Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 21/3/2012, 15:12 by: SkateRed

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Capitolo Quattordicesimo


Evgenij Pavlovič stava fermo davanti alla scrivania e, senza sollevare gli occhi, seguiva le dita rosee infantili, piene di pipite d’unghia, del tenente.
«Lei sarebbe in grado di confermare, in modo ufficiale e documentato, la dichiarazione del soldato della Guardia Rossa, fatto prigioniero insieme a lei, che lei è un generale?» – sentì il generale la giovane voce decisa e ferma dell’ufficiale.
«Certo. Ho libretto di servizio con tutto il mio schedario militare» – rispose il generale. «Ma non capisco, a cosa le serve?»
«Come a cosa serve?» – si stupì il tenente. «Ma questo cambia completamente le cose. Dov’è il suo libretto?»
Evgenij Pavlovič si sbottonò il pastrano, tirò fuori il libretto dalla tasca interna e lo allungò all’ufficiale. Il tenente lo prese con un certo disgusto, lo aprì e, scorrendo con gli occhi il testo, lo lesse. Il suo viso fiorì di rosa, si schiarì e si rasserenò.
«A questo punto» – disse, ripiegando il libretto, – «considero come mio dovere porgerle le scuse per la mancanza di ritegno da parte del nostro personale subalterno. Le posso assicurare, Eccellenza, che queste persone avranno la sanzione disciplinare che si meritano. Lei è libero, Eccellenza. Lo riferisco subito al colonnello. Da noi si avverte una gran mancanza di personale altamente qualificato per le cariche del comando superiore e della corte suprema, Eccellenza.»
Il generale chiuse stancamente gli occhi. Per qualche momento, davanti gli apparve il mondo morto e seppellito dei generali, delle spalline, della subordinazione pietrificata di una cadaverica macchina dell’impero sgretolato e distrutto, personificato in quell’istante da questo soldatino di piombo, seduto di fronte, compenetrato da efficienza d’effetto, da disciplina ferrea, da precisione ridotta all'ubbidienza. Divenne chiaro sino a che punto questa macchina gli fosse ormai estranea, avversa e ostile e sino a che punto egli stesso le fosse estraneo, avverso e ostile. Il generale, come per un attacco di mal di denti, si accigliò, scosse la testa e disse all’ufficiale, lentamente e scandendo parole:
«E lei crede che io potrei servire le vostre forze armate?»
Il tenente sorrise.
«Ma perché no, Vostra Eccellenza?» – rispose, senza comprendere, senza dubitare che la frase del generale si sarebbe potuto intendere diversamente. «Lei non è un qualunque portinsegna in tempo di guerra, proveniente dai ranghi degli studenti. Nessuno potrebbe sospettarla mai di bolscevismo volontario, Eccellenza?»
Il generale sogghignò.
«Lei mi ha frainteso, signor tenente» – lo contraddisse, – «volevo dire propriamente, che per me il servizio nelle vostre forze armate è inaccettabile eticamente.»
Il tenente fece cadere dalle mani sulla scrivania un portasigarette di pino di Karelia e divorò con gli occhi il viso avvizzito.
«Ma lei è impazzito?» – esclamò.
Il generale, con odio improvviso, sorto in lui dal profondo, sentì che la faccia incurante dalle guance rosee dell’ufficiale, con i baffetti neri ben curati sopra di labbro turgido, gli suscitava un vomitevole ribrezzo.
«Cerchi di contenersi nei limiti della decenza» – con la mascella tremante, buttò là al tenente, – «sono più anziano di lei del doppio! Tuttavia mi trattengo dall’affermare che lei sia impazzito se presta servizio nelle vostre forze armate!»
L’ufficiale raccolse dalla scrivania il portasigarette, lo aprì, afferrò e si cacciò in bocca una sigaretta e l’accese nervosamente. I suoi occhi si strinsero e divennero “astuto-predatori” e penetranti.
Si sedette su uno sgabello, incrociò le gambe, appoggiò le mani sopra le ginocchia e, aspirando profondamente la sigaretta, gettò il fumo dalla bocca, in modo intenzionale e sfacciato, sul viso di Evgenij Pavlovič.
«Ma non me lo dica, lei cos’è, un bolscevico?» – domandò con l’ironia beffardamente sprezzante d’un giovincello testardo e scoppiò in una risata fragorosa. «Questa poi, è una vera barzelletta!»
«No, non sono bolscevico!» – rispose Evgenij Pavlovič.
«Perché allora lei non vorrebbe essere al servizio della nostra armata? Chi è lei?»
Il generale si strinse nelle spalle.
«Lei non lo capirebbe» – disse con lo stesso pacato disprezzo con cui aveva parlato un giorno con Priklonskij, – «non sarebbe in grado di capire… Quando un immenso corpo vola nell’universo, nella sua orbita vengono attirati i corpi piccoli, persino contro la loro volontà. In questo modo si forma e appare un qualche, per così dire, settimo satellite… Ma tanto lei non capirebbe niente lo stesso e io considero che parlare con lei e cercare di spiegarle qualcosa, sia del tutto superfluo» – terminò, sentendo che tutto il sangue gli affluiva al viso per l’improvviso odio furioso verso quel soldatino di piombo, che strizzava stupidamente gli occhietti inespressivi di un automa.
Il tenente si alzò dallo sgabello e emise un fischio.
«Cambi la canzone, è vecchia! Capisco, lei fa finta d’essere pazzo.»
Si avvicinò alla porta, l’aprì e gridò nell’antiporta dell’isba: «Zacharčenko! Fai subito un salto da signor colonnello. Digli, che lo prego di venire qua, con urgenza.»
Chiuse la porta e, sedendosi nuovamente sullo sgabello, si mise a scrutare il generale dalla testa ai piedi, con la sfrontatezza indisponente della gioventù presuntuosa.
Evgenij Pavlovič gli girò le spalle.
Non si volse ai passi cadenzati, né allo sbattere della porta. Stava osservando con vivo interesse il cortiletto interno dell’isba su cui si affacciava la finestra. Un maialino pezzato di bianco e nero si stava grattando un fianco contro uno spigolo del truogolo. Un cucciolo di cane, con il pelo arruffato, stava tentando d’addentarlo per il ricciolo agitato del codino. Un altezzoso gallo vecchio, restando fermo su una zampa sola, seguiva malinconicamente, a cresta piegata, con un occhio giallo vitreo semichiuso, i tentativi ardui del cucciolo, come se volesse dire: «Sarei proprio curioso di vedere che cosa saprete combinare nella vita?!»
Evgenij Pavlovič si volse soltanto al richiamo della voce severa del tenente: «Prigioniero!.. All’erta!»
Evgenij Pavlovič guardò e scorse davanti a sé la faccia ben rasata di un pasciuto colonnello, fasciato piuttosto strettamente da un’uniforme inglese con le spalline tedesche sulle spalle, che stava ascoltando un precipitoso rapporto del tenente, leccandosi le labbra gonfie come i tubolari della bici.
Finito il rapporto, fece un passo verso il generale.
«Lei rifiuta di passare al servizio della gloriosa armata nordica?»
Il generale tacque. Le labbra per conto loro si curvarono in un sorrisetto: cheto, serpeggiante, intollerabile, sfuggito al controllo.
«Parlo con lei, risponda!» – alzò la voce il colonnello.
Per una reazione spontanea, gli venne una voglia matta di lanciare una frecciata, pur se fosse l’ultima, ma tale da far esplodere con un’offesa quella faccia levigata da un rasoio Gillette, del mestierante-mercenario.
Indi, il generale, strizzando un occhio, disse: «Nordica? Per caso avete un’armata in tutti i punti cardinali del mondo?»
Il colonnello si scostò bruscamente come per una frustata. I suoi “tubolari” si mossero, saltarono all’insù, sibilarono: «Lei comprende le conseguenze?»
Ancor più strisciante, intollerante e incontenibile divenne il sogghigno. Gli tornò in mente l’ex consigliere dello Stato dalla barba bianca, che lo avvertiva anche delle conseguenze, lì, nell’immensa sala bianca con la doppia fila di finestre.
Così disse a voce alta: «Comprendo le conseguenze, è lei che non riesce a comprendere le cause!»
Il colonnello gli lanciò uno sguardo d’ira. Gridò.
«Le domando per l’ultima volta: rifiuta di servire la Russia?»
Il colonnello Bermonte-Avalov era veramente agitato e preoccupato. Stretto in una divisa militare inglese, con le spalline tedesche e le onorificenze russe, non riusciva a capire questo vecchio, così come il generale Judenič non era in grado di comprendere la città di Pietro, Pitrogrado, che rifiutava da lui il burro e la farina canadesi.
Per risposta, il generale soltanto oscillò indietro e scosse la testa in segno di rifiuto.
«Perquisire il mascalzone!» – ordinò il colonnello, impietrito in faccia.
Le mani dei soldati spalancarono le falde del pastrano, si ficcarono dentro le tasche, si misero, duramente e dolorosamente, a stringergli le costole. Una mano tastò un oggetto nel taschino pettorale della camicia d’ordinanza e lo tirò fuori. L’oggetto scintillò pallidamente.
«C’è una cosuccia, vostra signoria!» – disse il soldato, consegnando l’oggettino al colonnello.
Nella mano larga del colonnello si posò, come nella culla, un totem d’oro di Buddha, il regalo preservato con cura dell’ardito bandito-rapinatore Turka. Il colonnello si chinò per esaminarlo. Nel sorriso dell’insensata saggezza di Buddha, il colonnello scorse una strana similitudine con il sorriso del vecchio con l’elmetto in testa da soldato della Guardia Rossa. Si accigliò e soppesò nella mano la divinità orientale.
«E’ d’oro!» – sogghignò. «E bravo generale! Il rapporto tanto stretto con la feccia bolscevica gli ha insegnato persino a rubare!» – E all’improvviso, imbestialendosi, urlò istericamente: «Dì, chi hai rapinato, vecchia carogna?! Chi?!»
Tremarono pallidamente le labbra senili. Tuttavia il generale non pronunciò una sola parola. Gli sembrava inutile e ridicolo.
Il colonnello gettò il totem di Buddha sulla scrivania.
«Comandi, signor colonnello?» – domandò il tenente mettendosi sull’attenti, leggendo negli occhi del colonnello la decisione presa.
«Fucilare!» – tagliò corto il colonnello, aggiustandosi la cintura di vernice.
«Entrambi?»
«Entrambi.»
«Zacharčenko, portali fuori!» – gridò a pieni polmoni il tenente, anche se il soldato si trovava vicino.

Davanti al muro stavano appoggiati per metà l’uno all’altro, legati ai polsi da un cinturone: il generale con le vecchie mani rinsecchite e il soldato d’ordinanza del tribunale, Kimka Rybkin, con le ruvide mani pelose da contadino.
Il cielo grigio-gialliccio sparpagliava sulla terra una neve minuta. In lontananza incessantemente rotolava il fragore rimbombante dei cannoni. Pareva che nel cielo fossero azionate grosse macine pesanti e da un immenso setaccio cadesse fior di farina, soffice e bianca, come neve.
Kimka, poggiandosi prima su un piede, poi sull’altro, disse proprio questo: «Il nevischio, è come la farina!»
Di fronte si schierarono i soldati Bianchi con i caschi tedeschi d’acciaio.
Il colonnello, appoggiandosi su una canna da passeggio, rimase fermo un po’ in disparte.
Evgenij Pavlovič abbracciò con lo sguardo il basso orizzonte paludoso, vedendolo tutt’ad un tratto allargarsi e aprirsi. Sul volto soffiò una scia della dolce aria rincuorante e, con questa ventata, tutto il mondo circostante cominciò scivolare nel vuoto lontano, come se dietro le spalle si spiegassero, frusciando, grandi ali per sollevarlo in alto. Il generale si volse, quel tanto che gli permisero le mani legate dietro, verso il soldatino con cui era unito e gli disse dolcemente: «Addio, compagno Rybkin.»
In ugual modo, con voce dolce e soave, gli rispose Kimka: «Grazie per le buone parole, compagno Ada…»
Le linguette gialle dello sparo avvolsero la sillaba non pronunciata.

Leningrado, 9 Dicembre 1926 – 3 Aprile 1927

F I N E



Ndt (13-mo capitolo): poluška - antica moneta russa, pari ad un quarto di copeco, veniva coniata sin dal XV-mo secolo, in disuso dal 1916.
 
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