Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 20/3/2012, 14:11 by: SkateRed

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Capitolo Undicesimo


Il tempo scorrazzava per la città a gara con il vento del mare e per sollazzo si dedicava alla demolizione. Con un’immensa mano invisibile frantumava vetri di finestre; rompeva infissi, telai, porte; leccava via angoli delle case; alzava lembi di stucco, denudando le gonfie piaghe rosse dei mattoni.
Il tempo faceva imbarcare e screpolare l’asfalto dei marciapiedi sprofondati; cavava dal lastrico la diabase e le testate di pietra; giaceva nelle frane scavate delle fosse.
Il tempo rodeva coi denti i grossi pezzi dello zucchero granitico del lungofiume; strappava via i pennoni dei palazzi; sollevava e arrotolava in tubi le lamiere di ferro arrugginite dei tetti marci. Il tempo insieme al vento soffiava sulle fiamme dai lunghi capelli d’oro degli incendi, divampati dalle arroventate stufette a carbone.
A volte, stanco di questa frenesia, divenuta non più divertimento, ma un vero e proprio lavoro, il tempo si distendeva sulla città sopra i bassi nuvoloni grigi, col pancione all’insù, e, sbuffando, si meravigliava perfino egli stesso per la resistenza tenace della vita.
La vita non si spegneva con nessuno stratagemma. La vita guardava al tempo sfinito con migliaia di occhi beffardi da ogni squarcio delle case diroccate. La vita imparò a saltare attraverso le frane delle strade lastricate sui pesanti autocarri ruggenti e le motociclette.
La vita prendeva in giro il tempo e, non badando alla demolizione disastrosa del vecchio, costruiva il nuovo, stringendo forte nelle mani pietrificate un martello rovinato e delle tenaglie scheggiate.
E il tempo si abbandonava alla disperazione davanti a tutto questo lavoro da formiche, davanti agli uomini ritti, mai cedevoli, che riuscivano a scorgere davanti a sé quanto era invisibile persino al tempo.

Si disciolsero le nevi, rumoreggiarono e poi cessarono i temporali primaverili, una breve estate con il suo caldo fasullo e la polvere corrosiva smise d’investire marmi e graniti. La polvere fu lavata dalle piogge autunnali, e nuovamente la notte e la mattinata argentavano i rami degli alberi e gli spigoli dei palazzi, con la fitta brina aghiforme.
Evgenij Pavlovič non si assentava mai dal penitenziario in cui si era abituato, con cui familiarizzò e in cui si fuse, divenendo parte integrante delle sue mura e il proprio passato, passato di generale maggiore, di professore dell’Accademia giuridico-militare, era morto per lui, come se qualcuno lo avesse cancellato con un semplice e deciso tratto di matita rossa.
Un sofà nell’angolo della stanza del comandante divenne per lui la casa; le pareti, rivestite di maiolica, dell’ex stanza da bagno degli ex proprietari della palazzina, in cui adesso era stata collocata la caldaia del bucato, divenne il suo mondo.
Nella stanza da bagno era sempre caldo. Mentre negli ampi locali con altissimi soffitti regnava il freddaccio, impregnato di fumo e di puzza di tabacco forte, lì dentro scoppiettavano e si sprigionavano le scintille da vecchie palizzate, portoni e porte strappati chissà da dove, ciocchi di travi e di solai delle case in rovina, bruciati nella stufetta della caldaia del bucato.
Nelle nubi calde del vapore si affaccendava l’esile corpicino, che si spostava affrettatamente dalla caldaia alla vasca per il bucato e ai soldati della Guardia Rossa piaceva fare un salto per scaldarsi dalla «generalessa», com’era stato soprannominato da loro Evgenij Pavlovič.
Si accomodavano sul davanzale della finestra, sullo spigolo della vasca di marmo e, accendendosi una sigaretta arrotolata a mano, si mettevano a chiacchierare delle loro faccende domestiche, dei parenti, degli amici e dei conoscenti, della rivoluzione; invece, durante le lunghe serate buie, si raccontavano a bassa voce le favole.
Evgenij Pavlovič, con scarponi bullonati in cui sprofondavano le sue gambette secche avvolte nelle pezze da piedi, con le lise braghe da soldato e una camicia d’ordinanza sbottonata; insaponava e sfregava, insaponava e sfregava. La schiuma di sapone lievitava con migliaia e migliaia di bolle, avvolgeva delicatamente le sue mani rosse screpolate, mentre tutto attorno gorgogliava e ribolliva l’acqua e sguazzava la biancheria tuffata.
Gli pareva che ogni cosa fosse come nell’infanzia, nella lavanderia della casa paterna, persino la monotona voce del narratore di turno di favole, giungendo all’orecchio attraverso il vapore opalino, somigliava alla voce d’una loro domestica, di nome Avdotja.
Dopo aver caricato la caldaia del bucato con un mucchio di biancheria sporca, lasciandola in ammollo per la notte, il generale andava nella stanza del comandante e, riempiendosi la pancia con il liquido marrone e un tozzo di pane di segale razionato, si metteva a dormire.
Non appena una partita di biancheria era stata lavata ed asciugata, Evgenij Pavlovič si lavava personalmente a lungo e con molta cura, si pettinava i suoi capelli tagliati a spazzola, si metteva le braghe di gala con le bande rosse da generale, la giubba grigia coi risvolti rossi e, tutto piegato sotto il peso della cesta, portava la biancheria nelle celle per consegnarla ai detenuti.
A poco a poco, senza accorgersi, aveva acquisito tutti i modi di un’autentica lavandaia.
Esaminava la biancheria sporca controluce, palpava la stoffa ed era in grado di stabilire a priori le eventuali difficoltà e il risultato del lavaggio. Discuteva sui prezzi con i committenti, usando la voce stridula d’una vera donna-lavandaia ed era assai strano notare come a questa donna tremolasse sul mento una appuntita barbetta argentea.
Se qualcuno dei clienti osava rimproverarlo per la presenza sulla biancheria lavata di colore giallo o di macchie, il generale metteva il broncio, diveniva paonazzo di rabbia e furiosamente scagliava la biancheria contro il malcapitato, gridando con il suo falsetto irritato: «Giallo, macchie? Se la lavi da sé allora! Non pretenderà, per caso, che per una misera kerenka, le consegni la biancheria inamidata ed apprettata? Adesso che io lavi per lei? No, grazie tante, neanche per sogno! Gran signore dei miei stivali!»
Detto ciò, girava risolutamente le spalle al cliente sbigottito e spiazzato.
Il generale cominciò persino ad accorgersi della presenza in se stesso di certi aspetti d’avidità e d’avarizia da donnacciola, che, tuttavia, non gli provocavano alcun rammarico, ma viceversa gli suscitavano addirittura una gioiosa allegria. Usufruiva, per ordine del comandante, di una razione doppia del cibo per il lavoro di lavanderia; perciò il generale non acquistava mai nulla ai mercatini ambulanti, come facevano i detenuti e i soldati della Guardia Rossa, per cercare d’arricchire il pasto di qualche prodotto.
Si comprò soltanto un bauletto ferrato con una serratura ingegnosa a suoneria, dove metteva il suo abbigliamento di gala da generale e, sempre lì, depositava in uno degli angolini tutta la cartamoneta colorata, guadagnata con il bucato. Nello stesso bauletto era conservato con la massima cura il regalo di Turka il rapinatore – il totem d’oro di Buddha.
Spesso, durante le sere, Evgenij Pavlovič prendeva il tè in compagnia del comandante. Bevevano il tè e conversavano, parlando un po’ di tutto.
Il più delle volte il comandante affrontava il discorso dell’amore.
Il comandante desiderava ardentemente trovare una donna che fosse affine al suo cuore. Il popolano della provincia di Novgorog, emigrato nella capitale per lavoro, poi arruolatosi e combattente nella guerra zarista come un sottufficiale superiore, il comandante Kuchtin aveva gusti raffinati e un cuore sensibile e sentimentale. Durante queste serate capitava che entrambi condividessero anche un bicchierino o due di vodka casereccia e il comandante, un po’ stordito dall’alcool, con le guance di stearina d’un leggero colore rosa, seduto al tavolo di fronte ad Evgenij Pavlovič, diceva: «Tu, fratello Adamov, entra nel merito del mio ragionamento. Certo, oggi come oggi, non è proprio il momento giusto per cercare una relazione duratura con una donna, ma dentro di me ci sono il tormento e la smania forti di avere una femmina come la voglio io. Giudica tu stesso – che ne dici? – se sia allegra la mia vita con quest’occupazione. Fare da cane da guardia a gentaglia di ogni specie e spedirla al creatore nel regno delle fosse?! Per contrastare tutto questo, io certo non apro bocca – cosa ne potrei sapere io?! E se alla rivoluzione serve, che Kuchtin s’imbratti le mani nel sangue per la lotta contro tutti i nemici e le canaglie, Kuchtin non dirà mai una sola parola contro. Pur se, a volte, tutto ciò è proprio insopportabile! Sai, io sono già attempato, ormai sto per compiere i trent’anni! Dalle nostre parti si sposano sovente attorno ai diciotto anni per mettere su casa con i figli e tutto il resto. Io invece, tranne che accoppiarmi con le donnacce, non ho mai avuto una donna come si deve, una donna tutta mia, bella calda, che fosse per me solo. Il cuore che ho, però, è quello di un maschio popolano, terra-terra, che tiene assai al proprio seme. E’ solo che desidero sposarmi con una donna istruita e di ceto alto. Ora una così si può trovare. Le femmine della nostra cerchia sono tutte ottuse e insignificanti come le brenne. Io invece vorrei trovarmi una giovane nobildonna, diciamo una contessa: che fosse pulita, con le maniere dolci e che lavasse i musi ai figlioli e pulisse i loro nasi e poi insegnasse loro anche la lingua francese e il pianoforte. Ecco, è una femmina così che cerco, Adamov. La tratterei con ogni riguardo e la porterei, come si suol dire, sul palmo della mano e non degnerei tutte le altre femmine neanche d’uno sguardo. Ah? Adamov, mi riuscirà o no questa cosa? Tu, che sei un vecchietto acuto, dammi il tuo parere!»
Il generale alzava di scatto sul comandante le sue fessurine divertite degli occhi giocondi.
«Non saprei proprio» – diceva. «E come mai, lei vorrebbe sposare per forza una contessa?»
Il comandante, nel protestare e offeso, batteva le mani.
«Ehi, perché non riesci a capirmi, ma guarda un po’ e tu saresti un professore?! Come mai, come mai?! E’ perché soltanto una donna aristocratica saprebbe educare i figlioli in modo giusto! Io non riesco a cancellarmi dalla testa questo: il mio genitore, defunto, faceva il cocchiere nella tenuta di Novgorod dei conti Kurakin. E’ lì che mi è capitato spesso di vedere i figlioli del conte. Erano vestiti di tutto punto, puliti e ordinati, sapevano in che modo muovere il piedino, come fare dei cenni con le manine; cinguettavano in francese come dei canarini. E io al loro confronto: tutto irsuto, spettinato, il muso mai lavato, l’unica bretella delle braghe lise sempre rotta e le braghe che calano giù bisogna tenerle su con le mani. E se aprivo la bocca per parlare, non spiccicavo altro che un sacco di parolacce. E’ lì che ho visto una contessina. Aveva i capelli del colore del grano e gli occhi azzurro mare. E’ una così che vorrei sposare. L’avrei cullata per notti intere!»
«Lei, Kuchtin, ha la fantasia malata» – replicava il generale. «Peraltro, lei è un uomo scombinato: bolscevico, nemico dei borghesi e vorrebbe sposare una contessa! I suoi figli cresceranno, sapranno sbattere i tacchi, cinguettare in francese, ma saranno nemici della rivoluzione e i nemici suoi. Così verrebbe fuori la vera contraddizione classista, in cui sarebbe lei, in primis, a rompersi il collo. Lei continuerebbe a fucilare dei borghesi nemici, invece la sua signora-contessa si adopererebbe per insegnare ai figli l’inno: “Dio, salvi l’imperatore!”.»
Il comandante, perplesso, sbatteva per qualche secondo le ciglia, poi batteva un pugno sul tavolo.
«Col cavolo!» – urlava. «Col cavolo! Dici fesserie, Adamov. Di quale razza di inno “Salvi l’imperatore” parli, se le dirò che dovrà educarmi i figli da veri bolscevichi! Per far sì che non siano ignoranti grigi, e non si soffino il naso nel pugno, ma possano apprendere tutte le scienze e diventino veramente intelligenti.»
«E lei crede che la signora le darebbe retta?» – domandava il generale ancor più maliziosamente.
Il comandante impallidiva.
«Se non mi darà retta, allora si potrebbe darle una lezione: con la mano o la cintura.»
Il generale rideva.
«Insegnare alla contessa con la cintura? No, non ne verrebbe fuori nulla di buono. Smetta di dire sciocchezze, Kuchtin. Sarebbe meglio se si trovasse una donna di campagna brava e mite; invece con una contessa si farebbe venire soltanto un’ernia.»
Il comandante saltava in piedi e rabbiosamente beveva d’un fiato l’ultimo bicchierino di vodka.
«Me la troverò» – diceva, – «e non potrai dissuadermi, qualunque cosa mugugnassi contro!»
La lampadina si spegneva. Entrambi si mettevano a dormire. Uno con la bramosia d’una dolce contessa comunista bionda e occhiazzurra, l’altro senza bramosie di sorta.

Svanì l’autunno. Gli aghi della brina notturna e mattutina divennero più robusti, fitti e pungenti, mentre la prima neve, debole e indifesa, cadeva e si scioglieva, invano cercando di fasciare, con il suo soffice manto, ferite e piaghe marce della città sofferente.
Il tempo si capovolgeva, capitombolava, faceva acrobazie e capriole sui nuvoloni bassi, ridacchiava sguaiatamente coi fischi e gli ululati del vento. Il tempo rideva a crepapelle e scherniva, volgendo lo sguardo a ponente. Lì, all’occidente, gente frettolosa si era messa ad appiccicare sui muri cittadini e sulle fatiscenti costruzioni di campagna dei manifesti colorati con le righe per incise dei proclami. Sui manifesti, per tutta l’estensione del foglio, s’impennava un faccione carnoso dipinto con le guance flaccide da mastino, gli occhi gonfi e dei biforcuti baffi pendenti. Il colletto della giubba dell’uniforme stringeva talmente forte il suo grosso collo grinzoso, da formarne attorno delle specie di taralli che calavano giù sul suo petto a balze. Sulle sue spalle si arricciavano le lunghe frange delle spalline d’oro da parata, mentre gli occhi dell’uomo ritratto esprimevano la vera minaccia.
Sotto le guance cascanti da mastino c’era scritto su un nastro tricolore: «Generale Judenič».
I proclami sbraitavano i rimproveri sul disonore della capitale Mosca dalle cupole d’oro. I proclami esortavano i figli fedeli della patria ad annientare, distruggere, liquidare le canaglie infedeli, entrate in combutta con i servi dell’anticristo e il potere giudeo.
Lungo le strade sconnesse, si radunavano e affluivano nello stesso punto, come confluiscono le acque di piena primaverile dai piani scoscesi nel fossato profondo, le truppe armate più disparate, coi colbacchi cosacchi, coi caschi d’acciaio tedeschi, coi berretti a visiera inglesi, per fluire insieme su Pietrogrado.
In una delle giornate invernali nel penitenziario arrivò un uomo con il colbacco siberiano dalle lunghe orecchie da lepre. Aveva la barba alla cappuccina delle icone e gli occhiali con le lenti spesse come fondi dei bicchieri. Una stanghetta degli occhiali era rotta ed era attaccata con un filo di seta gialla.
L’uomo era arrivato per arruolare dei volontari nei reggimenti della Guardia Rossa, per combattere le truppe nemiche Bianche, comandate dal generale con le guance cascanti da mastino. Il governo della repubblica dei Soviet prometteva ai prigionieri volontari l’oblio di tutte le colpe e il condono totale. Alla domanda dell’uomo su chi fosse disposto di combattere per la Repubblica dei Soviet, fecero un passo avanti la metà degli uomini reclusi.
L’altra metà, sogghignando forzatamente e con gioia maligna, fissava le gibigiane nervose delle lenti sul naso dell’uomo col colbacco siberiano.
«Va bene» – disse l’uomo, abbagliando il comandante con la luce delle fiamme bianche delle lenti. «Registrare e accompagnare scortati tutti i volontari, verso sera, nelle caserme dell’equipaggio di guardia.»
Data la disposizione, l’uomo con gli occhiali volle visitare tutto il penitenziario, entrando in ogni minimo particolare con attenzione rapida e acuta.
Aprendo la porta della stanza da bagno, vide le nuvole della nebbia opalina e le lenti degli occhiali gli si velarono di una finissima rugiada.
«E’ la lavanderia?» – L’uomo chiuse la porta e sollevò le gibigiane delle lenti offuscate sul comandante. «E’ un’ottima idea! La ringrazio per l’iniziativa, compagno! Lei è il primo di averlo pensato, bravo!»
Il comandante avvicinò le dita alla visiera e, impazientemente, cercando colpire ancor di più l’uomo con gli occhiali, disse in fretta: «Mi permetta di riferire, compagno commissario. Una lavanderia non è una meraviglia, ma abbiamo una lavandaia davvero meravigliosa. Indossa le braghe ed è un ex generale. E’ un ex generale e un ex professore perfino. Peraltro è un vecchio talmente diligente e bravo, che non pare neppure essere un borghese.»
Il commissario, stringendo un occhio, guardò il comandante con un’espressione strana e, senza dire nulla, riaprì di scatto la porta della stanza da bagno. Evgenij Pavlovič si volse e sbatté le mani, liberandole dalla schiuma.
L’uomo con gli occhiali gli si avvicinò in modo rasente.
«Mi scusi, lei è un ex generale?» – domandò educatamente.
Evgenij Pavlovič, come se dubitasse della reazione, dapprima aveva indugiato a rispondere. Si asciugò le mani bagnate sulle braghe e soltanto dopo, sollevando in sù la barbetta, rispose.
«Sì, lo sono.»
«Quale ruolo copriva nelle forze armate zariste?»
«Io non ero nel servizio effettivo. Ero professore della storia del diritto all’Accademia giuridico-militare» – rispose Evgenij Pavlovič ad occhi abbassati, come se se ne vergognasse.
L’uomo con gli occhiali si volse verso il comandante e lo trapassò silenziosamente col fuoco delle lenti, che brillarono, benché fossero coperte dalla finissima rugiada, in modo micidiale, così che il comandante fece persino qualche passo indietro. L’uomo, tuttavia, non disse al comandante una sola parola. Prese Evgenij Pavlovič sottobraccio.
«Generale, a lei dispiacerebbe, se la pregassi di venire con me in automobile al quartiere generale della difesa?»
«Per quale ragione?» – chiese il generale con prudenza.
«Le spiegherò tutto dettagliatamente sul posto. Adesso, però, vorrei porle una domanda concreta. La nostra ripubblica» – l’uomo con gli occhiali evidenziò la parola “nostra” in modo breve e staccato, – «sta combattendo le orde Bianche! Ora non c’è più tempo per affrontare discussioni intransigenti, per le rivalse e le offese. Ora tutti quelli in cui batte un cuore vivo e chi ha un vero animo patriottico dovrebbero schierarsi dalla nostra parte. Lei, generale, ha l’istruzione e conoscenze importanti. Vorrebbe aiutarci?»
Il generale rimase zitto. Il comandante gli diede uno spintone da dietro, invisibile per gli altri, e fece gli occhi grossi. Evgenij Pavlovič si mise a ridere sommessamente e disse: «Se posso essere utile…»
Dopo un po’ di tempo, il generale aveva già messo il suo bauletto nell’automobile del commissario. Non fece in tempo neppure a cambiarsi e rimase con la camicia d’ordinanza, ma si mise sopra il pastrano di generale. Non possedeva altro.
L’uomo con le lenti sorrise.
«Caro generale» – buttò là, – «sarebbe meglio se lei nascondesse i suoi risvolti “rivoluzionari”. I tempi oggi sono agitati e la mia macchina con un passeggero così lontano dall’accettazione comune, potrebbe fare da bersaglio a qualche patriota. Noi cercheremo di vestirla in un modo più moderno.»
L’uomo con gli occhiali si calcò il colbacco siberiano in testa e tacque, proteggendosi la bocca dal vento. Rimasti fermi sull’incrocio d’una strada, si scoprì un po’ la bocca e domandò: «Per quanto tempo lei ha fatto… da lavandaia?»
«Quasi un anno.»
«Perché non ha cercato per sé un’occupazione più adeguata, non è andato a lamentarsi e ad avanzare rivendicazioni?»
Il generale guardava il susseguirsi della strada difficilmente percorribile, piena di gente. Nei pressi della loro macchina ferma per un intoppo passò una formazione dei marinai, baldanzosamente spiegando le braghe scampanate come vele ondeggianti e la schiuma dei riccioli dei capelli sotto i berretti senza visiera. I marinai battevano fragorosamente il suolo con gli scarponi bullonati e cantavano a squarciagola:

Rotola, rotola mela-melina, scagliata da Judenič,
quando t’imbatterai nei marinai avrai la brutta fine!

Il motivetto insistente continuava girare e rigirare vorticosamente nel nevischio della strada affollata. Il generale accompagnò con lo sguardo il drappello dei marinai e solo dopo rispose al commissario: «Lei, probabilmente, non ci crederà, ma per la prima volta nella vita mi sono sentito veramente utile.»
 
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