Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

« Older   Newer »
  Share  
SkateRed
view post Posted on 14/3/2012, 21:39 by: SkateRed

Group:
Member
Posts:
23,823
Location:
ScintillaRossa

Status:


Capitolo Secondo



La bianca cattedrale, bassa, con una grande cupola a cipolla e con altre piccole cupole-cipolline, affrescate in turchese e oro, era divenuta una specie di giostra, attorno alla quale stava girando tutto, pur se essa rimaneva immobile a terra a contemplare cupamente il caotico affollamento.
Una stridula musichetta completava la similitudine alla giostra.
Nei pressi della cancellata della cattedrale, sotto un vecchio cannone turco, ancorato a terra come un monumento, un uomo in poddjovka* con un occhio bendato da un fazzoletto nero girava la manovella dell’organetto. Le canne scordate emanavano nel cielo trasparente dell’ultima giornata d’agosto acuti e angosciosi ululati sonori.
L’uomo guardava a terra. Ai lati delle sue guance sporgevano fittissimi e piumosissimi baffi bianchi e anche sopra al labbro c’erano baffetti simili alle antenne di un grosso coleottero villoso che, proprio come le antenne del coleottero, si muovevano, tremavano e si contorcevano. In mezzo a queste antenne canute si nascondeva un naso sottile con una bella gobbetta.
Sul coperchio dell’organetto era stato appoggiato un berretto a visiera con un fregio rosso e un piccolo foro al posto dell’ex distintivo. Riempito a metà, il berretto pian piano stava lievitando con “bolle” di denaro più disparato: marchi di guerra, rubli vecchi, cinquanta copechi e, da un lato, vicino alla fodera di pelle del fregio, stava come orfanella, persino una kerenka** verde.
Alcune delle persone attorno gettavano sguardi fulminei e curiosi all’uomo che suonava l’organetto. Ancor di recente, quest’uomo muoveva le strutture del potere dello Stato, come la manovella dell’organetto, e il suo volto era conosciuto dall’intero paese, riprodotto centinaia di volte sulle pagine delle riviste e dei giornali.
Nelle pieghe delle sue labbra, nell’aristocratica gobbetta di razza del naso, si occultava la dignità degli antichi senatori romani, acquisita nei secoli, i quali, avvolti nelle proprie toghe, indifesi e inermi, attesero i colpi mortali delle orde barbariche che avevano oramai varcato con irruenza le mura del forum.
Tutt’attorno a quell’uomo, lungo il perimetro della cancellata della cattedrale, stavano seduti e in piedi, identici nello stesso suo destino, i senatori dell’Antica Roma, appoggiando le schiene alle lance dell’inferriata e ai cannoni di ghisa.
Gli interni delle ville, dei palazzi, degli appartamenti ministeriali, scossi, sconvolti dai ruggenti spasmi infuriati dell’epoca, eruttavano sotto la cancellata della cattedrale una fantastica, variopinta molteplicità di soggetti.
Le dame d’onore di corte: esordienti e sopravvissute a se stesse, magre e grasse, bellissime e ripugnanti, ma tutte, senza eccezione, compenetrate dalla grandezza della nobiltà e dalle eccellenti maniere, facevano cenni con le mani, agitavano le braccia sulle quali era stata appesa e oscillava in balia del vento tutta la magnificenza delle merci preziose, esposte in bella mostra per i barbari vittoriosi.
Fiocchetti, ruche, passamanerie decorative, pizzi, solennità elegante dei velluti di Lione, lucidezza intensa delle sete dei casati, scintillanti macchie “a pavone” degli scialli di nonne e bisnonne, stupendi crespi di Cina della biancheria, finissima batista di cui si faceva la scorta per anni e anni per i matrimoni e le notti nuziali, merletti del Belgio e dell’Olanda, ricami a giorno, raffinatissimi merletti-ragnatele a tombolo, ad ago, all’uncinetto, con magnifici disegni sui quali divenivano ciechi gli occhi indeboliti delle merlettaie nelle tenute dei ricchi a Rjazan, a Kursk, a Mosca… e poi borsette, specchietti, portacipria d’argento e d’oro, borsellini, ditali, agorai, nécessaire… suscitavano meraviglia e stupore, stimolando voglie incontenibili nell’ingenuo acquirente.
Le dame d’onore di corte agitavano le manine; dame d’onore di corte, le cui labbra erano abituate alle tonalità musicali della lingua francese e ai titoli da giramento di testa: Votre Majesté, Votre Altesse impériale, mon prince, monsieur le comte, – con quelle stesse labbra, urlavano apertamente in pubblico parole inaudite: «Ehi, prendete tutto! Servitevi! Forza! Pizzi-merletti, sete, mutandoni da donna, zephir!»
Oh, come si stringevano le loro bocche nella parola «mutandoni»! Oh, come si ribellava tutto l’essere loro!
Ancora un anno prima, questa parola veniva pronunciata sottovoce, sussurrando, soltanto nelle conversazioni intime tra le migliori amiche del cuore, riparate in qualche angolino dei salottini silenziosi e suscitava il tremore dello spavento segreto. Adesso, invece, c’era proprio il bisogno di gridarla in modo sonoro, di pronunciarla il più distintamente possibile, per far avvicinare il compratore, senza esitazione, nel punto esatto di vendita di questi articoli.
Finite le file delle dame d’onore di corte, iniziavano le file dei consiglieri di stato, consiglieri effettivi e degli affari particolari, dei comandanti in capo, degli aiutanti di campo, degli aiutanti generali di corte e dei generali delle armate… e anche qui, messi in bella mostra, c’erano: reding-coats di finissimi panni inglesi, tights e frac a code di rondine, giacche con rotondità imbottite, pantaloni a righe e a quadretti, braghe di tutte le sfumature crema con il cordoncino d’oro dai camer-lacché d’alto rango, gilet e panciotti multicolori, cravatte, pettini, colletti, bauletti portasigari e portasigarette d’argento e d’oro, canne da passeggio, cappelli di feltro alla Borsalino, panami di bianca paglia, frusciante e morbida come seta, intrecci di canotjéur, bombette di panno opaco e chapeau-clague di lucido velluto di seta, stelle-onorificenze con smalti artistici, fregi e galloni delle divise degli stabss- hof- jägerconsiglieri e cerimonieri.
Accecati dall’estasi, i barbari conquistatori si gettavano sull’eccitante sfarzo.
Ah, che favola, potersi appiccicare sopra un bel povojnik*** contadino una luccicante stella-onorificenza di Stanislao o di Sant’Anna! E’ assai pratico, per scacciare dall’uscio della casupola della fattoria i maialini e i vitellini, usare una canna da passeggio col pomo d’avorio di manifattura Falger! Si possono benissimo abbellire gli orli dei cappottini e delle pelliccette delle giovinette con il cordoncino d’oro, scucito dalle giubbe delle indescrivibili uniformi di camer-lacché e di cerimonieri, oramai inservibili; dai portacipria d’argento di Ljalik, vengono fuori eccezionali lumini economici, in sostituzione della vecchia sverza!
Del resto, chi mai poteva sapere quante altre cose del genere, lasciate in eredità da una classe che aveva esaurito il proprio ruolo, sarebbero utili in un paese radicalmente trasformato?..
Ed era raggiante e soddisfatto il compratore, palpando il magnifico tessuto di pizzo di Sankt Gallen d’una sottogonna, tutta pieghettata e frusciante, con la quale sarà confezionata una strabiliante toilette per la bella figliola di un fattore che farà impallidire tutti d’invidia al ballo del villaggio; il venditore era altrettanto raggiante e soddisfatto.
Così il mercato è universale.
Poca cosa sono tutti i Tit’s e Wertheime’s, l’Au Bon Marché e gli altri grandi magazzini babilonesi a dieci piani con vetrine a specchio e larghe scale di marmo, a paragone con il mercato della giovane repubblica del millenovecentodiciotto, in quanto in quei grandi magazzini non si possono comprare né miglio non mondato, con cui si cucina una minestra assai corroborante, né lardo non stagionato, né grano saraceno, né pannacida, né soffici pagnotte di farina bianca, né pane nero di segale, il più democratico, ma così invitante con l’incantevole fragranza di crusca e la croccante crostina marrone scuro dorato.
A che cosa servono mai le larghe scale di marmo e le vetrine a specchio, laddove non potresti trovare neppure l’ombra della favolosa romantica e nemmeno uno strascico della tenace e brutale battaglia per la vita?..
Girava e girava attorno alla bianca cattedrale bassa la caotica giostra schiamazzante del mercato; frusciavano sete e batiste, si udiva il picchiettio delle rigide dita degli acquirenti sopra bombette e canotjéu; solleticava il denaro cartaceo di Kerenskij e Romanov, e la mano affusolata dell’uomo dai caratteristici baffi bianchi che si contorcevano come le antenne d’un grosso coleottero villoso, girava e girava la manovella dell’organetto.
Evgenij Pavlovič, sommerso dalla folla, si fece largo a forza di spintoni, per accostarsi alle lance dell’inferriata della cattedrale e riprese fiato.
Adesso doveva assumere l’aspetto rispettabile di una persona indifferente, non notare nessuno della gente che conosceva, così come imponeva una tacita legge di questo mercato, perché era molto penoso guardarsi negli occhi, in quanto, nello sguardo di un conoscente, si sarebbe potuta scorgere una reminiscenza inutile.
A questo punto bisognava stringere al fianco un braccio piegato, sporgere la mano girata all’insù, mettere sul palmo aperto la scatoletta di velluto con i gemelli d’oro e, assumendo un atteggiamento di noncuranza, attendere gli effetti.
Non dovette attendere a lungo.
Un tizio dai capelli rossi con il pellicciotto di agnellino di Persia rovesciato (nonostante ci fosse vento, la giornata era davvero calda) si precipitò svincolarsi “dall’impasto lievitato e scivolante” della folla e si fermò di colpo davanti ad Evgenij Pavlovič.
Dalla sua fronte, sotto un pesante colbacco, scendevano rivoli scuri di sudore sul secco naso storto, verso la sua guancia sinistra. Per circa un minuto, l’uomo dai capelli rossi fissò i gemelli d’oro, poi le sue trasparenti pupille gialle si mossero e cominciarono a scrutare il pastrano del generale, la barbetta appuntita e il berretto a visiera di Evgenij Pavlovič.
Toltosi il sudore dalla fronte con la mano, l’uomo disse: «Oh, mamma mia, cara! C’è da crepare per quanto fa caldo, con tutto questo pelo! E’ come se mi avessero messo dentro a una caldaia e stessero mandando la pressione a tutta birra!..»
«Allora perché si è messo la pelliccia?» – chiese Evgenij Pavlovič.
Il rosso si batté con le mani sulle cosce.
«Che tipi strani ci sono, mamma mia! Ragiona, testolina, dove lo avrei potuto mettere, se l’ho appena comprato? Portarlo di peso sul braccio, sarebbe ancora peggio. Perciò, come vedi, sopporto!» E, passando subito al sodo, indicò i gemelli d’oro. «E questi, li stai vendendo, compagno eccellenza?»
La barbetta di Evgenij Pavlovič si mosse da su in giù, nell’annuire. Il compratore prese la scatoletta, la fece girare un po’ tra le mani. Un pallido sole si accese con un dolce riflesso sui cerchietti d’oro dei gemelli. Il rosso chinò il suo naso storto verso la scatoletta.
«Sono d’oro?»
«Hanno il marchio sul lato posteriore.»
«Uhm… E che cos’è, qui sopra, questa femmina con la bilancia? Che cos’è, uno stemma di casato, o si tratta di qualcosa d’altro?»
Dovette rimandare la risposta per qualche istante, cercando di trattenere una dannosa risata. Spiegò tranquillamente: «Si tratta di Femida – la Dea della giustizia, sulla cui bilancia si soppesano tutte le azioni e i peccati umani.»
Disse, e si ricordò del giorno in cui i frequentatori dell’Accademia gli avevano donato i gemelli come augurio per la promozione al rango di maggior generale. La reminiscenza, tuttavia, arrivò pallida, annebbiata e svanì all’istante.
«Clamida?» – cantilenò il rosso, perplesso, «E’ solo una sciocchezza, compagno eccellenza. Sono fiabe innaturali. Le faccende umane non possono essere pesate, con tutti i loro peccati; gli umani invece ad essere impiccati, piuttosto, questo sì, che si potrebbe fare. Basterebbe solo avere corda a sufficienza. L’entità della cattiveria umana, della schifezza che c’è attorno, non si può pesare, nessuna bilancia sarebbe in grado di sopportarla. Allora, a quanto li vendi?»
Evgenij Pavlovič diede uno sguardo al compratore. Il suo naso storto stava ancora frugando i gemelli d’oro.
Riuscì a dire con facilità e convinzione.
«Cinquecento.»
Dentro di sé pensò invece: «Si potrebbe calare sino a duecento.»
Del tutto inaspettatamente, l’acquirente si mise la scatoletta nella tasca del pellicciotto e, ripiegandone la falda, tolse da una tasca dei pantaloni un portafoglio gonfio con un lembo strappato e contò l’intera somma.
«Tieni, accidenti a tua fortuna! Ho tanto denaro facile e non ho a chi lasciarlo! Non so mai decidermi ad avere dei figli!»
Il pelliccitto d’agnellino rovesciato si lasciò prendere dal vortice della folla. Evgenij Pavlovič si sgranchì le gambe intorpidite e s’incamminò verso la parte degli alimentari del mercato.
Comprò un sacchetto di tela di miglio, un pezzo di lardo, una grossa pagnotta di pane nero di segale e cinque sofficissimi panini tondi di farina bianca. Poi, decidendo di non badare al risparmio, si fece dare anche un pacchettino di saccarina tedesca, mezzo etto di succedaneo di caffè e, soddisfatto, si diresse a casa.

* Soprabito pieghettato alla vita (stor.)
** Biglietto di banca in circolazione in Russia negli anni 1917-20, emesso durante il governo provvisorio, di cui il capo fu Aleksandr Kerenskij.
*** Antico copricapo di donna sposata russa, rappresentato da un morbido cappellino di varie forme.
 
Web  Top
14 replies since 14/3/2012, 14:54   642 views
  Share