Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 16/3/2012, 22:16 by: SkateRed

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Capitolo Sesto


Quel giorno, come oramai di consueto, Evgenij Pavlovič stava spuntando nell’elenco, con un moncherino di matita, i cognomi degli uomini presenti all’appello mattutino. Era iniziata la quarta settimana dal giorno dell’arresto. Verso la fine dell’appello, davanti agli occhi di Evgenij Pavlovič si misero a baluginare gli intermittenti puntini grigi che si scioglievano lentamente dentro le pupille, come minuscoli brandelli di un velo grigio fumo.
Al generale tremavano le ginocchia, cedevano i legamenti e si piegavano le gambe, tuttavia, come nel sogno, distinguendo a stento le facce degli uomini schierati, riuscì a concludere l’appello.
In tre settimane, le fosche notti autunnali avevano strappato dagli elenchi degli ostaggi sessantanove uomini, mai ritornati indietro e la lista si era ridotta notevolmente. Spuntato l’ultimo cognome, Evgenij Pavlovič ripiegò il foglio, si sedette sul tavolaccio e si strinse le tempie con le mani.
La debolezza che infiacchiva Evgenij Pavlovič, lo abbatteva dai piedi, gli annebbiava la vista e rodeva la salute, come l’acqua lentamente rode gli argini, l’aveva assalito sin dall’inizio della seconda settimana e la sua ragione era molto chiara: il generale si nutriva poco e male.
La salute senile non poteva contrastare la fame. La razione, fornita a spese dello Stato, era inadeguata per riscaldare con sufficiente forza il sangue annacquato negli anni, per farlo scorrere con la giusta pressione lungo i vasi sanguigni. Anche i notturni freddi autunnali, si facevano sentire nell’ampia cubatura della sala con la doppia sfilza di finestre, tanto che assai spesso Evgenij Pavlovič si svegliava con un brivido di freddo mordace e cercava inutilmente di riscaldarsi, imbacuccandosi nella coperta.
Molti altri carcerati cominciarono a ricevere sin dai primi giorni provviste da casa. Quotidianamente le sentinelle Rosse consegnavano ai prigionieri cartocci, pacchettini e cestini con del cibo. Alcuni fortunati ricevevano persino troppo e per quest’abbondanza offrivano un po’ di cibo agli altri.
Evgenij Pavlovič mai aveva ricevuto qualcosa da casa e non poteva neppure aspettarselo. Non aveva parenti a San Pietroburgo e quei conoscenti che aveva, erano, probabilmente, preoccupati già per se stessi; e, peraltro, avrebbero potuto non essere neppure a conoscenza del destino del generale. La vecchia Pélin’ka, invece, era debole, dura di comprendonio e analfabeta e, neanche volendo, sarebbe riuscita a scoprire dove fosse finito il suo padrone.
Di tanto in tanto, ad Evgenij Pavlovič era capitato di condividere con qualche vicino un po’ di cibo, ma malvolentieri. Gli sembrava sconveniente privare altri della loro porzione e i bocconi offerti gli erano duri da ingoiare, tra l’altro, la maggioranza degli ostaggi, segretamente e alcuni apertamente, trattava il generale con manifesta inimicizia e odio.
Odiavano Evgenij Pavlovič, perché era stato nominato capo della camerata, “piegava la schiena davanti ai carnefici” ed era un “traditore del giuramento militare e della patria”; e spesso alle spalle del generale, che stava passando, serpeggiava un attutito, ma distinto sibilare di malevoli: «Guardatelo, come incede il leccapiedi Rosso!»
«Lacché bolscevico!»
«Canaglia!..»
Una volta, di notte, vicino ad Evgenij Pavlovič si sedette un ex consigliere dello Stato dalla barba bianca, il cui nome si poteva trovare spesso nei articoli dei giornali del recente passato con epiteti, come: “autorevole”, “rispettabile”, “stimatissimo”, “egregio”, “grande statista”, “pilastro dell’ordinamento statale”.
Il “pilastro dell’ordinamento statale” chinò verso Evgenij Pavlovič il suo cranio pelato e la gialla gibigiana della lampadina scivolò su un deserto rosa, come su una levigata bilia del biliardo.
«Lei mi dovrà scusare, Eccellenza» – disse, leggermente bisbigliando, – «ma, a quanto sembra, lei non è perfettamente consapevole, in quale situazione lei stesso si sia messo con il suo comportamento!»
Evgenij Pavlovič seguiva una macchia lucida che scivolava sulle calvizie. All’improvviso gli venne da ridere, con una ridarella incontenibile, che dovette sforzarsi di soffocare per cercare di trattenere le convulsioni della risata.
L’interlocutore lo notò e la sua faccia divenne fredda, estraniata, con un’espressione di condanna.
«A quanto sembra, lei ha voglia di giudicare le mie parole alquanto ridicole?..» – domandò con sarcasmo.
Evgenij Pavlovič, senza rispondere, continuò a fissarlo sulla radice del naso. Il “pilastro dell’ordinamento statale” dovette arrossire.
«Allora agisca come le pare, Eccellenza. La mia intenzione è di avvertirla. Lei, peraltro, comprende benissimo, quale responsabilità avrà in prima persona, non appena sarà ripristinato il potere legittimo.»
Aveva pronunciato le parole: "Il potere legittimo”, con un tragico sussurro, sollevando una mano piatta come in segno di giuramento.
Evgenij Pavlovič strinse gli occhi, tanto da farli diventare due sottili fessure.
«Ma lei è proprio sicuro, Eccellenza» – rispose a tono all’interlocutore, – «che il potere presente sia illegittimo?»
L’interlocutore guardò in faccia il generale per alcuni secondi con i suoi occhi arrotondati, in cui risaltava il giallo senile del bulbo dell’occhio, poi, con un gesto di ripulsione, si alzò in piedi in modo brusco e si avviò in fretta al suo posto.
Un lieve sorrisino alle spalle, fu la risposta del generale.
Quella conversazione ritornò vivamente in mente al generale, dopo l’appello, mentre davanti ai suoi occhi stavano veleggiando brandelli di fumo.
Evgenij Pavlovič rimase seduto ancora per un po’ di tempo, cercando di soffocare inutilmente un fastidioso malessere e l’avvicinarsi dell’urto di nausea. Il malessere, tuttavia, ad ogni momento diveniva più acuto. Dovette alzarsi. Gli sembrò che l’ambiente nuotasse in una coltre bianco-latte.
«Avrò fumato troppo!» – pensò e decise di uscire nel corridoio.
Ai detenuti erano permesse le passeggiate lungo un corridoio cieco.
Su uno sgabello nel corridoio stava seduta una giovane sentinella della Guardia Rossa che stringeva tra le ginocchia una carabina e, gonfiando le labbra infantili, leggeva con diligenza un giornale.
Il generale gli diede una breve occhiata.
Valutò la situazione: «Ai nostri tempi, avrebbero fatto marcire in carcere una sentinella, per aver letto il giornale sul posto di guardia. Questo qua, invece, guardatelo, si è incollato come una mosca al miele. E’ un bene o un male? Un soldato istruito politicamente! Serve? Evidentemente, serve, se sta leggendo…»
I pensieri scivolavano e si sparpagliavano.
Il generale si appoggiò alla sporgenza della parete, si mise una mano sulla fronte. Il palmo della mano si appiccicò alla pelle fredda, inumidita dal viscido sudore. Il fatto lo fece stupire e impaurire, ma prima che potesse pensare al da farsi, un offuscamento di fumo grigio gli cadde addosso di nuovo. Nel cercare di mantenersi in piedi, aveva sentito soltanto la propria mano scivolare giù lungo la parete.
Il soldato sentinella della Guardia Rossa gettò via il giornale e saltò in piedi, accorgendosi, che il secco corpicino dell’uomo con la giubba grigia a doppio petto dai risvolti rossi, silenziosamente e lentamente stava scivolando giù per terra, appoggiandosi di schiena alla parete.

Evgenij Pavlovič riprese conoscenza in una stanza a volta, somigliante ad una cappella gotica. Le pareti della stanza erano rivestite di scuro rovere intagliato. Qui, nell’ex studio dell’ex proprietario della palazzina, il comandante si era sistemato l’abitazione.
Le pupille verde-erba del comandante, scrutavano il volto del generale che era stato fatto sdraiare sopra un largo divano di pelle dai soldati della Guardia Rossa. Nelle pupille c’era una viva, umana preoccupazione.
Evgenij Pavlovič si mosse e dalla sua bocca uscì qualcosa tra un sospiro e un gemito. Il comandante sfiorò la spalla del generale.
«Non si muova, vecchietto. Resti così, sdraiato e fermo, fintanto che arrivi il dottore. Cosa è successo?»
Il generale mosse la barbetta.
«Non so, a dire il vero,» – balbettò, come se si scusasse, – «sono caduto, non so neanche io, perché? Sento una tremenda debolezza…»
«Perché si è indebolito tanto?» – chiese il comandante, massaggiandosi una guancia con le dita. «Non si tratta, per caso, di paura?»
Il generale trovò le forze per scuotere la testa in segno di dissenso.
«No… Non ho paura. Credo di essermi indebolito per la scarsità del cibo. Sono già vecchio, la salute se n’è andata» – sussurrò malinconicamente e avvertì un’improvvisa compassione per se stesso e il dispiacere per quel tempo irrimediabilmente perduto, in cui i muscoli erano giovani e forti e lo stomaco disprezzava la fame.
«Ah, ecco di che cosa si tratta!..» – cantilenò il comandante. «E sì, con il mangiare d’oggi, pur chi è assai più giovane di lei, si stringe la cinghia…»
La porta della stanza del comandante emise uno scricchiolio. Scortato dai soldati Rossi, era entrato un giovane medico. Probabilmente era stato prelevato da casa, senza spiegazioni, perciò era spaventato a morte. Gli tremavano non solo le mani, ma persino trasalivano, girati all’insù, i sottili baffetti biondi.
«Compagno dottore, lei ci deve scusare per il disturbo, ma dovrebbe visitare questo vecchietto, che qui da noi si è sentito male» – disse il comandante, indicando Evgenij Pavlovič.
Il medico, che, da quando era entrato, non aveva smesso di fissare il comandante, s’illuminò tutto. Comprese di non avere nulla da temere e, già con un gesto professionale, si sbottonò il cappotto e tirò fuori dalla tasca della giacca il lucido cornetto d’osso dello stetoscopio.
«Si tolga la giubba!» – ordinò ad Evgenij Pavlovič.
Il generale si alzò docilmente e si tolse gli abiti. Nella flebile luce grigiastra del mattino autunnale, filtrante miseramente attraverso il telaio dell’unica finestra, il proprio corpo gli era sembrato misero e inutile, penetrato da tutto questo malaticcio giallognolo e con delle costole sporgenti come archi dalla grinzosa pelle d’oca. Il medico si chinò e avvicinò lo stetoscopio alla clavicola dell’ammalato.
I soldati Rossi, che si stavano scambiando qualche parola, tacquero come per un comando e il generale ascoltò per alcuni minuti, solo il proprio respiro, rauco e flebile.
«Quanti anni ha?» – domandò il medico, ripiegando lo stetoscopio.
«Sessantatre.»
«Dunque, non c’è niente di grave» – disse il dottore, girandosi verso il comandante, riconoscendolo come funzionario pubblico. «Anemia, catarro delle vie respiratorie, scarsa alimentazione. La causa dello svenimento è la debolezza, dovuta ad una prolungata mancanza di cibo e di aria fresca. All’età del paziente…»
«E’ chiaro» – interruppe il comandante. «Adesso, vada pure a casa, dottore. Penseremo noi stessi a come si possa rimediare. Non prescriverà nessuna medicina?»
«No. Il malato non ha bisogno di medicine. Aria fresca e alimentazione adeguata. Nient’altro.»
Il medico se n’è andato. Evgenij Pavlovič stava cercando d’infilarsi la giubba. Per il freddo tremava sempre più e non riusciva a centrare le maniche. Il comandante, meccanicamente, gli diede una mano, pensando a qualcosa d’altro e, non appena Evgenij Pavlovič si fu abbottonato, il comandante come se si risvegliasse, concentrò lo scintillio verde-erba dello sguardo sul volto del generale.
«Cosa le succede, vecchietto? Agli altri, il cibo viene portato da casa e a lei mai niente. Possibile che i suoi parenti l’abbiano dimenticato del tutto o, forse, hanno paura di farsi vedere da noi, in questo posto?»
«Qui in città, non ho nessuno» – rispose il generale, fiaccamente.
«E dove sono i suoi familiari?»
«Mia moglie è morta, il mio unico figlio maschio è stato ammazzato in guerra, le due figlie femmine sono sposate e vivono lontano da Pietroburgo. Qui in città abitavo solo io e la nostra vecchia balia. Lei, però, è troppo vecchia, troppo debole ed è analfabeta: non è in grado di agire. Probabilmente, lei non sa neppure dove mi trovo e io non posso avvertirla in nessun modo. Sono del tutto solo!» – disse Evgenij Pavlovič con intensa disperazione e diede uno sguardo al comandante.
Nuovamente nei suoi occhi scorse una viva, umana compassione. Il comandante rimase fermo e, accigliandosi, si mise a riflettere.
«Dov’è il suo domicilio, vecchietto?» – domandò finalmente.
«Abitavo al ventisette di via Zachar’evskaja» – rispose Evgenij Pavlovič.
Il comandante mise una mano sulla spalla del generale e, con voce volutamente vivace e allegra, disse: «Adesso, lei vada al suo posto e si distenda, riposi, vecchietto. Io invece, domani, non appena avrò un momento libero, andrò a trovare la sua balia per dirle di portarle qualcosa da mangiare.»
«Grazie. Mi spiace, davvero, di scomodarla…» – disse Evgenij Pavlovič, arrossendo. «Potrei scrivere, però, a Pélin’ka di vendere qualcosa e comprare dei viveri!»
«No, per quanto riguarda lo scrivere; è proibito. Lei mi dica e io trasmetterò a voce.»
Evgenij Pavlovič rifletté per qualche istante.
«Allora le dica di vendere dei cucchiai d’argento che stanno nel cassetto sinistro della credenza e poi anche il portasigarette d’oro, lei sa dove sta; e ciò mi basterebbe, fintanto che vivo!»
«Ma perché dovrebbe morire, vecchietto?» – domandò il comandante.
Evgenij Pavlovič non rispose e guardò perplesso il comandante. Il comandante, comprendendo quel pensiero inespresso, scivolato come malinconica ombra, sul viso del generale, fece un sogghigno forzato: «Ah, sì…, sì… certo» – pronunciò con una pausa tra le parole. «Ma se fossi io a decidere: l’avrei lasciato libero d’andare dove le pare e piace. Dal momento che da lei, vecchietto, può venire lo stesso pericolo a danno del proletariato, scusi: è quanto avere latte da un caprone..»
Evgenij Pavlovič tacque. Entrambi sentirono un certo imbarazzo, e il comandante pose fine alla conversazione con tono autoritario: «Torni al suo posto, vecchietto. Presto sarà distribuito il pranzo.»
Evgenij Pavlovič uscì nel corridoio e, sostenendosi ai muri, si trascinò pian pianino verso la camerata dei detenuti.
 
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