniti-Francia), mentre dimostrano di essere un’arbitraria infrazione alle decisioni di Potsdam, dimostrano, nel tempo stesso, che gli Stati Uniti ignorano completamente gli interessi vitali dei paesi con i quali stringono accordi. L’Inghilterra e, soprattutto, la Francia sono costrette ad ascoltare il diktat americano e ad accettarlo con rassegnazione. La condotta della diplomazia americana a Londra e a Parigi ricorda, sotto molti aspetti, la condotta americana in Grecia, dove i rappresentanti americani, ormai, non stimano affatto necessario rispettare nessuna convenienza, nominano e cambiano a loro beneplacito i ministri greci e si comportano da conquistatori. Così, il nuovo piano Dawes per l’Europa è sostanzialmente diretto contro gli interessi fondamentali dei popoli europei; è un piano di asservimento e di sottomissione dell'Europa agli Stati Uniti d’America.
Il «piano Marshall» è diretto contro l’industrializzazione dei paesi democratici d’Europa e, per conseguenza, contro le basi della loro indipendenza e sovranità. E se, a suo tempo, il piano Dawes per l’Europa era stato condannato al fallimento, quando le forze che gli si opponevano erano di gran lunga inferiori a quelle attuali, oggi, nell’Europa del dopoguerra, ci sono forze notevolissime, anche a prescindere dall’Unione Sovietica, le quali potranno sventare questo piano di asservimento se dimostreranno volontà e decisione. Per i popoli d’Europa è soltanto questione di avere ferma volontà di resistere. Per quanto riguarda l’U.R.S.S., essa impiegherà tutte le sue forze affinché questo piano non si possa realizzare.
L’apprezzamento che i paesi del campo antimperialista hanno dato del «piano Marshall» è stato interamente confermato da tutto il corso degli avvenimenti. Il campo dei paesi democratici, di fronte al «piano Marshall», ha dimostrato di essere una potente forza, che veglia alla salvaguardia dell’indipendenza e della sovranità di tutti i popoli europei, una forza che non si lascia influenzare dal ricatto e dall’intimidazione, e che, del pari, non si lascia ingannare dalle false manovre della diplomazia del dollaro.
Il governo sovietico non ha mai fatto obiezioni all’utilizzazione di crediti stranieri, in particolare di quelli americani, in quanto mezzi capaci di accelerare il processo della ricostruzione economica. Tuttavia, l’Unione Sovietica è sempre partita dalla premessa che le condizioni di credito non devono avere carattere di asservimento, non devono condurre all’asservimento economico e politico dello stato debitore da parte dello stato creditore. Partendo da questo presupposto politico, l’Unione Sovietica ha sempre sostenuto che i crediti stranieri non devono essere il mezzo principale della ricostruzione dell'economia del paese. La condizione fondamentale e decisiva della ricostruzione economica deve consistere nell’utilizzazione delle forze e delle risorse interne di ogni paese e nella creazione di una propria industria. Soltanto su questa base può essere assicurata l’indipendenza del paese contro gli attentati del capitale straniero, che manifesta costantemente la tendenza a utilizzare il credito come strumento di asservimento politico ed economico.
Tale è precisamente il «piano Marshall», che è diretto contro l’industrializzazione dei paesi europei e mira, di conseguenza, a distruggerne l’indipendenza.
L’Unione Sovietica sostiene instancabilmente che i reciproci rapporti, politici ed economici, tra i diversi stati, devono erigersi esclusivamente sui principi dell’uguaglianza dei diritti di ogni stato e sul rispetto reciproco della loro sovranità. La politica estera sovietica e, in particolare, i rapporti economici sovietici con gli stati stranieri, sono basati sul principio della parità di diritti e sulla garanzia dei vantaggi bilaterali che derivano dagli accordi conclusi. I trattati con l’U.R.S.S. rappresentano accordi reciprocamente vantaggiosi per le parti contraenti e non contengono mai nulla che possa nuocere all’indipendenza dello stato, alla sovranità nazionale delle parti contraenti. Questa caratteristica fondamentale degli accordi tra l’U.R.S.S. e gli altri stati si rileva tanto più chiaramente adesso, alla luce degli accordi ingiusti, basati sull’ineguaglianza di diritti, che gli Stati Uniti preparano e concludono. La politica commerciale estera sovietica non conosce accordi basati sull’ineguaglianza di diritti. Inoltre, lo sviluppo delle relazioni economiche dell’U.R.S.S. con tutti gli stati che vi hanno interesse, indica su quale base devono stabilirsi i rapporti normali tra gli stati. Basta ricordare i trattati che l’U.R.S.S. ha concluso di recente con la Polonia, la Jugoslavia, la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la Bulgaria, la Finlandia. In questo modo, l’U.R.S.S. indica chiaramente le vie su cui l’Europa può trovare un’uscita dalla difficile situazione economica. Anche l’Inghilterra potrebbe avere un trattato di questo genere, se il governo laburista, sotto pressioni esterne, non avesse lasciato cadere l’accordo con l’U.R.S.S., che già era in preparazione.
Lo smascheramento del piano americano di asservimento economico dei paesi europei è un merito indiscutibile della politica estera dell’U.R.S.S. e dei paesi di nuova democrazia.
Bisogna ricordare, inoltre, che l’America stessa si trova sotto la minaccia di una crisi economica. La generosità ufficiale di Marshall ha i suoi gravi motivi. Se i paesi europei non ricevessero crediti americani, la richiesta di merci americane, da parte di questi paesi, diminuirebbe, e ciò contribuirebbe ad accelerare e ad aggravare la crisi economica che avanza negli Stati Uniti. Perciò, se i paesi europei daranno prova della necessaria fermezza e volontà di resistenza alle onerose condizioni americane di credito, l’America può essere costretta a cedere.

I compiti dei partiti comunisti per unire gli elementi democratici antifascisti, amanti della pace, nella lotta contro i nuovi piani di guerra e di aggressione
Lo scioglimento dell’Internazionale Comunista, rispondente alle esigenze di sviluppo del movimento operaio nella nuova situazione storica, ha avuto una funzione positiva. Lo scioglimento dell’Internazionale Comunista ha messo fine per sempre a quella calunnia degli avversari del comunismo e del movimento operaio, secondo cui Mosca si ingerirebbe nella vita interna degli altri stati e i partiti comunisti dei diversi paesi agirebbero non nell’interesse del loro popolo, ma dietro ordini dall’estero.
L’Internazionale Comunista era stata fondata dopo la prima guerra mondiale, quando i partiti comunisti erano ancora deboli, quando il legame tra la classe operaia dei diversi paesi mancava quasi completamente e i partiti comunisti non avevano ancora dei dirigenti del movimento operaio universalmente riconosciuti. I meriti dell’Internazionale Comunista consistono nell’aver stabilito e consolidato i legami tra i lavoratori dei diversi paesi, nell’aver elaborato le questioni teoriche del movimento operaio nelle nuove condizioni del suo sviluppo nel dopoguerra, nell’aver fissato le norme comuni di agitazione e di propaganda del comunismo, e nell’aver facilitata la formazione dei dirigenti del movimento operaio. Così, sono state create le condizioni per la trasformazione dei giovani partiti comunisti in partiti operai di massa. Tuttavia con la trasformazione dei giovani partiti comunisti in partiti operai di massa, la direzione di questi partiti, da parte di un unico centro, diveniva impossibile e inadeguata. In conseguenza, l’Internazionale Comunista, da fattore che aveva reso possibile lo sviluppo dei partiti comunisti, si cominciava a trasformare in fattore che frenava questo sviluppo. La nuova fase nello sviluppo dei partiti comunisti esigeva nuove forme di legame tra i partiti. Queste circostanze hanno determinato la necessità di sciogliere l’Internazionale Comunista e di organizzare nuove forme di collegamento tra i partiti.
Nei quattro anni successivi allo scioglimento dell’Internazionale Comunista si è prodotto un rafforzamento considerevole dei partiti comunisti, un aumento della loro influenza in quasi tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia. L’influenza dei partiti comunisti è aumentata non solo nell’Europa orientale, ma anche in quasi tutti i paesi dell’Europa in cui dominava il fascismo, e anche in quelli in cui ha avuto luogo l’occupazione fascista tedesca, come in Francia, in Belgio, in Olanda, in Norvegia, in Danimarca, in Finlandia, ecc. L’influenza dei comunisti si è rafforzata particolarmente nei paesi di nuova democrazia, dove i partiti comunisti sono diventati i partiti più influenti nei rispettivi stati.
Tuttavia, nella situazione attuale dei partiti comunisti vi sono anche delle deficienze. Alcuni compagni avevano interpretato che lo scioglimento dell’Internazionale Comunista significasse la liquidazione di qualsiasi collegamento, di qualsiasi contatto tra i partiti comunisti fratelli. Nel tempo stesso, l’esperienza ha dimostrato che una simile mancanza di collegamento tra i partiti comunisti non è giusta, è nociva ed è sostanzialmente non naturale. Il movimento comunista si sviluppa nel quadro della nazione, ma nel tempo stesso vi sono compiti e interessi comuni ai partiti dei diversi paesi. Si è in presenza di un quadro abbastanza strano: i socialisti, i quali si sono fatti in quattro per dimostrare che l’Internazionale Comunista avrebbe imposto le direttive di Mosca ai comunisti di tutti i paesi, hanno ricostituito la loro Internazionale, mentre i comunisti si astengono perfino dall’incontrarsi tra loro e, ancor più, dal consultarsi sulle questioni che li interessano reciprocamente, per timore della calunnia dei nemici circa la «mano di Mosca». I rappresentanti dei più diversi rami d’attività, gli scienziati, i cooperatori, i sindacalisti, i giovani, gli studenti, ritengono possibile mantenere un contatto internazionale, scambiarsi le loro esperienze e consultarsi sulle questioni del loro lavoro, organizzare conferenze e unioni internazionali, mentre i comunisti, perfino in quei paesi che hanno rapporti di alleanza, si fanno scrupolo di stabilire tra loro rapporti di amicizia. Non v’è dubbio che se una simile situazione dovesse protrarsi, sarebbe gravida di conseguenze estremamente dannose allo sviluppo del lavoro dei partiti fratelli. Questa esigenza di consultarsi e di coordinare volontariamente l’azione dei diversi partiti è maturata soprattutto adesso, che un prolungato isolamento potrebbe diminuire la comprensione reciproca e, col tempo, indurre in seri errori.
Poiché la maggior parte dei dirigenti dei partiti socialisti (soprattutto i laburisti inglesi e i socialisti francesi) agiscono come agenti dei circoli imperialisti degli Stati Uniti, spetta ai partiti comunisti la funzione storica specifica di mettersi alla testa della resistenza al piano americano di asservimento dell’Europa e di smascherare all’interno risolutamente tutti gli ausiliari dell’imperialismo americano. Nello stesso tempo, i comunisti devono appoggiare tutti gli elementi veramente patriottici che non vogliono lasciar oltraggiare la loro patria, che vogliono lottare contro l’asservimento della loro patria al capitale straniero e per la salvaguardia della sua sovranità nazionale. I comunisti devono essere la forza dirigente che trascina tutti gli elementi antifascisti amanti della libertà alla lotta contro i nuovi piani espansionistici americani di asservimento dell’Europa.
Bisogna tener presente che tra il desiderio degli imperialisti di scatenare una nuova guerra e la possibilità di organizzarla c’è una distanza enorme. I popoli del mondo non vogliono la guerra. Le forze che vogliono la pace sono così grandi e importanti, che se esse saranno ferme e tenaci, nella lotta per la difesa della pace, se daranno prova di costanza e di fermezza, i piani degli aggressori saranno condannati a un completo fallimento. Non bisogna dimenticare che il chiasso degli agenti dell’imperialismo, a proposito del pericolo di guerra, ha lo scopo di spaventare i deboli di nervi e gli indecisi e di ottenere, mediante il ricatto, delle concessioni all’aggressore.
Il pericolo principale per la classe operaia, consiste, attualmente, nella sottovalutazione delle proprie forze e nella sopravvalutazione delle forze dell’avversario. Come in passato la politica di Monaco ha dato mano libera agli aggressori hitleriani, così anche le concessioni alla nuova politica degli Stati Uniti e del campo imperialista possono rendere i suoi ispiratori ancor più sfrontati e aggressivi. Perciò i partiti comunisti devono mettersi alla testa della resistenza ai piani imperialisti di espansione e di aggressione in tutti i campi: politico, economico, ideologico e devono concentrare e unire i loro sforzi sulla base di una piattaforma antimperialista e democratica comune e raccogliere attorno a sé tutte le forze democratiche e patriottiche del popolo.
Ai partiti comunisti della Francia, dell’Italia, dell’Inghilterra e di altri paesi spetta un compito particolare. Essi devono prendere nelle loro mani la bandiera della difesa dell’indipendenza nazionale e della sovranità dei loro paesi. Se i partiti comunisti staranno saldamente sulle loro posizioni, se non si lasceranno intimidire e ricattare, se staranno coraggiosamente a guardia di una pace solida e della democrazia popolare, della sovranità nazionale, della libertà e dell’indipendenza dei loro paesi, se nella loro lotta contro i tentativi di asservimento economico e politico dei loro paesi sapranno mettersi alla testa di tutte le forze che sono pronte a difendere la causa dell’onore e dell’indipendenza nazionale, allora nessun piano di asservimento dell’Europa potrà essere realizzato.

Edited by Sandor_Krasna - 28/1/2015, 02:39
 
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RAPPORTO SULLE RIVISTE ZVIEZDA’ E LENINGRAD


Pubblicato nel n. 225 della Pravda, 21 settembre 1946.

Compagni!
Dalla risoluzione del Comitato Centrale appare chiaro che l’errore più grossolano della rivista Zviezdà è quello d’aver messo le sue pagine a disposizione della «creazione» letteraria di Zostcenko e della Akhmatova. Ritengo di non aver bisogno di citare qui «l’opera» di Zostcenko, Le avventure di una scimmia. Certamente, voi tutti l’avete letta e la conoscete meglio di me. Il significato di quest’«opera» di Zostcenko sta nel fatto che egli raffigura i cittadini sovietici come dei fannulloni e dei degenerati, della gente sciocca e primitiva. A Zostcenko non interessa affatto il lavoro del popolo sovietico, non interessano i suoi sforzi e il suo eroismo, le sue elevate qualità sociali e morali. Nelle sue opere questo argomento è sempre mancato. Zostcenko, proprio come un volgare piccolo borghese, ha scelto come suo tema permanente la ricerca dei lati più bassi ed insignificanti dell’esistenza. E questo frugare nella mediocrità dell’esistenza non è casuale. Esso è caratteristico di tutti gli scrittori piccolo-borghesi più scadenti, quale è anche Zostcenko. A suo tempo, Gorki l’aveva detto molte volte. Vi ricordate come, nel 1934, al congresso degli scrittori sovietici, Gorki bollasse i cosiddetti «letterati» che non vedono più in là della fuliggine della cucina e del bagno.
Le avventure di una scimmia non sono per Zostcenko qualche cosa che esula dai limiti dei suoi scritti consueti. Questa «opera» ha richiamato l’attenzione della critica soltanto come l’espressione più evidente di quanto vi è di negativo nella «creazione» letteraria di Zostcenko. E’ noto che, dal momento del suo ritorno a Leningrado dopo lo sfollamento, Zostcenko ha scritto una serie di opere che denunciano la sua incapacità a trovare nella vita del popolo sovietico una sola manifestazione positiva, un solo elemento positivo. Come in Le avventure di una scimmia, Zostcenko è solito mettere in ridicolo il modo di vivere sovietico, le istituzioni sovietiche, il popolo sovietico, nascondendo questa beffa sotto la maschera di un’arguzia vuota, di uno sterile umorismo.
Se rileggete più attentamente il racconto Le avventure di una scimmia e ci riflettete, vedrete che Zostcenko investe la scimmia della funzione di giudice supremo dei nostri ordinamenti sociali e la costringe a fare una specie di morale al popolo sovietico. La scimmia è rappresentata come un principio razionale a cui è dato di pronunciare giudizi sulla condotta degli uomini. A Zostcenko è stato necessario figurare la vita del popolo sovietico in maniera intenzionalmente deformata, caricaturale e volgare, per poter mettere sulle labbra della scimmia la maligna, velenosa sentenza antisovietica, secondo cui nel giardino zoologico si vivrebbe meglio che in libertà, e in gabbia si respirerebbe più liberamente che in mezzo al popolo sovietico.
Si può cadere a un grado più basso di degenerazione morale e politica? E come possono i cittadini di Leningrado tollerare sulle pagine delle loro riviste una simile volgarità e bassezza?
Se dalla rivista Zviezdà vengono offerte ai lettori sovietici «opere» di questo genere, come deve essere debole la vigilanza di coloro che dirigono la rivista Zviezdà perché in essa possano comparire delle opere corrotte dal veleno d’un’ostilità bestiale verso il sistema sovietico. Soltanto la feccia della letteratura può creare «opere» simili e soltanto persone cieche e apolitiche possono metterle in circolazione.
Dicono che il racconto di Zostcenko abbia fatto il giro dei varietà di Leningrado. Come deve essere indebolita la direzione del lavoro ideologico a Leningrado, perché si possano verificare simili fatti!
Con la sua ripugnante morale, Zostcenko è riuscito dunque a penetrare nelle pagine di una grande rivista di Leningrado ed a sistemarvisi con ogni comodità. Eppure, la rivista Zviezdà è l’organo che dovrebbe educare la nostra gioventù. Ma può assolvere a questo compito una rivista che ospita uno scrittore così volgare e non sovietico come Zostcenko?! Forse che alla redazione di Zviezdà non è nota la fisionomia di Zostcenko?!
Eppure, ancora molto di recente, all’inizio del 1944, il rivoltante racconto di Zostcenko Prima dell’alba, scritto mentre divampava la guerra di liberazione del popolo sovietico contro gli invasori tedeschi, è stato sottoposto ad una severa critica nella rivista Bolscevik. In quel racconto, Zostcenko metteva a nudo la sua volgare e bassa animuccia e lo faceva con piacere, con gusto, con il desiderio di dichiarare a tutti: vedete che razza di mascalzone sono.
E’ difficile trovare nella nostra letteratura qualcosa di più ripugnante della «morale» che Zostcenko va predicando nel racconto Prima dell’alba, dove raffigura gli uomini e se stesso come bestie, immonde e lascive, senza pudore, senza coscienza. Ed egli proponeva ai lettori sovietici questa morale nel periodo in cui il nostro popolo versava il sangue in una guerra terribilmente difficile, in cui la vita dello stato sovietico era attaccata ad un filo, in cui il popolo sovietico faceva sacrifici incalcolabili per raggiungere la vittoria sui tedeschi. Ma Zostcenko, trinceratosi ad Alma-Ata, nel più remoto retroterra, non aiutò allora in nulla il popolo sovietico nella sua lotta contro gli invasori tedeschi. Ben giustamente la rivista Bolscevik sferzò pubblicamente Zostcenko, dichiarandolo un volgare autore di pasquinate, estraneo alla letteratura sovietica. Egli allora se ne infischiò dell’opinione pubblica. E non erano ancora passati due anni, non si era ancora asciugato l’inchiostro con cui era stata scritta quella recensione del Bolscevik, e lo stesso Zostcenko arriva trionfalmente a Leningrado e incomincia a figurare nuovamente sulle pagine dei giornali di Leningrado. Non solo la Zviezdà, ma anche la rivista Leningrad lo accolgono volentieri. Volentieri e con premura mettono a sua disposizione le sale teatrali. Non solo, ma gli danno anche il modo di occupare una posizione dirigente nella sezione di Leningrado dell’Unione degli scrittori e di svolgere una funzione attiva nell’ambiente letterario di Leningrado. Ma in base a che cosa voi date la possibilità a Zostcenko di passeggiare per i giardini ed i parchi della letteratura di Leningrado? Perché i compagni più attivi di Leningrado e l’organizzazione degli scrittori di Leningrado hanno tollerato questi fatti vergognosi?!
La fisionomia sociale e politica e letteraria di Zostcenko, profondamente guasta e corrotta, non s’è formata negli ultimi tempi. Le sue «opere» di oggi non sono affatto un caso. Esse sono semplicemente la continuazione di tutta «l’eredità» letteraria di Zostcenko, che risale circa al 1920.
Chi era Zostcenko in passato? Era uno degli organizzatori del gruppo letterario dei cosiddetti Fratelli Serapioni2. Qual’era la fisionomia sociale politica di Zostcenko nel periodo dell’organizzazione dei Fratelli Serapioni? Permettetemi di citare la rivista Literaturnie Zapiski (n. 3 del 1922), in cui i fondatori di questo gruppo esposero il loro credo. Tra le altre confessioni, si trova «l’atto di fede» di Zostcenko, in un articoletto intitolato: Su me stesso e su altro ancora. Zostcenko, senza vergognarsi di nulla e di nessuno, si spoglia in pubblico ed enuncia, con tutta sincerità, le sue «concezioni» politiche e letterarie. Sentite che cosa diceva allora:
«In generale, fare lo scrittore è molto difficile. Già, c’è l’ideologia… Oggi, ad uno scrittore si chiede l’ideologia… E questa, per me, è una bella seccatura…».
«Ma, ditemi un po’, quale ”precisa ideologia” posso avere io, se non c’è un solo partito che, nel complesso, mi attragga?».
«Dal punto di vista della gente di partito, io sono un uomo senza principi. Sia pure. Io stesso lo dico di me: non sono comunista, non sono socialista-rivoluzionario, non sono monarchico, ma soltanto russo e, per giunta, un russo politicamente amorale»… «Vi do la mia parola d’onore che, ancora oggi, non so, per esempio, chi sia Guckov… In che partito sta Guckov? Il diavolo sa in che partito sia. So che non è un bolscevico, ma se sia un socialista-rivoluzionario o un cadetto, questo non lo so e non lo voglio sapere»; e così via.
Che cosa ne dite, compagni, di una simile «ideologia»? Sono passati venticinque anni da quando Zostcenko ha pubblicato questa sua «confessione». E’ mutato egli da allora? Non sembra. In venticinque anni, non solo non ha imparato nulla, non solo non è affatto cambiato, ma al contrario, continua, con cinica sincerità, a rimanere il banditore dell’assenza di ogni ideologia, della volgarità, un furfante letterato senza principi e senza coscienza. Ciò significa che a Zostcenko, oggi come allora, non garbano i sistemi sovietici. Oggi come allora, egli è estraneo e ostile alla letteratura sovietica. Se Zostcenko, nonostante tutto questo, è quasi diventato, a Leningrado, il corifeo della letteratura, se viene innalzato nel Parnaso di Leningrado, non rimane che stupirsi nel vedere a quale mancanza di principi, indulgenza, indifferenza e ottusità hanno potuto giungere le persone che hanno aperto la strada a Zostcenko e gli hanno cantato inni di gloria.
Permettetemi di porgere ancora un esempio della fisionomia dei cosiddetti Fratelli Serapioni. Nello stesso numero 3 dei Literaturnie Zapiski (1922), un altro serapione, Leone Lunts, tenta di dare in questo modo una base ideologica alla corrente, nociva ed estranea alla letteratura sovietica, rappresentata da quel gruppo.
«Ci siamo uniti nelle giornate della rivoluzione — scrive Lunts — nelle giornate di forte tensione politica. ”Chi non è con noi è contro di noi!”, ci dicevano allora, da destra e da sinistra. ”Con chi siete voi, Fratelli Serapioni, con i comunisti o contro i comunisti, per la rivoluzione o contro la rivoluzione?”.
«Con chi siamo noi, i Fratelli Serapioni? Siamo col solitario Serapione…
«Troppo a lungo ed in modo opprimente la sociologia ha guidato la letteratura russa… Noi non vogliamo l’utilitarismo. Non scriviamo per fare della propaganda. L’arte è una realtà come lo è la vita; e, come la vita, è senza uno scopo e senza un significato; esiste perché non può non esistere».
Questa è la funzione che i Fratelli Serapioni attribuiscono all’arte, privandola d’ogni contenuto ideologico, d’ogni significato sociale, esaltando nell’arte la mancanza di ogni ideologia, proponendo l’arte per l’arte, l’arte senza scopo e senza significato. E’ la predicazione della putrida apoliticità, dello spirito piccolo-borghese e della turpitudine.
Quale conclusione se ne può trarre? Se a Zostcenko non piacciono gli ordinamenti sovietici, che cosa proporremo di fare: di conformarci a Zostcenko? Ma non siamo noi che dobbiamo rinnovarci secondo il gusto altrui. Non siamo noi che dobbiamo rifare la nostra esistenza, il nostro regime secondo il modo di vedere di Zostcenko. Sia lui a rinnovarsi, o, se non vuole farlo, se ne vada dalla letteratura sovietica. Nella letteratura sovietica non può esservi posto per opere putride, vuote, prive di contenuto e volgari. (Applausi fragorosi).
Ecco da che cosa è partito il Comitato Centrale nel prendere la sua decisione a proposito delle riviste Zviezdà e Leningrad.
Passo alla questione della «creazione» letteraria di Anna Akhmatova. Le sue opere, negli ultimi tempi, appaiono sulle riviste di Leningrado nella forma di «rielaborazione ampliata». Ciò è tanto strano e innaturale, come se qualcuno oggi si mettesse a ripubblicare le opere di Merezkovski, Viaceslav Ivanov, Michele Kusmin, Andrea Bieli, Zinaida Hippius, Fiodor Sologub, Zinovieva Annibal, ecc. ecc., cioè di tutti coloro che la nostra letteratura e la nostra opinione pubblica d’avanguardia hanno sempre ritenuto i rappresentanti dell’oscurantismo reazionario e dell’apostasia in politica e in arte.
Gorki disse, a suo tempo, che il decennio tra il 1907 e il 1917 merita di esser definito il decennio più vergognoso e più mediocre della storia degli intellettuali russi; allora, dopo la rivoluzione del 1905, una parte notevole degli intellettuali voltò le spalle alla rivoluzione, scivolò nella palude del misticismo reazionario e della pornografia, proclamò come propria bandiera la mancanza di ogni ideologia, mascherando il proprio tradimento con la «bella» frase: «bruciai tutto ciò che adoravo, adorai tutto ciò che bruciavo». Appunto in questo decennio apparvero opere di rinnegati come Il cavallo pallido di Ropscin, le opere di Vinnicenko e di altri, che disertarono il campo della rivoluzione per il campo della reazione, e che si affrettarono a screditare gli alti ideali per cui lottava la parte migliore, di avanguardia, della società russa. Vennero alla luce i simbolisti, gli immaginisti, i decadenti d’ogni colore, che rinnegavano il popolo e proclamavano la tesi «l’arte per l’arte», che esaltavano l’assenza di ogni ideologia nella letteratura, mascherando la propria corruzione ideologica e morale con la ricerca della bella forma priva di contenuto. Erano accomunati tutti dal terrore selvaggio per la rivoluzione proletaria che avanzava. Basti ricordare che uno dei maggiori «ideologi» di queste correnti letterarie reazionarie era Merezkovski, il quale definì la marcia della rivoluzione proletaria «l’avanzata di Cam»3, e che accolse la Rivoluzione d’Ottobre con un livore bestiale.
Anna Akhmatova è uno dei rappresentanti di questa palude letteraria, reazionaria e senza idee. Essa appartiene al cosiddetto gruppo letterario degli acmeisti, che uscirono, a suo tempo, dalle file dei simbolisti, e fu sempre vessillifera della poesia aristocratica da salotto, vuota, priva di contenuto, assolutamente estranea alla letteratura sovietica. Gli acmeisti rappresentavano la tendenza più individualista dell’arte. Essi predicavano la teoria «dell’arte per l’arte», «della bellezza per la bellezza», non volevano saperne del popolo, dei suoi bisogni, dei suoi interessi, della vita sociale.
Per le sue origini sociali era questa una corrente letteraria aristocratico-borghese, in un periodo in cui l’aristocrazia e la borghesia avevano i giorni contati e in cui i poeti e gli ideologi delle classi dominanti si sforzavano di evadere dalla spiacevole realtà, per levarsi nelle altezze stratosferiche, nelle nebbie del misticismo religioso, nelle meschine esperienze personali e nell’indagine delle loro meschine animucce. Gli acmeisti, come i simbolisti, i decadenti e gli altri rappresentanti dell’ideologia aristocratico-borghese in dissoluzione, predicavano il decadentismo, il pessimismo, la fede in un mondo soprannaturale.
Gli argomenti della Akhmatova sono espressione d’individualismo. Il diapason della sua poesia, una poesia da signorina irritata, che si muove tra il boudoir e l’inginocchiatoio, è straordinariamente basso. Il suo motivo fondamentale è dato dagli accenti erotico-sentimentali, intrecciati di tristezza, angoscia, morte, misticismo, fatalità. Il sentimento della fatalità, sentimento comprensibile per la coscienza sociale di un gruppo agonizzante, i toni oscuri della disperazione che precede la morte, le esperienze mistiche unite all’erotismo, questo è il mondo spirituale dell’Akhmatova, uno dei frammenti del mondo della vecchia cultura aristocratica irrimediabilmente sprofondato nel passato «del buon tempo antico di Caterina». Ora monaca, ora sgualdrina, o, piuttosto, monaca e sgualdrina insieme, in cui la dissolutezza è mista alla preghiera.
Ma io ti giuro sul giardino dell’angelo,
Sull’icona dei miracoli, ti giuro
E sull’odore delle nostre notti di fiamma…

(Akhmatova, Anno Domini)
Questa è l’Akhmatova con la sua piccola, meschina vita personale, con le sue insignificanti esperienze ed il suo erotismo mistico-religioso.
La poesia dell’Akhmatova è assolutamente lontana dal popolo. E’ la poesia dei diecimila privilegiati della vecchia Russia aristocratica, condannati, ai quali non è rimasto altro che sospirare per il «buon tempo antico». I palazzi dei latifondisti dei tempi di Caterina, con i secolari viali di tigli, le fontane, le statue e gli archi di pietra, le serre, le conversazioni amorose e le vetuste insegne sul portone, la Pietroburgo aristocratica, Tsarkoie Selò4, la stazione di Pavlovsk e le altre reliquie della civiltà aristocratica. Ma tutto ciò è sparito in un passato che non ritornerà! I frammenti di questa civiltà ormai lontana, estranea al popolo, che per chissà quale miracolo si sono conservati sino ai nostri tempi, non hanno più altro da fare che chiudersi in se stessi e vivere di chimere. «Tutto è disperso, tradito, venduto»: così scrive l’Akhmatova.
Ossip Mandelstam, uno degli esponenti più in vista di quel gruppetto, poco prima della rivoluzione, così scriveva degli ideali politico-sociali e letterari degli acmeisti: «Gli acmeisti uniscono l’amore per l’organismo e l’organizzazione a un geniale medioevalismo fisiologico…». «Il medioevo, determinando a suo modo il peso specifico dell’uomo, lo sentiva e lo riconosceva in chiunque, del tutto indipendentemente dai suoi meriti…». «Sì, l’Europa ha attraversato il labirinto di una cultura raffinata e precisa, quando l’esistenza astratta, l’esistenza individuale, da nulla abbellita, era stimata come un atto eroico. Di qui l’intimità aristocratica, che legava tutti gli uomini ed era così estranea, per il suo spirito, alla ”uguaglianza e fraternità” della grande rivoluzione…». «Il medioevo ci è caro, perché possedeva in alta misura il senso del limite e delle barriere…». «Un misto generoso di ragionevolezza e di misticismo e la sensazione del mondo come vivente equilibrio ci lega a quell’epoca e ci induce ad attingere energie dalle opere delle letterature romanze del XIII secolo».
In queste enunciazioni di Mandelstam sono esposti i sogni e gli ideali degli acmeisti. «Indietro verso il medioevo»: questo è l’ideale sociale di questo gruppo aristocratico da salotto. Indietro verso la scimmia: fa eco Zostcenko. A proposito, sia gli acmeisti che i Fratelli Serapioni traggono la loro origine da antenati comuni. Il capostipite comune, tanto degli acmeisti che dei Fratelli Serapioni, è stato Hoffmann, uno dei fondatori del decadentismo e del misticismo aristocratico da salotto.
Perché tutto ad un tratto si è avuto bisogno di popolarizzare la poesia dell’Akhmatova? Che relazione ha con noi, col popolo sovietico? Perché occorre mettere una tribuna letteraria a disposizione di tutte queste correnti letterarie decadenti e a noi profondamente estranee?
Dalla storia della letteratura russa, sappiamo che più d’una volta le correnti letterarie reazionarie, a cui appartenevano i simbolisti e gli acmeisti, hanno tentato di muover guerra alle grandi tradizioni rivoluzionarie democratiche della letteratura russa, contro i suoi esponenti d’avanguardia, hanno tentato di privare la letteratura del suo alto significato ideologico e sociale, di trascinarla nella palude della mancanza di contenuto ideologico e della volgarità. Tutte queste correnti «di moda» sono state sommerse nel Lete e respinte nel passato, insieme alle classi di cui esprimevano l’ideologia. Di tutti questi simbolisti, acmeisti, bluse gialle, fanti di quadri, nicevoki5, che cosa è rimasto nella nostra genuina letteratura russa, sovietica? Proprio nulla, sebbene i loro attacchi contro i grandi esponenti della letteratura democratica rivoluzionaria russa — Bielinski, Dobroliubov, Cerniscevski, Herzen, Saltikov-Stcedrin — fossero stati preparati con gran rumore e pretenziosità. Ma con lo stesso fracasso essi si sono sfasciati.
Gli acmeisti proclamavano: «Non apportare modificazione alcuna all’esistenza e non abbandonarsi a criticarla». Perché erano contrari ad introdurre una qualsiasi modificazione nella vita? Perché quel vecchio modo di vivere aristocratico, borghese piaceva loro; mentre invece il popolo rivoluzionario si accingeva a distruggere quella loro vita. Nell’ottobre del 1917, sia le classi dominanti che i loro ideologi e cantori furono gettati tra i rifiuti della storia.
E improvvisamente, nel ventinovesimo anno della rivoluzione socialista, ecco che ricompaiono sulla scena alcune rarità da museo di quel mondo di ombre e incominciano a insegnare alla nostra gioventù come si deve vivere. Davanti alla Akhmatova si spalancano le porte di una rivista di Leningrado e la si lascia libera di avvelenare la coscienza della gioventù con la deleteria esalazione della sua poesia.
In un numero della rivista Leningrad è stato pubblicato qualcosa come un estratto delle opere scritte dall’Akhmatova dal 1909 al 1944. E qui, insieme ad altri detriti, c’è una poesia scritta durante la grande guerra patria, nel momento dell’evacuazione. In questa poesia essa scrive della sua solitudine, che è costretta a dividere con un gatto nero. Il gatto nero la guarda come l’occhio del secolo. Il tema non è nuovo. Di un gatto nero l’Akhmatova scrisse anche nel 1909. Le sensazioni di solitudine e di mancanza di una via di uscita, sensazioni estranee alla letteratura sovietica, accompagnano tutto il processo storico della «creazione» dell’Akhmatova.
Che cosa c’è di comune fra questa poesia e gli interessi del nostro popolo e del nostro stato? Proprio nulla. L’opera dell’Akhmatova è l’espressione di un lontano passato; essa è estranea alla realtà sovietica contemporanea e non può venir tollerata sulle pagine delle nostre riviste. La nostra letteratura non è una impresa privata destinata a soddisfare i vari gusti del mercato letterario. Noi non siamo affatto obbligati a far posto, nella nostra letteratura, a gusti e costumi che non hanno nulla in comune con la morale e le qualità del popolo sovietico. Che cosa possono dare di istruttivo alla nostra gioventù le opere dell’Akhmatova? Nulla, se non del male. Queste opere possono soltanto seminare lo sconforto, la demoralizzazione, il pessimismo, l’aspirazione a evadere dai problemi essenziali della vita sociale, ad abbandonare l’ampia via della vita e dell’attività sociale per il ristretto piccolo mondo delle esperienze individuali. Come si può affidar loro l’educazione della nostra gioventù?! Eppure, si sono pubblicate con gran sollecitudine le cose dell’Akhmatova su Zviezdà e su Leningrad e perfino in volume. E’ stato un grosso errore politico.
Non è un caso che, in conseguenza di ciò, sulle riviste di Leningrado abbiano cominciato ad apparire le opere di altri scrittori che stanno scivolando nell’assenza di ogni ideologia e nel decadentismo. Alludo ad opere come quelle di Sadofiev e della Komissarova. In alcuni dei loro versi, Sadofiev e la Komissarova hanno incominciato a riecheggiare l’Akhmatova, a coltivare gli atteggiamenti di sconforto, di tristezza e di solitudine, tanto cari all’anima dell’Akhmatova.
Non occorre dire che simili atteggiamenti o l’apologia di simili atteggiamenti possono esercitare soltanto un influsso negativo sulla nostra gioventù, possono avvelenarne la coscienza con il soffio mefitico della mancanza di un’ideologia, dell’apoliticità, dello sconforto.
E che cosa sarebbe accaduto se avessimo educato la nostra gioventù nello sconforto e nella sfiducia nella nostra causa? Sarebbe avvenuto che non avremmo vinto la grande guerra patria. Noi abbiamo superato le immense difficoltà dell’edificazione del socialismo ed abbiamo ottenuto la vittoria sui tedeschi e sui giapponesi proprio perché lo stato sovietico e il nostro partito, con l’aiuto della letteratura sovietica, hanno educato la nostra gioventù all’operosità, alla fiducia nelle proprie forze.
Che conclusione dobbiamo trarne? Dobbiamo trarne questa conclusione, che la rivista Zviezdà, la quale ha pubblicato sulle sue pagine, a fianco di opere degne, ricche di contenuto ideologico, sane, delle opere prive di ogni ideologia, scadenti, reazionarie, è diventata una rivista senza indirizzo, una rivista che ha aiutato i nemici a corrompere la nostra gioventù. Ma le nostre riviste si sono sempre distinte per il loro coraggioso indirizzo rivoluzionario, non per eclettismo, mancanza di contenuto ideologico e apoliticità. La propaganda in favore della mancanza di ideologia ha avuto, nella Zviezdà, parità di diritti. Non solo, ma si viene ora a sapere che Zostcenko aveva acquistato una tale influenza in seno all’organizzazione degli scrittori di Leningrado, che soffocava quelli che non erano d’accordo con lui, minacciava i critici di prenderli di mira in una delle sue prossime opere. Era diventato una specie di dittatore nel campo della letteratura, e un gruppo di ammiratori lo circondava e lo incensava.
Su quale base, ci si domanda? Perché avete tollerato questo stato di cose innaturale e reazionario?
Non è un caso che nelle riviste letterarie di Leningrado si sia cominciato ad appassionarsi alla scadente letteratura borghese contemporanea dell’Occidente. Alcuni nostri letterati hanno cominciato a considerarsi non come maestri, ma come discepoli dei letterati piccolo-borghesi, hanno cominciato a scendere ad un tono di servilismo e di supina ammirazione davanti alla letteratura straniera piccolo-borghese. Ma si addice a noi, patrioti sovietici, un simile servilismo? A noi, che abbiamo edificato il regime sovietico, che è cento volte superiore e migliore di qualsiasi regime borghese? Si addice alla nostra letteratura sovietica d’avanguardia, che è la letteratura più rivoluzionaria del mondo, il servilismo davanti alla limitata letteratura piccolo-borghese dell’Occidente?
Una grave deficienza del lavoro dei nostri scrittori è anche, da una parte, il distacco dagli argomenti del mondo sovietico contemporaneo, la passione unilaterale per i soggetti storici, e, dall’altra, il tentativo di occuparsi di argomenti vuoti, di carattere esclusivamente ameno. Alcuni scrittori, per giustificare il loro distacco dai grandi argomenti sovietici attuali, affermano che è venuto il momento di dare al popolo della letteratura leggera e divertente e di lasciar da parte le opere che hanno un contenuto ideologico. Questa è una concezione profondamente sbagliata sul conto del nostro popolo, delle sue esigenze, dei suoi interessi. Il nostro popolo attende che gli scrittori sovietici comprendano e generalizzino l’immensa esperienza acquisita dal popolo nella grande guerra patria, che essi rappresentino e facciano conoscere l’eroismo con cui il popolo, attualmente, lavora alla ricostruzione del paese dopo la cacciata dei nemici.
Alcune parole a proposito della rivista Leningrad. In questa, Zostcenko ha preso una posizione ancor più decisa che nella rivista Zviezdà; e così pure l’Akhmatova. Zostcenko e l’Akhmatova sono divenuti una forza letteraria attiva in entrambe le riviste. La rivista Leningrad ha, quindi, la responsabilità di aver messo le sue pagine a disposizione di uno scrittore volgare come Zostcenko e di poetesse da salotto come l’Akhmatova.
Ma la rivista Leningrad ha commesso anche altri errori.
Ecco, per esempio, una parodia dell’Eugenio Onieghin6, scritta da un certo Khasin, col titolo: Il ritorno di Onieghin. Dicono che viene recitata spesso sulle ribalte dei teatri di varietà di Leningrado. Non si capisce come i cittadini di Leningrado tollerino che da una pubblica tribuna si insulti Leningrado, come fa Khasin. Infatti, il senso di tutta questa «parodia» letteraria non consiste nel motteggiare semplicemente le avventure che succederebbero a Onieghin, se si trovasse nella Leningrado odierna. Il senso della pasquinata composta da Khasin consiste nel tentativo, che egli fa, di paragonare la nostra Leningrado moderna con con la Pietroburgo dell’epoca di Pusckin e di dimostrare che la nostra epoca è peggiore dell’epoca di Onieghin. Badate anche solo ad alcune righe di questa «parodia». All’autore non piace nulla di questa nostra Leningrado moderna. Egli deride, calunnia i cittadini sovietici, Leningrado. Secondo Khasin, il secolo di Onieghin sarebbe il secolo d’oro. Oggi non è così: sono comparsi l’ufficio alloggi, le tessere, i permessi. Le fanciulle, quelle creature celesti, eteree per cui un tempo si entusiasmava Onieghin, oggi son diventate dei vigili stradali, ricostruiscono le case di Leningrado, ecc. ecc. Permettetemi di citare solo un passo di questa «parodia».
Sale in tram il nostro Eugenio.
Oh, povero disgraziato!
Non conosceva simili mezzi di trasporto
Il suo secolo oscurantista.
Ma il destino proteggeva Eugenio
Perché non gli pestarono che un piede,
E solo una volta, dopo avergli schiacciato lo stomaco,
Gli gridarono: «Idiota!».
Egli, rammentando le antiche usanze,
Volle terminare la contesa con un duello.
Si frugò in tasca… Ma qualcuno
Già da un pezzo gli aveva soffiato i guanti.
E in mancanza di questi, il nostro Onieghin
Ammutolì e non ne fece nulla.
Ecco com’era Leningrado, e come invece è diventata oggi: cattiva, incivile, rozza; ecco in quale aspetto poco seducente essa appare al povero, caro Onieghin. Ecco come ha rappresentato Leningrado e i suoi abitanti quell’essere volgare che è Khasin.
L’idea di questa calunniosa parodia è cattiva, viziata, putrida!
Come ha potuto, la redazione del Leningrad, lasciar passare questa malvagia calunnia contro Leningrado e la sua magnifica gente? Come si possono tollerare tipi come Khasin sulle pagine delle riviste di Leningrado?
Prendete un’altra opera, la parodia di una parodia su Nekrasov, composta in modo da costituire un’offesa diretta alla memoria di quel grande poeta e uomo politico che fu Nekrasov, un’offesa contro cui ogni persona colta deve rivoltarsi. Tuttavia, la redazione del Leningrad ha ospitato volentieri nelle sue pagine questo sudicio minestrone.
Che cosa troviamo ancora nella rivista Leningrad? Un aneddoto straniero, piatto e volgare, evidentemente preso da una vecchia e consunta raccolta di aneddoti della fine del secolo scorso. Forse la rivista Leningrad non ha materiale per riempire le sue pagine? Forse non si sa che cosa scrivere, nella rivista Leningrad? Pensate anche solo a un argomento come quello della ricostruzione di Leningrado. Nella città si svolge un lavoro stupendo, la città risana le ferite infertele dall’assedio, i cittadini di Leningrado sono pieni di entusiasmo e di commozione per la ricostruzione del dopoguerra. Se ne è scritto qualche cosa sulla rivista Leningrad? Gli abitanti di Leningrado possono, o no, aspettarsi che le eroiche imprese del loro lavoro trovino una buona volta un riflesso sulle pagine della rivista?
Prendiamo ancora l’argomento della donna sovietica. Si possono forse coltivare, fra i lettori e le lettrici sovietiche, le vergognose concezioni dell’Akhmatova sulla funzione e sulla missione della donna, invece di dare una rappresentazione veramente esatta della donna sovietica contemporanea in generale e della fanciulla e della donna eroine di Leningrado in particolare, che hanno sostenuto sulle loro spalle le immense difficoltà degli anni di guerra e oggi lavorano con abnegazione per risolvere i difficili compiti della ricostruzione economica?
Come si vede, nella sezione di Leningrado dell’Unione degli scrittori la situazione è tale che attualmente non c’è un numero di opere degne sufficiente per due riviste letterarie e artistiche. Ecco perché il Comitato Centrale del partito ha deciso di sopprimere la rivista Leningrad, al fine di concentrare le migliori forze letterarie nella rivista Zviezdà. Ciò, naturalmente, non significa che Leningrado, in condizioni opportune, non possa avere una seconda o anche un terza rivista. La questione viene risolta dalla quantità di produzioni buone, di natura elevata. Se ce ne saranno abbastanza e non vi sarà posto per esse in una sola rivista, si potranno creare una seconda, e anche una terza rivista: purché i nostri scrittori di Leningrado forniscano una produzione buona dal punto di vista ideologico e artistico.
Questi sono gli errori e i difetti grossolani, scoperti e messi in rilievo nella risoluzione del Comitato Centrale del P. C. (b) dell’U.R.S.S., a proposito dell’attività delle riviste Zviezdà e Leningrad.
In che cosa consiste la radice di questi errori e di queste deficienze?
La radice di questi errori e di queste deficienze consiste nel fatto che i redattori delle riviste che abbiamo ricordato, gli esponenti della nostra letteratura sovietica e perfino i dirigenti del nostro fronte ideologico a Leningrado hanno dimenticato alcuni postulati fondamentali del leninismo a proposito della letteratura. Molti scrittori e molti di coloro che lavorano in qualità di redattori responsabili o che occupano posti importanti nell’Unione degli scrittori, ritengono che la politica sia affare del governo, affare del Comitato Centrale. Quanto ai letterati, non sarebbe affar loro occuparsi di politica. Se una persona scrive bene, artisticamente, elegantemente, bisognerebbe lasciarla scrivere, anche se nelle sue opere si trovano dei passi corrotti, che disorientano la nostra gioventù e l’avvelenano. Noi esigiamo invece che i nostri compagni, sia i dirigenti letterari, sia gli scrittori, si facciano guidare da quell’elemento senza cui il sistema sovietico non può vivere, e cioè dalla politica, affinché possiamo educare la gioventù non nello spirito dello scetticismo e dell’assenza di ogni ideologia, ma nello spirito del coraggio, nello spirito rivoluzionario.
E’ noto che il leninismo ha continuato le migliori tradizioni dei democratici rivoluzionari russi del secolo XIX e che la nostra cultura sovietica è sorta, si è sviluppata e ha raggiunto il suo livello attuale sulla base dell’eredità culturale del passato, criticamente rielaborata. Nel campo della letteratura, il nostro partito ha più volte riconosciuto, per bocca di Lenin e Stalin, l’immensa importanza dei grandi scrittori e critici russi democratici rivoluzionari come Bielinski, Dobroliubov, Cerniscevski, Saltikov-Stcedrin, Plekhanov. A cominciare da Bielinski, tutti i migliori rappresentanti dell’intellettualità democratico-rivoluzionaria russa non accettarono mai la cosiddetta «arte pura» o «l’arte per l’arte» e furono gli araldi di un’arte per il popolo, gli araldi del profondo significato ideologico e dell’importanza sociale dell’arte popolare. L’arte non si può separare dal destino del popolo. Ricordate la celebre Lettera a Gogol di Bielinski, in cui il grande critico, con tutta la passione che gli era propria, sferzò Gogol per il suo tentativo di tradire la causa del popolo e di passare dalla parte dello zar. Quella lettera fu definita da Lenin una delle migliori opere della stampa democratica non colpita dalla censura, un’opera che conserva ancor oggi la sua immensa importanza letteraria.
Ricordate gli articoli giornalistico-letterari di Dobroliubov, nei quali è stata dimostrata, con tanto vigore, l’importanza sociale della letteratura. Tutta la nostra pubblicistica russa democratico-rivoluzionaria è pervasa da un odio mortale per il regime zarista ed è penetrata dalla generosa aspirazione a lottare per gli interessi fondamentali del popolo, per la sua istruzione, per la sua cultura, per la sua emancipazione dalle pastoie del regime zarista. I grandi esponenti della letteratura russa concepirono la letteratura e l’arte come arte combattiva, che lottasse per i migliori ideali del popolo. Cerniscevski, che, di tutti i socialisti utopisti, fu quello che più si avvicinò al socialismo scientifico e dalle cui opere, come indicò Lenin, «spirava il soffio della lotta di classe», insegnò che il compito dell’arte è, oltre quello di far conoscere la vita, anche quello di insegnare agli uomini a valutare giustamente i vari fenomeni sociali. Dobroliubov, il suo più intimo amico e collaboratore, indicò che «non la vita segue le norme della letteratura, ma la letteratura si conforma alle tendenze della vita», e propagò con tutte le sue forze i principi del realismo e del carattere popolare nella letteratura, ritenendo che la base dell’arte è la realtà, che questa è la fonte della creazione e che l’arte ha una funzione attiva nella vita sociale, formando la coscienza sociale. Secondo Dobroliubov, la letteratura deve servire la società, deve dare al popolo le risposte sui più acuti problemi del presente, deve essere al livello delle idee della sua epoca.
La critica letteraria marxista, essendo la continuatrice delle grandi tradizioni di Bielinski, Cerniscevski e Dobroliubov, è stata sempre sostenitrice di un’arte realistica, indirizzata in senso sociale. Plekhanov lavorò molto per smascherare la concezione antiscientifica della letteratura e dell’arte sostenuta dagli idealisti, per difendere i postulati fondamentali dei nostri grandi rivoluzionari democratici russi, i quali avevano insegnato a vedere nella letteratura uno strumento potente per servire il popolo.
V. I. Lenin formulò per primo, con estrema chiarezza, lo atteggiamento del pensiero sociale d’avanguardia verso la letteratura e l’arte. Vi rammenterò il noto articolo di Lenin: Organizzazione di partito e letteratura di partito, scritto alla fine del 1905, in cui egli, con la forza che gli era propria, dimostrò che la letteratura non può essere senza partito, che essa dev’essere parte integrante e notevole della causa generale del proletariato. In quest’articolo di Lenin sono posti tutti i principi su cui si basa lo sviluppo della nostra letteratura sovietica. Lenin scriveva:
«La letteratura deve diventare di partito. In contrapposizione ai costumi borghesi, in contrapposizione alla stampa borghese affaristica e commerciale, in contrapposizione all’arrivismo letterario e all’individualismo borghesi, all’”anarchismo da signori” e alla corsa al guadagno, il proletariato socialista deve promuovere il principio della letteratura di partito, sviluppare questo principio e attuarlo nella forma più completa e organica possibile.
«In che cosa consiste questo principio della letteratura di partito? Non soltanto nel fatto che per il proletariato socialista l’attività letteraria non può essere strumento di guadagno per singoli individui o per gruppi, ma anche nel fatto che essa non può essere in genere una questione individuale, indipendente dalla causa generale del proletariato. Abbasso i letterati senza partito! Abbasso i letterati superuomini! L’attività letteraria deve diventare una parte dell’attività generale del proletariato…».
E più oltre, nello stesso articolo:
«Vivere nella società ed essere liberi dalla società non è possibile. La libertà dello scrittore, dell’artista, dell’attrice borghese è soltanto una dipendenza mascherata (o ipocritamente mascherata) dai portafogli ben forniti, da coloro che li corrompono e li mantengono».
Il leninismo parte dal fatto che la nostra letteratura non può essere apolitica, non può significare «l’arte per l’arte», ma è chiamata ad assolvere un’importante funzione d’avanguardia nella vita sociale. Da questa premessa deriva il principio leninista del carattere di partito della letteratura, l’importantissimo contributo di V. I. Lenin alla critica letteraria.
Per conseguenza, la migliore tendenza della letteratura sovietica è la continuazione delle migliori tradizioni della letteratura russa del XIX secolo, create dai nostri grandi democratici rivoluzionari: Bielinski, Dobroliubov, Cerniscevski, Saltikov-Stcedrin, continuate da Plekhanov e scientificamente elaborate e sistematizzate da Lenin e Stalin.
Nekrasov definì la propria poesia «la musa della vendetta e della tristezza». Cerniscevski e Dobroliubov consideravano la letteratura come consacrata al servizio del popolo. I migliori rappresentanti degli intellettuali democratici russi, che vissero in regime zarista, pagarono quelle idee generose ed elette con la morte, con la galera, con l’esilio. Come si possono dimenticare queste gloriose tradizioni? Come si possono trascurare e come si può tollerare che i vari Akhmatova e Zostcenko mettano fuori nuovamente la parola d’ordine reazionaria dell’«arte per l’arte» per imporre, nascondendosi sotto la maschera dell’eclettismo ideologico, delle idee estranee al popolo sovietico?
Il leninismo riconosce alla nostra letteratura un’immensa funzione di trasformazione sociale. Se la nostra letteratura sovietica tollerasse un abbassamento di questa sua grande missione educativa, ciò significherebbe un processo di involuzione, il ritorno all’«età della pietra».
Il compagno Stalin ha definito i nostri scrittori: gli ingegneri delle anime umane. Questa definizione ha un profondo significato. Essa esprime l’immensa responsabilità degli scrittori sovietici nell’educazione dei cittadini, nell’educazione della gioventù sovietica, nel non tollerare materiale scadente nel lavoro letterario.
Ad alcuni sembrerà strano che il Comitato Centrale abbia preso delle misure così energiche per una questione letteraria. Ma da noi non la si pensa così. Generalmente si pensa che se vi è stata una deficienza nella produzione o se non è stato assolto il programma di una produzione di beni di largo consumo, o magari il piano per la preparazione del legname, pronunciare una condanna per queste ragioni sia una cosa naturale (risa d’approvazione nella sala), ma se vi è una deficienza nel campo dell’educazione delle anime sovietiche, nel campo dell’educazione della gioventù, in questo caso si possa anche pazientare. Ma non è questa una colpa ancor più grave dell’esser venuti meno al programma della produzione o ad impegni simili? Con la sua decisione, il Comitato Centrale intende portare il fronte ideologico alla pari con tutti gli altri settori del nostro lavoro.
Negli ultimi tempi, grandi lacune e deficienze sono emerse sul fronte ideologico. Basta rammentare l’arretratezza della nostra arte cinematografica, l’inflazione di opere di qualità scadente nel nostro repertorio teatrale, per non parlare di ciò che è avvenuto sulle riviste Zviezdà e Leningrad. Il Comitato Centrale è stato costretto ad intervenire ed a sistemare risolutamente le cose. Esso non aveva il diritto di addolcire i suoi colpi contro chi dimentica i propri doveri verso il popolo, verso l’educazione della gioventù. Se noi vogliamo attirare l’attenzione dei nostri elementi attivi sui problemi del lavoro ideologico, mettere ordine in questo campo e dare al lavoro un chiaro indirizzo, dobbiamo criticare gli errori e le deficienze del lavoro ideologico con energia, come si conviene a dei cittadini sovietici, come si conviene a dei bolscevichi. Soltanto allora potremo correggere lo stato di cose esistente.
Alcuni letterati ragionano così: in tempo di guerra, il popolo non ha avuto opere letterarie a sufficienza, dato che si pubblicava poco e, quindi, adesso, inghiottisce qualsiasi merce, magari anche avariata. Invece, le cose non stanno così, e noi non tolleriamo affatto tutte le opere che ci mettono sotto il naso i letterati, i redattori e gli editori poco scrupolosi. Il popolo sovietico attende dagli scrittori sovietici un vero armamento ideologico, del cibo spirituale che lo aiuti ad assolvere i piani della grande edificazione, della ricostruzione e dell’ulteriore sviluppo dell’economia nazionale. Il popolo sovietico rivolge grandi richieste ai letterati, vuole che siano soddisfatti i suoi bisogni ideologici e culturali. In tempo di guerra, data la situazione, non abbiamo potuto soddisfare questi bisogni essenziali. Il popolo vuol riflettere sugli avvenimenti che accadono. Il suo livello ideologico e culturale è salito. Spesso esso non rimane soddisfatto della qualità delle opere letterarie e artistiche che si producono da noi. Ciò non hanno capito e non vogliono capire certi letterati, certi militanti del fronte ideologico.
Il livello delle esigenze e dei gusti del nostro popolo è salito molto, e chi non vuole o non può raggiungere quel livello sarà lasciato indietro. La letteratura è chiamata non soltanto a stare al livello delle esigenze del popolo, ma a far di più: essa è obbligata a sviluppare i gusti del popolo, a elevare le sue esigenze, ad arricchirlo di nuove idee, a farlo progredire. Chi non è capace di marciare col popolo, di soddisfare le sue crescenti esigenze, di stare al livello del compito di sviluppare la cultura sovietica, sarà inevitabilmente messo da parte.
Dalla deficienza ideologica dei dirigenti di Zviezdà e di Leningrad deriva anche un secondo errore grossolano. Esso consiste nel fatto che alcuni nostri dirigenti hanno messo come cardine dei loro rapporti con i letterati non gli interessi dell’educazione politica dei cittadini sovietici e dell’indirizzo politico dei letterati, ma i loro interessi personali e quelli dei loro amici. Si dice che molte opere dannose ideologicamente e artisticamente deboli vengono stampate per non offendere questo o quello scrittore. Secondo il punto di vista di questi militanti, è preferibile venir meno agli interessi del popolo, agli interessi dello stato, che offendere qualcuno. E’ un’impostazione completamente sbagliata e politicamente erronea. E’ lo stesso che barattare un milione con un centesimo.
Nella sua risoluzione, il Comitato Centrale del partito denuncia il danno gravissimo che deriva dal sostituire, in letteratura, i rapporti di principio con i rapporti d’amicizia. Nell’ambiente di certi nostri letterati, i rapporti d’amicizia senza una base di principio hanno svolto una funzione profondamente negativa, conducendo all’abbassamento del livello ideologico di molte opere letterarie, facilitando l’accesso alla letteratura a gente estranea alla letteratura sovietica. L’assenza di critica da parte dei dirigenti del fronte ideologico di Leningrado, da parte dei dirigenti delle riviste di Leningrado, la sostituzione dei rapporti d’amicizia ai rapporti di principio a scapito degli interessi del popolo, hanno apportato un grandissimo danno.
Il compagno Stalin ci insegna che, se vogliamo conservare i quadri, istruirli ed educarli, non dobbiamo temere di offendere chicchesia, non dobbiamo temere la critica di principio, coraggiosa, aperta e obiettiva. Senza critica, qualsiasi organizzazione, fra cui anche quella della letteratura, può imputridire. Senza critica, qualsiasi malattia può penetrare a fondo e sarà allora tanto più difficile liberarsene. Solo la critica coraggiosa e aperta aiuta il nostro popolo a perfezionarsi; lo spinge ad andare avanti, a superare i difetti del suo lavoro. Dove non c’è critica, mettono radice la decrepitezza e la staticità e non c’è posto per il progresso.
Il compagno Stalin ha indicato più volte che la principale premessa del nostro sviluppo è la necessità che ogni cittadino sovietico faccia ogni giorno il bilancio del suo lavoro, controlli coraggiosamente se stesso, analizzi il suo lavoro, critichi coraggiosamente le proprie deficienze e i propri errori, pensi a come raggiungere migliori risultati nel proprio lavoro e lavori incessantemente a perfezionarsi. Ciò riguarda i letterati nella stessa misura in cui riguarda ogni altro lavoratore. Chi ha paura di criticare il suo lavoro è vile, spregevole, indegno della stima del popolo. (Applausi clamorosi).
L’atteggiamento non critico verso il proprio lavoro, la sostituzione dei rapporti di principio con i rapporti di amicizia nei riguardi dei letterati sono largamente diffusi anche nella direzione dell’Unione degli Scrittori sovietici. La direzione dell’Unione, e in particolare il suo presidente compagno Tikhonov, sono colpevoli dell’insoddisfacente situazione che si è manifestata nelle riviste Zviezdà e Leningrad, sono colpevoli non solo di non aver posto una barriera alla penetrazione della dannosa influenza di Zostcenko, dell’Akhmatova e di altri scrittori non sovietici nella letteratura sovietica, ma anche di aver favorito la penetrazione, nelle nostre riviste, di tendenze e gusti estranei alla letteratura sovietica.
Nelle deficienze delle riviste di Leningrado, ha avuto gran parte anche quel sistema di irresponsabilità, che si è instaurato nella direzione delle riviste che sono nella situazione della redazione delle riviste di Leningrado, in cui non si sa chi risponda della rivista nel suo complesso e chi dei singoli settori, in cui non c’è l’ordine più elementare. E’ necessario ovviare a questa deficienza. Ecco perché il Comitato Centrale, con la sua risoluzione, ha nominato un redattore capo della rivista Zviezdà, il quale deve rispondere dell’indirizzo della rivista, delle alte qualità ideologiche e artistiche delle opere pubblicate sulla rivista stessa.
Nelle riviste, come in ogni cosa, sono inammissibili il disordine e l’anarchia. Occorre una precisa responsabilità circa l’indirizzo della rivista e il contenuto degli articoli che vi vengono pubblicati.
Voi dovete restaurare le gloriose tradizioni della letteratura di Leningrado e del fronte ideologico di Leningrado. E’ amaro e offensivo a un tempo che le riviste di Leningrado, che erano sempre state il vivaio delle idee di avanguardia, della cultura di avanguardia, siano diventate il rifugio dell’assenza di ogni ideologia e della volgarità. Bisogna restaurare l’onore di Leningrado, come centro culturale e ideologico d’avanguardia. Bisogna ricordare che Leningrado è stata la culla delle organizzazioni leniniste bolsceviche. Qui Lenin e Stalin hanno gettato le basi del partito bolscevico, le basi della concezione del mondo bolscevica, della cultura bolscevica.
E’ una questione d’onore per gli scrittori di Leningrado, per gli elementi attivi del partito di Leningrado, restaurare e sviluppare ulteriormente queste gloriose tradizioni di Leningrado. Il compito dei militanti del fronte ideologico a Leningrado, e innanzi tutto degli scrittori, consiste nello scacciare dalla letteratura di Leningrado la mancanza di ideologia e la volgarità, per sollevare in alto la bandiera della letteratura sovietica d’avanguardia, per non perdere nessuna possibilità di sviluppo ideologico e artistico, per non restare indietro rispetto ai problemi contemporanei, per non restare indietro rispetto alle esigenze del popolo, per sviluppare in tutti i modi una critica coraggiosa delle proprie deficienze, una critica non ipocrita, non di gruppo e tra amici, ma una critica vera, coraggiosa e indipendente, una critica rispondente all’ideologia bolscevica.
Compagni, deve esservi chiaro, ora, il grossolano errore che ha commesso il comitato cittadino del partito a Leningrado e specialmente la sua sezione di agitazione e propaganda e il segretario per la propaganda, compagno Scirokov, il quale era stato messo a dirigere il lavoro ideologico e sul quale, soprattutto, ricade la responsabilità dell’insuccesso delle riviste. Il comitato di partito di Leningrado ha commesso un grossolano errore politico, prendendo, alla fine del mese di giugno, la decisione di ricostituire la redazione della rivista Zviezdà, in cui entrò anche Zostcenko. Soltanto la cecità politica può spiegare il fatto che il segretario del comitato cittadino del partito, compagno Kapustin, e il segretario per la propaganda presso il comitato, compagno Scirokov, abbiano potuto adottare una decisione così sbagliata. Ripeto che tutti questi errori devono essere corretti al più presto e nel modo più deciso, allo scopo di restaurare la funzione di Leningrado nella vita ideologica del nostro partito.
Tutti noi amiamo Leningrado, tutti noi amiamo la nostra organizzazione di partito di Leningrado, come uno dei reparti d’avanguardia del nostro partito. A Leningrado non dev’esserci rifugio per i vari avventurieri mascherati della letteratura, che vogliono sfruttare Leningrado per i loro scopi. A Zostcenko, alla Akhmatova e ai loro simili, la Leningrado sovietica non è cara. Essi vogliono vedere in essa l’incarnazione di altri ordinamenti sociali e politici, di un’altra ideologia. La vecchia Pietroburgo, il cavaliere di bronzo, ecco che cosa balena davanti ai loro occhi come simbolo di questa vecchia Pietroburgo. E noi invece amiamo la Leningrado sovietica, la Leningrado centro d’avanguardia della cultura sovietica. La gloriosa schiera delle grandi figure democratiche e rivoluzionarie uscite da Leningrado: ecco i nostri antenati diretti, a cui facciamo risalire le nostre origini. Le gloriose tradizioni della Leningrado contemporanea sono la continuazione dello sviluppo di queste grandi tradizioni democratiche rivoluzionarie, che non cambieremmo per nulla al mondo. Gli elementi attivi di Leningrado analizzino dunque i propri errori coraggiosamente, senza voltarsi indietro, senza «tentennare», per poterli riparare nel modo migliore e al più presto e far progredire il nostro lavoro ideologico. I bolscevichi di Leningrado devono rioccupare il loro posto nelle file dei dirigenti e degli elementi d’avanguardia nell’opera di formazione dell’ideologia sovietica, della coscienza sociale sovietica. (Applausi fragorosi).
Come ha potuto avvenire che il comitato cittadino di partito di Leningrado abbia tollerato una situazione simile, sul fronte ideologico? Evidentemente, esso si è lasciato assorbire dal lavoro pratico quotidiano per la ricostruzione della città, per la ripresa della sua industria, e ha dimenticato l’importanza del lavoro ideologico ed educativo, e questa dimenticanza è costata cara all’organizzazione di Leningrado. Non si deve dimenticare il lavoro ideologico! Le ricchezze spirituali della nostra gente non sono meno importanti di quelle materiali. Non si deve vivere alla cieca, senza pensare al domani, non solo nel campo della produzione materiale, ma anche nel campo di quella ideologica. Il nostro popolo sovietico si è talmente sviluppato, da non «inghiottire» qualsiasi produzione spirituale gli si metta sotto il naso. I militanti della cultura e dell’arte che non si modificheranno e non sapranno soddisfare le accresciute esigenze del popolo, possono perdere rapidamente la fiducia del popolo.
Compagni, la nostra letteratura sovietica vive e deve vivere degli interessi del popolo, degli interessi della patria. La letteratura è cosa cara al popolo. Ecco perché il popolo considera come una sua vittoria ogni vostro successo, ogni opera significativa. Ecco perché ogni opera di valore può essere paragonata a una battaglia vinta o una grande vittoria sul fronte economico. E viceversa, ogni insuccesso nella letteratura sovietica è doloroso e profondamente umiliante per il popolo, per il partito, per lo stato. Proprio di ciò tiene conto la risoluzione del Comitato Centrale, il quale si preoccupa degli interessi del popolo, degli interessi della sua letteratura ed è estremamente preoccupato per la situazione esistente fra gli scrittori di Leningrado.
Se uomini privi di ideologia vogliono privare il gruppo dei letterati sovietici di Leningrado della sua ragione d’essere, vogliono pregiudicare il contenuto ideologico del loro lavoro, togliere all’opera degli scrittori di Leningrado il suo significato di trasformazione sociale, il Comitato Centrale spera, invece, che i letterati di Leningrado troveranno la forza di porre un termine a tutti i tentativi di trascinare la schiera dei letterati di Leningrado e le loro riviste nell’alveo della mancanza d’ideologia, della mancanza di principi, dell’apoliticità. Voi vi trovate in prima linea sul fronte ideologico, davanti a compiti immensi che hanno un’importanza internazionale, e ciò deve elevare il senso di responsabilità di ogni vero letterato sovietico di fronte al proprio popolo, allo stato, al partito, deve aumentare la coscienza dell’importanza del dovere compiuto.
Al mondo borghese non piacciono i nostri successi all’interno del paese e nel campo internazionale. Le posizioni del socialismo, alla fine della seconda guerra mondiale, si sono consolidate. In molti paesi d’Europa la questione del socialismo è all’ordine del giorno. Ciò non piace agli imperialisti di tutte le tinte. Essi hanno paura del socialismo, hanno paura della nostra patria socialista, che è d’esempio a tutta l’umanità progressiva. Gli imperialisti, i servi della loro ideologia, i loro letterati e giornalisti, i loro uomini politici e i loro diplomatici cercano in tutti i modi di calunniare il nostro paese, di metterlo sotto una falsa luce, di calunniare il socialismo. In queste condizioni, il compito della letteratura sovietica non sta soltanto nel rispondere, colpo per colpo, a tutte queste ripugnanti calunnie ed attacchi contro la nostra cultura sovietica, contro il socialismo; ma anche nello sferzare ed attaccare audacemente la cultura borghese, che si trova in uno stato di marasma e di decomposizione.
Quali che siano le belle forme di cui si riveste oggi la produzione dei letterati borghesi di moda, nell’Europa occidentale e in America, e quelle dei registi cinematografici e teatrali, essi non possono comunque salvare e rialzare la loro cultura borghese, poiché la base materiale è putrida e nauseante, poiché questa cultura è posta al servizio della proprietà privata capitalistica, al servizio degli interessi egoistici e cupidi della élite della società borghese. Tutta la schiera dei letterati, dei registi cinematografici e teatrali borghesi si sforza di distrarre l’attenzione degli strati progressivi della società dalle scottanti questioni della lotta sociale e politica e di portare quest’attenzione nell’alveo della letteratura e dell’arte volgari e senza ideologia, piene di gangster, di girls da varietà, di esaltazione dell’adulterio, di prodezze di avventurieri d’ogni genere e di cavalieri d’industria.
Si addice forse a noi, rappresentanti della cultura sovietica progressiva, patrioti sovietici, la parte di chi si inchina alla cultura borghese o la parte di suoi discepoli? Al contrario, la nostra letteratura, che riflette una struttura più elevata di qualsiasi struttura democratico-borghese, una cultura molte volte più alta della cultura borghese, ha il diritto di insegnare agli altri la nuova morale umana universale. Dove trovate un popolo ed un paese come il nostro? Dove trovate qualità umane così stupende come quelle che il nostro popolo sovietico ha rivelate nella grande guerra patria e che ogni giorno rivela nelle opere del lavoro, passando allo sviluppo pacifico e alla ricostruzione dell’economia e della cultura? Ogni giorno che passa porta il nostro popolo sempre più in alto. Oggi non siamo più quelli che eravamo ieri, e domani non saremo più quelli di oggi. Noi non siamo già più i russi di prima del 1917 e la Russia non è più la stessa, il nostro carattere non è più lo stesso. Ci siamo cambiati, ci siamo sviluppati parallelamente a quelle grandi trasformazioni che hanno cambiato alla radice il volto del nostro paese.
Il compito di ogni scrittore sovietico onesto è quello di mostrare queste nuove alte qualità del popolo sovietico, non solo di mostrare il nostro popolo com’è oggi, ma anche di guardare al domani, di aiutare ad illuminare, come un faro, la strada da percorrere. Lo scrittore non deve trascinarsi alla coda degli avvenimenti, deve andare tra le file più avanzate del popolo, mostrando al popolo le vie del suo sviluppo. Orientandosi con il metodo del realismo socialista, studiando coscienziosamente e attentamente la nostra realtà, sforzandosi di penetrare più profondamente l’essenza del processo del nostro sviluppo, lo scrittore deve educare il popolo e armarlo ideologicamente. Scegliendo i migliori sentimenti e le migliori qualità dell’uomo sovietico, rivelandogli il suo domani, nello stesso tempo noi dobbiamo mostrare alla nostra gente come essa non deve essere, noi dobbiamo sferzare i residui del passato, i residui che impediscono al popolo sovietico di progredire. Gli scrittori sovietici devono aiutare il popolo, lo stato, il partito nell’educare la nostra gioventù al coraggio, alla fiducia nelle sue opere, a non temere nessuna difficoltà.
Per quanto gli uomini politici borghesi e i letterati si sforzino di nascondere ai loro popoli la verità sulle conquiste del sistema sovietico e della cultura sovietica, per quanto essi si sforzino di erigere una cortina di ferro, oltre la quale non possa penetrare all’estero la verità sull’Unione Sovietica, per quanto si sforzino di tacere l’ascesa effettiva e l’impulso della civiltà sovietica, tutti questi tentativi sono condannati all’insuccesso. Noi conosciamo assai bene la forza e la superiorità della nostra cultura. Basti ricordare i grandi successi delle nostre delegazioni culturali all’estero, la nostra parata sportiva, ecc. Non noi, quindi, dobbiamo inchinarci di fronte ad ogni cosa straniera, o solo assumere una posizione passiva di difesa.
Se l’ordinamento feudale e poi la borghesia, nel periodo della loro ascesa, poterono creare un’arte e una letteratura che consolidava la struttura della nuova società e ne esaltavano il fiorire, per noi, per il nuovo ordinamento socialista, che costituisce la realizzazione di quanto vi è di meglio nella storia della civiltà e della cultura umane, sarà tanto più agevole creare la letteratura più avanzata del mondo, che lascerà molto indietro i migliori esempi della produzione dei tempi antichi.
Compagni, che cosa chiede e vuole il Comitato Centrale? Il Comitato Centrale del partito vuole che gli elementi attivi di Leningrado e gli scrittori di Leningrado comprendano bene che è venuto il tempo in cui è necessario elevare ad un alto livello il nostro lavoro ideologico. Alla giovane generazione sovietica spetta di consolidare la forza e la potenza dell’ordinamento socialista sovietico, di utilizzare pienamente le forze vive della società sovietica, per far fiorire in modo nuovo, mai visto, il nostro benessere e la nostra cultura. Per assolvere questi grandi compiti, la giovane generazione deve essere educata ad esser forte, alacre, a non temere gli ostacoli che si oppongono a queste iniziative e a saperli superare. La nostra gente dev’essere colta, in possesso di una profonda ideologia, con gusti ed esigenze culturali e morali elevati. Per questo scopo, abbiamo bisogno che la nostra letteratura, le nostre riviste non restino estranee ai compiti del momento attuale, ma aiutino il partito e il popolo a educare la gioventù nello spirito di una illimitata fedeltà nel servire gli interessi del popolo.
Gli scrittori sovietici e tutti i nostri intellettuali sono oggi in prima linea, sulla linea del fuoco; poiché, nelle condizioni di sviluppo pacifico, i compiti del fronte ideologico, e specialmente della letteratura, non diminuiscono, ma, al contrario, aumentano. Il popolo, lo stato, il partito vogliono non che la letteratura si allontani dalla vita attuale, ma che intervenga attivamente in tutti gli aspetti della vita sovietica. I bolscevichi apprezzano altamente la letteratura, vedono chiaramente la sua grande missione storica e la sua funzione di consolidamento dell’unità morale e politica del popolo, di unione ed educazione del popolo. Il Comitato Centrale del partito vuole che da noi ci sia un rifiorire della cultura; perché, nel progresso della cultura, esso vede uno dei compiti principali del socialismo.
Il Comitato Centrale del partito è convinto che il gruppo dei letterati sovietici di Leningrado, moralmente e politicamente sano, correggerà rapidamente i propri errori e riprenderà il posto che gli compete nelle file della letteratura sovietica.
Il Comitato Centrale è convinto che le deficienze del lavoro degli scrittori di Leningrado saranno superate e che il lavoro ideologico dell’organizzazione del partito di Leningrado sarà portato, in brevissimo tempo, all’altezza che oggi è indispensabile, nell’interesse del partito, del popolo, dello stato. (Applausi vivissimi. Tutti si alzano).
________
2 Il gruppo fu costituito a Pietrogrado, il 1. febbraio 1921, da ventuno scrittori, tra i quali Lunts, Ivanov e Fedin. Il suo nome è quello di un’opera di Hoffman.
3 Cioè l’avanzata dei popoli orientali, che discenderebbero da Cam, figlio di Noè.
4 «Villaggio dello Zar», famoso castello, residenza estiva degli zar nelle vicinanze di Pietroburgo.
5 Letteralmente: «nullisti».
6 L’opera più famosa del poeta russo Alessandro S. Pusckin, scritta tra il 1822 e il 1831.

Edited by Sandor_Krasna - 28/1/2015, 02:36
 
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SULLA STORIA DELLA FILOSOFIA DI ALEKSANDROV


Intervento nella discussione sulla Storia della filosofia dell'Europa occidentale di G. F. Aleksandrov. Pronunciato il 24 giugno 1947 e pubblicato nella rivista Voprosi filosofii, n. 1, 1947, e poi nel Bolscevik, n. 16, 30 agosto dello stesso anno.

Compagni! La discussione sull’opera del compagno Aleksandrov non si è esaurita nei limiti del tema trattato. Essa si è sviluppata in larghezza ed in profondità, toccando anche i problemi generali della situazione sul fronte filosofico. La discussione si è trasformata, perciò, in una specie di conferenza di tutta l’U.R.S.S. sui problemi e sulla condizione dell’attività scientifica e filosofica. E ciò è del tutto naturale e legittimo. La preparazione di un manuale di storia della filosofia, del primo manuale marxista in questo campo, è un compito di enorme importanza scientifica e politica. Non è un caso, perciò, che il Comitato Centrale abbia rivolto la sua attenzione a questo problema, organizzando la presente discussione.
Preparare un buon manuale di storia della filosofia, significa armare i nostri intellettuali, i nostri quadri, la nostra gioventù, d’una nuova e potente arme ideologica, e nello stesso tempo, fare un gran passo in avanti sulla strada dello sviluppo della filosofia marxista-leninista. E’ comprensibile, perciò, che in questa sede ci si sia dimostrati tanto esigenti nei confronti del manuale. L’allargamento dei limiti della discussione si è rivelato, quindi, particolarmente utile. I suoi risultati saranno indubbiamente grandi, tanto più che qui si sono toccati non solo i problemi legati al giudizio del manuale stesso, ma anche i problemi più ampi dell’attività filosofica.
Mi permetto di trattare entrambi questi temi. Sono tuttavia lontano dal voler riassumere la discussione: questo, infatti, è compito dell’autore del libro, mentre io intervengo nel dibattito.
Chiedo scusa, anzitutto, se ricorrerò a delle citazioni, benché il compagno Baskin ci abbia raccomandato, in tutti i modi, di non farlo. Per lui, vecchio lupo di mare della filosofia, è certamente facile navigare in questi mari e in questi oceani senza strumenti di navigazione, a occhio, per intuizione, come dicono i marinai. (Ilarità). Ma sia invece permesso a me, mozzo della filosofia, che per la prima volta si azzarda sull’oscillante tolda della nave della filosofia, in un momento di fiera tempesta, mi sia permesso di usare le citazioni, come una bussola, che mi permetta di non deviare dalla giusta rotta. (Ilarità, applausi).
Passo alle osservazioni sul manuale.

I difetti dell’opera del compagno Aleksandrov
Penso che da un manuale di storia della filosofia abbiamo il diritto di esigere l’osservanza delle seguenti condizioni, che, a mio parere, sono essenziali.
Primo. Occorre che nel manuale sia esattamente definito l’oggetto della storia della filosofia in quanto scienza.
Secondo. Il manuale dev’essere scientifico, cioè basato sul fondamento degli attuali risultati del materialismo dialettico e storico.
Terzo. E’ necessario che l’esposizione della storia della filosofia non sia scolastica, ma operante in senso creativo, sia legata direttamente ai problemi dell’epoca attuale, conduca ad una chiarificazione e tracci le prospettive dell’ulteriore sviluppo della filosofia.
Quarto. Il materiale documentario impiegato dall’autore, dev’essere completamente controllato e autentico.
Quinto. Lo stile dell’esposizione dev’essere chiaro, preciso e convincente.
Ritengo che il manuale in questione non soddisfi a queste esigenze.
Consideriamo, prima di tutto, l’oggetto della scienza.
Il compagno Kivenko ha dimostrato che il manuale del compagno Aleksandrov non dà un concetto chiaro dell’oggetto della scienza e che, sebbene vi sia un gran numero di definizioni che hanno un significato particolare, non c’è una definizione esauriente e generale, poiché ogni definizione particolare illumina solo singoli lati della questione. Questa osservazione è perfettamente giusta. L’oggetto della storia della filosofia, in quanto scienza, non è definito. La definizione data a p. 14 è incompleta. La definizione data a p. 22, sottolineata dal corsivo, evidentemente perché ritenuta la definizione fondamentale, è sostanzialmente errata. Se, infatti, si consente con l’autore che «la storia della filosofia è la storia dello sviluppo graduale e ascendente delle conoscenze dell’uomo sul mondo circostante», ciò significa che l’oggetto della storia della filosofia coincide con l’oggetto della storia della scienza in generale e che la filosofia stessa, in tal caso, appare come la scienza delle scienze, il che è stato, da tempo, smentito dal marxismo.
Anche l’affermazione dell’autore, che la storia della filosofia sia anche la storia dell’origine e dello sviluppo di molte idee contemporanee, è erronea e inesatta, giacché la nozione di «contemporaneo» si identifica, in questo caso, con la nozione di «scientifico», il che è assolutamente sbagliato. Nel definire l’oggetto della storia della filosofia, bisogna partire dalle definizioni della scienza filosofica dateci da Marx e da Engels, da Lenin e da Stalin.
«Marx accolse e sviluppò questa parte rivoluzionaria della filosofia di Hegel. Il materialismo dialettico ”non ha più bisogno di nessuna filosofia che stia al di sopra delle altre scienze”. Della precedente filosofia rimane ”la dottrina del pensiero e delle sue leggi, cioè la logica formale e la dialettica”. E la dialettica, nella concezione di Marx, e anche in quella di Hegel, contiene in sé quella che oggi chiamiamo teoria della conoscenza o gnoseologia, la quale pure deve considerare il proprio oggetto storicamente, studiando e generalizzando l’origine e lo sviluppo della conoscenza, il passaggio dalla non-conoscenza alla conoscenza»2.
Per conseguenza, la storia scientifica della filosofia è la storia della concezione, dell’origine e dello sviluppo della filosofia scientifica materialistica e delle sue leggi. In quanto il materialismo è sorto e si è sviluppato nella lotta contro le correnti idealistiche, la storia della filosofia è anche la storia della lotta del materialismo contro l’idealismo.
Anche per quanto riguarda il carattere scientifico del manuale, dal punto di vista dell’utilizzazione degli attuali risultati del materialismo dialettico e storico, anche a questo proposito si notano nel manuale molti gravi errori.
L’autore presenta la storia della filosofia e il processo di sviluppo delle idee filosofiche e dei sistemi filosofici come un regolare processo evolutivo, che si sviluppa attraverso l’accumulazione di mutamenti quantitativi. Ne deriva l’impressione che il marxismo sia sorto come un semplice erede dello sviluppo delle precedenti teorie progressive e, in primo luogo, delle dottrine dei materialisti francesi, dell’economia politica inglese e della scuola idealistica di Hegel.
A p. 475, l’autore dice che le teorie filosofiche create prima di Marx e di Engels, sebbene talvolta contenessero delle grandi scoperte, non erano però completamente conseguenti e non erano scientifiche in tutte le loro deduzioni. Tale definizione differenzia il marxismo dai sistemi filosofici premarxisti solo in quanto teoria conseguente e scientifica in tutte le sue deduzioni. Di conseguenza, la differenza fra il marxismo e le dottrine filosofiche premarxiste consisterebbe solo nel fatto che quelle filosofie non erano completamente conseguenti e non erano scientifiche e che le vecchie filosofie non facevano che «sbagliare».
Come vedete, qui si tratta solo di mutamenti quantitativi. Ma questa è metafisica. Il sorgere del marxismo fu una vera e propria scoperta, una rivoluzione in filosofia. Naturalmente, anche quella scoperta, come ogni scoperta, come ogni salto, come ogni soluzione di continuità, come ogni trapasso ad un nuovo stato, non poteva aver luogo senza una preliminare accumulazione di mutamenti quantitativi e cioè, in questo caso, dei risultati dello sviluppo filosofico anteriore alla scoperta di Marx ed Engels. L’autore, evidentemente, non comprende che Marx ed Engels hanno creato una nuova filosofia, qualitativamente diversa da tutti i sistemi filosofici precedenti, anche progressivi. A tutti è noto l’atteggiamento della filosofia marxista verso tutte le filosofie precedenti e il rivolgimento che il marxismo ha portato nella filosofia, trasformandola in scienza. E’ perciò tanto più strano che l’autore concentri la sua attenzione non su ciò che appare nuovo e rivoluzionario nel marxismo, in confronto ai sistemi filosofici precedenti, ma su ciò che lo collega allo sviluppo della filosofia premarxista; mentre gli stessi Marx ed Engels dicevano che la loro scoperta significava la fine della vecchia filosofia.
«Il sistema hegeliano è stato l’ultima, la più perfetta forma della filosofia concepita come scienza particolare, che sia al di sopra di tutte le altre scienze. Insieme ad essa, tutta la filosofia ha subito un crollo. Sono rimasti solo il metodo dialettico del pensiero e la concezione di tutto il mondo naturale, storico ed intellettuale, in quanto mondo in perpetuo movimento, che si trasforma, che si trova in un processo costante di reazione e di dissoluzione. Ormai, non solo alla filosofia, ma a tutte le scienze si pone l’esigenza di scoprire le leggi del movimento di questo eterno processo di trasformazione in ogni singola parte. E in ciò si racchiude l’eredità lasciata dalla filosofia hegeliana ai suoi successori»3.
L’autore, evidentemente, non comprende il processo storico concreto dello sviluppo della filosofia.
Una delle deficienze sostanziali dell’opera, se non la più grave, è l’ignoranza del fatto che nel corso della storia non sono cambiate soltanto le opinioni su questi o quei problemi filosofici, ma è mutato costantemente il complesso stesso dei problemi, l’oggetto stesso della filosofia; il che risponde perfettamente alla natura dialettica della conoscenza umana e deve essere chiaro ad ogni vero dialettico.
A p. 24 della sua opera, esponendo la filosofia degli antichi greci, il compagno Aleksandrov scrive: «La filosofia, come campo indipendente della conoscenza, sorse nella società schiavista dell’antica Grecia». E più avanti: «La filosofia, sorta nel VI sec. prima dell’era volgare, come campo particolare della conoscenza, ebbe una larga diffusione».
Ma possiamo noi parlare della filosofia degli antichi greci come di un settore particolare, differenziato della conoscenza? Assolutamente no. Le opinioni filosofiche dei greci erano connesse così strettamente alle loro opinioni di scienza naturale e politica, che noi non dobbiamo e non possiamo trasferire alla scienza greca la nostra suddivisione delle scienze, sorta in seguito, la classificazione che noi ne facciamo. In effetti, i greci conoscevano solo una scienza indifferenziata, nella quale entravano anche le rappresentazioni filosofiche. Prendiamo Democrito, Epicuro, Aristotele: essi confermano, tutti in egual misura, il pensiero di Engels, secondo cui «gli antichi filosofi greci erano nel tempo stesso investigatori della natura»4.
L’originalità dello sviluppo della filosofia consiste nel fatto che da essa, a misura che si sviluppano le conoscenze scientifiche della natura e della società, si andarono staccando, l’una dopo l’altra, le varie scienze positive. Di conseguenza, il campo della filosofia si è andato continuamente restringendo a spese dello sviluppo delle scienze positive (osserverò, a questo proposito, che tale processo non si è concluso tuttora), e questa liberazione delle scienze naturali e sociali dall’egida della filosofia ha rappresentato un processo progressivo, sia per le scienze naturali e sociali, sia per la stessa filosofia.
I creatori dei sistemi filosofici del passato, i quali pretendevano che si potesse conoscere la verità assoluta in una istanza definitiva, non potevano tuttavia favorire lo sviluppo delle scienze naturali, poiché le imprigionavano nei loro schemi, tentavano di mettersi al di sopra della scienza, imponevano alla viva conoscenza umana conclusioni dettate non dalla vita reale ma dalle esigenze di un sistema. In queste condizioni, la filosofia si trasformava in un museo, in cui si trovavano ammassati i fatti, le deduzioni, le ipotesi più eterogenee e anche semplicemente le fantasticherie. Se la filosofia poteva pur servire all’indagine, alla meditazione, essa era inadatta come strumento di intervento pratico sul mondo, come strumento di conoscenza del mondo.
L’ultimo sistema di questo genere fu il sistema di Hegel, il quale si sforzò di erigere un edificio filosofico che raccogliesse sotto di sé tutte le scienze, costringendole nel letto di Procuste delle sue categorie, e, credendo di aver superato tutte le contraddizioni, cadde in una contraddizione senza via di uscita, col metodo dialettico, da lui stesso intuito, ma non compreso e, perciò, male applicato.
Ma «non appena abbiamo scorto… che il compito posto in questo modo alla filosofia non vuol dire altro se non che un singolo filosofo deve realizzare ciò che può essere realizzato soltanto dall’intero genere umano nel suo sviluppo progressivo — ha detto Engels — non appena scorgiamo questo, la filosofia intera, nel senso che finora si è dato a questa parola, è finita. Si lascia correre la ”verità assoluta”, che per questa via e da ogni singolo isolatamente non può essere raggiunta, e si dà la caccia, invece, alle verità relative accessibili per la via delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a mezzo del pensiero dialettico»5.
La scoperta di Marx ed Engels costituisce la fine della vecchia filosofia, cioè la fine di quella filosofia che pretendeva di poter dare una spiegazione universale del mondo.
Le confuse formulazioni dell’autore, ponendo l’accento su ciò che legava Marx ai filosofi precedenti e non mostrando, invece, che con Marx comincia un periodo completamente nuovo della storia della filosofia, che per la prima volta è diventata una scienza, attenuano la grandissima importanza rivoluzionaria della geniale scoperta filosofica di Marx e di Engels.
In stretta connessione con questo errore, nel manuale ci si diffonde in una trattazione non marxista della storia della filosofia, intesa come sostituzione graduale di una scuola filosofica ad un’altra. Con l’apparizione del marxismo, quale concezione scientifica del mondo propria del proletariato, finisce il vecchio periodo della storia della filosofia, il periodo in cui la filosofia era occupazione di singoli, patrimonio di scuole filosofiche composte da un piccolo numero di filosofi e dai loro discepoli, chiusi in se stessi, staccati dalla vita, dal popolo, estranei al popolo.
Il marxismo non è una scuola filosofica di questo genere. Al contrario, è il superamento della vecchia filosofia che era patrimonio di pochi eletti, dell’aristocrazia dello spirito, e segna l’inizio di un periodo completamente nuovo nella storia della filosofia, in cui questa diviene un’arme scientifica nelle mani delle masse proletarie, che lottano per la loro liberazione dal capitalismo.
La filosofia marxista, a differenza dei precedenti sistemi filosofici, non è una scienza sopra le altre scienze, ma costituisce uno strumento d’indagine scientifica, un metodo che penetra tutte le scienze della natura e della società e si arricchisce dei risultati di queste scienze nel corso del loro sviluppo. In questo senso, la filosofia marxista è la più completa e decisa negazione di tutta la filosofia antecedente. Ma negare, come sottolineava Engels, non significa semplicemente dire «no». La negazione racchiude in sé una successione, significa assorbimento, rielaborazione critica, e unione, in una nuova, più elevata sintesi, di tutto ciò che di progressivo e di avanzato è stato già raggiunto nella storia del pensiero umano.
Ne consegue che la storia della filosofia, in quanto esiste il metodo dialettico marxista, deve comprendere in sé la storia della preparazione di questo metodo, dimostrare che cosa ha creato le condizioni del suo sorgere. Nell’opera di Aleksandrov manca la storia della logica e della dialettica, non è indicato il processo di sviluppo delle categorie logiche come riflesso della prassi umana; per ciò stesso, l’affermazione di Lenin, citata nell’introduzione del libro che ogni categoria della logica dialettica deve essere considerata come un punto chiave della storia del pensiero umano, resta sospesa in aria.
Del tutto ingiustificato è che, nel manuale, la storia della filosofia venga trattata solo fino al momento dell’apparizione della filosofia marxista, ossia fino al 1848. Un manuale che non tratta della storia della filosofia dell’ultimo secolo, evidentemente non può essere considerato un manuale. La ragione per cui l’autore ha liquidato così spietatamente questo periodo resta oscura e non è spiegata né nella prefazione né nell’introduzione.
Anche l’esclusione, dal manuale, della storia dello sviluppo della filosofia russa non è stata per nulla giustificata. Non c’è bisogno di dimostrare che questa lacuna riveste un carattere di principio. Quali che siano i motivi che hanno determinato l’autore ad escludere la storia della filosofia russa da una storia universale della filosofia, l’averne taciuto rappresenta, oggettivamente, una diminuzione della funzione della filosofia russa e una divisione artificiosa della storia della filosofia in storia della filosofia dell’Europa occidentale e storia della filosofia russa; e inoltre l’autore non fa alcun tentativo per spiegare la necessità di tale divisione. Essa perpetua la divisione borghese della cultura in «occidentale» e «orientale» e considera il marxismo come una corrente della parte occidentale. Inoltre, a p. 6 dell’introduzione, l’autore difende con calore la tesi opposta, insistendo nel dire che «senza aver studiato attentamente e senza aver assimilato la profonda critica dei sistemi filosofici del passato, fatta dai classici della filosofia russa, non ci si può formare una concezione scientifica del processo di sviluppo del pensiero filosofico nei paesi dell’Europa occidentale». Perché l’autore non ha concretato questa giusta tesi nel suo manuale? Tale tesi rimane del tutto incomprensibile, e, insieme all’arbitraria limitazione al 1848 dell’esposizione della storia della filosofia, lascia un’impressione penosa.
I compagni che sono intervenuti hanno giustamente indicato anche delle lacune nell’esposizione della storia della filosofia occidentale.
E’ chiaro che anche per questa ragione il manuale ha bisogno di un radicale rifacimento.
Alcuni compagni hanno sottolineato che l’introduzione del manuale, che evidentemente deve rappresentare il «credo» dell’autore, definisce giustamente i compiti ed i metodi di indagine dell’oggetto, ma che l’autore non ha adempiuto alle sue promesse. Io penso che questa critica sia insufficiente, in quanto l’introduzione stessa è erronea e non regge alla critica. Ho già parlato dell’erronea ed imprecisa definizione dell’oggetto della storia della filosofia. Ma non basta. Nell’introduzione sono anche altri errori teorici. I compagni hanno già detto, qui, che, nell’esposizione dei fondamenti della storia della filosofia marxista-leninista, il richiamo a Cerniscevski, Dobroliubov e Lomonossov, i quali, naturalmente, non hanno una diretta relazione con l’argomento, è molto sforzato. Ma la questione, tuttavia, non sta solo in questo. Le citazioni che l’autore trae dalle opere di questi grandi scienziati e filosofi russi sono evidentemente scelte male: le tesi teoriche in esse contenute sono, da un punto di vista marxista, erronee, e direi anche dannose. Dicendo ciò, non ho la minima intenzione di gettare un’ombra qualsiasi sugli autori di quelle citazioni, giacché queste citazioni sono state scelte arbitrariamente e si riferiscono a motivi che non hanno nulla in comune con quelli supposti dall’autore. In realtà, l’autore cita Cerniscevski per dimostrare che i fondatori dei vari, se pur contrapposti, sistemi filosofici devono avere un atteggiamento conciliante tra di loro.
Permettetemi di riportare la citazione tratta da Cerniscevski: «I continuatori dell’attività scientifica insorgono contro i loro predecessori, le opere dei quali hanno servito da punto di partenza per le loro stesse opere. Così Aristotele è stato ostile verso Platone, così Socrate ha immensamente svalutato i sofisti, di cui è stato il continuatore. Anche nell’epoca moderna vi sono molti esempi del genere. Ma avvengono talvolta dei casi consolanti, in cui i fondatori di un nuovo sistema comprendono chiaramente il legame fra le loro opinioni e le idee espresse dai loro predecessori, e modestamente si dicono loro allievi: dei casi in cui, accorgendosi dell’insufficienza delle concezioni dei loro predecessori, nel contempo, essi dicono chiaramente quanto tali concezioni abbiano contribuito allo svolgimento del proprio pensiero. Tale fu, ad esempio, l’atteggiamento di Spinoza verso Cartesio. Ad onore dei fondatori della scienza contemporanea, si deve riconoscere che essi guardano con venerazione, e quasi con amor filiale, ai loro predecessori, riconoscono completamente la grandezza del loro genio ed il nobile carattere della loro dottrina, in cui additano il germe delle loro proprie concezioni» (pp. 6-7 dell’opera del compagno Aleksandrov).
Dato che l’autore fa questa citazione senza riserve, essa evidentemente rappresenta il suo proprio punto di vista. Se è così, l’autore si mette effettivamente sulla strada della rinuncia al principio della partiticità in filosofia, che è proprio del marxismo-leninismo. E’ nota la passione e l’intransigenza con cui il marxismo-leninismo ha sempre condotto e conduce una lotta accanitissima contro tutti i nemici del materialismo. In questa guerra i marxisti-leninisti sottopongono i propri avversari ad una critica demolitrice. Un esempio di lotta bolscevica contro gli avversari del materialismo è l’opera di Lenin Materialismo ed empiriocriticismo, in cui ogni parola di Lenin è una spada che colpisce, che distrugge l’avversario. «La genialità di Marx ed Engels consiste proprio nel fatto — dice Lenin — che nel corso di un periodo assai lungo, di quasi mezzo secolo, essi hanno sviluppato il materialismo, hanno fatto progredire una tendenza fondamentale della filosofia, non si sono fermati a ripetere le questioni gnoseologiche già risolte, ma hanno sviluppato conseguentemente e dimostrato come bisognasse sviluppare quello stesso materialismo nel campo delle scienze sociali, spazzando via inesorabilmente, come rifiuti e assurdità, le filastrocche ampollose e presuntuose, gli innumerevoli tentativi di ”scoprire” una ”nuova” linea in filosofia, di escogitare una ”nuova” corrente, ecc.».
«Prendete infine — scrive poi Lenin — le singole osservazioni filosofiche di Marx nel Capitale e in altre opere. Vedrete un motivo fondamentale immutabile: l’insistenza nel materialismo e una sprezzante ironia per ogni annebbiamento, per ogni confusione, per ogni regresso verso l’idealismo. Secondo il punto di vista della filosofia accademica, tutte le osservazioni filosofiche di Marx si aggirano tra queste due antitesi radicali, e il loro difetto consisterebbe appunto in questa loro ”angustia” e ”unilateralità”»6.
Lenin stesso, come è noto, non risparmia i suoi avversari. Nel tentativo di attenuare e conciliare le contraddizioni tra le varie tendenze filosofiche, Lenin ha visto sempre soltanto una manovra della filosofia accademica reazionaria. Come ha potuto il compagno Aleksandrov, dopo tutto questo, presentarsi nel suo manuale come il banditore di un vegetarianismo sdentato nei riguardi degli avversari filosofici, rendendo incondizionato omaggio al pseudoggettivismo accademico, mentre il marxismo è sorto, si è sviluppato e ha vinto in una lotta spietata contro tutti i rappresentanti della corrente idealistica? (Applausi).
Il compagno Aleksandrov non si limita a ciò. Egli segue coerentemente la sua concezione oggettivistica in tutto il contenuto del manuale. Non è un caso, perciò, che il compagno Aleksandrov, prima di criticare qualsiasi filosofo borghese, renda «omaggio» ai suoi servizi, bruciandogli un po’ di incenso. Prendete, ad esempio, la teoria di Fourier sulle quattro fasi di sviluppo dell’umanità.
Un grande risultato della filosofia sociale di Fourier — dice il compagno Aleksandrov — è «la teoria dello sviluppo dell’umanità. Nel corso del suo sviluppo l’umanità, secondo Fourier, attraversa quattro fasi: 1) distruzione ascendente; 2) armonia ascendente; 3) armonia decrescente; 4) distruzione decrescente. Nell’ultimo stadio, l’umanità attraversa un periodo di decrepitezza, dopo il quale cessa ogni vita sulla terra. Dato che lo sviluppo della società si realizza indipendentemente dal desiderio degli uomini, lo stadio superiore di sviluppo subentra altrettanto inevitabilmente che l’avvicendarsi delle stagioni. Da questa tesi Fourier deduceva l’inevitabile sostituzione dell’ordine borghese con una società in cui avrebbe regnato il lavoro libero e collettivo. In verità, la teoria di Fourier sullo sviluppo della società era limitata a quattro fasi, ma per quell’epoca essa rappresentò un gran passo avanti»7.
Qui non c’è neppure una traccia di analisi marxista. In confronto a che cosa la teoria di Fourier rappresentava un gran passo avanti? Se la sua limitatezza consisteva nel fatto che essa parlava di quattro fasi nello sviluppo dell’umanità e la quarta fase rappresentava una distruzione decrescente, dopo cui cessava ogni vita sulla terra, come si spiega ciò che l’autore dice di Fourier, che, cioè, la sua teoria dello sviluppo della società sarebbe limitata a sole quattro fasi, mentre come quinta fase per l’umanità poteva esserci solo la vita d’oltretomba?
Il compagno Aleksandrov trova l’occasione per dire una buona parola su quasi tutti i vecchi filosofi. Quanto più un filosofo borghese è rinomato, tanto più lo si incensa. Tutto ciò porta il compagno Aleksandrov a trovarsi prigioniero, forse senza neppure sospettarlo, degli storici borghesi della filosofia, i quali partono dal punto di vista che in ogni filosofo c’è innanzi tutto un alleato nella comune professione e solo dopo c’è un avversario. Tali concezioni, qualora si sviluppassero da noi, ci condurrebbero inevitabilmente all’oggettivismo, al servilismo verso i filosofi borghesi e all’esagerazione dei loro meriti; a privare, insomma, la nostra filosofia del suo spirito combattivo e offensivo. E ciò significherebbe una rinunzia al principio fondamentale del materialismo: di essere una tendenza di partito. Eppure Lenin ci ha insegnato che «il materialismo include in sè, per così dire, il carattere di partito, costringendo, in ogni valutazione degli avvenimenti, a mettersi apertamente, dichiaratamente, dal punto di vista di un determinato gruppo sociale»8. L’esposizione delle concezioni filosofiche viene fatta, nel manuale, in modo astratto, oggettivistico, neutrale. Nell’opera, le scuole filosofiche vengono presentate l’una dopo l’altra o l’una a fianco dell’altra, non già in lotta l’una contro l’altra. Anche questo è un «omaggio» reso alla «tendenza» accademica, professionale. Non è un caso, evidentemente, sotto questo rapporto, che all’autore non sia riuscita affatto l’esposizione del principio della partiticità in filosofia. Come esempio di partiticità nella filosofia, l’autore cita la filosofia di Hegel, ed illustra la lotta delle filosofie contrastanti come una lotta del principio reazionario e di quello progressivo, in seno… allo stesso Hegel. Questo procedimento di dimostrazione non è solo un eclettismo oggettivistico, ma tende evidentemente a mettere in migliore luce Hegel, in quanto si vuole dimostrare, con questo mezzo, che nella sua filosofia gli elementi progressivi controbilanciano quelli reazionari. Per finire con questa questione, aggiungerò anche che il sistema raccomandato dal compagno Aleksandrov per valutare i vari sistemi filosofici: «oltre ai meriti ci sono anche i difetti» (cfr. p. 7 del suo manuale) oppure «grande importanza ha anche la teoria…», ha il difetto di un’estrema indeterminatezza, è metafisico e capace soltanto di confondere le cose. Resta incomprensibile perché il compagno Aleksandrov abbia avuto bisogno di rendere omaggio alle tradizioni della scienza accademica delle vecchie scuole borghesi e di dimenticare il postulato fondamentale del materialismo, che esige l’intransigenza nella lotta contro i propri avversari.
Ancora un’osservazione. Una rassegna critica dei sistemi filosofici deve tendere a un fine. Le opinioni e le idee filosofiche, che sono state già da tempo sconfitte e sepolte, non devono attrarre troppo l’attenzione. Al contrario, i sistemi filosofici e le idee che, nonostante il loro carattere reazionario, hanno corso attuale e vengono sfruttati dai nemici del marxismo, devono essere criticati con particolare acutezza. A questi sistemi appartiene specialmente il neokantismo, la teologia, le vecchie e nuove manifestazioni dell’agnosticismo, i tentativi di introdurre di contrabbando, nelle scienze naturali contemporanee, dio e ogni altro vecchiume, allo scopo di adattare e riverniciare, secondo le esigenze del mercato, la merce idealistica avariata. Questo è l’arsenale che attualmente viene messo in circolazione, dai filosofi lacchè dell’imperialismo, per sostenere il loro padrone spaventato.
L’introduzione contiene anche una trattazione errata della concezione delle idee e dei sistemi filosofici reazionari e progressivi. Sebbene l’autore faccia delle riserve anche sulla teoria, secondo cui il problema del carattere reazionario o progressivo di un’idea o di un sistema filosofico deve essere risolto storicamente e concretamente, egli sembra assolutamente ignorare il noto postulato del marxismo secondo cui la medesima idea, in diverse condizioni storiche concrete, può essere ora reazionaria, ora progressiva. Ignorando questo problema, lo autore apre uno spiraglio alla penetrazione di contrabbando della concezione idealistica della astoricità delle idee.
Più oltre l’autore, osservando giustamente che lo sviluppo del pensiero filosofico viene determinato in ultima analisi dalle condizioni materiali di vita della società e che esso dispone di una indipendenza solo relativa, distrugge tuttavia egli stesso questo postulato fondamentale del materialismo scientifico, separando sempre tale postulato, nell’esposizione dei vari sistemi filosofici, dalla concreta situazione storica e dalle radici sociali e di classe delle varie filosofie. Così stanno le cose, per esempio, circa l’esposizione delle teorie filosofiche di Socrate, Demostene, Spinoza, Leibniz, Feuerbach ed altri. Il che, naturalmente, non è scientifico e dà motivo di supporre che l’autore accetti il punto di vista dell’indipendenza e della astoricità dello sviluppo delle idee filosofiche, fatto che rappresenta il contrassegno distintivo della filosofia idealistica. L’assenza del legame organico tra i vari sistemi filosofici e l’ambiente concreto appare anche laddove l’autore si sforza di dare una analisi di tale ambiente. Ne risulta un legame puramente meccanico, artificiale e non vivo ed organico. Le parti ed i capitoli dell’opera, che espongono le concezioni filosofiche d’una data epoca, nonché le parti ed i capitoli dedicati all’esposizione dell’ambiente storico, si muovono su delle superfici parallele, mentre l’esposizione dei dati storici, dei legami causali fra la base e la soprastruttura, è, di solito, data in modo infelice, disattento, non fornisce una documentazione per l’analisi e spesso offre anche una cattiva informazione. Tale è, per esempio, l’introduzione al capitolo VI, intitolato La Francia del secolo XVIII, che rappresenta il record dell’incomprensibilità e non spiega affatto le fonti delle idee della filosofia francese del secolo XVIII e dell’inizio del XIX. A causa di ciò, le idee dei filosofi francesi perdono il loro legame con la loro epoca e cominciano ad apparire come un fenomeno indipendente. Permettete che citi questo passo del manuale:
«A cominciare dai secoli XVI-XVII, la Francia, seguendo l’Inghilterra, si mette gradualmente sulla via dello sviluppo borghese subendo, in un secolo, cambiamenti radicali nella economia, nella politica e nell’ideologia. Sebbene il paese fosse sempre ancora arretrato, esso tuttavia cominciava a liberarsi dalla sua limitatezza feudale. Come molti altri stati europei di quel tempo, anche la Francia entrò in un periodo di accumulazione capitalistica iniziale.
«In tutti i campi della vita sociale, si andava rapidamente formando il nuovo ordinamento sociale borghese, nasceva una nuova ideologia, una nuova cultura. In quel periodo, incomincia in Francia il rapido sviluppo di città come Parigi e Lione, Marsiglia e Le Havre, si costituisce una forte marina. Si vanno formando, una dopo l’altra, compagnie internazionali di commercio, si organizzano spedizioni militari che conquistano una serie di colonie. Il commercio si sviluppa rapidamente. Nel 1784-88 il giro del commercio estero raggiunge 1.011,6 milioni di sterline, superando di più di quattro volte il commercio del 1716-20. Favorivano lo sviluppo del commercio il trattato di Aquisgrana (1748) e il trattato di Parigi (1763). Particolarmente significativo fu il commercio librario. Così, per esempio, nel 1774 il giro del commercio librario in Francia ammontava a 45 milioni di franchi, mentre in Inghilterra era soltanto di 12-13 milioni di franchi. Nelle mani della Francia si trovava allora circa la metà della riserva aurea di tutta l’Europa. Eppure la Francia restava ancora un paese agricolo. L’immensa maggioranza della sua popolazione si occupava di agricoltura» (pp. 315-316).
Evidentemente, questa non è un’analisi, ma un semplice elenco di fatti, esposti, d’altra parte, non nel loro reciproco legame, ma uno dopo l’altro. S’intende che questi dati sulla «base» non danno, e d’altronde non possono dare, nessuna caratteristica della filosofia francese, il cui sviluppo si trova così ad essere separato dall’ambiente storico della Francia di allora.
Prendiamo ancora, come esempio, la descrizione del sorgere della filosofia idealistica tedesca, così come esso è presentato nel libro di Aleksandrov. Egli scrive: «Nel secolo XVIII e durante la prima metà del secolo XIX, la Germania era un paese arretrato, con un ordinamento politico reazionario. Vi dominavano i rapporti di servitù feudale e di corporativismo artigiano. Alla fine del secolo XVIII, la popolazione della città non raggiungeva il 25%, e nell’artigianato era occupato solo il 4% della popolazione totale. La servitù della gleba, i debiti, il diritto feudale, i privilegi di casta impedivano lo sviluppo dei rapporti capitalistici che stavano allora nascendo. Inoltre, nel paese regnava un estremo frazionamento politico».
La percentuale della popolazione delle città in Germania, che il compagno Aleksandrov cita nel suo libro, avrebbe dovuto, a suo parere, illustrare l’arretratezza di quel paese e il carattere reazionario del suo ordinamento statale e politico-sociale. Ma in Francia, nella stessa epoca, la popolazione delle città non arriva al 10% e tuttavia la Francia non era un paese feudale arretrato, quale la Germania, bensì il centro del movimento rivoluzionario borghese d’Europa. Per conseguenza, la percentuale della popolazione cittadina per se stessa non spiega ancora nulla, ma dev’essere spiegata dall’ambiente storico concreto. Anche questo è un esempio di un uso inappropriato del materiale storico, per spiegare il sorgere e lo svilupparsi delle varie forme ideologiche.
Più oltre, Aleksandrov scrive: «I maggiori ideologi della borghesia tedesca di quel tempo, Kant e poi Fichte e Hegel, nei sistemi idealistici da loro creati, espressero in forma astratta, condizionata dalla stessa limitatezza della realtà tedesca, l’ideologia della borghesia tedesca dell’epoca».
Paragoniamo questa fredda, indifferente e oggettiva esposizione dei fatti, dai quali del resto non è possibile capire le cause del sorgere dell’idealismo tedesco, con l’analisi marxista dell’ambiente di allora in Germania, esposta con uno stile vivo e battagliero che emoziona e persuade il lettore. Ecco come Engels caratterizza la situazione in Germania: «Era una massa putrescente e in decomposizione. Nessuno si sentiva a suo agio. L’artigianato, il commercio, l’industria, l’agricoltura erano ridotti a un livello insignificante. I contadini, i mercanti e gli artigiani subivano un duplice giogo: quello di un governo avido di sangue e quello della pessima situazione commerciale. La nobiltà e i principi ritenevano che i loro redditi, nonostante che essi spremessero tutto dai loro sudditi, non dovessero esser minori delle loro crescenti spese. Tutto era miserabile e nel paese regnava il malcontento generale. Non c’era istruzione, non c’erano mezzi di influire sulla coscienza delle masse, non c’era libertà di stampa, di opinione pubblica, non c’era alcun commercio degno di nota con gli altri paesi: dappertutto solo meschinità ed egoismo; tutto il popolo era pervaso da uno spirito basso, servile, detestabile, mercantile. Tutto imputridiva, vacillava, era pronto a crollare e non si poteva neppure sperare in un cambiamento benefico, perché nel popolo non c’era una forza capace di spazzar via i cadaveri in decomposizione delle istituzioni che avevano fatto il loro tempo»9.
Paragonate questa caratterizzazione di Engels, chiara, acuta, precisa, profondamente scientifica, con la caratterizzazione data da Aleksandrov e vedrete come il compagno Aleksandrov sfrutti male anche il materiale già elaborato che si trova nell’inesauribile ricchezza lasciataci dai fondatori del marxismo.
L’autore, dunque, non ha assolto il compito di utilizzare il metodo materialistico nell’esporre la storia della filosofia e ciò priva l’opera del carattere scientifico che dovrebbe avere e la trasforma quasi completamente in una illustrazione di biografie dei filosofi e dei loro sistemi, presi astrattamente dallo ambiente storico. E’ stato violato il principio del materialismo storico, il quale insegna che «bisogna indagare nei particolari le condizioni di esistenza delle varie formazioni sociali, prima di cercare di estrarne le corrispondenti concezioni politiche, giuridiche, estetiche, filosofiche, religiose, ecc.»10.
L’autore, inoltre, formula in modo non chiaro e insufficiente gli scopi dello studio della storia della filosofia. In nessun punto egli mette in rilievo che uno dei compiti fondamentali della filosofia e della sua storia è l’ulteriore sviluppo della filosofia in quanto scienza, l’introduzione di nuove leggi, la verifica dei suoi postulati nella pratica, l’abbandono dei postulati superati per dei postulati nuovi. L’autore parte, per lo più, dal significato pedagogico-educativo della storia della filosofia, dal compito di divulgazione culturale, attribuendo così a tutto lo studio della storia della filosofia un carattere passivo, contemplativo e accademico. Questo, certo, non corrisponde affatto alla definizione marxista-leninista della scienza filosofica, la quale, come ogni altra scienza, deve incessantemente svilupparsi, perfezionarsi, arricchirsi di nuovi postulati, rigettando quelli superati.
L’autore, concentrando l’attenzione sul lato divulgativo ed educativo della questione, mette, per ciò stesso, dei limiti allo sviluppo della scienza, come se il marxismo-leninismo avesse già raggiunto il suo vertice e come se il compito di sviluppare la nostra teoria non fosse più il compito principale. Questo ragionamento contraddice lo spirito del marxismo-leninismo, perché comincia a rappresentare il marxismo metafisicamente, come una dottrina compiuta e perfetta, e può portare quindi solo all’inaridimento del pensiero filosofico vivo ed indagatore.
Assai male vanno le cose, in questo manuale, anche per il modo in cui sono illustrati i problemi dello sviluppo delle scienze naturali, mentre è chiaro che non è possibile esporre una storia della filosofia astraendo da ogni legame coi progressi delle scienze naturali, senza pregiudicarne la serietà scientifica. Il manuale del compagno Aleksandrov non permette di capire le condizioni del sorgere e dello svilupparsi del materialismo scientifico, il quale nacque sulla base granitica dei risultati delle scienze naturali contemporanee.
Esponendo la storia della filosofia, Aleksandrov si è sforzato di separarla dalla storia delle scienze naturali. E’ caratteristico che nell’introduzione, in cui sono esposte le premesse fondamentali dell’opera, l’autore non faccia parola del rapporto reciproco tra filosofia e scienze naturali. Egli tace sulle scienze naturali anche quando sembrerebbe assolutamente impossibile tacerne. Così, a p. 9, l’autore scrive: «Nelle sue opere, e specialmente in Materialismo ed empiriocriticismo, Lenin ha elaborato esaurientemente ad ha portato assai avanti questa dottrina marxista della società». Parlando dell’opera Materialismo ed empiriocriticismo, il compagno Aleksandrov ha cercato di tacere dei problemi delle scienze naturali e del loro rapporto con la filosofia.
Balza agli occhi la povertà estrema, la miseria e l’astrattezza con cui viene caratterizzato il livello a cui erano giunte le scienze della natura nei vari periodi. Sulle conoscenze naturali degli antichi greci è detto che al loro tempo avviene «la nascita delle scienze della natura» (p. 26), sul periodo della tarda scolastica (XII-XIII secolo) è stato detto che allora «si ebbero molte scoperte e perfezionamenti tecnici» (p. 120).
Nello stesso punto in cui l’autore si sforza di chiarire quelle formulazioni vaghe, c’è un elenco slegato delle scoperte; inoltre nell’opera ci sono degli errori stridenti, che colpiscono per l’assoluta ignoranza che denotano nelle questioni di scienza naturale. Che cosa vale, per esempio, la descrizione dello sviluppo della scienza nel periodo del Rinascimento: «Lo scienziato Guericke costruì la sua famosa macchina pneumatica; e l’esistenza della pressione atmosferica, che mutò il concetto del vuoto, fu dimostrata empiricamente, dapprima con l’esperienza degli emisferi di Magdeburgo. Per secoli la gente discusse dove si trovasse il ”centro del mondo” e se tale si potesse ritenere il nostro pianeta. Ma ecco nella scienza Copernico e poi Galileo Galilei. Quest’ultimo dimostra l’esistenza delle macchie solari e il loro movimento. Egli vede in questo e nelle altre scoperte la conferma della teoria di Copernico sulla struttura eliocentrica del nostro sistema solare. Il barometro apprese alla gente a predire il tempo. Il microscopio mutò il sistema di congetture sulla vita dei microrganismi ed ebbe una grande importanza nello sviluppo della biologia. La bussola aiutò Colombo a dimostrare praticamente la struttura sferica del nostro pianeta» (p. 135).
Quasi tutte le affermazioni, qui, sono assurde. Come poteva la pressione atmosferica trasformare il concetto di vuoto: forse che l’esistenza dell’atmosfera nega l’esistenza del vuoto? In che modo lo spostamento della macchie solari ha confermato la teoria di Copernico?
Il concetto che il barometro predica il tempo è uno dei concetti meno scientifici. Purtroppo gli uomini non hanno imparato neppur ora a predire esattamente il tempo, cosa che voi tutti sapete bene, per l’esperienza che avete del nostro Ufficio Metereologico. (Ilarità).
Ancora. Forse che il microscopio può trasformare il sistema di congetture, e, infine, che cosa è questa «struttura sferica del nostro pianeta»? Finora sembrava che sferica potesse essere solo la forma.
Di perle analoghe a quelle che ho enumerato, nel libro di Aleksandrov ce ne sono molte.
Ma l’autore si lascia sfuggire anche degli errori più sostanziali, di principio. Così, egli ritiene (p. 357) che il metodo dialettico sia stato preparato dai successi delle scienze naturali «fin dalla seconda metà del secolo XVIII». Ciò contraddice radicalmente la nota tesi di Engels, secondo cui il metodo dialettico era stato preparato dalla scoperta della struttura cellulare dell’organismo, dalla teoria della conservazione e della trasformazione della energia, dalla dottrina di Darwin. Tutte queste scoperte sono del secolo XIX. Partendo dalla sua errata concezione, l’autore dedica grande spazio all’enumerazione delle scoperte del secolo XVIII, parla a lungo di Galvani, Laplace, Lyell, ma per quanto riguarda le tre grandi scoperte indicate da Engels, si limita a dire quanto segue: «Così, ad esempio, mentre viveva ancora Feuerbach nacque la teoria della cellula, la teoria della trasformazione dell’energia, sorse la teoria di Darwin sull’origine della specie attraverso la selezione naturale» (p. 427).
Queste sono le deficienze fondamentali dell’opera. Tralascio i difetti sporadici e di secondaria importanza, come non voglio ripetere le osservazioni critiche, assai preziose dal punto di vista teorico e pratico, che già qui sono state fatte da altri.
La conclusione è questa: che il manuale è cattivo, che occorre rifarlo da capo. Ma rifare il manuale, significa, innanzi tutto, superare le concezioni confuse e sbagliate che, evidentemente, hanno corso nell’ambiente dei nostri filosofi ed anche tra i maggiori esponenti. Ed ora passo alla seconda questione, alla questione della situazione sul nostro fronte filosofico.

La situazione sul nostro fronte filosofico
Se è accaduto che l’opera del compagno Aleksandrov ha avuto il riconoscimento della maggior parte dei nostri filosofi più influenti, è stata proposta per il premio Stalin, raccomandata come manuale e fatta oggetto di tante recensioni favorevoli, ciò vuol dire che anche gli altri studiosi di filosofia, evidentemente, condividono gli errori del compagno Aleksandrov. E ciò parla chiaro sulla situazione critica che esiste sul nostro fronte teorico.
Il fatto che l’opera non abbia suscitato nessuna protesta degna di nota, che sia occorso l’intervento del Comitato Centrale e personalmente del compagno Stalin, per rivelarne le deficienze, significa che sul fronte della filosofia mancano una critica e un’autocritica bolsceviche ben sviluppate. La mancanza di discussioni costruttive, la mancanza di critica e di autocritica non poteva non riflettersi in modo deleterio sulla situazione dell’attività filosofico-scientifica. E’ noto che la produzione filosofica è assolutamente insufficiente per quantità e debole per qualità. Le monografie e gli articoli di filosofia sono un fenomeno raro.
Qui molti hanno parlato della necessità di una rivista di filosofia. Permane però un certo dubbio sulla necessità di fondare una simile rivista. Non si è ancora cancellata dalla memoria la triste esperienza della rivista Sotto la bandiera del marxismo. Mi sembra che le possibilità attuali di pubblicazione di monografie e di articoli originali siano utilizzate in modo del tutto insufficiente.
Il compagno Svetlov ha detto, qui, che per i lettori del Bolscevik non sono del tutto adatti i lavori teorici su argomenti particolari. Io ritengo che ciò sia completamente sbagliato e derivi da una evidente sottovalutazione dell’alto livello dei nostri lettori e delle loro esigenze. Mi sembra che tali opinioni derivino da incomprensione del fatto che la nostra filosofia non è affatto patrimonio di un piccolo gruppo di filosofi professionisti, ma è patrimonio di tutti i nostri intellettuali sovietici. Decisamente non v’era nulla di male nella tradizione delle grandi riviste russe d’avanguardia, del periodo precedente la rivoluzione, le quali, a fianco di opere letterarie e artistiche, pubblicavano anche lavori scientifici e, fra essi, lavori filosofici. La nostra rivista Bolscevik rappresenta, sotto tutti i riguardi, un pubblico assai più vasto di qualsiasi rivista filosofica e mi pare che restringere il lavoro creativo dei nostri filosofi in una rivista specializzata minaccerebbe di far restringere la base della nostra attività filosofica. Vi prego di non considerarmi contrario ad una rivista, ma mi sembra che la penuria di lavori filosofici nelle nostre maggiori riviste e nel Bolscevik dimostri che bisognerebbe cominciare a superare questa deficienza innanzi tutto attraverso il Bolscevik e le nostre grandi riviste nelle quali, tuttavia, specialmente nelle maggiori, vengono pubblicati, di tanto in tanto, anche adesso, articoli di carattere filosofico, che hanno un grande interesse scientifico e sociale.
Anche gli argomenti proposti dal nostro più importante istituto filosofico, l’Istituto di filosofia dell’Accademia delle Scienze, e dalle nostre Facoltà, ecc. sono troppo aridi.
L’Istituto di filosofia ci offre, secondo me, un quadro abbastanza sconsolante: non riunisce gli studiosi della periferia, non è collegato con loro, e perciò, in realtà, non è neppure un istituto di tipo unitario. I filosofi di provincia sono abbandonati a se stessi, eppure, come vedete, essi rappresentano una grande forza, purtroppo inutilizzata. Gli argomenti dei lavori filosofici, compresi quelli dei lavori per i concorsi scientifici, sono rivolti al passato, a temi storici già risolti e di minor responsabilità, come, ad esempio, L’eresia di Copernico nel passato e nel presente. (Animazione nella sala). Ciò porta alla nota rinascita della scolastica. Da questo punto di vista, la discussione su Hegel che si è avuta qui, è strana. I partecipanti a questa discussione sfondano delle porte aperte. La questione di Hegel è già da tempo risolta. Non c’è nessuna ragione di porla nuovamente, né sono stati portati qui dei nuovi materiali, oltre a quelli già sceverati e valutati. La discussione stessa è spiacevolmente scolastica e tanto poco produttiva, quanto lo è stata a suo tempo, in certi ambienti, la questione se avesse ragione la setta dei vecchi credenti o la chiesa ortodossa11, o la questione se dio potesse creare una pietra che non fosse poi capace di sollevare o se la madonna fosse vergine. (Ilarità). I problemi attuali del nostro tempo non vengono quasi neppur elaborati. Tutto ciò, preso insieme, è gravido di grandi pericoli, assai maggiori di quello che vi immaginate. La maggior minaccia sta nel fatto che una certa parte di voi s’è già assuefatta a queste deficienze.
Nell’attività filosofica non si sente né uno spirito combattivo, né un ritmo bolscevico. In questa luce, certe tesi errate del manuale riecheggiano dei fatti di arretratezza su tutto il resto del fronte della filosofia, che rappresentano, così, non un fatto singolo, casuale, ma un vero e proprio fenomeno. Qui si adopera spesso l’espressione «fronte della filosofia». Ma, a dire il vero, dov’è questo fronte? Il fronte della filosofia non assomiglia affatto alla nostra concezione di un fronte. Quando si parla di fronte della filosofia, sorge subito l’immagine di una schiera organica di filosofi militanti, armati a perfezione della teoria marxista, i quali conducano una vasta offensiva contro le ideologie straniere avversarie e contro i residui dell’ideologia borghese nella coscienza del popolo sovietico all’interno del nostro paese, che facciano progredire instancabilmente la nostra scienza, armino i lavoratori della società socialista con la coscienza della legittimità del nostro cammino e con la convinzione, scientificamente fondata, della vittoria finale della nostra causa.
Ma il nostro fronte filosofico somiglia forse a un vero fronte? Esso ricorda piuttosto un placido golfo o un bivacco lontano dal campo di battaglia. Il campo di battaglia non è stato ancora occupato, non c’è ancora stata quasi affatto una presa di contatto col nemico, non si effettua la ricognizione, le armi arrugginiscono, i combattenti lottano a proprio rischio e pericolo e i comandanti o si inebriano delle passate vittorie o discutono se bastino o meno le forze per l’offensiva, se non si debba chiedere aiuto all’esterno o quanto la coscienza possa essere in ritardo sull’esistenza per non sembrare troppo indietro. (Ilarità).
Nel tempo stesso, però, il nostro partito ha estremo bisogno d’una ascesa dell’attività filosofica. I rapidi mutamenti che ogni giorno arreca alla nostra esistenza socialista non vengono generalizzati dai nostri filosofi, non vengono illuminati dal punto di vista della dialettica marxista. In tal modo, si rendono più difficili le condizioni per un ulteriore sviluppo della nostra scienza filosofica e la situazione si mette in maniera tale, che lo sviluppo del pensiero filosofico prosegue, in notevole misura, prescindendo dai nostri filosofi professionisti. Ciò è assolutamente inammissibile.
Certo, la causa dell’arretratezza sul fronte della filosofia non è legata a nessuna condizione oggettiva. Le condizioni oggettive sono favorevoli come non mai, il materiale che aspetta un’analisi scientifica e una generalizzazione è infinito. Le cause dell’arretratezza sul fronte filosofico si devono ricercare nel campo soggettivo. Queste cause sono fondamentalmente le stesse che il Comitato Centrale ha scoperto, analizzando l’arretratezza in altri settori del fronte ideologico.
Come ricorderete, le note risoluzioni del Comitato Centrale sui problemi ideologici erano dirette contro l’assenza di contenuto ideologico e l’apoliticità nella letteratura e nell’arte, contro il distacco dagli argomenti attuali e il ritorno al passato, contro la tendenza verso argomenti stranieri, in favore dello spirito combattivo e di partito nella letteratura e nell’arte. E’ noto che molte schiere di lavoratori del nostro fronte ideologico hanno già tratto le necessarie deduzioni dalle risoluzioni del Comitato Centrale e su questa strada hanno raggiunto notevoli successi.
I nostri filosofi, invece, questa volta sono rimasti indietro. A quanto pare, essi non notano i fenomeni di mancanza di contenuto ideologico e di apoliticità che hanno luogo nell’attività filosofica, i fenomeni di trascuranza di argomenti attuali, i fenomeni di servilismo, di remissività nei confronti della filosofia borghese. A quanto pare, essi ritengono che la svolta sul fronte ideologico non li riguardi. Ma adesso è chiaro a tutti che questa svolta è necessaria.
Se il fronte filosofico non procede tra le prime file dell’attività ideologica, una notevole parte di colpa ricade anche sul compagno Aleksandrov. Purtroppo, egli non possiede la capacità di scoprire con acutezza critica le insufficienze del lavoro. Egli sopravvaluta, evidentemente, le sue forze, poiché non si appoggia all’esperienza e alle conoscenze del largo complesso dei nostri filosofi. Inoltre, egli si appoggia troppo, nel suo lavoro, alla ristretta cerchia dei suoi collaboratori più immediati e degli ammiratori del suo talento. (Esclamazioni: «Giusto!». Applausi). L’attività filosofica si è trovata, così, come monopolizzata nelle mani di un piccolo gruppo di filosofi, mentre la maggior parte di essi, specialmente di quelli di provincia, non sono stati portati a un lavoro direttivo.
Così sono stati violati i giusti rapporti che dovrebbero intercorrere tra i filosofi.
Ora, è evidente a tutti che la preparazione di opere come il manuale di storia della filosofia non è lavoro che possa venir fatto da una sola persona e che il compagno Aleksandrov avrebbe dovuto, fin dal principio, attrarre un’ampia cerchia di collaboratori: specialisti del materialismo dialettico e del materialismo storico, storici, studiosi di scienze naturali, economisti. Il compagno Aleksandrov ha scelto invece una strada sbagliata per compilare il suo manuale, perché non s’è appoggiato a un’ampia cerchia di competenti. E’ necessario correggere questo errore. Da noi, le conoscenze filosofiche sono patrimonio del largo complesso dei filosofi sovietici. Il metodo di attrarre una ampia cerchia di autori nella compilazione di manuali viene ora applicato integralmente nella redazione del manuale di economia politica, che dovrà esser pronto al più presto e alla cui redazione sono stati chiamati a lavorare larghi ambienti non solo di economisti, ma anche di storici e di filosofi. Questo modo di comporre le opere è il più sicuro. Esso è dettato anche da un altro motivo, dall’idea di riunire gli sforzi delle varie schiere di lavoratori ideologici, che oggi sono insufficientemente legati tra loro, per la soluzione dei grandi compiti che hanno un’importanza scientifica generale, allo scopo di organizzare, così, una collaborazione reciproca fra i lavoratori dei vari campi dell’ideologia, di farli avanzare non separatamente, chi in un senso e chi in un altro, e quindi inefficacemente, ma in modo organizzato, compatto, coerente, con la massima garanzia di successo.
Tuttavia, in che cosa consistono le radici degli errori soggettivi d’una serie di dirigenti del fronte filosofico? Perché qui, in questa discussione, i rappresentanti dei filosofi della vecchia generazione hanno rivolto un giusto rimprovero a certi giovani, a causa del loro prematuro invecchiamento, a causa dell’insufficienza, in loro, di tono combattivo, di spirito combattivo? Evidentemente la risposta a questa domanda non può essere che una: l’insufficiente approfondimento dei fondamenti del marxismo-leninismo e la presenza di residui dell’influsso dell’ideologia borghese. Ciò si manifesta anche nel fatto che molti nostri studiosi non capiscono ancora che il marxismo-leninismo è una dottrina viva e creativa, che si sviluppa ininterrottamente, che ininterrottamente si arricchisce, sulla base dell’esperienza dell’edificazione socialista e dei successi della scienza naturale contemporanea. Una simile sottovalutazione di questo lato vivo e rivoluzionario della nostra dottrina non può non portare ad un abbassamento della filosofia e della sua funzione. Proprio nell’insufficienza di combattività e di spirito di lotta si deve ricercare la causa della paura, che hanno certi nostri filosofi, di provare le loro forze nei problemi nuovi, nei problemi della nostra epoca, nella soluzione dei compiti che la pratica pone quotidianamente e ai quali i filosofi hanno il dovere di rispondere. E’ giunto il momento di far progredire più audacemente la teoria della società sovietica, la teoria dello stato sovietico, la teoria delle scienze naturali contemporanee, l’etica e l’estetica. Bisogna finirla con la vigliaccheria, che non è una cosa bolscevica. Tollerare una stasi nello sviluppo della teoria significherebbe inaridire la nostra filosofia, privarla della sua caratteristica più preziosa, della sua capacità di sviluppo, trasformarla in un dogma arido e morto.
La questione della critica e dell’autocritica bolsceviche è, per i nostri filosofi, una questione non solo pratica ma anche profondamente teorica.
Se il contenuto profondo del processo di sviluppo, come ci insegna la dialettica, è dato dalla lotta dei contrari, dalla lotta tra il vecchio ed il nuovo, tra ciò che agonizza e ciò che nasce, tra ciò che ha fatto il suo tempo e ciò che sta ora sviluppandosi, la nostra filosofia sovietica deve mostrare come agisce questa legge della dialettica nelle condizioni della società socialista e in che cosa consista l’originalità della sua applicazione. Sappiamo che in una società divisa in classi, questa legge agisce in modo diverso che nella nostra società sovietica. Ecco in che cosa consiste il vastissimo campo aperto all’indagine scientifica, un campo che nessuno dei nostri filosofi ha toccato. E, d’altra parte, il nostro partito, ha già trovato da tempo e messo al servizio del socialismo quella particolare forma di scoperta e di superamento delle contraddizioni della società socialista (perché queste contraddizioni esistono ed i filosofi non vogliono scriverne solo per viltà), quella particolare forma di lotta fra il vecchio e il nuovo, fra ciò che agonizza e ciò che nasce nella nostra società sovietica, che si chiama appunto critica ed autocritica.
Nella nostra società sovietica, in cui sono state liquidate le classi antagonistiche, la lotta fra il vecchio e il nuovo e, per conseguenza, lo sviluppo dal basso in alto, non avviene in forma di lotta fra classi antagonistiche, di cataclismi, come succede in regime capitalista, bensì nella forma della critica e autocritica, che sono l’autentica forza motrice del nostro sviluppo, un potente strumento nelle mani del partito. Questo è, indiscutibilmente, un nuovo tipo di movimento, un nuovo tipo di sviluppo, una nuova legge dialettica.
Marx disse che i filosofi di un tempo non facevano che spiegare il mondo, mentre oggi il problema sta nel cambiarlo. Noi abbiamo cambiato il vecchio mondo e ne abbiamo edificato uno nuovo; ma i nostri filosofi, purtroppo, spiegano in modo insufficiente questo nuovo mondo e anche in modo insufficiente partecipano al suo mutamento. Abbiamo assistito qui ad alcuni tentativi di spiegare «teoricamente», per così dire, le cause di questa posizione arretrata. Si è detto, ad esempio, che i filosofi si sono fermati troppo su una fase di commento e che, per conseguenza, non sono passati tempestivamente al periodo delle ricerche monografiche. Questa spiegazione, naturalmente, è assai benevola, ma poco convincente. Oggi, certo, il lavoro creativo dei filosofi dev’essere messo al vertice, ma ciò non significa che non si debba svolgere un’attività di commento e più propriamente divulgativa. Anche di questa ha bisogno il nostro popolo.
Bisogna affrettarsi a ricuperare il tempo perduto. I nostri compiti non possono attendere. La luminosa vittoria che il socialismo ha riportato nella grande guerra patria, e che è anche una luminosa vittoria del marxismo, è come un osso nella gola degli imperialisti. Oggi, il centro della lotta contro il marxismo si è trasferito in America e in Inghilterra. Tutte le forze dell’oscurantismo e della reazione sono oggi al servizio della lotta contro il marxismo. Per armare la filosofia borghese, serva della democrazia del dollaro e della bomba atomica, vengono riesumati e riadoperati i più consunti ritrovati dell’oscurantismo e del clericalismo, il Vaticano e la teoria razzista, il nazionalismo sfrenato e la più sorpassata filosofia idealistica, la venale stampa gialla e la corrotta arte borghese. Ma le forze, a quanto pare, non bastano. Sotto la bandiera della lotta «ideologica» contro il marxismo, si reclutano oggi delle riserve sempre più larghe. Vengono arruolati i gangster, i lenoni, le spie, i delinquenti comuni. Voglio fare un esempio recente. Come il giornale Izvestia ha comunicato in questi giorni, la rivista Temps Modernes, diretta dall’esistenzialista Sartre, ha esaltato come una nuova rivelazione l’opera dello scrittore giallo Jean Genet, Il diario di un ladro, che comincia nel seguente modo: «Il tradimento, il furto e l’omosessualità: ecco i miei argomenti fondamentali. Esiste un legame organico tra l’attrazione che provo per il tradimento, le imprese ladresche e le mie avventure amorose». L’autore, evidentemente, sa il fatto suo. Le opere teatrali di questo Jean Genet vengono rappresentate con gran chiasso sulle scene parigine, mentre egli viene insistentemente invitato in America. Questa è l’«ultima parola» della filosofia borghese.
L’esperienza della nostra vittoria sul fascismo ci ha già dimostrato in quale vicolo cieco la filosofia idealistica ha condotto interi popoli. Oggi essa si presenta nella sua nuova natura, sudicia e ripugnante, che dimostra l’abisso, la bassezza e la meschinità in cui è caduta la borghesia. I lenoni e i delinquenti comuni nella filosofia: è questo davvero il limite del crollo e della decomposizione. Tuttavia queste forze sopravvivono ancora, sono ancora capaci di avvelenare la coscienza delle masse.
La scienza borghese contemporanea rifornisce il clero, il fideismo, di nuove argomentazioni che si debbono smascherare, senza pietà. Prendiamo ad esempio la teoria dell’astronomo inglese Eddington sulle costanti fisiche del mondo, la quale conduce direttamente alla mistica pitagorica dei numeri e dalle formule matematiche estrae delle «costanti essenziali» del mondo quale l’apocalittico numero 666, ecc. Senza capire il corso dialettico della conoscenza, il reciproco rapporto tra verità assoluta e verità relativa, molti seguaci di Einstein, trasferendo i risultati dell’indagine delle leggi del movimento dal campo finito, limitato dell’universo a tutto l’universo infinito, discutono della finitezza del mondo, della sua limitatezza nel tempo e nello spazio. L’astronomo Milne ha perfino «calcolato» che il mondo è stato creato due miliardi di anni fa. A questo scienziato inglese si possono forse applicare le parole del suo grande conterraneo, il filosofo Bacone, il quale diceva che gli scienziati trasformano l’impotenza della loro scienza in una calunnia contro la natura.
In ugual misura, taluni attuali fisici atomici della borghesia giungono, nei loro rigurgiti kantiani, a conclusioni sulla «libertà di volere» dell’elettrone, a tentativi di raffigurare la materia solo come una specie di complesso di onde, e ad altre simili diavolerie.
Qui è aperto un campo colossale di attività per i nostri filosofi, i quali debbono analizzare e generalizzare i risultati delle scienze naturali contemporanee, rammentando l’indicazione di Engels, secondo cui il materialismo «ad ogni scoperta che fa epoca nelle scienze naturali deve cambiare la sua forma»12.
A chi, se non a noi, al paese del marxismo vittorioso e ai suoi filosofi, spetta di dirigere la lotta contro la degenerata e ripugnante ideologia borghese? Chi, se non noi, deve inferirle colpi mortali?
Dalle ceneri della guerra sono nati gli stati della nuova democrazia ed il movimento di liberazione nazionale dei popoli coloniali. Il socialismo è all’ordine del giorno nella vita dei popoli. A chi, se non a noi, al paese del socialismo vittorioso e ai suoi filosofi, è dato il compito di aiutare i nostri amici e fratelli stranieri a illuminare la loro lotta per una nuova società con la luce della conoscenza del socialismo scientifico? A chi, se non a noi, è dato il compito di istruirli ed armarli dell’arme ideologica del marxismo?
Nel nostro paese si verifica il potente sviluppo dell’economia e della cultura socialista. L’incessante ascesa della coscienza socialista delle masse pone sempre nuove esigenze alla nostra attività ideologica. Si svolge un’ampia offensiva contro i residui del capitalismo nella coscienza umana. A chi, se non ai nostri filosofi, è dato il compito di dirigere le file di coloro che lavorano sul fronte ideologico, di applicare in misura completa la teoria marxista della conoscenza, generalizzando l’enorme esperienza dell’edificazione socialista e risolvendo i nuovi problemi del socialismo?
Davanti a questi grandi compiti ci si potrebbe chiedere: sono capaci i nostri filosofi di assumersi questi compiti? Sono pronte le armi della filosofia? Non s’è indebolita la forza della filosofia? Sono capaci i nostri quadri scientifici e filosofici di superare con le loro forze interiori le insufficienze del loro sviluppo e di riorganizzare il loro lavoro in modo nuovo? Su questa questione, non ci possono essere divergenze. La discussione filosofica ha dimostrato che queste forze ci sono, che queste forze sono notevoli, che queste forze sono in grado di scoprire i propri errori allo scopo di superarli. Soltanto, bisogna avere più fiducia nelle proprie forze, bisogna sperimentare più spesso queste forze in combattimenti attivi, nell’impostazione e nella soluzione dei problemi attuali più scottanti. Bisogna finirla con il ritmo non combattivo nel lavoro, bisogna scrollarsi di dosso il vecchio Adamo e ricominciare a lavorare come lavoravano Marx, Engels, Lenin, come lavora Stalin. (Applausi).
Compagni, ricorderete certo che Engels, a suo tempo, si rallegrava e rilevava come un grande avvenimento politico di enorme importanza l’uscita d’un opuscolo marxista nella tiratura di due o tremila esemplari. Da questo fatto, che per le proporzioni in cui lavoriamo noi è insignificante, Engels traeva la conclusione che la filosofia marxista aveva messo profonde radici nella classe operaia. E che cosa dire, allora, della penetrazione della filosofia marxista nei larghi strati del nostro popolo? E che cosa avrebbero detto Marx e Engels se avessero saputo che le opere filosofiche si diffondono, da noi, tra il popolo, a decine di milioni di esemplari? Questo è un vero trionfo del marxismo, una prova viva del fatto che la grande dottrina di Marx-Engels-Lenin-Stalin è diventata, da noi, la dottrina di tutto il popolo e che la nostra filosofia deve fiorire su questa base, che non ha uguali nel mondo. Siate degni della nostra epoca, dell’epoca di Lenin-Stalin, dell’epoca del nostro popolo, del popolo vincitore! (Applausi vivissimi, prolungati).

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2 Cfr. Lenin, Carlo Marx, Edizioni Rinascita, Roma, 1947, p. 17.
3 Cfr. F. Engels, Anti-Dühring, Literaturvertrieb, Zurigo, 1941, pp. 30-31.
4 Cfr. F. Engels: "Dialektik der Natur", in Marx-Engels Gesamtausgabe, vol. a parte, p. 667.
5 Cfr. F. Engels, Ludwig Feuerbach, Edizioni in lingue estere, Mosca, 1947, p. 13.
6 Cfr. Lenin, Opere complete, III ediz. russa, Mosca-Leningrado, 1931-1937, vol. XIII, pp. 275-276.
7 Cfr. G. F. Aleksandrov, Storia della filosofia dell’Europa occidentale, ediz. in lingua russa, pp. 353-354.
8 Cfr. Lenin, "Il contenuto economico del populismo e la sua critica nel libro del signor Struve", Opere complete, vol. I, p. 276.
9 Da un articolo di Engels scritto alla fine del 1845 per il Northern Star, compreso nel Gesamtausgabe I, 4.
10 Cfr. la lettera di F. Engels a K. Schmidt del 5 agosto 1890.
11 Letteralmente: tra i dvoeperstie e i troeperstie (quelli delle due dita e quelli delle tre dita). Allusione alla controversia che staccò un gruppo di fedeli dalla chiesa ortodossa, per disaccordo sulla questione se si dovesse benedire e fare la croce con due, o con tre dita.
12 Cfr. F. Engels, Ludwig Feuerbach, cit., p. 23.
 
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