Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 18/3/2012, 14:08 by: SkateRed

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Capitolo Nono


Un primo breve trillo del campanello, non aveva richiamato l’attenzione di nessuno nell’appartamento. Evgenij Pavlovč attese e pigiò più a lungo il pulsante. Un minuto d’attesa e dietro porta si sentì il calpestio dei leggeri e veloci passi fermi, così diversi dal malinconico strascicare dei piedi di Pelagea. La porta fu aperta. Sbarrandola, sull’uscio rimase ferma una robusta giovane donna dalle guance rosse con un golfino di lana di cammello, lavorato a ferri.
«Chi cerca?» – domandò in modo non ostile, ma con diffidenza.
Evgenij Pavlovič, esitando, avvicinò le dita alla visiera.
«Io… non sto cercando qui nessuno… Sono arrivato a casa, cioè… a casa mia» – rispose, confondendosi nelle parole, e non distogliendo lo sguardo dal neo ovale sulla guancia sinistra della donna.
Gli occhi della donna diventarono più rotondi di colpo. Si confuse per la sorpresa. L’uomo di statura esile con il pastrano di generale, con il berretto a visiera, calcato sugli orecchi e uno spazzolino di barbetta appuntita che si trovava davanti a lei, era mille miglia lontano dal somigliare ad un delinquente o ad un imbroglione, tuttavia quello che affermava, sembrava stranissimo e orrendo. Preoccupata, si girò per guardare dietro, nel buio del corridoio dell’appartamento.
«Come a casa sua? Lei, probabilmente, avrà sbagliato il piano? Qui abitiamo noi!»
«No, non ho sbagliato» – contraddisse Evgenij Pavlovič e indicò la targhetta di rame, avvitata alla porta. Non era stata ancora tolta e sulla sua superficie verdastra, nereggiava la scritta: – Evgenij Pavlovič Adamov –
«Quest’Adamov sono io» – disse il generale, – «vede, non c’è sbaglio.»
«Ma non ci capisco niente» – replicò la donna e all’improvviso, folgorata dall’intuizione, batté le sue giovani mani tonde. «Oh, è lei, allora!..»
I lineamenti della donna si confusero in un sorriso imbarazzato.
«Allora, sarebbe lei, quello stesso generale che…». E, troncando la frase, con una strana voce un po’ masticata, disse: «Guardi, lei dovrebbe parlare con l’amministratore del condominio, perché il suo appartamento è stato occupato.»
«Sì, me lo avevano già detto» – rispose Evgenij Pavlovič, girando un bottone del pastrano. «E solo, come tutto ciò è potuto accadere?.. Io non riesco a comprendere… Dovrei vivere anch’io da qualche parte?!»
«Ma guardi… nel comitato degli inquilini, veramente, credevano che lei…». La donna interruppe la frase e arrossì, sopraffatta dall’angoscia.
«Io, davvero, non saprei spiegarle tutto. Sarebbe molto meglio che lei parlasse direttamente con l’amministratore.»
«Va bene, vado subito a trovarlo!» – esclamò il generale e si girò per scendere le scale: l’amministratore occupava un tempo un appartamento, il cui portone si trovava all’interno del secondo cortile interno del condominio.
«E allora dove sta andando?» – chiese la donna. «L’amministratore adesso abita qua, proprio in quest’appartamento! Abbiamo traslocato insieme. Lei entri, entri, lui adesso è a casa» – disse e retrocesse per far passare Evgenij Pavlovič nell’anticamera.
«Vada avanti. Sa com’è sistemato l’appartamento? L’amministratore occupa l’ex studio e la sala da pranzo» – buttò là la donna e scosse la testa con una sottintesa malizia.
Tutto il suo corpo esprimeva: «C’è una sorpresa!»
Evgenij Pavlovič, esitando e in punta di piedi, s’incamminò per lo stesso corridoio, lungo il quale aveva camminato da legittimo padrone per molti anni e bussò alla porta del proprio studio di una volta.
«Uffa, avanti!» – arrivò da lì una voce.
Evgenij Pavlovič entrò nello studio.
Per primo che erano saltate agli occhi le suole degli stivaloni, sovrastanti il bracciolo del divano e ognuna aveva nel centro un grosso buco tondo. Le suole si muovevano lentamente, battendo con i bordi l’una contro l’altra. Negli stivaloni erano appiccicate le gambe, alle gambe – un corpo, al corpo – una testa. La bocca della testa stava sprigionando il fumo denso di una sigaretta. Attraverso il fumo, chi era disteso sul divano, non poteva scorgere chi entrava, perciò, senza cambiare la posizione del corpo, domandò con indolenza: «Uffa, chi è? Che c’è ancora?»
«Sono io» – disse il generale timidamente. «Io, Evgenij Pavlovič.»
Le suole spiccarono in aria. L’uomo sdraiato saltò in piedi e per alcuni secondi rimasto di stucco e stupefatto, a fissare il generale.
«Lei?.. Lei?.. Lei?..» – esclamò infine per tre volte, come se volesse dire: «Sparisci!.. Sparisci!.. Maligno!..»
«Sì,.. sono stato rilasciato» – disse indistintamente Evgenij Pavlovič, con timidezza come se avesse commesso un’azione indecente ed ora si stesse scusando.
L’amministratore gli diede uno sguardo di sbieco e osservò nell’aspetto del generale uno strano smarrimento e avvilimento. Questo fatto conferì all’amministratore coraggio; raddrizzò il corpo e divenne solenne in modo glaciale.
«Vedo» – disse severamente, come uno che ha il potere. «Lei è venuto da me per qualche faccenda urgente?»
Evgenij Pavlovič avanzò un poco; la sua barbetta trasalì e si mise a tremare.
«Quale faccenda? Sono semplicemente tornato a casa. Mi perdoni,» – continuò nervosamente e agitò le mani, – «ma ci deve essere una spiegazione a tutto questo. La prego, mi faccia capire! L’appartamento è mio e… dopo tutto…»
Il generale si confondeva, s’impappinava e, man mano lo faceva, la faccia dell’amministratore assumeva un’espressione sempre più distaccata e gelida.
«Permetta, cittadino Adamov» – lo interruppe bruscamente, - «qua non c’è niente da capire. E’ tutto elementare. Non esiste più il suo appartamento privato, perché è stato trasformato in una coabitazione, numero sette. Lei è stato considerato defunto e il suo appartamento, adesso, è abitato dalla popolazione lavoratrice. Il provvedimento è stato approvato unanimamente dal comitato degli inquilini ed è irrevocabile. Il fatto che lei sia vivo, è un equivoco!»
«Ma come può essere? Questo è un non-sens giuridico!» – sfinito, riuscì a balbettare Evgenij Pavlovič, sopraffatto dalla tensione
L’interlocutore scalciò con una gamba e si accigliò.
«Non utilizzi le parole del vecchio regime, prego… Anche se lei è vivo, a noi ciò non serve. Il suo appartamento sarebbe lo stesso occupato, in quanto lei è un elemento che non appartiene alla classe dei lavoratori e tutti i suoi beni sono soggetti ad esserle sottratti, per la distribuzione equa tra la popolazione indigente.»
L’amministratore, andando avanti con il discorso, acquisiva sempre più aplomb e pronunciava dei concetti memorizzati pappagallescamente con particolare autocompiacimento. Prima della rivoluzione, quel tale era un impiegatuccio d’ufficio, presso un notaio e nel condominio era considerato da tutti come un essere petulante e lesto di mano. Adesso, ristabilitosi in un attimo dal primo imbarazzo, prendendo atto della depressa condizione psichica del generale, quest’individuo aveva deciso di agire senza ritegno con insolenza spietata.
«Ma, se è lecito…» – lo contraddisse Evgenij Pavlovič, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, «supponiamo pure che l’appartamento e gli altri beni materiali siano stati soggetti a confisca. Essendo, tuttavia, stato prosciolto da tutte le accuse e con ciò assolto, ho diritto di abitare da qualche parte. Peraltro qui si trovano le cose che non mi possono essere sottratte da nessuno… Sono i miei documenti… Lettere… Diari…»
«La proprietà privata è stata abolita» – lo contraddisse l’amministratore con fermezza.
«Scusi, ma lei parla con un giurista!» – scattò Evgenij Pavlovič, «M’intendo delle leggi! Possono essere confiscati i beni materiali e non gli oggetti che hanno un valore solamente per i loro possessori; un valore, peraltro, non reale, materiale, ma morale. Nessuno può privarmi dei ricordi!»
L’amministratore si volse alla finestra. Percepiva che la situazione era diventata parecchio spinosa e pericolosa.
«Veda, cittadino generale,» – cominciò a dire con indulgenza, – «di tutto ciò non è rimasto più niente. In ogni modo, anche lei dovrebbe entrare nel merito della nostra situazione. Sa, nel condominio, tutti quanti erano sicuri che lei fosse ormai morto. Per questo, dal momento che il suo appartamento era stato occupato da altri, ho ordinato di bruciare tutte le cartacce, in modo che non rimanessero buttate inutilmente in giro…»
A questo punto, l’udito dell’amministratore era stato colpito da uno strano rumore che lo fece girare indietro di scatto e, voltandosi, vide come il generale a bocca spalancata, soffocando e boccheggiando, stesse cercando disperatamente di ingoiare l’aria; e ancora, un attimo dopo, lo vide accasciarsi, crollare nella poltrona e scoppiare in un pianto inconsolabile.
L’amministratore fece un passo verso il generale, si fermò, con impotenza diede uno sguardo attorno e corse nella sala da pranzo. Un minuto dopo ritornò con un bicchiere d’acqua e, sollevando la testa del generale, gli diede da bere come ad un bambino. Un sorso d’acqua gli entrò in gola per traverso ed Evgenij Pavlovič, dopo un accesso di tosse, tacque.
L’amministratore andò di nuovo nella sala da pranzo e, per una svista, non chiuse bene dietro di sé la porta. Così, attraverso lo spiraglio della porta, Evgenij Pavlovič poté assistere ad una conversazione a due voci: una maschile e una femminile. Era evidente che l’amministratore parlava con la moglie.
«Poveretto, mi dispiace» – disse la voce di donna, – «è vecchio!»
«E sì, hai compassione per tutti!» – disse l’uomo. «Cosa vuoi? Ritornare nel nostro appartamento vecchio e ridare a lui questo? Bisogna invece sbarazzarsene subito in qualche modo. Sai benissimo anche tu stessa che abbiamo venduto tutti i suoi oggetti di valore. Pensa, in che razza di storia brutta finiremmo di cacciarci, se lui dovesse andare a lamentarsi…»
Le voci si abbassarono ed Evgenij Pavlovič non udì più nulla. Si asciugò le palpebre e si alzò in piedi. Nello studio era rientrato l’amministratore; i suoi occhi sfuggivano ed evitavano di fermarsi sul volto del generale.
«Lei non si strugga intanto. Si potrebbe, forse, ancora rimediare in qualche modo!» – pronunciò, assumendo il tono ufficiale di prima. «Lei faccia domanda al comitato degli inquilini e noi le cercheremo qualche stanzetta…»
«No, non serve» – interruppe Evgenij Pavlovič, – «e non abbia paura: io non andrò a denunciarla. Tanto fa lo stesso. Andrò a sistemarmi da qualche conoscente. Arandarenko abita ancora in questa casa?»
«Ormai da tre settimane è partito per l’Ucraina.»
«Tanto fa lo stesso» – disse il generale un’altra volta, – «non importa!»
Intanto gli occhi abbracciavano lo studio come se salutassero per sempre ogni cosa familiare in cui si celava una particella della propria vita ed egli scorse all’improvviso, sopra il divano, il ritratto della moglie. Il ritratto stava appeso inviolato, nella stessa pesante cornice di quercia, come sempre un po’ storto. A passo deciso, si avvicinò al divano.
«Io prendo questo.»
«Ma certo, certo. Capisco… per spirito umanitario» – si precipitò l’amministratore rallegrato e salì frettolosamente sul divano per togliere il ritratto. «Se vuole, prenda anche qualche altra cosa. Pur se ora, tutto questo appartiene alla casa ed è stato trascritto nel registro, ma mi metto nei suoi panni.»
Incontrato, però, lo sguardo di Evgenij Pavlovič, tacque subito e gli diede frettolosamente il ritratto; Evgenij Pavlovič se lo prese a fatica sotto il braccio e si mise il berretto a visiera.
«Buona fortuna, vivete felicemente… se ci riuscite!» – disse, sottovoce.
«Sia indulgente, cittadino Adamov. Davvero, io per ogni... con piacere, ma è il tempo, sa com’è… Non sono stato io ad imporre la risoluzione… è il comitato… degli inquilini… l’assemblea!..»
Il generale, non ascoltandolo, correva per il corridoio verso l’uscita, portandosi sotto il braccio il pesante ritratto. Gli mancava l’aria. Gli sembrava che, se non avesse potuto respirare subito aria fresca, sarebbe soffocato all’istante, crollando a terra esanime.
Evgenij Pavlovič, arrivato al pianerottolo del piano di sotto, si fermò, appoggiò al calorifero il ritratto della moglie e si sedette sul davanzale della finestra. Il suo cuore non batteva quasi e per tutto il corpo si era sparso un freddo sudore spossante.
A lungo restò seduto sul davanzale, guardando davanti a sé, in modo insensato ed esausto. Finalmente mosse le labbra e parlò quasi sussurrando, ma le sue parole caddero con effetto risuonante nella tromba vuota delle scale: «E’ una novella giuridica, professore! Calma e sangue freddo!»
 
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