Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 19/3/2012, 22:18 by: SkateRed

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Capitolo Decimo



Sollevatosi dal davanzale, Evgenij Pavlovič si rimise il ritratto sotto il braccio e si trascinò giù per le scale. Trovandosi per strada si fermò meditabondo, riflettendo su dove andare. Si rammentò che poco lontano, a distanza di tre quartieri, abitava un suo vecchio compagno di studi all’Accademia militare, di cognome Priklonskij. Priklonskij si era ritirato presto dal servizio e si era impiegato al ministero degli esteri, tuttavia erano rimasti tra loro dei rapporti amichevoli. Si frequentavano spesso, fino agli ultimi tempi, e questi incontri erano sempre cordiali.
Evgenij Pavlovič tirò su la barbetta e, piegandosi verso sinistra sotto il peso del ritratto e del fagotto con i vestiti, s’incamminò lungo il marciapiede.
A casa dei Priklonskij gli fecero un lungo e dettagliato interrogatorio, attraverso la porta chiusa: chi era, chi cercava, cosa voleva? Evgenij Pavlovič riusciva a rispondere a fatica. La camminata per le vie della città lo aveva indebolito definitivamente; e, quando la porta fu finalmente aperta, mancò poco che cadesse nell’anticamera a peso morto.
Priklonskij ricevette il generale in una stanzetta, occupata quasi interamente da una esageratamente larga ottomana, coperta con un tappeto persiano e da una scrivania.
«Ma chi si vede! Salve!» – salutò, vedendo entrare Evgenij Pavlovič. «Sei proprio sparito dall’orizzonte! Scusami, se ti ricevo in questo sgabuzzino, ma siamo stati incomodati dai nuovi inquilini. A noi sono rimaste solo due stanze, per cinque persone, più questa mia stalluccia.»
Il tono di voce e il modo di parlare di Priklonskij erano insolitamente precipitosi e saltellanti; peraltro continuava a guardarsi attorno inquieto e a trasalire spesso.
«Come sarei potuto venirti a trovare?!» – disse il generale, sedendosi sull’orlo dell’ottomana. «Sono stato rilasciato soltanto oggi. Per due mesi sono stato rinchiuso dentro come un ostaggio.»
Gli occhi di Priklonskij si arrotondarono con sgomento e si misero a divorare il generale.
«Cosa dici?! Sei stato arrestato ed eri in galera? Dove?»
«Ero recluso in un penitenziario provvisorio del distretto comunale, Litejnyj, della commissione straordinaria della Ceka» – rispose Evgenij Pavlovič, come se formulasse un rapporto ad un superiore.
Priklonskij cominciò a dimenarsi per la stanzetta, agitato inciampò nell’ottomana, afferrò dalla scrivania, non si sa per quale ragione, un nettapenne e si mise a girarlo tra le mani; se ne sbarazzò, gettandolo nervosamente e, con sguardo scrutatore, si rivolse ad Evgenij Pavlovič.
«Allora sei fuggito!» – affermò con sicurezza. «Sei fuggito... fuggito…»
«Ma cosa ti prende?» – Il generale alzò con stupore la barbetta. «Perché la tua testa ti dice, che sono fuggito? E poi, come mai sei così nervoso?.. Stai tranquillo: sono stato semplicemente rilasciato.»
«Blablà blablà, amico!» – fece Priklonskij. «Raccontalo a qualcun altro! Io non sono un bambino: so perfettamente che, da lì, nessuno esce! Non devi temermi: io non farò la spia!»
«Macché, sei impazzito!» – scattò il generale irritato. «Ti ripeto: mi hanno rilasciato. E adesso sono venuto da te con una preghiera d’offrirmi un temporaneo alloggio.»
Priklonskij si scostò bruscamente: le sue guance divennero flosce e cascanti come due vecchi stracci.
«Come mai non sei tornato a casa tua?» – domandò e ammiccò maliziosamente.
«Perché l’appartamento mi è stato requisito. Mi consideravano morto. Io, a questo punto, non so dove andare. Vorrei pernottare a casa tua e farmi consigliare su cosa fare a questo punto.»
Priklonskij fissava Evgenij Pavlovič con un sogghigno di diffidenza e, non appena lui tacque, cominciò a borbottare: «Beh, beh, certo. Però non vuoi essere sincero e raccontarmi la verità, invece che inventare le fandonie, riguardanti il tuo appartamento… E poi… poi...» – Priklonskij abbassò la voce e si mise a sussurrare. «Ti prego, non restare a casa mia. Cerca di non fraintendermi… No, io non dimentico la vecchia amicizia… ma capisci… su di me ci sono delazioni sulle delazioni, io stesso da un minuto all’altro aspetto un arresto; e insomma, sono un uomo sposato e ho dei figli… Se dovessero scoprirti a casa mia – per noi tutti sarebbe la fine. Dovresti comprendere in che condizione mi trovo…»
«Ma non ho un solo posto dove andare… Non ho un tetto per stanotte. Volente o nolente, ormai non posso andarmene. E’ già tardi! Fammi dormire stanotte su quest’ottomana e domattina, me n’andrò via, giacché non riesci a credermi e hai tutta questa paura» – disse amaramente Evgenij Pavlovič.
Priklonskij cominciò un’altra volta a dimenarsi per la stanzetta, stringendosi la testa tra le mani.
«Evgenij, ascolta… Beh, cosa vuoi? Beh, ti servono dei soldi? Te li do… ma vattene, vattene ti prego… Per amor di Dio… Cosa vuoi, che mi metta davanti a te in ginocchio. Abbi pietà dei miei figli!» – cominciò a balbettare, perdendo le ultime briciole di coraggio e sbirciando come un cane bastonato nel viso di Evgenij Pavlovič.
Evgenij Pavlovič mandò un gemito. Una torbida scia di gelido freddo s’avvicinò lentamente alla gola; avvertì una terribile nausea e un autentico spavento davanti al fatto che quest’uomo, impaurito a morte, veramente si mettesse davanti a lui in ginocchio. Si sollevò dall’ottomana, la barbetta cominciò a tremargli, buttò là con un fievole e perciò orribile disprezzo: «Calmati… me ne vado via…»
Priklonskij divenne subito raggiante.
«Beh, lo sapevo, sapevo, che sei un buon amico di vecchia data e che non vorrai compromettermi in alcun modo e farci del male. Forse, ti serve davvero il denaro? O no, meglio, sai cosa faccio? Ti scriverò un bigliettino per un uomo fidato. Lui potrà sicuramente ospitarti…» – si affrettò, gettandosi alla scrivania e afferrando un bloc-notes, ma lo abbandonò subito e corse per abbracciare Evgenij Pavlovič.
Il generale si svincolò seccamente.
«No, non mi toccare!» – esclamò e mosse con disgusto le labbra impallidite.
Prese dal pavimento il ritratto e, non degnando Priklonskij di un solo sguardo, senza salutarlo, si avviò in silenzio alla porta d’uscita, la aprì e scese in strada.
La pioggia, appena gocciolante mentre Evgenij Pavlovič si avvicinava alla casa di Priklonskij, era divenuta battente con tutta la sua furiosa autunnale sfrenatezza, da sembrare che nell’oscurità serale, sulla strada nera, tersa e rilucente dall’acqua piovana, lavorasse frettolosamente ed efficacemente un’immensa filatrice, filando dei lunghi, sonori e bagnati fili di un argento trasparente.
Già al primo portone, lungo il marciapiede, un intero torrente d’acqua scrosciò su Evgenij Pavlovič dalla pensilina spiovente d’ingresso. Dei rivoli gelidi gli “arroventarono” la testa, scivolarono giù dal collo per il bavero del pastrano, diedero una mano di vernice fresca alla cornice e al vetro del ritratto. Il generale balzò verso il muro spaventato e aderì con tutto il corpo alla sporgenza del palazzo. Qualcosa che era nella tasca interna della giubba gli schiacciò dolorosamente una costola. Con un movimento automatico, Evgenij Pavlovič tirò fuori l’oggetto del fastidioso dolore e nel buio della pioggia sferzante distinse l’opaco luccichio del piccolo totem d’oro, regalatogli da Turka fucilato. Tenne per un po’ il feticcio in mano, lo rimise con cura in tasca e, come se avesse finalmente preso una decisione definitiva, affrettatamente s’incamminò saltelloni, sguazzando nelle pozzanghere della pioggia.
Dopo un’ora di camminata arrancante lungo delle strade mortalmente desolate, in lontananza scorse il baluginare della luce bassa di una lampadina sopra un portone d’ingresso. Arrivato a quella luce del portone, Evgenij Pavlovič riprese il fiato, si tolse il berretto a visiera bagnato fradicio, ne scrollò l’acqua, e solo dopo spinse deciso la porta dell’ingresso per entrare.
Per traverso dalla scala si protese una carabina ed una guardia Rossa, con ai piedi dei pesanti scarponi bullonati, gli sbarrò la strada d’accesso: «Ferma! Chi è lei? Non si può! Il lasciapassare!» – gridò severamente.
Evgenij Pavlovič guardò la sentinella con aria supplichevole.
«Il comandante è a casa?» – chiese, aggrappandosi all’ultima speranza.
«Quale comandante?»
«Il nostro, di questo penitenziario, Kuchtin…»
La guardia strabuzzò con perplessità le fessure a mandorla degli occhi, guardando la figuretta irreale nel pastrano di generale bagnato, con un ritratto di donna sotto il braccio e, dopo essersi stretto nelle spalle, si mise a gridare in sù in modo risuonante e staccato: «Ehi! Caporale di muta! Chiama il comandante! Qui c’è uno, che lo sta cercando… Siediti intanto, compagno!» – E indicò ad Evgenij Pavlovič, con la punta della baionetta, uno spigolo di marmo rosa della scala.
Evgenij Pavlovič si appoggiò allo spigolo. La guardia continuò a fissarlo, poi domandò finalmente: «Ti sei bagnato tutto, nonnino?»
Evgenij Pavlovič annuì silenziosamente e batté i denti per il freddo preso.
La guardia storse gli occhi pietosamente.
«A te, nonno, servirebbero adesso un tè e un giaciglio di stufa, belli caldi, anziché andare in giro con questo tempaccio» – disse con aria affettuosamente beffarda. «Quale motivo ti ha portato dal comandante? Hai qualche parente nel nostro penitenziario?»
Evgenij Pavlovič non fece in tempo a rispondere, perché si sentì un fragore di passi precipitosi, lo sbattere di porta e la voce incollerita del comandante, la cui testa apparve da sopra, nella semioscurità della rampa di scala: «Qual è l’accidente che ha tutta questa fretta? Non c’è un momento di pace, da questi diavoli! C’è la disposizione che si riceve sino alle diciotto!»
Evgenij Pavlovič si alzò e con un ultimo sforzo si mise sull’attenti.
«Sono io! Adamov…»
Il comandante, saltando due-tre gradini per volta, piombò giù e afferrò il generale per le spalle.
«Adamov? E perché?»
Evgenij Pavlovič, con un movimento disperato, sollevò di scatto le mani e si aggrappò alla camicia d’ordinanza del comandante.
«Mi riprenda indietro!» – gemette con voce interrotta. «Prendetemi, vi prego! Fucilatemi piuttosto. Non ho un altro posto dove andare. Io non ho più la casa, non ho niente, da tutte le parti sono stato scacciato. Io non voglio morire sulla strada!»
La sentinella, sconcertata, guardava in modo interrogativo il comandante: anche il comandante aveva un’aria smarrita. Cessato l’urlo dell’animo distrutto, Evgenij Pavlovič affondò la faccia nella insudiciata camicia d’ordinanza del comandante e tacque.

«Continua a bere, bevi più che puoi, Adamov» – diceva il comandante, versando dal bollitore di rame, annerito di fuliggine, già il quarto boccale di succedaneo del tè: marrone scuro, odorante di catrame e di valeriana.
«Bevi, fratello, devi scaldarti come si deve, se no ti abbatterai del tutto. Non appena ti riempirai la pancia con il tè, ti darò pure un bicchierino di vodka casereccia, per sciacquarti la gola. E speriamo che non ti prenda un malanno.»
Evgenij Pavlovič era seduto nudo sul divano del comandante, imbacuccato nel suo pastrano. Le gambe erano avvolte in una vecchia coperta bucata. Stava lentamente sorseggiando il tè bollente, e il vuoto stanco delle sue occhiaie si rifletteva nell’incerto specchio fluttuante della superficie d’alluminio del boccale.
Il comandante mise nel tè un pezzo di zucchero.
«Ecco, te lo faccio anche dolce! Invece, per quanto riguarda questo tuo amministratore del condominio, domani andrò io stesso a parlargli. Dovrà stringersi, eccome, e restituirti una stanza!»
Evgenij Pavlovič scosse la testa con disappunto. Già il pensiero del ritorno nel mondo in cui per lui non si era trovato un posto, gli sembrava orrendo e spaventoso. Il generale timidamente sollevò lo sguardo fisso al comandante. Le guance di stearina del comandante svelarono semplice umana bontà e compassione.
«No. Io non voglio tornare più là. Mi è difficile e doloroso ritornare al passato» – disse il generale ansioso. «Mi permetta di rimanere qua. Non vivrò a lungo.»
Il comandante si arruffò i capelli in testa.
«Sei un vecchio giusto, non c’è niente da dire,» – disse impensierito, – «non hai niente a che vedere con tutta l’altra feccia borghese e hai l’animo umano, pur avendo un pastrano di generale. Solo, con quale diritto ti potrei lasciare qui? Non sono in grado di arrestarti di nuovo. Per quale motivo, senza un mandato? E anche se ti tenessi qui senza una ragione, non mi farebbero certamente delle lodi!»
Entrambi tacquero.
«Forse si potrebbe trovare per me qualche lavoretto? Da scrivano nella vostra cancelleria… o prendetemi come soldato semplice» – disse all’improvviso il generale.
Il comandante si abbandonò sullo schienale della sedia, strabuzzò gli occhi e si mise a ridere sonoramente.
«No, amico mio, questo non si può. Noi teniamo per i lavori di cancelleria la gente del partito, la nostra documentazione è segreta. Invece, per diventare una Guardia Rossa, è la tua età che non lo consente. C’è poco da scherzare» – accigliandosi, tutt’ad un tratto mutò il comandante l’aria divertita, abbassando la voce. «Il nostro lavoro è molto pesante. Ci capita di fucilare. Persino chi ha una rabbia matta contro i borghesi, per tutto quello che ci avevano fatto, non riesce a sopportarlo a lungo – rischia di impazzire. Tu poi, non c’entri proprio.»
Evgenij Pavlovič chiuse gli occhi e trasalì con tutto il corpo.
«Però, aspetta, c’è una cosa» – continuò il comandante, rallegrandosi, «a quanto pare, tu sei bravo a fare il bucato?»
Evgenij Pavlovič annuì.
«E allora. Qui da noi, i detenuti si lamentano che c’è sporco, in molti non riescono a cambiarsi la biancheria. Assumere una lavandaia, sarebbe una cosa impensabile: è una femmina, invece qua da me sono raggruppati certi stalloni. Si creerebbe l’oscenità e il bordello con qualsiasi femmina: giovane o centenaria. Ecco, se desideri, avrai una razione doppia e mettiti a lavorare. Adibiamo nella stanza da bagno una caldaia per il bucato e tutto quel che ti potrà servire. Per i detenuti poveri lava gratis e invece i ricchi borghesacci, puoi far pagare quanto ti pare. Che ne dici? D’accordo?»
Il generale strinse più volte le labbra e bevve un sorso di tè. Superato il primo minuto d’incredulità sbalorditiva, percepì con tutto il suo essere una straordinaria gioia e allegria; gli venne da ridere, come nell’infanzia, quando riusciva ad escogitare qualche eccezionale monelleria senza precedenti. Con il volto illuminato da un rasserenato sorriso aperto, disse al comandante soltanto un breve: «Grazie, compagno!»
Ed avvertì con vivo stupore, come suonasse per lui stesso, stranamente facile ed eloquente, questa parola, vischiosa sino a quell’istante e bloccante tra i denti: «Compagno».
 
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