Comunismo - Scintilla Rossa

Renzi seppellisce Letta

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view post Posted on 25/9/2014, 15:12

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Marchionne e Renzi
ovvero LA SANTA ALLEANZA
TRA IL FASCISMO PADRONALE E IL MODERNO FASCISMO

De Bortoli critica il governo Renzi. E Marchionne lo scarica: “Non lo leggo”
Dopo l'editoriale sul Corriere in cui il direttore boccia l'esecutivo ed evoca la "massoneria", l'amministratore delegato di Fiat che di Rcs è principale azionista lo liquida pubblicamente. Mentre al premier riserva solo elogi: "Parla del futuro per la prima volta"”, "sta cambiando il sistema con freschezza nelle nuove idee". E ancora: "Gli consiglio di non arrendersi, ma non credo abbia bisogno dei miei consigli. Ha un gran coraggio"

di Redazione Il Fatto Quotidiano | 24 settembre 2014


Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera boccia il governo di Matteo Renzi, evocando pure la “massoneria”? Per tutta risposta Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, scarica pubblicamente il direttore del quotidiano di casa Rcs, di cui il Lingotto è il principale azionista. Come poche settimane fa, quando la defenestrazione era toccata al presidente di Ferrari Luca Montezemolo, anche in questa occasione il manager ha affidato il messaggio al vetriolo alle agenzie di stampa: “No, normalmente non lo leggo”, è stata la risposta a chi, a margine di un incontro al Council on Foreign Relations di New York a cui partecipava anche il premier, gli ha chiesto se avesse letto il duro editoriale pubblicato mercoledì. In cui de Bortoli sparava alzo zero sull’ex sindaco di Firenze tacciandolo di “personalità ipertrofica” e “muscolarità che tradisce la debolezza delle idee e la superficialità degli slogan”. Fino all’accusa di “massoneria” con riferimento al patto del Nazareno con Silvio Berlusconi. Un contropelo che evidentemente non è piaciuto all’artefice della fusione con Chrysler che sfocerà nella nascita di Fca e nel trasferimento della sede legale del gruppo in Olanda e di quella fiscale a Londra. Il quale al contrario, rivedendo in meglio i giudizi ancora “neutri” espressi a fine agosto, si è detto “convinto che Renzi ce la farà” e che “dobbiamo aiutarlo“. Dopo aver definito “eccezionale” l’intervento a braccio del presidente del Consiglio, che venerdì sarà in visita alla sede di Chrysler a Detroit (“Cercherò di vendergli una macchina… una qualsiasi”), Marchionne non ha risparmiato altri elogi: Renzi “parla del futuro per la prima volta”, “ha davanti un’impresa, compiti enormi” e “sta cambiando il sistema, con freschezza nelle nuove idee”. E ancora: “Gli consiglio di non arrendersi, ma non credo abbia bisogno dei miei consigli. Ha un gran coraggio”. Messaggio chiaro, mentre divampa lo scontro interno al Pd sul Jobs Act (“riforma importante”, l’articolo 18 “sta creando disagi sociali e disuguaglianze”, il giudizio del manager Fiat). Per finire, ”spero che lo si lasci lavorare”. Tradotto: non disturbate il manovratore. Richiesta rivolta, si suppone, anche a giornali e giornalisti, con cui notoriamente il manager non ha ottimi rapporti. Mentre il presidente di Fiat John Elkann, come il nonno Gianni Agnelli, per l’editoria ha una vera passione, come dimostrato ancora una volta dalla recente operazione di fusione che porterà Il Secolo XIX tra le braccia dell’Editrice La Stampa. Di qui l’affondo di Marchionne. Peraltro nei confronti di un direttore di cui è già prevista l’uscita (nell’aprile 2015) non per sua scelta bensì per decisione degli azionisti, leggi Fiat, come rimarcato da de Bortoli stesso il giorno dell’annuncio. E ora per la successione sembra profilarsi la scelta di una personalità molto più “allineata” con l’esecutivo. Il senatore Pd Massimo Mucchetti, che del giornalone di via Solferino è stato vicedirettore, sul suo blog unisce i puntini evocando la possibilità di una sostituzione anticipata di de Bortoli “da parte dell’azionista di maggioranza relativa della Rcs, che è poi la Fiat: quella Fiat marchionnesca non confindustriale e tanto, tanto filo governativa, forse in attesa di qualche supporto all’esportazione (probabilmente giusto), certo grata per il silenzio del premier (certamente sbagliato) sulla migrazione della sede a Londra e Amsterdam”.

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view post Posted on 27/9/2014, 17:31

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tornerete a meno del 25 per cento: don matteo stai sereno!


di pennatagliente
Don Matteo Renzi è un essere con una gran faccia di tolla: le sue dichiarazioni di sabato venti settembre lo dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio.
L’Autocrate Fiorentino sostiene, riferendosi alla vecchia guardia da lui totalmente esautorata con un colpo di mano: “con loro si torna al venticinque per cento”.
L’Ebetino Toscano si riferisce al fatto che, alle ultime elezioni europee, la sua co… – pardon, formazione politica – ha ottenuto il 40,81 per cento dei voti validi.
Solo che il Democristiano di Firenze dimentica un piccolissimo particolare: il voto da lui raccolto è frutto semplicemente della paura – abilmente instillata nella testa degli italiani – che, se la competizione fosse stata vinta agevolmente dal Movimento Cinque Stelle, l’Italia avrebbe abbandonato l’Europa, con conseguenze tragiche per l’economia nazionale.
Inoltre fa finta di non sapere che, storicamente, il voto a livello continentale non può in alcun modo essere comparato con qualunque altro di qualsiasi assemblea elettiva.
Non è un caso che il partito revisionista operò il sorpasso ai danni della Balena Bianca unicamente nel 1984, in occasione di una consultazione europea.
Nessuna persona, che non sia da Trattamento Sanitario Obbligatorio, può realisticamente credere che la vera dimensione elettorale dei sedicenti democratici possa essere quella raggiunta alle ultime consultazioni.
 
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view post Posted on 29/9/2014, 12:47

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Il killer per conto degli imprenditori ora parla chiaro


Alla vigilia della presunta "battaglia" nella direzione del Pd, oggi pomeriggio, Renzi si è fatto omaggiare da Fabio Fazio - ormai un'imitazione di Bruno Vespa - per sparare tutto quel che aveva e ha da dire contro i lavoratori. Come sempre, si è esibito in un vortice di rovesciamenti ("voglio abolire la precarietà" è quasi un record...), ma qualcosa di chiaro stavolta gli è uscito fuori. In fondo, per quanto si sia bravi a mentire, se la cosa è troppo grossa non si può coprire.

Citiamo dunque:

"Noi non cancelliamo semplicemente l'art 18, ma tutti i co.co.co, co.co.pro, cancelliamo il precariato e tutte quelle forme di collaborazione che hanno fatto del precariato la forma prevalente del lavoro. Questo diritto che c'è arriva da un giudice, noi vogliamo cancellare questo. Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all'imprenditore. L'importante è che lo Stato non lasci a casa nessuno".

Sui contratti precari affonda nel burro. Le 46 forme contrattuali che centrodestra e centrosinistra hanno regalato alle imprese dalla metà degli anni '0 ad oggi, non sono servite davvero a "rilanciare la crescita"; hanno solo creato un paio di generazioni di lavoratori poveri, ricattati, senza diritti e senza pensione. Dire di voler "superare" questa situazione è iniseme facile e demagogico: quei tipi di contratto non servono più alle imprese (hanno complicato il lavoro degli uffici del personale), ma soprattutto con il "contratto unico a tutele crescenti" (e senza più l'art. 18) la precarietà diventerà universale. Se un imprenditore può licenziare chiunque, in qualsiasi momento, gli si ridà in mano un potere di ricatto totalitario.

A Renzi è scappato di bocca esattamente questo concetto, sia pure nelle forme ambigue che gli sono proprie: "
Questo diritto che c'è arriva da un giudice, noi vogliamo cancellare questo. Non voglio che la scelta di licenziare o assumere sia in mano ad un giudice, deve essere in mano all'imprenditore".

Nella democrazia liberale - non nel "socialismo" - il giudice applica la legge; e la legge (un sistema di leggi) regola in genere anche i rapporti tra datori di lavoro e dipendenti. Dire che i giudici non devono metter naso sui licenziamenti (soltanto quelli "senza giusta causa", peraltro) signfica dire che non ci deve essere alcuna legge che impedisca all'imprenditore di fare ciò che vuole cn le persone che lavorano per lui. Punto. Significa presentare come "futuro", e addirittura "speranza", la situazione che c'era nell'Ottocento e fino alla metà nel Novecento. Il passato remoto come futuro, non c'è male come "innovazione".

Sulle menzogne, invece, non si è davvero risparmiato, anche quando ha ilustrato alcune cose vere. Per esempio:

"Il sindacato è l'unica impresa che sta sopra i 15 dipendenti e non ha l'articolo 18. È il sindacato, che poi ci viene a fare la lezione".

E' vero che i sindacati, così come i partiti politici, possono licenziare e non c'è un diritto al reintegro sul posto di lavoro. Perché la legge - quel che Renzi vuole eliminare - permette questa differenza di trattamento? Per un buon motivo: il "lavoro nel sindacato", così come quello in un partito politico, non ha (non dovrebbe avere) come obiettivo la produzione di un bene vendibile, ma è un'attività di rappresentanza sociale e/o politica. Un'attività dichiaratamete "di parte", politica in senso stretto e non "neutra" come produrre auto, formaggio o buste paga. Cosa significa? Che se un impegato o funzionario, in un sindacato o in un partito, è "incompatibile con le finalità particolari" che caratterizzzano quel partito o quel sindacato può venire "lcienziato" e nessun giudice può farlo rientrare.

Un esempio può servire a chiarire ancora meglio: se un impiegato o funzionario di un partito di sinistra si rivela in realtà un fascista o un infiltrato, chi mai può costringere quell'organizzazione a tenerselo? Vale anche per un partito cattolico o liberale, naturalmente, alle prese con "dipendenti infedeli". ANche gli impiegati della Chiesa, infatti, non sono coperti dall'art. 18; ma Renzi non l'ha mica nominata... In una organizzazione politico-sindacale, insomma, ci si lavora solo se c'è condivisione degli scopi. Nel lavoro dipendente "normale", nella produzione di merci, questo non è necessario. Io possofare auto per Marchionne anche se sono comunista e gli auguro quotidianamente qualche brutta malattia.

Renzi, nelle se sparate retoriche, salta tutti questi passaggi, semplifica, si veste dei luoghi comuni dell'ignorante qualunque. E utilizza al meglio anche la caduta di qualità nel "lavoro sindacale" (e nei partiti politici), nella perdita di "senso della missione" che animava (e dovrebbe animare) quel lavoro. E' un fenomeno in atto da tempo (quanti di voi conoscono gente che "lavorava in Rifondazione", o "lavora in Cgil", e ne parla come di un posto di lavoro qualsiasi, in cui l'unica cosa che conta è lo stipendi?), un degrado della politica che ora viene spazzato via, come i rifiuti in mezzo alla strada.

Lo diciamo sapendo che siamo dentro un cambio di regime, per molti versi inarrestabile perché moltissimo di quel che c'è - sul piano istituzionale, legislativo, delle rappresentanze storiche - è assolutamente indifendibile e odiato dalla stragrande maggioranza della popolazione. Il sindacato "complice" si è guadagnato l'odio e l'ostilità persino dei suoi iscritti, a forza di cedere pezzi sempre più consistenti di diritti, salario, certezze; a forza di accettare precarietà, esternalizzazioni, differenze di trattamento ignobili. La stessa minaccia di uno "sciopero generale", agitata da una contraria agli scioperi come Susanna Camusso, suona assolutamente poco credibile perché esplicitamente condizionato all'eventualità che "il governo decida con un decreto". Persino ora, insomma, la Cgil si preoccupa solo del proprio "ruolo politico", del suo poter sedere a un tavolo di trattativa, piuttosto che del "merito" del Jobs Act.

Una melma in cui Renzi (chi lo ha selezionato e messo nel posto che occupa) è cresciuto come un tumore che ora passa, ramazza tutto e fa pagare i conti a qualcun altro.

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view post Posted on 5/10/2014, 09:22

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Renzi e Berlinguer? più simili di quanto si possa pensare.




Sono rimasto particolarmente colpito, al termine dei (poco utili) lavori della direzione PD, dalla reazione che il popolo del web ha mostrato; non solo nei confronti delle decisioni e dei voti espressi, ma soprattutto verso l’indirizzo del governo in carica, tra rinvii, discussioni di partito, spartizione di poltrone, veti incrociati e una minoranza interessata, possiamo dirlo chiaramente, solo a riprendersi il bottegone.

Capita così, tra i più delusi dalle decisioni dell’esecutivo a guida piddina, di sentir evocare una sorta di dualismo, tra un Partito Democratico dell’oggi, e quello di ieri. Pure tra quello che fu il Partito Comunista e questo bivacco socialdemocratico che ci ritroviamo oggi, a dirigere le leve governative. La nostalgia, tra i militanti più fedeli, raggiunge cime elevate; ma sa raggiungere, come vedremo, pure cime parossistiche.
Il paragone e il dualismo, alimentati pure da un foglio che in edicola non si trova più, ma che ancora si fa sentire sul web, ovvero L’Unità, mirano soprattutto a farsi cantori di un’epoca di splendore, di sinistra, di giustizia sociale, morale, e altri concetti maiuscolati. Epoca, questa, preferibilmente collocata tra il 1972 e il 1984, con il massimo storico di voti raccolti nel 1976. Stiamo parlando della segreteria di Enrico Berlinguer, personaggio simbolo di un’epoca, e oggetto di forte nostalgia (se non, talvolta, di un vero e proprio culto) da parte di anziani e giovani.
Ma quel che mi preme sottolineare è la sostanziale similitudine tra un personaggio come l’Enrico sardo e Matteo Renzi. Non sto ovviamente parlando del piano umano e personale, ma del piano politico. Così come Renzi è riuscito, infatti, a far ottenere al suo partito un risultato straordinario (per chi l’ha votato) alle europee, Berlinguer è il responsabile numero uno del successo elettorale del PCI nel 1976. Sarà una bestemmia, specie in qualche circolo GD di oggi, paragonare i due personaggi, ma elettoralmente parlando, possiamo scoprire come i percorsi siano sostanzialmente simili.

Berlinguer è l’artefice della grande cavalcata elettorale del PCI dell’inizio degli anni Settanta, grazie ai voti di una classe media (impiegatizia, universitaria, magistratuale, e via dicendo) che si stava scrostando di dosso l’idea del partito delle botteghe oscure come di un qualcosa di pericoloso per gli equilibri istituzionali. In parole povere, Berlinguer ha completato la transizione del PCI verso un qualcosa di tranquillizzante, di sostanzialmente socialdemocratico, apprezzabile da una larga parte di popolazione che, se avvicinata ad un partito ancor troppo legato a certi ideali di stampo sovietico, non avrebbe certamente avuto una reazione di appoggio elettorale.
E’ la teoria dell’incontro tra le tre grandi porzioni del paese, quella comunista, quella cattolica e quella socialista, incontro ricercato in primis dal partito comunista, che grazie ad intercessioni, smussamenti ideologici, rotture con gli apparati orientali, promozione di un “comunismo democratico”, seppe trasformarsi in quella che diverrà dapprima sinistra di governo (negli anni di Prodi) e ora nemmeno sinistra: solamente forza di governo.

Ecco che anche Renzi, al pari del collega che lo precedette, raccoglie voti e consensi praticamente alla stessa maniera; levando quel che rimaneva ancora intatto degli ultimi orpelli di un partito di centrosinistra, sapendo cuocere tutto nel brodo della moderazione, del centrismo, del giovanilismo, di una retorica scopiazzata un po’ da Veltroni, un po’ da Obama. Quel 40% di oggi è la replica su larga scala di quel 34% di matrice comunista. E’ il frutto di una apertura verso settori della società, e verso logiche politiche ed economiche maggiormente gradite agli italiani rispetto a quelle tradizionalmente espresse dalle vetuste leve dirigenziali della minoranza, o della tradizione.
Sono balzi elettorali frutto di una intercessione verso il centro; C’è da dire che Renzi ha trovato un partito che già da tempo veleggiava verso accordi con la destra e con il centro, che viveva di dalemate, di governi tecnici e svendita del patrimonio industriale nazionale; il premier fiorentino ha semplicemente reso più palese quel passaggio, gradito dagli elettori oggi, come fu gradito nel 1976. E proprio sulla scorta di questo, possiamo pure far notare un paradosso; il PD di oggi si esprime, su tutto ciò che non gli appartiene, indicando lo spettro del populismo. Ma il primo partito ad averlo scientemente usato per incrementare il proprio parco elettorale è stato dapprima il PCI, e oggi il Partito di via del Nazareno; un balzo elettorale frutto di compromesso con le parti più moderate del paese, più numerose, più elettoralmente invitanti.

Una linea di partito che va progressivamente accentrandosi usando terminologie care all’elettorato medio e puntando verso un centrodestra in salsa europeista parascondinzolante. Ecco su cosa si basa la nostalgia da Festa dell’Unità: su di un percorso che negli anni Settanta ha preceduto quello che vediamo oggi, rendendosene antesignano. Rimpiangono Berlinguer, quando se ne ritrovano un altro in casa.

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Il "cucù" di Renzi sull’art.18. Chiudere in diretta nel vertice europeo


Renzi ha fretta, come al solito. Vuole chiudere la partita su Jobs Act e abolizione dell’art.18 passando anche sopra le misere “mediazioni” annunciate nella direzione del Pd per disgregare la pattuglia dei dissidenti. Il suo obiettivo è quello di arrivare mercoledi, al vertice europeo di Milano, con l’ambizione di annunciare in diretta durante i lavori del vertice che la “sua” legge sul lavoro è stata approvata dal Senato. E' una mutuazione del "cucù" di Berlusconi alla Merkel di qualche anno fa.

Il retroscena de La Repubblica di oggi fa trapelare infatti che “Il governo è orientato a mettere la fiducia sulla riforma del lavoro. Lo fa capire il ministro Giuliano Poletti quando dice “Abbiamo la necessità di un’approvazione rapida e certa” perché mercoledì, al vertice europeo sul lavoro convocato proprio dall’Italia, “deve essere chiara la volontà del governo di fare le cose”. Quindi, dopodomani la legge delega verrà approvata dal Senato con un voto su cui l’esecutivo verifica la sua tenuta complessiva”

La smania del colpo di teatro, di fare effetto sui commensali del vertice europeo di Milano, magari con un tweet che arrivi dai suoi uffici mentre sta parlando la Merkel (eccolo dunque il "cucù"), fa sì che il governo del ducetto di Pontassieve non esiti a passare come uno schiacciasassi anche sugli impegni presi con il “suo” partito e i “suoi” senatori. “Se quattro cinque votano contro poco male” sembra abbia detto Renzi. Il che conferma cosa sia il personaggio e quali siano gli interessi materiali a cui risponde. Augurarsi che i senatori del Pd mostrino la schiena dritta qualora venga posta la fiducia ha il sapore di una illusione. Lavorare affinchè il Renzi System cominci a trovare sulle questioni del lavoro resistenze più consistenti nel paese, ancora più che in aule parlamentari di nominati, è una urgenza non più rinviabile. Lo sciopero generale del 24 ottobre ne è un primo segnale, è già molto ma non è certo sufficiente.

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La vandea capitalista di Renzi


Nei momenti di tensione salgono dall'animo parole che non si possono trattenere. Non ci è riuscito neanche un attore consumato come Matteo Renzi. Per reagire al dispetto provato per i ritardi del Senato nell'approvazione del suo jobsact, il presidente del consiglio ha dichiarato: "abbiamo aspettato 20, 30, 40 anni per le riforme, non cambierà con qualche ora in più".

Successivamente una velina del suo ufficio stampa ai massmedia di regime li ha indotti a correggere la frase, per cui molti commentatori hanno l'hanno poi riportata fermandosi a venti anni, ma Renzi era arrivato a quraranta. Dunque nel profondo del suo animo il presidente del consiglio pensa che l'articolo 18 e lo statuto di diritti dei lavoratori avrebbero dovuto essere aboliti già nel 1974.

In quell'anno il no al referendum sull'abrogazione del divorzio aveva travolto la DC di Amintore Fanfani. La strage fascista di piazza della Loggia a Brescia aveva ricevuto una risposta popolare enorme che aveva messo in crisi i disegni autoritari di settori degli apparati dello stato e della eversione nera. Nelle scuole entravano i metalmeccanici che avevano da poco conquistato il diritto a studiare con permessi di 150 ore. Tutta la società italiana, nonostante tensioni e contraddizioni, era in crescita attorno alla crescita dei diritti del lavoro.

Chi allora avrebbe potuto aver già in mente che, appena quattro anni dopo il varo della legge 300, si sarebbe dovuto cancellare l'articolo 18? Mi domando davvero come Renzi abbia potuto parlare di quaranta anni di ritardo nelle riforme, e siccome son convinto che non si sia sbagliato, posso arrivare ad una sola conclusione. Che egli faccia proprio lo spirito di vandea capitalista che proprio in quegli anni cominciava a definirsi nelle élites economico finanziarie mondiali.

Nel 1973 il sanguinoso colpo di stato di Pinochet contro Allende in Cile serviva per la prima volta a sperimentare con la forza di una feroce dittatura le politiche liberiste dei Chicago boys di Milton Friedman. Che poi sarebbero dilagate nel mondo. Sempre nel 1973 una organizzazione multinazionale di banchieri e industriali, politici e ricconi guidata dalle élites statunitensi, laTrilaterale, aveva prodotto un manifesto programmatico nel quale si affermava la necessità che il mondo retrocedesse dall'eccesso di domanda di democrazia e garanzie sociali che si era diffuso.

Quindi è vero che sotto la superficie del progresso generale si annidavano e preparavano le forze che avrebbero avviato quella controriforma liberista che dura da più di trenta anni. Certo a nessuno nell'Italia del 1974, se non a Licio Gelli, sarebbe venuto in mente di chiedere la cancellazione della reintegra per i licenziamenti ingiusti, e di tornare così alla legge del 1966 che, come l'attuale jobact, prevedeva solo il risarcimento monetario. Ma nell'Italia di oggi questo invece può essere affermato e presentato come innovazione.

Ci sono voluti decenni , ma alla fine lo spirito di rivincita sociale che già elaborava il suo rancore in quegli anni, ha trovato un fiero interprete in Matteo Renzi. Che, parafrasando il linguaggio di un altro capo di governo non proprio democratico, ha potuto alla fine affermare: "con lo statuto dei lavoratori abbiamo pazientato quarant'anni, ora basta".

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PERCHÉ IL JOBS ACT È CONTRO I LAVORATORI E I GIOVANI. (PARTE 1)


Di Jobs Act si sente parlare da mesi, eppure capire di cosa si tratta non è semplicissimo. Cercheremo di farlo nel modo più semplice possibile trattando una materia estremamente complessa, per consentire a tutti di comprendere i passaggi del governo e le nostre critiche alla proposta approvata in questi giorni.
Innanzitutto con il termine Jobs Act si intendono una serie di interventi legislativi da parte del governo con lo strumento di decreti leggi e decreti legislativi. Nel nostro ordinamento, accanto alla legge “tradizionale”, approvata dal Parlamento sono previsti dei modelli di legge in cui è il governo ad esercitare la funzione legislativa, funzione tradizionalmente riservata alle Camere. È esercitando questa possibilità che il governo sta varando i provvedimenti costitutivi del Jobs Act. Il primo di questi è il cd Decreto Poletti, un decreto legge emanato lo scorso 12 marzo dal Consiglio dei Ministri, data in cui il governo ha contestualmente emanato un disegno di legge delega, molto articolato relativo a vari aspetti della riforma. Questo disegno, o meglio il cd maxiemendamento approvato dal governo, è il testo in discussione al Senato, recentemente approvato con la fiducia accordata dalla maggioranza. Questa necessaria premessa sull’iter legislativo serve a chiarire che quanto viene approvato in questi giorni al Senato non costituisce la riforma definitiva ma solo la legge delega, ovvero i margini entro i quali il governo sarà successivamente chiamato ad approvare una serie di decreti, che stando alle previsioni dovrebbero essere approvati entro la primavera 2015. Perché il governo ricorre alla forma del decreto legislativo? Per poter sottrarre il più possibile la discussione alle Camere, come spesso accade in casi di riorganizzazione di comparti normativi così ampi. Se dunque lo strumento non è nuovo, tuttavia è necessario sottolineare come i margini della delega concessa dal parlamento al governo in questo caso appaiano particolarmente elevati. Un esempio su tutti: l’articolo 18. Nel testo della legge delega non è mai direttamente menzionato, ma potrebbe rientrare dalla finestra nei decreti del governo data la genericità del testo della legge delega. Un enorme pacchetto dunque il cui impatto reale sarà possibile comprenderlo solo tra qualche mese – sempre che sia approvato definitivamente – con l’esercizio da parte del governo dei poteri delegati dal Parlamento. Procediamo ad analizzare la riforma, per quanto possibile allo stato attuale.
Il Decreto Poletti, varato lo scorso marzo, si caratterizza per la revisione del limite imposto ai contratti di lavoro a termine e al loro rinnovo, e per alcune modifiche alla disciplina del contratto di apprendistato.
Riguardo i lavori a termine il limite temporale è elevato dai 12 ai 36 mesi, con possibilità di prorogare più volte entro questo termine senza requisito della causalità, ossia liberamente, senza la necessità di legare tale rinnovo ad una specifica causa. In sostanza un passo indietro rispetto alla Legge Fornero, che aveva posto il limite a 12 mesi, successivamente ai quali scattava l’obbligo di assunzione a tempo indeterminato. Una legge che non funzionava perché aveva rigettato sui lavoratori le ricadute dell’applicazione, finendo per ottenere più licenziamenti e mancati rinnovi contrattuali che adeguamenti. Una chiara dimostrazione di come nel mondo della precarietà non possa esistere un sistema favorevole al lavoratore: o si abolisce la precarietà, o vincono sempre i padroni. La soluzione di abolire i contratti precari non è neanche lontanamente prospettata dal governo che dunque si limita ad aumentare a tre anni il massimo del termine dei rinnovo, superato il quale si riproporrà sempre il solito problema. Un ulteriore limite è posto alle aziende: i contratti precari non devono superare il 20% del totale degli assunti. Ma le deroghe sono molte: innanzitutto la regola non vale per le imprese sotto i 5 dipendenti, e importanti settori, come quello della ricerca – molto colpito dalla precarietà – sono esplicitamente esclusi nel testo del governo.
Quanto all’apprendistato oltre all’eliminazione di una serie di requisiti di forma, il decreto elimina le precedenti previsioni legislative secondo cui l’assunzione di nuovi apprendisti era necessariamente condizionata alla conferma in servizio di precedenti apprendisti al termine del percorso formativo. Tradotto il padrone potrà licenziare i vecchi apprendisti, o meglio non assumerli a tempo indeterminato, per assumerne nuovi apprendisti, con la conseguenza che l’apprendistato non garantisce assolutamente il posto di lavoro successivamente. La normativa precedente nel tutelare i vecchi apprendisti (e di rimando i nuovi) limitava l’assunzione di nuovi alla conferma dei precedenti, limite dal quale le aziende saranno esonerate grazie al governo Renzi. La convenienza la si capisce subito: la retribuzione per i contratti di apprendistato è fissata per legge al 35% del salario del lavoratore della categoria corrispondente, secondo quanto stabilito dalla contrattazione collettiva. Il decreto elimina anche l’obbligo di associare alla formazione aziendale una parte di formazione pubblica che era “finalizzata all’acquisizione di competenze di base e trasversali”. Dunque un apprendistato con competenze minori, più schiacciate sulle esigenze immediate delle aziende, meno qualificanti per i lavoratori, più vincolanti per le scelte future, con meno tutele e garanzie per il futuro del lavoratore.
Si può dire senza ombra di dubbio che il Decreto Poletti sia una normativa esplicitamente a favore della precarietà, delle imprese dei loro poteri di utilizzare lavoratori a basso costo e con minori tutele contrattuali come leva per la diminuzione dei diritti e dei salari dei lavoratori. Questo è il vero intento perseguito dal governo e non quello di “semplificare alcune tipologie contrattuali di lavoro, al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile” scritto nel decreto a giustificazione dell’urgenza (che è requisito formale stabilito dalla legge – e sempre disatteso – per l’emanazione di un decreto legge)
(Continua)


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Champagne! Ne avranno stappate almeno un paio i padroni per brindare a Renzi...
e alla sua Legge di stabilità che regala miliardi



Ieri Matteo Renzi, passando tra le contestazioni operaie, si è rifugiato in luogo più sicuro, tra le braccia dei padroni che lo aspettavano all'assemblea di Confindustria di Bergamo, e lì, bisogna dargliene atto, più chiaro di così non poteva essere. Innanzi tutto ha voluto rispondere all'”angoscia” di Squinzi per cui sta facendo questa manovra “come Confindustria nella persona di Giorgio Squinzi e dei suoi predecessori ci chiede da tempo di fare”. [sottolineature nostre].
"Gli facciamo un monumento" ha detto di rimando a queste parole Bombassei, addirittura anche "se riesce a fare la metà di ciò che dice". Mentre un altro padrone, Pesenti, nota che "In effetti… si vede che qui c'è una certa sintonia".

La "sintonia" di Renzi con i padroni è totale: ha annunciato che nella Legge di stabilità, la vecchia Finanziaria, da 30 miliardi che il governo ha preparato e che sarà presentata domani c'è, tra l'altro, l'abbattimento dell'Irap del 50%.!
Ed è logico che i padroni siano più che contenti, visto "il disegno del governo – come riporta il sole 24 ore di oggi - che punta a rendere più 'appetibile' per le imprese il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, semplificando la flessibilità in uscita (con la revisione della disciplina sul reintegro) e con consistenti sconti fiscali." Cioè la cancellazione dell'articolo 18 e soldi ai padroni, appunto!

Quanto risparmieremo, si dicono fregandosi le mani, con questo taglio?

“Dal 2015 il costo del lavoro sarà integralmente deducibile dalla base imponibile dell'imposta regionale sulle attività produttive [Irap]. Una misura che in termini di riduzione del carico fiscale su imprese e autonomi vale 6,5 miliardi di euro.... (Renzi ha fatto bene i "compiti a casa"!)
"A beneficiarne saranno comunque tutte le imprese, anche se l'intervento, così come ipotizzato, finisce per premiare soprattutto le imprese medio-grandi (labour intensive) [Cioè quelle con più operai]. Per le piccole e piccolissime imprese i risparmi di imposta potrebbero variare tra il 5% e 9%, toccare il 35% di risparmio per le Pmi e addirittura il 65% per unità operative medio-grandi." E certo queste cifre suscitano entusiasmo!
"Un taglio del carico fiscale sulle imprese da 6,5 miliardi di euro potrebbe migliorare il Pil già a partire dal 2015 di 1,6 miliardi e toccare i sette miliardi a regime, a conclusione del triennio della legge di stabilità 2015-2017. Non solo. In termini di maggiore spinta all'occupazione [che si avrebbe, forse, solo se i padroni licenziassero operai "vecchi" con nuovi senza diritti] il taglio della componente lavoro dal calcolo del valore della produzione potrebbe valere anche fino da 0,2 a 0,3 punti percentuali, così come sui consumi che a regime potrebbero crescere di 0,4 punti." Senza volerlo il padrone con questa misera percentuale del possibile aumento dei consumi ci dice la verità, e cioè che i benefici di questa manovra sono tutti a favore dei capitalisti e non delle masse.

Il taglio del costo del lavoro dall'imponibile Irap si andrà ad aggiungere alla riduzione del 10% sulle aliquote dell'imposta regionale introdotta con il decreto Irpef di maggio.

E quanto risparmieremo, si dicono fregandosi le mani, con l'altro taglio ai contributi per i lavoratori?

"Risparmi di 8.500 euro l'anno per ogni assunto!" Titola il Sole 24 ore.
"Dal 2015 un imprenditore potrà risparmiare tra gli 8.550 e gli 8.850 euro per ogni neoassunto con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con reddito di 22mila euro lordi. La cifra risparmiata potrà salire a 9.542 euro, in caso di stabilizzazione di un lavoratore che aveva un contratto a tempo determinato."

"Nel complesso si avrebbe un abbattimento secco del 35% del costo del lavoro sui neoassunti – spiega De Fusco – e di circa 4 punti percentuali per i vecchi lavoratori".
Perché i padroni ci tengono tanto alla cancellazione dell'Irap? Perché per loro è “L'imposta più odiata”.
"L'Irap, sin dalla sua nascita, si porta dietro la sgradevole immagine di 'tassa ingiusta'. Certo – deve ammettere il giornalista - rispetto al 1997 - anno dei primi pagamenti dell'Irap - molte correzioni, semplificazioni e riduzioni del prelievo sono arrivate." E tali e tante che di fatto era stata già quasi abolita! "Talvolta lo si è fatto per adeguarsi o per rimediare alle sentenze delle Corti, dalla Cassazione alla Corte costituzionale; altre volte per rispondere - ancorché parzialmente - all'allarme del mondo produttivo sugli effetti devastanti di questa imposta. Nel corso degli anni, solo per citare alcune misure volte a ridurre l'impatto dell'imposta, sono arrivate detrazioni fisse dalla base imponibile e detrazioni legate in modo specifico al costo del lavoro che hanno escluso dall'imposta moltissimi soggetti economici di piccole dimensioni. Un segnale è giunto anche con l'introduzione della possibilità di dedurre dall'Ires una quota dell'Irap pagata. Non c'è dubbio, però, che la misura ora annunciata dal governo rappresenti una scossa, che non può essere paragonata agli interventi del passato."

Ma comunque "Una misura di questo tipo appare più efficace del taglio lineare dell'aliquota (come è stato fatto sempre dal governo Renzi poco prima dell'estate), che produrrebbe una riduzione del prelievo "democratica" - ovvero uguale per tutti - ma forse poco lungimirante nella fase attuale, nella quale il lavoro [i padroni chiamano “lavoro” pure il loro profitto] ha bisogno di essere sostenuto. Spostare tutto, come intende fare il governo sul costo del lavoro, [il vero sogno dei padroni è che il “costo del lavoro”, cioè il salario dell'operaio, se lo accolli tutto lo Stato!] risponde così all'esigenza di rendere più competitive le imprese, [cioè, dateci la possibilità di fare più profitti]..."

Dunque Renzi dice "lo Stato si sostituirà all'imprenditore” e dà i soldi ai padroni, non facendogli pagare i contributi per i lavoratori; toglie loro il fastidio dell'articolo 18 cosicché possano licenziare tranquillamente, come chiede Squinzi che attacca per questo sfacciatamente tutto lo Statuto dei lavoratori: "Lo Statuto dei lavoratori è stato messo a punto quasi 50 anni fa e non è più adeguato a seguire l'evoluzione che c'è stata in tutto il mondo. Non è più adeguato ai tempi attuali. Non permette agli imprenditori di reagire con rapidità ed efficacia alle condizioni di mercato che mutano velocemente". Cioè non ci fa licenziare a piacere!
A QUESTO PUNTO QUALE SAREBBE LA SFIDA LANCIATA DA RENZI AGLI "IMPRENDITORI"?
Ma Squinzi è diventato furbo e conoscendo il suo pollo tiene Renzi sulla corda, così nel finale gli ricorda l'angoscia dei dati della crisi: i 9 punti di Pil persi dal 2007 ad oggi, il -25% di produzione industriale, il tasso di disoccupazione al 13%, che raggiunge il 44% per quanto riguarda quella giovanile per il quale il presidente si sente "angosciato"! " e poi prima di un gelido "valuteremo alla fine" chiude con le riforme che ancora vuole!

"Chiediamo incentivi stabili, che non durino solo un anno" e poi le riforme: semplificazione della pubblica amministrazione, del fisco, della magistratura, della politica energetica...

Nel più classico dei modi il padrone Squinzi, che rappresenta tutti i padroni d'Italia, approfitta della crisi, causata dal suo sistema capitalista, per chiedere riforme strutturali! E cioè poter a continuare a fare profitti senza tanti ostacoli.

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RENZI IL PICCOLO AVVOLTOIO

DIETRO IL BUTTARE TUTTA LA COLPA DELLE ALLUVIONI SULLA BUROCRAZIA E RITARDI, C'E' IL VIA LIBERA ALLO "SBLOCCA ITALIA" SENZA REGOLE PER I PADRONI E ACCELERAZIONI DELLE GRANDI OPERE DI DEVASTAZIONE AMBIENTALE

Mentre Renzi e Ministri continuano a tenersi ben lontani dalle zone alluvionate, e - come hanno gridato gli abitanti di Genova - al di là di cifre che vengono promesse, neanche le pale e le scope sono state date... (“E assicuro ai genovesi - ha "proclamato" Renzi - che non si sono piegati e che si sono rimboccati le maniche per spalare via fango e detriti dal loro futuro, l’impegno economico del Governo fin dalla legge di stabilità cui stiamo lavorando in queste ore”: 2 miliardi per il dissesto idrogeologico in tutta Italia")... Ora Renzi cerca di applicare anche su questa tragedia la tattica della "velocità", per far passare i suoi decreti, che a nulla servono per rispondere o prevenire tragedie come queste (“C’è bisogno di sbloccare i cantieri, come abbiamo iniziato a fare con l’unità di missione. Di superare la logica dei ricorsi e controricorsi che rendono gli appalti più utili agli avvocati che non ai cittadini”).
MA CHE C'E' DIETRO A QUESTO SBLOCCO DEI CANTIERI, CHE APPARENTEMENTE POTREBBE SEMBRARE UNA COSA GIUSTA E BUONA?

Con questa tattica, ostacoli oggettivi, di cavilli, burocrazia e ritardi, ricorsi al Tar, rischiano di diventare da un lato la coperta per nascondere il fatto che se ricorsi ci sono stati al Tar è anche perchè il sistema di assegnazione degli appalti a Genova, come in tutt'Italia è spesso impregnato di corruzione; e la soluzione non può essere certo di avallare in nome della rapidità queste corruzioni, ma solo quella che opere pubbliche così importanti per la salvaguardia della popolazione e dei territori dovrebbero essere portate avanti direttamente dallo Stato (ma dovrebbe essere un altro Stato, non al servizio degli interessi del capitale e del malaffare), con gestione e assunzione del personale necessario in proprio.
Dall'altro lato, una spinta, giunta al momento opportuno, per il varo rapido del decreto "Sblocca Italia". Un decreto che, dietro, i discorsi generici di "Grandi opere" vuole dare mano libera alle opere, come Tav, costruzione di inceneritori, cementificazione, ecc. che sono devastanti appunto per l'ambiente e le popolazioni; mentre a nulla servono per la salvaguardia di intere zone, per la ristrutturazione e messa in sicurezza di centinaia di scuole, ecc.
Un decreto che assegna appena il 3%, 110 milioni per gli interventi idrogeologici e 3.890 milioni per le "grandi opere" dei "cementificatori".
Un decreto, che dietro i discorsi di superare lentezze burocratiche e di semplificazione, di fatto vuole baypassare norme sulla sicurezza, controlli per verificare la regolarità.
"per es. tutte le norme che difendano paesaggi ed ambiente possano essere scavalcate per opere di stoccaggio, trivellazione e compagnia varia. E se la terra è privata ed appartiene a qualcuno che non la vuole vendere... c’e’ l’esproprio!...
Lo Sblocca Italia prevede il “titolo concessorio unico” con cui sarà sufficiente una sola domanda per eseguire ricerche e sondaggi prima e trivellazioni permanenti dopo. Adesso ci vogliono almeno due permessi distinti. Lo Sblocca Italia cambia tutto questo in nome della semplicità. E che importa se fra i due eventi sono passati anni e magari le realtà territoriali sono cambiate?...
E chi darà questo titolo concessorio unico? Prima dello Sblocca Italia erano le regioni a decidere sulle trivellazioni in terra e Roma in mare. Adesso sarà Roma a decidere su tutto, una sorta di “ghe penso mi” di sapore berlusconiano. E’ evidente che questo non può essere costruttivo..." (Da Il Fatto quotidiano)

E, IN EFFETTI, INSIEME ALLE CONSEGUENZE - MOLTO UTILI PER I PADRONI E MOLTO NEGATIVE PER LE POPOLAZIONI E PER I LAVORATORI CHE LAVORERANNO NEI CANTIERI (fuori dai controlli), CIO' CHE EMERGE CON QUESTO DECRETO E' UN ALTRO ATTACCO ALLA DEMOCRAZIA.

Su questo lasciamo la parola a Salvatore Settis e al suo intervento ieri sera a "Piazza pulita":


"Lo 'Sblocca Italia è anticostituzionale, per esempio per le nuove tratte ferroviarie lo 'Sblocca Italia' prevede una cosa illegale, anticostituzionale. Prevede che il presidente delle Ferrovie venga nominato commissario straordinario; nel caso che ci sia qualche contenzioso di natura paesaggistica, per es. la tratta ferroviaria dovesse attraversare il centro di Firenze abbattendo il Duomo e e la sovraintendenza dovesse protestare, chi decide è il commissario, il presidente delle Ferrovie...
Tutto questo è contro la Costituzione e la legge.
Sul fatto che tutto deve essere deciso dal presidente del consiglio c'è un precedente, è durato dal 1022 al 1943... l'idea che debba decidere tutto e in ultimo il presidente del consiglio ha avuto corso solo per quei 20 anni...
Si ricorre al tema de l'urgenza per far passare sotto delle violazioni gravi dei principi costituzionali e della legalità che poi diventerebbero la regola
'Sbocca Italia' propone una totale assenza di regole per cui ognuno fa quel che vuole, è il principio di Berlusconi: "padroni in casa propria"...

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Salvate il soldato Renzi dalla Germania "nemica"



Il “grande malato d'Europa” è ora la Germania. Almeno secondo la stampa padronale italiana impegnata nel sostenere il proprio governo – in senso letterale: comprato e pagato – che ha prsentato all'Unione Europea una legge di stabilità che ben poco può soddisfare i parametri rigidi imposti dai trattati.

Il “buco” principale è dato dalla levitazione del rapporto deficit/Pil dal programmato 2,2% a (quasi) il 3. In questo modo “saltano fuori” 11 miliardi da destinare alla detassazione delle imprese (promesso un taglio dell'Irap da 6,5 miliardi; e c'è da ricordare che con questa tassa si finanzia la sanità pubblica, che dovrà perciò essere ridimensionata in proporzione) ed altre spese senza le quali non solo non si potrà rivedere alcuna “crescita”, ma ci si avviterebbe senza soste nella recessione.

Detto fra noi, è più che dubbio che questa mossa da “finanza creativa” di stampo tremontiano possa avere effetti reali sull'economia. Il plauso degli industriali di casa nostra è conseguenza della solita pretesa dei “sanfedisti” italiani: abbassate il costo del lavoro, fateci trattare i dipendenti come schiavi, dateci commesse pubbliche, toglieteci le tasse e poi galopperemo. In questo modo, certamente, possono aumentare i profitti di breve periodo (minori costi, anche a prezzi stabili). Ma di investimenti produttivi non si sente più nemmeno parlare, e ogni studente del primo anno impara che “senza investimenti non può crescere l'economia”. Peggio: comprimendo oltremisura il mercato interno – se i lavoratori dipendenti guadagnano meno, spendono meno; per un'industria generalmente di piccole dimensioni, in gran parte orientata al mercato nazionale, questo è un suicidio – si alimenta il processo di deflazione. Una rincorsa senza fine tra salari e prezzi, come negli anni '70? Sì, ma in direzione opposta, verso il baratro.

L'ultima speranza è dunque il “piano Renzi”. Il jobs act è stato benedetto da Moody's, agenzia di rating che (insieme a Standard&Poor's e Fitch) ormai decreta la vita e la morte del debito pubblico e privato occidentale, orientando il capitale speculativo a caccia di “valorizzazione” senza fatica. E se un soggetto del genere “apprezza” una riforma, questa è certamente una jattura per chi dovrà subirla.

Il resto è affidato alla “trattativa” con la Commissione (il governo) dell'Unione Europea, che deve in questi giorni approvare questa legge di stabilità “creativa”, in cui l'unico fiore all'occhiello è la distruzione delle regole del mercato del lavoro.

I 10 miliardi stanziati per confermare l'elemosina degli “80 euro” sembrano quasi un impegno troppo gravoso per i bilanci. Tutto il resto (sgravio Irap a parte) è un pulviscolo di piccole misure e microtasse, oltre che di tagli feroci alla spesa. 500 milioni di “detrazioni” alle famiglie fanno quasi ridere (circa 20 euro a famiglia, in media); 1,5 miliardi per “universalizzare” l'assegno di disoccupazione (sufficiente, nei fatti, a coprire forse appena 150.000 persone); 1 miliardo per azzerare i contributi previdenziali pagati dalle imprese per i nuovi assunti, nei primi tre anni (aprendo un altro buco nei conti Inps); 1 miliardo per allentare il “patto di stabilità interna” con i Comuni; 1 miliardo per “stabilizzare” una parte dei precari della scuola (il governo giura che saranno 150.000, ma la cifra stanziata è troppo bassa); 1 miliardo per dare soltanto alle “forze di sicurezza” gli aumenti stipendiali che vengono invece negati – e da sei anni, ormai – a tutti gli altri dipendenti pubblici (si vede che per il governo attuale è più utile un poliziotto che non un professore...); 500 milioni per la proroga degli “eco-bonus” sulle ristrutturazioni degli immobili; 6 miliardi invece per il rifinanziamento delle cosiddette “spese indifferibili” (dal 5 per mille alle “missioni internazionali di pace”, Anas e Fs, ecc). Mistero fitto invece sull'operazione “Tfr in busta paga”, che preoccupa in egual misura le imprese (che perdono così una fonte di liquidità) e i lavoratori (che saranno costretti a scegliere tra un uovo oggi e una gallina domani, raschiando il fondo del barile).

Oltre ai miliardi “risparmiati” non rispettando la diinuzione del rapporto deficit/Pil, 13 miliardi dovrebbero arrivare dalla spending review, le cui voci più consistenti dovrennero riguardare la spesa delle Regioni (4) e la Sanità (2). Carlo Cottarelli, prima di tornarsene al Fondo Monetario Internazionale, consiglia di ridurre il numero dei Comuni, “premiando” finanziariamente quelli che accettano di fondersi. Il resto è speraindio, ovvero 3 miliardi dalla “lotta all'evasione fiscale”, con prevedibile incremento del “recupero crediti” e/o della spremitura dei contribuenti più deboli (vedi anche http://contropiano.org/politica/item/26895...tia-non-la-cura).

Il rischio di bocciatura da parte del commissario Jyrki Katainen, un pasdaran della ragioneria pura, è dunque piuttosto alto. Anzi: sarebbe certo se gli altri paesi, a cominciare dalla Germania, andassero a gonfie vele.

Così non è ed ecco perché i media padronali “pompano” la crisi tedesca come argomento per chiedere “meno austerità”. Per le imprese, naturalmente; solo i lavoratori dipendenti – precari o stabili che siano – dovrebbero secondo loro “pagare il conto” di una pasto mai fatto.

È stato persino trovato un “tedesco dissidente”, che ora impazza su tutti i giornali, grazie al suo libro che incolpa Merkel, Schaeuble e Weidmann di “far fallire l'Unione Europea”. L'ex leader dei verdi, Joshka Fischer, ha gioco facile nel denunciare l'”euroegoismo” dell'attuale establishment del Reichstag. Naturalmente lo fa dal punto di vista “europeista apolide”, incarnando le necessità di quel super-stato in formazione che rischia il collasso sotto le spinte centrifughe provocate proprio dall'atteggiamento “austero” di Berlino.

Di debolezze, il “modello tedesco” ne mostra ormai troppe. In primo luogo, grazie anche alla moneta unica, ha potuto massacrare le economie dei vicini fino a farne dei “conterzisti” con debolissimo potere contrattuale. Politica vincente nel breve periodo, ottusa nel lungo perché ammazza i partner e li fa sparire dal novero dei possibili clienti per le esportazioni.

Ci si aggiungono errori geopolitici clamorosi come l'avventura ucraina (che ha avuto proprio Berlino come primattore iniziale, poi scavalcato da Washington), che ha portato alla guerra economica con la Russia e quindi alla perdita – con le sanzioni - di un mercato di sbocco decisivo, anche in chiave di forniture energetiche.

I critici di oggi sottolineano – con notevole ritardo – che “in fondo” la crescita tedesca nel nuovo millennio non è stata niente di straordinario: appena l'1,1% annuo. Accompagnata però da un robusto crollo degli investimenti fissi (dal 22,3% al 17% del Pil), che accentua l'obsolescenza delle infrastrutture.

Insomma: tutto è tranne che una “locomotiva”.

Cosa non sarebbero disposti a fare, pur di "salvare il soldato Renzi"...
 
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renzi, contestato a nembro (bg)

(da proletari comunisti)
pennatagliente

Renzi contestato dagli operai al suo arrivo all’assemblea di Confindustria Bergamo alla fabbrica della Persico nel paese di Nembro

Renzi è stato accolto da numerosi lavoratori che volevano protestare contro la sua politica, ma la direzione dell’iniziativa che partita dalla rsu fiom same è stata fatta propria dalla fiom provinciale che la utilizzata per propagandare la posizione di Landini e la sua piattaforma filo-Renzi…
La sinistra sindacale si dichiara soddisfatta dell’iniziativa, ammicca ai movimenti della casa ma non si pone la necessita dello scontro prolungato e del sindacato di classe, e alla fine è in piazza per tirare la giacchetta alla cgil, come dimostrano le dichiarazioni di Bellavista che è rammaricato del fatto che il segr. cgil di Bergamo Bresciani è entrato con i padroni……
Tutta l’iniziativa è una parodia dello scontro e della necessaria guerra di classe, a partire dal fatto che una folta presenza di poliziotti mantiene tutti i manifestanti sopra i marciapiedi…
La piazza era divisa in tre: la Fiom di Ladini, la Fiom che critica la Cgil (con RC, mov casa) e lo Slai cobas per il sindacato di classe con rappresentanti delle lotte delle logistiche, e di altre fabbriche tra cui la Tenaris, e la natura.com….
Si è ribadito la necessità dello scontro prolungato per la cacciata del governo Renzi, contro il partito della conciliazione Camusso-Landini, si ritornerà alle fabbriche con uno speciale di Proletari comunisti.
 
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view post Posted on 17/10/2014, 14:18

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Contro il governo Renzi e la sua politica non servono scioperi virtuali,
nè rituali, ma bisogna sviluppare un movimento reale!


Il governo moderno fascista di Renzi va avanti come un carro armato nelle sue politiche antioperaie e antipopolari, così come nel rafforzamento legislativo e pratico dello stato di polizia e nell'interventismo imperialista in tutti gli scacchieri caldi del mondo.
Esso marcia senza praticamente opposizione parlamentare - l'agitarsi in un bicchier d'acqua di Grillo e grillini, riempie i talk show ma è ininfluente, dato anche l'ideologia di destra e filopadronale del Movimento 5 stelle.
Le organizzazioni sindacali o sono parte di fatto di questo governo, CISL-UIL- maggioranza PD del gruppo dirigente e quadri CGIL, o esprimono una opposizione - simile a tirare la giacchetta a Renzi e al PD - priva di rigore nella difesa degli interessi di classe dei lavoratori e delle condizioni di vita delle masse popolari - Landini e soci.
Quindi al di là del parole e di internet che impazza, non succede molto a fronte della politica di Renzi.
Siamo in realtà ancora a focolai di lotta e di tensione, in campo proletario, il più significativo è quello degli operai della logistica, e a prime manifestazioni di opposizione reale, finora la più importante è stata quella di Napoli in occasione della riunione BCE-Draghi, dove si è vista una combattività organizzata e positiva, potenziali forme di resistenza organizzate agli attacchi della polizia e le potenzialità di sostegno sociale che essa ha - movimento degli studenti, applausi dai balconi al quartiere Sanità.
Il movimento studentesco ha ripreso la sua azione, riempendo le strade e le piazze di molte città e mostrando al solito una grande potenzialità - ma siamo ancora nella fisiologia del movimento dei primi mesi di scuola.. il potenziale politico antagonista di esso è ancora basso e fluido e le componenti interne ad esso che hanno un ruolo dirigente sono inadeguate per contenuti e progetto. Occorre però sostenerlo e insistere per la sua radicalità di contenuti e forme di lotta, combattendo chi vuole farne, in nome di una presunta 'ricomposizione' una ruota del carro dei sindacati confederali o al meglio dei 'sindacati di base.
Leggendo il sito 'Infoaut' si assiste a un altro film, saremmo quasi a una piena esplosione del movimento di massa di ogni genere e tipo ovunque, le cose non stanno così.
Ogni manifestazione di reale opposizione, di conflitto con la polizia, di mobilitazione di settori proletari sui problemi della casa, naturalmente è giusta e necessaria, ma senza il potere unificante di una battaglia contro il governo per la sua caduta. è impossibile generare una continuità, un fronte unito politico sociale e un potenziale di rottura in grado di raggiungere l'obiettivo. Nè serve molto il sindacalismo di base, che nelle lotte particolari fa la sua parte, ma resta nell'ambito ristretto dell'autoreferenzialità locale o settoriale... armi deboli contro l'attuale azione della borghesia, il suo Stato, il suo governo. L'USB nella sua tronfia arroganza e linea riformista, è divenuta non parte della soluzione ma del problema, della costruzione autentica di un sindacato di classe basato sui cobas, per questo non aderiamo e invitiamo a non aderire allo 'sciopero generale' del 24 ottobre.
Meglio lavorare per la scadenza più seria e unificante del 14 novembre con manifestazioni in tutte le città possibili.
Per i comunisti e le avanguardie operaie, proletarie e dei movimenti è tempo dell'agitazione e propaganda nelle fabbriche, nei quartieri, nelle lotte, nei movimenti e ovunque si raccolgano settori di operai e lavoratori, anche quindi nella manifestazione pilotata del 25 ottobre della CGIL;
della iniziativa permanente contro la repressione, il fascismo e il razzismo, contro l'interventismo imperialista del governo italiano in Irak, Libia ecc; di solidarietà con le lotte dei proletari e i popoli oppressi in armi, dal Kurdistan alla Palestina, dal Brasile, alla Turchia, all'India - dove è in corso una grande guerra popolare diretta dal PCImaoista.
Su questo accumulare forza, costruire unità, realizzare esperienze avanzate, costruire il partito nel fuoco della lotta di classe in stretto legame con le masse

proletari comunisti - PCm Italia
ottobre 2014

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view post Posted on 20/10/2014, 13:09

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Bologna. Accogliamo Renzi all’inaugurazione del SAIE


Avanza con violenza l’attacco del Governo PD-NCD ai diritti dei lavoratori e dei settori popolari, un Governo delle basse intese, che cerca di fare il proprio meglio per soddisfare gli interessi del padronato italiano e della borghesia europea.

In pieno semestre europeo, Renzi e il PD stanno procedendo con metodi autoritari alla demolizione dei lacci e lacciuoli per il pieno soddisfacimento degli appetiti della borghesia: dalle riforme costituzionali, al Decreto Sblocca Italia, dalla controriforma della pubblica amministrazione, alla scuola “buona per l’impresa”, fino al Jobs Act.

Democrazia parlamentare, tutela dell’ambiente, servizi pubblici, diritti sul lavoro sono ostacoli da demolire per realizzare quella crescita capitalistica basata sullo sfruttamento sul lavoro e del territorio.

Ancora manca in Italia un livello di opposizione all’altezza della gravità della situazione, i conflitti e le situazioni di lotta esistenti sono un punto di partenza per la costruzione di un fronte di opposizione radicale. Ma possono essere un punto di stallo se non vi è un avanzamento concreto nell’individuazione di un nemico comune come il Governo Renzi, il “sistema PD” e la stessa Unione Europea.

Costruire un autentico e radicale antagonismo che sappia respingere le finte opposizioni di regime come quella espressa dalla CGIL, utile ad incanalare su binari morti le aspettative dei lavoratori. Per questo risulta importante il programma di lotte lanciato per un “Controsemetre Popolare”, lo sciopero sociale del 16, la riuscita dello sciopero generale nazionale il prossimo 24 ottobre promosso dalla USB, Orsa e Unicobas con le manifestazioni che si terranno nelle principali città italiane, fino alla giornata di mobilitazione nazionale del 14 novembre.

Per tutto questo, per rimarcare la nostra totale inimicizia a Renzi e al suo Governo che proponiamo alle realtà di lotta sociali, politiche e sindacali di organizzare una “degna” accoglienza al Presidente del Consiglio presente a Bologna, insieme alla crema di cementificatori, palazzinari e speculatori, in occasione dell’inaugurazione del prossimo SAIE (Salone internazionale dell'industrializzazione edilizia) la mattina del prossimo mercoledì 22 ottobre.

Per difendere i lavoratori, i disoccupati, i servizi sociali e la democrazia dai diktat del governo Renzi e dell’Unione Europea.

Devono contare i nostri interessi, non quelli delle banche, delle multinazionali e dei tecnocrati di Bruxelles.

COSTRUIRE OPPOSIZIONE, DEMOLIRE IL GOVERNO DELLA UE

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view post Posted on 21/10/2014, 14:38

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La guerra nella classe. Il disegno di Renzi


E' diventato da qualche tempo un contenitore senza più idee politiche rilevanti, ma in qualche caso - come accade nei contenitori incapaci di selezionare - vi cade dentro qualcosa di interessante. Parliamo de il manifesto, croce e non più delizia del pensiero critico italiano.

Questa analisi del renzismo, scritta da Aldo Carra, merita di essere letta, ragionata e discussa. Si interseca in molti punto con quanto anche su queste pagine andiamo scrivendo, ma ha il pregio di presentare in forma sistematica considerazioni che altrimenti restano volatili o in ordine sparso. Non ci interessa qui discuterne l'approccio, più descrittivo che "teorico", né proporre suggerimenti analitici differenti. Ci basta evidenziarne il dato direttamente politico, per quanto a ben poco sia ridotta la politica al tempo dell'Unione Europea, perché il modo in cui si esercita il controllo sulla società è una derivata necessaria delle forme in cui si va trasmutando il sistema del capitale multinazionale.

La sintesi finale è anche la chiave interpretativa del disegno renziano: "dalla lotta di classe si scade nell’invidia dentro la classe". Si può discutere se la si debba chiamare, limitativamente, invidia, o se sarebbe più appropriato il termine di guerra. Guerra tra poveri, guerra nella classe, introversione del malessere all'interno del corpo sociale martoriato dalle politiche della Troika. La frammentazione politica, sindacale, di movimento, ne rappresenta una spia per noi molto importante. Così come la riesumazione di vecchi e nuovi arnesi fascisti, specializzati - "per natura" e per incarico specifico - di portare nella classe la conflittualità che potrebbe altrimenti esprimersi contro la classe avversa, e il governo che ne realizza gli obiettivi.

La discussione è insomma urgente e importante per decidere cosa fare e come farlo, non solo per "comprendere" il cambiamento di regime, quindi anche culturale, in atto.

Solo un redattore sciagurato e inconsapevolmente "renziano nel cervello" (se qualcuno ricorda i "ravanelli" degli anni '70) poteva titolare questo pezzo in un modo così "luogo comune", di fatto falsificante.

*****

Una guerra dentro il ceto medio

C’è un mondo del non lavoro che comprende oggi otto milioni di persone. Ex-occupati che hanno perso il lavoro, giovani che lo cercano per la prima volta e non lo trovano, donne che, per ristrettezze familiari, lo cercano anche se non più giovanissime.

Lo compongono altrettante persone che non sanno a chi rivolgersi e, quindi, non lo cercano “intensamente” e, perciò, non rientrano tra i disoccupati, ma tra gli “scoraggiati”, categoria di persone prima psicologica ed adesso, finalmente, anche statistica. Lo compongono anche tanti cassintegrati, statisticamente occupati e psicologicamente esclusi, ed i “lavoratori in mobilità”, che popolano quel purgatorio tra un lavoro perduto ed uno che difficilmente troveranno.
Otto milioni di persone sono un bel “bacino elettorale”. Ma essi non sono soli. Nella società italiana, più che in altri paesi, esiste un tessuto, una rete familiare ed amicale, che offre un tetto fino ai 35–40 anni, che travasa la bassa pensione o lo scarso reddito, che attenua ed ammortizza, quando può e come può, il disagio sociale che ne scaturisce (a quando una bella manifestazione delle mamme di Piazza del Popolo Precario?).

Considerando anche loro, quindi, il bacino elettorale si allarga oltre i 15 milioni. Un “mercato elettorale potenziale” di queste dimensioni fa gola a molti ed è terreno di conquista. Una volta si pensava che questo fosse un bacino elettorale “naturalmente” orientato a sinistra e le lotte “per il lavoro e per il sud”, promosse dalla Cgil di Di Vittorio e protrattesi fino agli anni settanta, costituivano il nesso sociale tra disoccupazione, lavoro e sinistra. Ma erano veramente altri tempi.Negli ultimi decenni giovani e disoccupati hanno votato più Forza Italia che sinistra ed adesso, col declino di Berlusconi, questo “mondo del non lavoro allargato” di cui stiamo parlando è elettoralmente “contendibile” da tutti.

Questo lo aveva capito per primo Grillo, diventando la maggiore forza tra i disoccupati, e subito dopo lo ha capito Renzi che, parlando invece che di “piano del lavoro” di jobs act, usando inglese, tweet ed hashtag e martellando sulla fiducia nel futuro, cerca di fare di questo mondo la sua base di massa.

In questo tragitto comunicativo, sindacati, sinistra e lavoratori a tempo indeterminato vengono additati come responsabili, difensori di privilegi acquisiti, capri espiatori. Da qui a dire che se i giovani non trovano lavoro è per colpa dell’art.18, il passo è stato breve e scambiare qualche diritto in meno, con la speranza di qualche posto di lavoro in più una conseguenza logica e naturale.
Sappiamo bene che nessuna analisi economica seria può avallare queste affermazioni ed è evidente che esse sono strumentali: hanno il solo scopo di perseguire e proseguire lo sfondamento politico al centro ed a destra, completare la mutazione genetica del Pd e costruire un neo-centrismo che superi il bipolarismo incorporandolo al suo interno.
Il vero patto del Nazareno si sta pian piano disvelando come un’intesa strategica volta a ridisegnare il panorama politico con un Partito Centrale che per essere tale deve andare oltre la tradizionale divisione tra centro destra e centro sinistra.

A me sembra che, in questo campo, Renzi abbia una precisa strategia che non è solo comunicativa, ma politica. Renzi ha una sua idea di redistribuzione ed una sua filosofia politica: la globalizzazione e le politiche monetarie dominanti lasciano pochi margini per riforme economiche in grado di ridurre le disuguaglianze; la redistribuzione, perciò, non può essere quella teorizzata dalla sinistra, tra lavoro e capitale, dai ceti ricchi a quelli poveri; essa non può che essere “interna” al mondo del lavoro ed agli strati medio — bassi della società; quindi, niente vecchi arnesi dell’armamentario di sinistra come tassazione dei grandi patrimoni o progressività, ma idee “nuove”.

Redistribuzione dei diritti. Togliere diritti ad alcuni, promettere lavoro ad altri. Che quello che si toglie sia certo e quello che si promette incerto, conta poco perché ci si rivolge a due soggetti ai quali non si toglie niente: agli imprenditori, italiani e soprattutto stranieri, invitati ad investire, ai giovani, invitati a sperare. Ci saranno questi effetti? Molto probabilmente no, ma l’importante è dimostrare che Renzi ci crede e mantenere questo feeling fino alle prossime elezioni, quando questi voti saranno necessari per prendere in mano il paese per cinque-anni-cinque e ridimensionare ogni opposizione interna ed esterna.

Redistribuzione dei redditi. Rientra in questa tipologia, innanzitutto la scelta degli 80 euro che sul piano macroeconomico non ha pagato perché non ha rilanciato la domanda, ma su quello elettorale sì. Che poi essa venga coperta con minori servizi e maggiori tasse locali conta poco. I “beneficiari” sono identificabili e sono stati in buona parte grati. I “sacrificati” sono molti di più, ma sono sparpagliati. Tra loro ci sono anche i beneficiari, ma essi non hanno potuto cogliere la relazione tra soldi che entravano e soldi che uscivano ed anzi sono stati indotti a pensare che quelli che entravano sono merito di Renzi, quelli che uscivano, dopo, a rate e per tasse dai nomi mutevoli, sono colpa degli amministratori locali, spreconi ed inefficienti. Colpa della politica. Quindi bene ha fatto il nostro ad eliminare gli eletti al senato ed alle province.

In questa stessa tipologia di redistribuzione “interna”, di una sorta di partita di giro, rientra l’idea di colpire i redditi alti, ma fermandosi ai redditi da lavoro o da pensione e non spingendosi certo a quelli da profitto o da rendita. Questa idea è stata affacciata e poi ritirata, è scritta nel libro sacro di Gutgeld (pensato con Renzi), potrà essere riproposta, ma intanto ha lasciato il segno: Renzi vuole colpire in alto (naturalmente non tanto in alto da colpire grandi redditi e grandi patrimoni), ma incontra resistenze.

Può rientrare qui anche l’idea, più recente, di anticipare l’utilizzo del Tfr. Qui siamo in una nuova categoria di redistribuzione: quella tra presente e futuro. Al primo no degli industriali, questa idea, è stata ridimensionata, ma poco importa: Renzi ha comunque segnato un altro punto a suo favore dimostrando che pur di fare aumentare la domanda se ne inventa una al giorno, perlomeno è in buona fede, ci crede, quindi, facciamolo lavorare. Fermiamoci qui.
Possiamo anche dire che Renzi ha inventato “le partite di giro sociali”: dare ad alcuni togliendo ad altri che appartengono allo stesso mondo, senza toccare “gli altri” veri cioè grandi redditi, grandi rendite, grandi ricchezze. Possiamo anche dire che Renzi ha pensato ad una redistribuzione interna alla stessa persona tra l’oggi e il domani e che ha arricchito la madre lingua toscana con il napoletano “facimm’ammuina”, ma resta un fatto inconfutabile: ha risucchiato voti a destra e al centro e questo era scontato, ma anche a sinistra e questo non lo era affatto.

L’operazione è risultata finora vincente perché al disagio sociale di cui abbiamo parlato si offrono due messaggi efficaci: ce la sto mettendo tutta e ci credo, stiamo pagando gli abusi di ieri, quindi, i “privilegiati” debbono pagare. Ma chi sono i privilegiati? In una società in crisi, individualizzata e frantumata, terribilmente impoverita sul piano culturale, diventano quelli più vicini a noi. Chi ha un lavoro è privilegiato per chi non lo ha, chi lo ha fisso è privilegiato per chi è precario, chi guadagna duemila euro lo è per chi ne guadagna mille. E gli altri? I ricchi veri?
Quelli sono lontani e non si vedono. Nella colonna sociale che non marcia più in avanti, si guarda al vicino con invidia. E se non si riesce più a vedere in chi sta molto più avanti il soggetto al quale togliere qualcosa per darlo a chi sta soffrendo, viene naturale guardare a chi ci sta accanto. E così dalla lotta di classe si scade nell’invidia dentro la classe.

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view post Posted on 23/10/2014, 14:56

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Il partito della nazione



E venne l'ora del partito unico... Il comitato elettorale di Renzi ha un obiettivo ambizioso: passare dal 41 al 51%, inglobando il berlusconismo anche formalmente.

Diciamolo: quel sistema partitico lì era da decenni un guscio vuoto. Persino il “bipolarismo obbligato” da leggi elettorali sempre più ostative è in fondo inadeguato ad esprimere compiutamente il “dominio della politica”. Naturalmente usiamo il termine “dominio” in senso Internettiano, come ambito identificativo; la “politica” come attività e azione, infatti, non conta e non modifica più nulla. Tutto discende dai cieli di Bruxelles, abitati da imprese multinazionali e un personale tecnico tecnicamente apolide, “formato” e foraggiato al di fuori dei contesti locali-nazionali. Si può obiettare qualcosa, non opporsi.

Anche il bipolarismo obbligato, infatti, restituisce l'immagine “novecentesca” di ideologie contrapposte, che in ultima analisi potrebbero anche rimandare a interessi sociali diversi. No, meglio farne a meno... Anche se la differenza tra schieramenti parlamentari è ormai ridotta all'atteggiamento sul divorzio breve o sulle unioni civili, non certo sulle politiche economiche o le alleanze militari, quella “divisione” potrebbe catalizzare – in un lontano futuro, certo – opzioni sociali differenti. Divisive.

Meglio, molto meglio, un partito unico. Ma come chiamarlo? “Partito della nazione” sarebbe quello più adeguato all'ideologia dominante nella classe dirigente italica, ma ci sono due problemi seri. È fascista sputato, preso di peso dall'armamentario del Ventennio. Insomma, non può sembrare “nuovo” neanche in un paese dalla memoria inesistente come questo; e in più puzza. In secondo luogo, ma più importante, “la nazione” non esiste più, avendo ceduto sovranità di bilancio e monetaria, ma anche fiscale e industriale, all'Unione Europea. Un “partito della nazione”, inevitabilmente, sarebbe obbligato prima o poi a comportarsi come tale nei confronti del livello decisionale superiore, assomigliando tragicamente ai mostriciattoli lepenisti o alle caricature leghiste. Anche perché le figure retoriche usate ogni giorno (dall'eterno "siamo tutti nella stessa barca" a "lo facciamo perché serve al Paese", o "ce lo chiedono gli italiani") vanno tutte in questo senso "nazionalistico".

“Partito tenda” (big tent) fa molto boy scout, è generico quanto basta, è “ospitale” (basta pagare il biglietto...). Ma è una definizione categoriale, come catch-all party, Può servire in una discussione sulla “forma partito”, per chiarire che sotto quell'ombrello ognuno la pensa come vuole ma obbedisce agli ordini (del Capo e/o della Troika), non certo per far appassionare masse di popolazione che devono essere svenate e ridotte al silenzio consensuale. O al silenzio e basta.

Ma il bisogno della classe dirigente è chiarissimo lo stesso: se la politica non decide nulla, tanto vale avere un solo partito “vero”; uno che prende più del 50%, monopolizza il parlamento grazie a premi di maggioranza e sbarramenti. Il resto sarà pulviscolo, sigle che nascono per morire presto, vano agitarsi sulla scena di attori con poche qualità.

Un partito così, in Italia, c'è stato spesso. In forma dittatoriale, come il fascismo; o in forma “libera”, come la Democrazia Cristiana. Si può fare un terza volta, eliminando le incrostazioni di sacrestia troppo evidenti (dopo il bunga-bunga una politica “moralista”, simil-berlingueriana, avrebbe i secondi contati) e nascondendo meglio i legami con le varie mafie locali (i segnali lanciati contro la Procura di Palermo sono già degli ultimatum). Seguirà - oh, se seguirà... - il sindacato unico, la lega delle cooperative unica, leassociazioni di volontariato unificate, ecc.

Basta sapere che il timone vero sta altrove e rispettare i trattati europei. Certo, ci sarà da fare sempre delle leggi di stabilità che dovranno usare vecchi trucchi per finanziare a pioggia le imprese (a prescindere dal loro “merito”, sia occupazionale che innovativo), o per alimentare clientele comunque meno bulimiche (è finito anche per loro l'era delle vacche grasse). Ma con dei buoni tecnici presi in prestito dagli organismi sovranazionali (Monti, Saccomanni, Padoan, Cottarelli, ecc), ci si può riuscire. In fondo lo sanno tutti, nel mondo capitalistico, che qui in Italia se vuoi governare davvero devi avere un supporto “pagato”; non conviene a nessuno, per ora, far affondare una delle prime dieci economie di quel mondo.

Sì, ma come si fa a dire che questa “nuova” conformazione politica è comunque “democratica”? Perché potete sempre dividervi e litigare sul divorzio breve e le unioni civili, che diamine... Quali altre "destra" e "sinistra" credete siano possibili?

Se poi volete rappresentare interessi sociali che “nella politica” non trovano spazio, dovrete trovare altre forme di conflitto, aggregare ben altri numeri che non quelli attuali nelle piazze. Dovrete "pesare" abbastanza, altrimenti non rompete...

È un cambio d'epoca. Reazionario, ma vero. Chi continua a ragionare come faceva cinque, dieci o trent'anni fa, è un dead man walking. Sia che sieda in parlamento, sia che voglia far di tutto per entrarci e "cambiare la politica", sia che faccia finta di “assediarlo”...

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