Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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SkateRed
view post Posted on 14/3/2012, 16:02 by: SkateRed

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Capitolo Primo


Dalla finestra si scorgeva un camion verde che, sconvolgendo il lastricato sconnesso, era passato fragorosamente oltre la casa, trascinandosi dietro una scia blu di puzza di carburante.
Il camion aveva le sembianze di un porcospino. Correva come un porcospino, palpando e annusando la strada con l’ottuso grugno del radiatore, e le baionette dei soldati della Guardia Rossa sporgevano dal suo dorso-cassone come ispidi e minacciosi aculei.
Nell’attimo in cui la sua corsa arrivò all’altezza della finestra, si sentì lo scoppiettio di due spari, partiti dal camion. Non si capì bene, se fossero stati sparati per caso o a scopo intimidatorio. Il camion sparì dal campo visivo.
Evgenij Pavlovič, scuotendo la testa, disse ad alta voce: «E’ un paese incredibile! Tre anni di guerra, ma ancora non risparmiano né uomini né pallottole. Hanno soltanto cambiato l’obiettivo prescelto.»
Detto questo, si mise a camminare per lo studio. Nel camminare si accorse che sulla parete il ritratto della moglie, nella pesante cornice di quercia, era appeso storto. Si avvicinò e lo raddrizzò macchinalmente, ma subito pensò: «E a cosa serve? Tanto, tutto è diventato storto!»
Il tendaggio sopra la porta della sala da pranzo oscillò e, da sotto apparve la sagometta con il nasino appuntito di una vecchiettina.
«Pélin’ka, cosa c’è?»
Pélin’ka, Pelagea era rimasta l’ultima anima fedele, dopo trent’anni di vita trascorsi fra le stesse mura domestiche con Evgenij Pavlovič con sconfinata devozione da vecchia balia verso un padrone di casa solitario, abbandonato da tutti.
Pelagea, strizzando gli occhi, disse biascicando: «Shtai shempre a camminare, carishshimo mio?.. Ma che vita, è adessho!.. Shempre, shempre camminare e camminare, shensha pace.»
Evgenij Pavlovič si fermò e cercò di stuzzicarla: «E tu, shempre, shempre sheduta, vecchia mia, a conshumare le shedie?»
La vecchietta non rispose, soltanto sbatté una manina secca, si chinò e tolse con il grembiule la cenere di sigaretta dal parquet del pavimento. Evgenij Pavlovič storse le labbra in un sorrisetto.
«Pulici? Povera cara, non ne potresti fare a meno! Ehi, vecchia, vecchia mia, forse, quando starai per varcare le porte del paradiso, anche lì, prima d’entrare, ti metterai a rassettare l’ingresso, per abitudine?» – E aggiunse: «Io, Pélin’ka, ora andrò al mercato. Cercherò di comprare qualcosa da mangiare.»
Pelagea, con il mento tremante, lo accompagnò nell’anticamera, lo aiutò ad indossare il pastrano. Chiuse la porta e a lungo fece tintinnare la catenella, non riuscendo a centrare l’intaglio; questo tintinnio accompagnò Evgenij Pavlovič lungo la scala.
Sul pianerottolo del piano inferiore incrociò un vicino di casa, l’ingegner Arandarenko. L’incontro gli era sgradito. A Evgenij Pavlovič, gli uomini che avevano tanto da dire, sembravano finti e li paragonava, semmai, a un giocattolo meccanico o a un merlo parlante; in quel periodo poi, uomini simili riuscivano a irritarlo assai più di prima.
Fatto un inchino in segno di saluto, avrebbe voluto svincolarsi subito, ma Arandarenko gli sbarrò la strada con i suoi sette pud* di carne e un bottone del pastrano del generale si trovò a girare tra le dita tipo cetriolini del vicino.
«Eccellenza!.. Buon giorno, salve! Che ne dice? Ah? Chi raccapezza più niente… Ha sentito? A loro non serve alcuna intellighentsia! Ah! Quelli asseriscono: “Ogni massaia è in grado di governare lo Stato!” La massaia! Ah! Una massaia, diventerà ministro! E noi? Ci manderanno in cucina a fare i garzoni. Evviva, niente male, non le pare! Un ingegnere e un professore dell’Accademia giuridico-militare faranno i garzoni di cucina. E’ roba da matti! Davvero! E’ la vita al rovescio! Ah?»
Il bottone si stava attorcigliando sempre più strettamente e sembrava che Arandarenko, da un momento all’altro, lo avrebbe strappato con tutta la stoffa. Per questa ragione e anche per qualcos’altro, che proveniva dall’inconscio, il generale aveva avvertito un caustico astio verso l’ingegnere, quindi disse con poco camuffata freddezza: «Non giudichiamo, per non essere giudicati.»
Arandarenko lasciò in pace il bottone, schioccò la lingua.
«E’ sconforto? Apatia? E’ male, molto male, caro Evgenij Pavlovič. Bisogna lottare sino all’ultimo sangue. Noi, l’intellighentsia…»
«Per cortesia, venga a trovarmi una sera di queste, sarà il benvenuto e ne parleremo… Adesso però, mi scusi, ho fretta d’andare al mercato, altrimenti farei troppo tardi.»
Avvicinò in segno di saluto la mano alla visiera, scivolò, strisciando con la schiena lungo il muro per aggirare l’ostacolo e, lasciandosi l’ingegnere dietro alle spalle, uscì in strada. Guardare la strada era increscioso e curiosamente interessante.
Si stava squamando. Dal suo corpo di pietra si scrostava, con sibilo e fruscio, precipitando, una secca infestante scorza che dilagava, rotolandosi di corsa lungo il lastrico e i marciapiedi, sospinta dalle folate bagnate del ventaccio umido, giunto furiosamente dal mare. Questa scorza si staccava visibilmente da ogni parte: sotto forma di buccia di semi di girasole dalle labbra atoniche e avvizzite dei passanti distratti che si trascinavano incuranti di ogni cosa; dalle mura – con grumi colorati di calce e di stucco; dalle insegne cascanti in modo cadaverico sotto forma di precisi quadratini della vernice crepata e dei sottilissimi strati di metallo in foglietti d’oro.
La strada si stava denudando, giorno dopo giorno con fiacco, indifferente e insensibile cinismo.
Persino le persone assunsero l’aspetto di scorza smorta, gettata all'esterno dagli appartamenti sofferenti in balia dell’umido vento.
Pure a se stesso, Evgenij Pavlovič, sembrava ad essere la medesima crosta secca staccata da un corpo distrutto, patito e sopportato lunghi minuti fatali e ora sospinto dal vento nel mondo spettrale di una strada nuda.
Il vento ora sollevava le falde del pastrano, rivoltandone le viscere rosse della fodera, ora tirava e tratteneva per la martingala pendente, strappata da una parte, ora s’imbrogliava in mezzo alle gambe secche, fasciate dai calzoni a tubo di tessuto diagonale con le doppie bande rosse da generale.
Il vento è come se avesse fraternizzato con i tempi. Se ne infischiava francamente dell’età e del rango del professore di una prestigiosa Accademia giuridico-militare. Picchiava il professore sulla faccia, lo frustava da tutte le parti a sferzate, fischiava nei suoi orecchi come un brigante, lo piegava e lo faceva dondolare, cercava ad abbatterlo e di farlo cadere, e bruscamente spingeva il suo corpo mingherlino tanto forte da farlo avanzare di corsa lungo il marciapiede, gonfiandogli il pastrano come vela.
Il pastrano s’ingobbiva a punta sulla schiena. Giù, dalle spalle, malinconicamente pendevano le estremità dei fili delle spalline tagliate. I fili non erano stati tolti sia per pigrizia, sia perché il generale non se l’era sentito di farlo.
Camminava lungo la strada come un navigatore che osserva attentamente da ambedue i lati, ma con poco interesse, mentre sta conducendo l’imbarcazione per l’ennesima volta attraverso uno stretto tra due sponde da tempo familiari e venute ad uggia. Il navigatore smette di notare le sponde: ai suoi occhi risaltano soltanto gli eventuali cambiamenti dei loro profili, avvenuti nel lasso di tempo tra due tragitti.
Esattamente così succedeva con la strada. Evgenij Pavlovič aveva rilevato che in una sola notte il tempo e il vento avevano rosicchiato la grossa ciambella d’oro dell’insegna della panetteria, chiusa-sbarrata da assi di legno. La doratura e il gesso si erano sgretolati e staccati, e dalla soffice forma stravagante della ciambella si rizzava beffardamente il fil di ferro arrugginito del suo scheletro strutturale.
Evgenij Pavlovič, contrastando il vento, si mise in “deriva” e sollevò verso il relitto della ciambella l’appuntita barbetta. All’improvviso lo sfiorò un pensiero che non c’entrava, apparentemente, per niente: «A Kotja piaceva molto con la marmellata di lamponi».
Come se fosse vivo, la mente gli disegnò l’immagine del figlio corazziere, morto ammazzato nei pressi di Gumbinnen**, all’inizio della Grande guerra. Gli tornò in mente non in vesti di un brillante alfiere, alto e tintinnante nel guscio della corazza luccicante e nell’azzurrognola neve del colet***, bensì di un buffo, dolcissimo bambolotto sorridente di cinque anni. Portava allora braghette corte di velluto, aveva il musetto dalle guance rosse e paffute, e nella mano teneva una ciambella, generosamente spalmata con la marmellata di lamponi; e tutt’attorno alla bocca e sulla punta del nasino a bottoncino era appiccicata una dolce massa rossa.
Evgenij Pavlovič sospirò, s’ingobbì e, affidandosi al vento, si mise a “navigare” oltre.
All’angolo della prospettiva Litejnyj, s’imbatté in uno scoglio.
Veramente, si trattava soltanto di un semplice, comune marinaio. Le spalle larghe, gli occhi di un grigio-acciaio, malizioso, disinvolto, egli stava fermo sul marciapiede con indosso la marinara, aveva sulla spalla una carabina a canna mozza e esaminava ben bene tutti i passanti con sguardo acuto. I pedoni lo aggiravano. Egli sembrava, in mezzo alla spumosa fiumana umana, un solidissimo scoglio-frangiflutti.
Il vento giocherellava con l’orecchino d’argento che pendeva ed oscillava nel suo lobo sinistro.
Il marinaio sfiorò con lo sguardo la fodera rossa del pastrano, i fili rimasti sulle spalle. Ammiccò allegramente: «Sta facendo la muda, povero uccelletto divino nel grado di generale?»
La replica arrivò, spontaneamente, senza pensare: «E sì, sto imparando dalla benefica natura. Il rinnovamento esige la muta. Fanno così i saggi serpenti!»
Il marinaio, alzando una spalla, si aggiustò la carabina che si era spostata e disse con una palese benevolenza: «Fai, fai la muta, saggio serpente, ma falla in fretta, altrimenti molto presto, fratelli-generali, saremo costretti a farvi fuori tutti come un gregge. A compagnie.»
Evgenij Pavlovič ebbe voglia di lanciare una frecciata e, puntando verso il marinaio la sua barbetta, domandò: «E sarebbe questo il consumo socialista del prodotto? Ma amici miei cari, il prodotto è avariato!»
Disse e comprese che la battuta sarcastica non gli era riuscita. Il marinaio si scurì in volto, strinse le labbra e in silenzio indicò il lato opposto della strada e un recente foglio stampato, affisso sul muro.
«Vada lì a leggere, uccelletto divino, così vedrà tutto chiaro.»
Evgenij Pavlovič si avvicinò al foglio, male odorante d’acido di pessima colla, dall’aspetto grigio e tutto tempestato da minuscole scaglie di fibre legnose. Sul foglio brulicavano, a lettere di color della pece, in bassa definizione, le righe stampate in grassetto.
Affetto da miopia, Evgenij Pavlovič si avvicinò a distanza di naso al testo, graffiando il foglio con lo spazzolino argenteo della barbetta. Gli occhi si aggrapparono ai caratteri:
«… all’assassinio del compagno Urizkij, all’attentato al capo della rivoluzione mondiale, compagno Lenin, il proletariato risponderà con il colpo mortale alla borghesia imputridita. Non occhio per occhio, ma mille occhi per uno solo. Mille vite della borghesia, per la vita del capo delle masse operaie. Evviva il terrore rosso!»
La barbetta smise di graffiare il foglio. Il generale si spostò dal muro, rimase per un po’ fermo, impensierito, strizzando gli occhi. Strinse più volte le labbra e, rianimandosi, s’incamminò verso il mercato. Nella tasca tastò una scatoletta di velluto con i gemelli d’oro, preparata per la vendita.

* Antica misura russa di peso, pari a 16 kg.
** E’ odierna Gusev, dal 1946.
*** Un corto giubbino attillato dell’uniforme degli alfieri nell’armata zarista.


bolzev



Traduzione:

Il 30 agosto a Pietrogrado è stato assassinato
il Presidente della в.ч.к.*, compagno Uritzkij.
Nello stesso giorno è stato commesso
LO SCELLERATO ATTENTATO A VLADIMIR IL’IČ LENIN.
All’assassinio del compagno Urizkij, all’attentato al capo della rivoluzione mondiale, compagno Lenin,
il proletariato risponderà con il colpo mortale alla borghesia imputridita.
Non occhio per occhio, ma mille occhi per uno solo.
Mille vite della borghesia, per la vita del capo delle masse operaie.
Evviva il terrore rosso!



* Commissione straordinaria per la lotta alla controrivolizione e il sabotaggio nell’ambito del Consiglio dei Commissari del popolo della R.S.F.S.R. (1917-1922)
 
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