Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 20/3/2012, 16:07 by: SkateRed

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Capitolo Dodicesimo


La città di Pietrogrado, per difendersi, lanciava nel combattimento distaccamenti, reggimenti e divisioni delle Guardie Rosse, come una stazione radio lancia le onde sonore nell’etere. Distaccamenti, reggimenti e divisioni piombavano sulle orde nemiche delle Guardie Bianche con attacchi frequenti, ma poco efficaci. La radio-stazione bellica funzionava sull’onda corta, raccogliendo in fretta e furia gli atomi dell’energia umana.
Dopo aver sferrato un colpo al nemico, le formazioni Rosse retrocedevano sanguinanti, assordando la città con le voci sulle sconfitte e le disfatte.
Affluivano unità combattenti fresche, ma ugualmente, dopo aver assegnato un debole colpo secco al nemico, si ritiravano indebolite dalla fame, dalla catastrofica mancanza di munizioni, dalla sibilante propaganda nemica che s’intrecciava ad ogni angolo come grovigli di serpi grigie.
Le strade maestre, sconnesse e impantanate, zuppe dell’orina di cavalli e del letame, come le strade vicinali innevate furono disseminate di carcasse di cavalli, di carri sfasciati ed abbandonati, di cannoni rovesciati.
Ormai da tre giorni sul colle del poggio nei pressi del borgo Gatčina, stava malinconicamente piegato su un fianco un autoblindo scrostato. Attorno, senza sosta, si affaccendavano i meccanici, con martelli rovinati e tenaglie scheggiate, invocando ogni sorta di maledizioni al gonfio borioso tempo beffardo che rotolava insensibile contro la vita, spietatamente minaccioso.
Tuttavia nessuno stratagemma del tempo poteva estirpare e spegnere la vita. La vita si dava da fare con tenacia inaudita sulle strade sconnesse, nello scatenato fragore rombante dei cannoni. La vita non badava agli sputi scoppiettanti del piombo rovente delle mitragliatrici, lanciati per romperle le ossa e per annegarla nel sangue, per annientarla.
Intanto lontano dalla prima linea rovente del fronte, non più sul manifesto, ma sulle grosse spalle vive, si accigliava, si corrugava il faccione da mastino del generale Judenič, che frustava furiosamente, con lo staffile dei cosacchi, il deretano del suo cavallo bianco e dava violentemente di sproni.
Il generale Judenič assomigliava al tempo. Era ugualmente grosso, minaccioso e scuro in faccia, com’erano minacciose le grosse nubi nere del cielo su Pietrogrado. Era pieno di malvagità, rabbia e astio nel volere, al pari del tempo, schiacciare la vita, incarnatasi per lui nell’armata nemica.
Al generale Judenič era tutto incomprensibile in questa strana armata.
Invece dei drappi di velluti, sete e broccati, dipinti con croci iridescenti e spessi strati di oro zecchino dello sfarzo pesantemente opprimente dell’impero, a quest’armata fungevano da bandiere i fazzoletti rossi di cotone delle operaie, che combattevano nelle file dei drappelli, schierate contro il generale Judenič, al pari dei mariti, dei fratelli e degli amanti.
Quest’armata non organizzava né parate, né cortei solenni nelle città conquistate, né servizi di te deum, né processioni di ringraziamento sulle piazze ancora insanguinate dai combattimenti, ma, silenziosamente, premeva nell’incontenibile stimolo a voler andare avanti, convulsamente stringendo mascelle e carabine; e negli occhi dei soldati caduti di quest’armata, anche dopo la morte si poteva leggere un volitivo rimpianto per il fatto che un pezzetto di piombo rovente, scagliato nel loro petto per mano del soldato Bianco, tolse loro per sempre la soddisfazione di scontrarsi, faccia a faccia, con il generale Judenič.
Nel guardare dentro a quegli occhi, il generale trasaliva con tutto il suo pingue corpo e le flosce guance da mastino cominciavano a tremargli già solo al pensiero di questo scontro.
Sovente, entrando in una città conquistata, in sella al suo ben nutrito cavallo bianco, egli ponderava, deluso e insoddisfatto, sull’impressionante ostinazione da formiche e lo stoicismo di questa vita, nell’aspirazione e nello sforzo di sconfiggere persino sua maestà – il Tempo.
Rifletteva sull’ingratitudine di questo paese cui, invece della fame, del dolore e della sofferenza per la conquista dei beni sconosciuti nel futuro incerto, egli stava portando ora, adesso, dentro i convogli ben sigillati, vere, sofficissime pagnotte di pane bianco e panetti grassi di burro canadese pressato. Centinaia di migliaia di mani, sollevate contro la marcia dell’avanzata del generale Judenič, non prendevano la sua farina e il burro, ma li respingevano con rabbia e sdegno.
Era questo, che il generale non riusciva proprio a comprendere.
Ogni sera, leggendo i bollettini operativi del comando, che scorrevano, come plotoncini lilla perfettamente allineati, sopra una bella striscia di carta di produzione inglese, liscia e frusciante, il generale Judenič s’imbestialiva, gonfiava le guance e strabuzzava gli occhi. Le sue corte dita nodose appallottolavano, sgualcivano furiosamente la pergamena britannica. Il generale Judenič raccoglieva con urgenza in riunione i capi degli stati maggiori e, con rauco basso tono da sottufficiale, esigeva da loro di rinforzare l’irruenza degli attacchi, per piegare e porre fine all’incomprensibile resistenza dei difensori di Pietrogrado.
Nell’etere si mettevano a ronzare i radiotelegrammi e la mattina dopo i reggimenti della gloriosa armata russa, vittoriosa nel corso degli ultimi due secoli, si buttava in accaniti attacchi, stringendo sempre più stretto il cappio attorno alla città agghiacciata, e già crepitavano gli ordigni di schrapnel sopra i parchi dei borghi Zarskoe Selo e Gatčina; e i mirini dei cannoni palpavano le ciminiere delle fabbriche nelle periferie di Pietrogrado.

Lo stato maggiore di divisione della Guardia Rossa fu dislocato nelle isbe di uno dei tanti villaggi d’Ekaterina. Gli imperatori e le imperatrici russi avevano piazzato nei dintorni di San Pietroburgo un gran numero di villaggi onomastici dedicati ai personaggi regali, come se fossero dei loro figli illegittimi.
Il fragore delle cannonate si avvicinava sempre più al villaggio d’Ekaterina e gli ordigni schrapnel fischiavano sempre più acuti e bassi, squarciando la neve con le loro pallottole sibilanti.
Lungo la strada rotabile, oltre una garitta di guardia, crollata come una casetta di carte da gioco, correva a tutta birra senza fiato, frustando i cavalli attaccati ai carri, una squadra per l’approvvigionamento alimentare della divisione, scappando dal fuoco nemico. Sui carri non c’era neppure l’ombra dei rifornimenti alimentari ed erano stati riempiti sino all’orlo di ogni sorta di cianfrusaglie: vasi coi gerani spezzati e congelati dal freddo, sedie e divani zotici coi piedini divaricati, materassini di piume, letti.
Su uno dei carri saltellava una statua di marmo di una ninfa, legata in piedi al carro, presa, probabilmente, in uno dei parchi, annesso a qualche palazzo.
Il suo braccio affusolato e la mano con le graziose dita paffute di una cortigiana nullafacente del diciottesimo secolo, erano rivolti al cielo e si sollevavano su ogni dosso della strada; sembrava che una pallida dea volasse sopra il carro, benedicendolo in questa fuga precipitosa e infruttuosa.
Gli ordigni giungevano sempre più bassi e cadevano sempre più fitti; ed ecco la strada fu scossa da uno scoppio fragoroso e una fontana di fuoco investì in pieno un carro in corsa, rovesciandolo, mentre le sue ruote continuarono a ruotare a vuoto nell’aria, cigolando su una cinica nota. Il carro rovesciato investì i cavalli, facendoli stramazzare al suolo. L’ultimo carro con la ninfa marmorea urtò contro il carro rovesciato.
Svanì lentamente il fumo dello scoppio. La ninfa continuava ad oscillare sopra il carro, ma senza braccio. Il petto e il volto furono ricoperti da una spessa scia rosso-scarlatta e attorno al suo collo si avvolse, come un boa, una zampa del cavallo.
In lontananza apparvero le sagome grigie degli uomini con le gambe allargate goffamente che, usciti lentamente da un boschetto, s’arretravano di schiena. Sotto il fuoco rovente degli attacchi delle Guardie Bianche stava retrocedendo l’ultima copertura dello stato maggiore di divisione.
Sul terrazzino dell’isba in cui c’era la sede dello stato maggiore, uscì il comandante di divisione e avvicinò agli occhi il binocolo. Era allarmato dal fragore vicino dei tiri dei mortai, ma la situazione reale del fronte gli era oscura. Ancora poco prima, il collegamento telefonico con il fronte gli aveva assicurato che tutto era sotto controllo e che gli attacchi dell’Armata Bianca erano stati frenati dalle riserve della Guardia Rossa.
Il binocolo appena sollevato agli occhi, cadde giù e rimase a dondolare sul cinturino.
Il comandante di divisione si strappò dalla testa il colbacco, lo sbatté con rabbia al suolo ed imprecò con una breve sfilza di parolacce micidiali. Tirò di scatto la porta dell’isba e urlò: «Tutti fuori! Veloci! Lasciate al diavolo tutte le scartoffie della malora! Tirate fuori le mitragliatrici! I bianchi ci hanno sfondato la copertura!»
Dalla porticina gobba, con ronzio e calpestio di piedi, come uno sciame di api scacciate con fumo, cominciarono ad uscire a stento, nella calca, gli aiutanti dello stato maggiore con le carabine in mano. Alla soglia dell’uscio si formò un groviglio umano. Gli uomini all’interno, occupati alla mitragliatrice, non vollero attendere finché si placcasse la confusione. Avvicinarono la mitragliatrice alla finestra, sollevarono quella “sputa pallottole” con la bocca di fuoco digrignata messa in avanti e, dondolandola per conferirle più forza, la sbatterono contro il telaio della finestra. Il telaio si ruppe con fracasso, tintinnio dei vetri frantumati, scricchiolio delle cerniere arrugginite; cadde fuori e la mitragliatrice rotolò morbidamente nel cespuglio del ciliegio selvatico sotto la finestra.
Il comandante di divisione stava vicino al terrazzino dell’isba e agitava la mano in aria tenendo stretta nel pugno una pistola a tamburo.
«Tutti in catena, compagni! In catena! Si va verso il bosco per rinforzare la protezione! Mitragliatori, sistemate il vostro “mops” sul limite del villaggio! Dài, muovetevi, accidenti! Svelti, compagni, svelti!»
Detto questo, corse per raggiungere lo schieramento degli uomini che avanzavano perfettamente allineati, messi per traverso alla strada e, sempre correndo, mettendo le mani a megafono, gridò, voltandosi indietro: «Gre-ben-kov!.. Manda qualcuno al tribunale per dire di svignarsela! Non c’è tempo per processare! Dì loro di finire i condannati e di scappare a gambe levate!»
Il capo di stato maggiore di divisione toccò la schiena di un giovane soldato della Guardia Rossa con gli stivaloni di feltro giallo, arabescati di vari colori d’anilina e lo fece andare al margine del villaggio. Il soldato corse dondoloni, come un papero dalle zampe gialle, sopra un leggero manto di neve, lanciando in alto la carabina.
Il soldato con gli stivaloni gialli si avviava verso un’isba che aveva un muricciolo in mattoni. Sul terrazzino d’ingresso dell’isba stava seduto un soldatino di statura piccola-piccola con una bonaria faccia tonda, fittamente arabescata da allegre minute efelidi dolcissime, e minacciava di infilzare sulla baionetta della carabina, sporgendola a destra e a manca, un gruppo pressante, accalcato attorno a lui, di cupi omoni finlandesi.
«Alt, indietro!.. E sì, ora condanneranno sicuramente il vostro amico, kulak, asociale e sfruttatore, e gli riempiranno la pancia grossa… col grano di piombo.»
Gli omaccioni finlandesi tacevano, ma gettavano al soldatino degli ottusi bestiali sguardi di traverso; minacciosi e orrendi.
«Kimka!» – gridò, avvicinandosi, il soldato con gli stivaloni di feltro giallo. «Ma che, siete matti? Chiudete la baracca! E’ l’ordine del comandante di divisione! Siamo circondati dai cadetti!»
Kimka, il lentigginoso, indicò con indifferenza i finlandesi.
«Intanto vado ad avvertire, dài un’occhiata a questi e se si metteranno a spingere, bucali la pancia» – disse flemmaticamente ed entrò nell’isba.
I finlandesi tesero l’orecchio. Dentro l’isba scoppiò sordamente, come attraverso un cuscino, uno sparo. Gli omoni finlandesi cominciarono a balbettare qualcosa velocemente nella lingua loro, e il soldato rosso con gli stivaloni di feltro giallo avvertì i brividi lungo la schiena. Subito dopo lo sparo, dall’isba uscì un uomo lungo e magro un po’ ingobbito che chiudeva, strada facendo, la fondina; era il capo della corte marziale. Le sue pallide labbra si contraevano nervosamente.
«Via, andatevene via!» – si mise ad urlare ai finlandesi. «Se no, vi stacco la testa a tutti quanti, brutti parassiti, accidenti a voi, sanguisughe!»
Gli omaccioni finlandesi corsero via a perdifiato, soltanto i codini di pelliccia dei loro colbacchi baluginavano dietro gli alberi e gli steccati delle palizzate. Un soldato della Guardia Rossa, anch’egli con gli stivaloni di feltro multicolore, uscito subito dietro il capo del tribunale, si strinse più forte sulla pancia il cinturone con le giberne nuove e corse per raggiungere la catena dei compagni, guidata dal comandante di divisione.
«Trasmetti al comandante che noi ci avviamo al villaggio Antropšino!» – gli gridò dietro il capo della corte marziale.
Tutti gli addetti della corte marziale si riunirono nei pressi del terrazzino dell’isba. Un vecchietto mingherlino nel pastrano un po’ stropicciato, ma ben adattato al suo corpicino secco, con un elmetto di lana in testa che gli calava leggermente su occhi e orecchi, era uscito per ultimo dall’isba e seguiva attentamente, dietro le spalle degli altri, lo svolgimento dell’avanzata della catena umana guidata dal comandante di divisione; l’ispida barbetta argentea del vecchietto si contraeva e si contorceva per la forte tensione.
«Compagni, avviamoci, forza!» – disse il capo della corte marziale e s’incamminò lungo la strada.
Gli altri lo seguirono, trascinandosi in frotta.
Avevano quasi raggiunto le ultime isbe del villaggio, da dove un largo viale li avrebbe portati nel boschetto, quando all’improvviso, proprio da quel boschetto, così come sbucano fuori su una lingua di terra non arata le lepri da dietro le spighe di grano, sbucò fuori una cinquantina di cavalieri con i caschi d’acciaio tedeschi in testa.
Si trattava dei cavalleggeri del colonnello Bermonte-Avalov. Quel tale colonnello senza scrupoli che era assai abile a vendersi al miglior offerente spada, onore, cittadinanza dietro un allettante compenso in marchi tedeschi, come pure in rubli russi, come pure in sterline inglesi.
I cavalleggeri avanzavano disordinatamente. Le sciabole sguainate splendevano pallidamente nell’aria innevata.
Il capo della corte marziale si fermò ed estrasse nervosamente dalla fondina la pistola a tamburo.
«Sparpagliarsi, forza! Correte, fuggite per i cortili dietro le isbe, per gli orti! Chi riuscirà a svignarsela, vada al villaggio Antropšino!»
Il gruppetto di uomini si sciolse e si sparpagliò all’istante.
Il capo della corte marziale si nascose dietro il tronco di un tiglio centenario e, appoggiando la rivoltella al ruvido strato di corteccia, prese di mira il cavallerizzo che cavalcava davanti agli altri. Fece in tempo ad alleggerire il tamburo della pistola di cinque colpi, poi uno dei cavalli lo schiacciò contro l’albero e una sciabola gli lasciò in testa un profondo squarcio.
Gli altri addetti della corte marziale, rispondendo al fuoco nemico, saltando e scavalcando palizzate, cercavano di fuggire per cortili e orti. I cavalleggeri davano loro la caccia, li inseguivano in sella ai cavalli.
Il soldatino della Guardia Rossa con la faccia tempestata dalle efelidi dolcissime e il vecchietto mingherlino con l’elmetto in testa leggermente calante sugli occhi e gli orecchi, stavano ormai per raggiungere il margine del boschetto. Dietro, rantolando pesantemente e battendo il tippete tappete con gli zoccoli ferrati, li stava incalzando un cavallo pezzato. Il soldatino si fermò e alzò di scatto la carabina. Scoppiettò uno sparo, si vide una linguetta gialla di fuoco e il cavalleggero stramazzò al suolo come un grosso sacco. Il cavallo in corsa arrivò rasente al soldatino e si fermò di colpo. Il soldatino l’afferrò per la briglia e si volse verso il vecchietto.
«Compagno magistrato, salga e io mi metterò dietro. Caspita, con un cavallo, siamo a cavallo!»
Aiutò il vecchietto a mettersi in sella e s’inerpicò sulla groppa del cavallo. Un momento dopo il deretano del cavallo baluginò in mezzo alle piante del boschetto e sparì dalla vista.
Oramai finita l’impari rincorsa degli addetti del tribunale, i cavalleggeri del colonnello Bermonte-Avalov cavalcarono via, diretti nelle retrovie delle Guardie Rosse in ordine sparso.
Non appena attorno non ci furono combattenti, vicino alla salma del capo della corte marziale cominciarono a riunirsi, come le iene attorno alle carogne, gli omaccioni finlandesi scacciati prima. Per alcuni secondi stettero fermi in silenzio e, all’improvviso, come se si fossero accordati tra loro, si misero a calpestare il cadavere accanitamente con i piedi negli stivaloni di feltro di qualità pregiata suolati di cuoio.
 
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