Capitolo Settimo
Chi non si ricorda di quel sapone? Era davvero stupefacente! Il suo denso, caldo color marrone, accarezzava così dolcemente i nostri occhi nell’anno diciotto e seguenti, sino al millenovecentoventidue, quando la Repubblica dei Soviet sostituì la spada con l’aratro e gli eroi cominciarono a lavarsi le mani con il sapone Rond, schiumoso e delicatamente profumato.
Nessun trucco o espediente borghese sarà mai in grado di cancellarci dalla memoria il magico, meraviglioso ricordo del sapone, in uso nel millenovecentodiciotto.
Questo sapone era distribuito con tessere del comune; per riceverlo si dovevano fare lunghissime malinconiche file, per ore e ore, nelle desolate strade, ricoperte da uno spesso manto di neve. Una volta ricevuto tra le mani uno di questi panetti dall’aspetto miserabile, ognuno di noi provava la splendida sensazione d’essere come uno, che ha raggiunto il punto esatto del polo nord o ha risolto l’insolubile dilemma dell’eterna giovinezza. Ci dirigevamo verso le nostre abitazioni fredde, inciampando nei cumuli di neve, cadendo, ma, stringendo al petto, con la massima cura, il sapone recondito.
Spesso questo sapone era distribuito, invece del pane, nei giorni in cui le squadre per l’approvvigionamento alimentare, create dal governo, non riuscivano a racimolare nelle campagne né farina, né carne, né alcun altro prodotto commestibile. Ciò nonostante, tale assegnazione apportava incantevole delizia e saggezza.
E odore! Oh, cercate di ricordarvelo, quell’odore! Era un miscuglio straordinario e insuperabile. Sapeva di pesce, di lucido da scarpe, di fondi della distillazione dell’alcool, di naftalina, di fenolo, di marcio e insieme, tutti questi odori, fondendosi e sovrastandosi a vicenda, creavano un unico aroma, solenne e onnipotente.
Nei luoghi in cui erano ammassati più di dieci chili di quel sapone, morivano tutti gli altri odori entro un raggio di venti metri. Certamente ricorderete anche che, ritornati a casa, vi mettevate inutilmente ad accendere una stufetta di ghisa con fibre bagnate del legname di pino, e all’improvviso, dall’angolo della stanza, in cui avevate accatastato il sapone come pietre d’angolo d’un cantiere edilizio, percepivate un forte, penetrante odore, rincuorante, esortante alla calma e all’autocontrollo…
Evgenij Pavlovič, chino sul lavabo del gabinetto, stava pazientemente sfregando con il sapone il calzone sinistro dei mutandoni. Dal rubinetto, con un sottilissimo getto, attorcigliato come il caffè versato dalla caffettiera, scorreva una gelida acqua argentea.
Le mani del generale, sbracciato al gomito, erano riempite di sangue ed emanavano trasparente vapore.
Era difficile lavare. Il sapone lasciava sui mutandoni delle tracce marrone scuro. L’acqua fredda non solo non era in grado di cancellarle, ma sembrava fissasse sul tessuto queste tracce per sempre.
Evgenij Pavlovič si raddrizzò e, con aria smarrita, si strofinò la fronte con il dorso bagnato della mano. Lasciato da parte il sapone, sollevò gli appesantiti mutandoni bagnati fradici e, tenendoli sotto il getto d’acqua, si mise a strofinarli. Nei movimenti delle sue mani si poteva notare tranquilla sicurezza, come se l’arte misteriosa del lavaggio non fosse poi tanto misteriosa per il generale.
Non lo era davvero. Non appena Evgenij Pavlovič si accorse che i due cambi di biancheria, presi con sé al momento dell’arresto, avevano assunto una tonalità grigiastra, gli venne in mente una monelleria della sua infanzia, per la quale era spesso rimproverato dalla madre. Si era ricordato dei giorni in cui in casa di Adamov si faceva il bucato e lui, allora ragazzino, s’introduceva alla chetichella nella lavanderia e si addossava alle lavandaie. Era divertito dal processo stesso del lavaggio: grossi nuvoloni di vapore profumato; carezzevole acqua calda, ondeggiante nella tinozza grande; montagne di schiuma spumeggiante che faceva dolce carezza avvolgente alle mani affondate dentro.
Le lavandaie si arrabbiavano e scacciavano il piccolo cadetto dalla lavanderia, ma lui metteva nelle loro rosse mani dei dolciumi, rubati dalla sala da pranzo e delle monetine e le donne, ridendo e scherzando, permettevano al ragazzino di rimanere, sino a quando sua madre lo trovava in quest’occupazione e lo portava via per forza, mentre lui s’impuntava nel protestare e piagnucolava facendo capricci. Così, ridendo e scherzando, Evgenij Pavlovič aveva imparato l’arte del bucato.
Il generale fece un profondo respiro e appoggiò i mutandoni nel lavabo. Si chinò, sollevò dal pavimento un bollitore di rame, riempito con l’acqua calda durante distribuzione del rancio, tappò lo scarico del lavabo con un pezzo di giornale appallottolato e versò dentro tutta l’acqua calda.
Le strisce marrone scuro, lasciate sul cotone dal sapone, si sciolsero lentamente e si dissolsero. Evgenij Pavlovič immerse le mani nell’acqua calda, facendo smorfie e muovendo la barbetta, e riprese a strofinare con forza.
Un sorriso infantile felice allargò le sue labbra diligentemente serrate. Il tessuto si stava sbiancando, acquisendo il colore originale; l’acqua invece, raffreddandosi, si era intorbidata ed ingrigita. Data l’ultima strofinata ai mutandoni, un calzone dopo l’altro, il generale scaricò l’acqua, risciacquò la biancheria lavata sotto l’acqua fredda e si mise a strizzarla. Le mani, però, tremavano per la fatica e la stanchezza e solo un po’ d’acqua appena sgocciolava dal cotone strizzato.
Dietro alla schiena sbatté la porta.
«Adamov? Ah, ecco dove sei!»
Evgenij Pavlovič si volse al rumore e vide una giovane sentinella della Guardia Rossa di nome Prochor, ossia Proška, così com’era chiamato in modo familiare da tutti gli altri soldati. La faccia di Proška si allargò in un sorriso, scoprendo la biancheria bagnata nelle mani del generale.
«Guarda, guarda, ma sei, tale e quale, una vera lavandaia! Intanto, il comandante ti sta cercando!» E, sporgendo fuori del gabinetto la testa, Proška si mise a gridare: «Compagno comandante! E’ qui, è qui Adamov!»
Al comandante non era stata possibile mantenere la promessa, data ad Evgenij Pavlovič, di fare una puntata a casa del generale per parlare con la sua balia, né all’indomani né nei giorni successivi. Erano sopraggiunti tempi pieni d’agitazione tremenda e di disordine. In città era svolta una vasta retata della polizia Rossa contro banditi, rapinatori, ladri, borsaneristi. Durante gli ultimi tre giorni erano stati portati in continuazione gruppetti di delinquenti comuni, che in parte furono sistemati nelle stanze adiacenti alla sala grande della palazzina e in parte nella stessa sala, nei posti liberati da gente fucilata. Consiglieri effettivi e particolari, camer-lacché e titolari di fabbriche, generali e proprietari terrieri furono uniti in promiscuità con ogni sorta di delinquenza: borsaioli e topi d’appartamento, rapinatori, scassinatori, banditi feroci e spacciatori di narcotici. Insieme ai delinquenti comuni entrarono nella sala grande maniere spregiudicate, imprecazioni volgari da veri avanzi di galera, ma nello stesso tempo la spensierata allegria di uomini disperati che avevano scommesso sulla propria vita tutto e per tutto.
Per assurdo, nella sala grande era arrivata molta più tranquillità e spensieratezza. Soltanto un esiguo gruppetto di aristocratici politici aveva cercato di incitare gli altri per protestare contro la promiscuità della detenzione con delinquenti comuni, non trovando, però, degli alleati. La maggioranza era stata perfino contenta di questo irrompere nell’ambiente di spericolati vicini: insieme a questi scavezzacolli era come se dentro irrompesse e ricominciasse la vita, vivace e giovanile, alla quale in molti avevano già detto addio.
Il comandante era sfinito, dall’estenuante lavoro per la sistemazione di tutti i nuovi inquilini e non era potuto assentarsi dalla palazzina negli ultimi giorni.
Evgenij Pavlovič diede uno sguardo all’aspetto incupito del comandante, entrato nel gabinetto. Avvertì subito, con un sesto senso, che il comandante era arrivato per dare qualche brutta notizia e non si era sbagliato.
Il comandante fece scorrere rapidamente gli occhi sui mutandoni, appesi al braccio sinistro piegato del generale e si scurì ancor di più in volto.
«La stavo cercando, Adamov,» – disse in modo demotivato e fiacco, – «hanno preso una brutta piega le sue faccende.»
«Ma come?!» – esclamò il generale, stringendo i mutandoni al petto.
«E’ proprio così. Stamani, sono andato a trovare la sua balia, ma non c’è più, è svanita.»
«E’ morta?» – pronunciò Evgenij Pavlovič con flebile voce; e gli era sembrato che nel petto, vicino al cuore, una crudele mano avesse strappato con artigli di ferro, dolorosamente, sanguinante, un pezzo di carne viva.
«Ma no, non è morta! E’ andata via la sua vecchietta, probabilmente, da qualche parente in campagna, perché non aveva più alcun sostentamento. Adesso nel suo appartamento abita altra gente. Il capo comitato degli inquilini vi ha alloggiato una famiglia di gente povera. Ecco, questo è quanto.»
Evgenij Pavlovič, avvilito, agitò le mani in modo brusco. I mutandoni finirono per aria e sarebbero caduti a terra, se il comandante non li avesse acchiappati al volo. Aveva trattenuto dal cascare la biancheria lavata e incuriosito l’aveva distesa sul palmo della mano.
«E’ lavata molto bene. Sembra che sia stata lavata dalle mani di un’esperta» – disse pensosamente.
Evgenij Pavlovič, intanto, trovò dentro di sé la forza di dire: «Ma aspetti… Com’è possibile? Nell’appartamento ci sono tutte le mie cose… Documenti… Lettere… Mobilio… Tutto quel che c’è di più caro al mio cuore! Ma come, come è possibile tutto questo?!»
Il comandante, macchinalmente, strizzò i mutandoni in modo energico e forte. Sul pavimento scrosciò una cascata d’acqua.
«Strizzare come si deve, però, non le riesce mica!» – disse e, solo dopo aver strizzato tutta l’acqua, rispose alla domanda angustiata di Evgenij Pavlovič.
«Si tratta, certamente, di un malinteso. E’ successo che lì, nella casa, avevano creduto che lei non fosse più di questo mondo. S’immaginavano che lei stesse scovando ormai la sottoterra con il naso. E c’è tanta povera gente che abita negli scantinati. Così, vi avranno alloggiato qualcuno… Ma lei non si preoccupi, e non abbia paura» – disse il comandante con tono rassicurante. «Le svelo un segreto: dopodomani deve arrivare una commissione da Ceka. Dovranno giudicare chi rilasciare e chi trattenere ancora. C’è da supporre che lei sarà rilasciato definitivamente… Su, adesso io vado, c’è tanto lavoro da sbrigare. Auguri!»
Mise nelle mani del generale dei mutandoni e andò via.
Evgenij Pavlovič rimase immobile, stravolto, abbattuto; solo con i mutandoni bagnati, appesi malinconicamente sull’esanime braccio.
La mente non riusciva a concepire l’accaduto. La sofferenza maggiore era suscitata dal pensiero che nei cassetti della scrivania, accuratamente legate con cordoncini, erano rimaste tutte le lettere della moglie defunta e dei figli. E che, probabilmente, mani impassibili ed estranee di qualcuno, già stavano strappando i cordoncini, rovistavano tra i fogli fruscianti; occhi indifferenti scorrevano le righe scritte, tanto care alla sua memoria ed inservibili a questa gente incurante; forse, erano state buttate nel mucchio di pattume, calpestate, bruciate. Non sentiva dispiacere per il resto dei suoi beni, lo facevano penare unicamente questi adorati diari del vissuto.
Evgenij Pavlovič diede uno squittio come un ratto ferito e si diresse, barcollando verso la sala grande della prigionia. Arrivato al proprio posto, gettò i mutandoni sulla coperta, si sedette tutto ingobbito, nascose il viso con le mani e sotto le dita scorsero giù lentamente traboccanti lacrime cocenti.
Un uomo sdraiato vicino, che tranquillamente fumava una sigaretta arrotolata a mano, sollevò il corpo e diede di sbieco uno sguardo stupito ad Evgenij Pavlovič. Poi fischiò per la meraviglia e sfiorò con una mano le tremolanti scapole del generale.
«Ma che cosa le è successo, Signoria?» – domandò con una strana vocina pigolante, da pennuto.
Evgenij Pavlovič trasalì spaventato, si scoprì il viso, si volse verso la voce che domandava e s’imbatté nello sguardo di un faccione gonfio e baffuto. Da ambedue i lati del faccione, sotto un naso gibboso a melanzana, pieno di brufoli neri, si rizzavano i due salamini uguali dei baffi lustri e ben curati: sembrava che al labbro superiore fossero incollate due canne brunite di rivoltella.
Notato negli occhi del generale una domanda allarmata, l’uomo mosse i baffi: «Non abbia paura, Signoria! Io sono un rapinatore, di nome Nikita Šurov, conosciuto nell’ambiente nostro con il soprannome “Turka”. Sono stato catturato per omicidio. Finirò messo al muro, tirerò le cuoia e, ti saluto mamma mia bella; eppure, scusi, Signoria, non piango mica. Così è la vita, brutta carogna schifosa – come la giri, giri; puoi fare bene o male, finirai lo stesso nella bara!»
Le balzanti fiammelle castane bruciavano al di sopra dei baffi, in modo baldanzoso e forsennatamente disperato.
Evgenij Pavlovič fece un sorrisino storto.
«Non c’entra per niente la morte,» – rispose a Turka, – «mi preme un’altra cosa.»
Inaspettatamente e all’improvviso, come gocce d’acqua traboccate, fluì tutto il racconto del suo guaio d’un vecchio solo ed abbandonato.
Turka rifletté un poco, dopo diede una leggera pacca sul ginocchio del generale.
«E’ proprio vero, scusi,» – stridette con la sua vocina da pennuto, così assurda e strana per la sua granitica faccia, dagli zigomi larghi e dagli immensi baffi, – «questa è una cosa comune a tutta la gente istruita. Probabilmente, sarà per troppa intelligenza o per qualcosa d’altro! Puoi toglierle ogni bene materiale, scusi, e te lo dà senza protestare, senza battere ciglio, ma per una qualche bazzecola d’animo, si metta, scusi, a soffrire da morire. Ma che saranno mai, tutte queste lettere, fotografie, fiocchetti, nastrini? Scusi, ma sono scemenze al confronto delle ricchezze dei beni materiali. E invece no, pure lei, non si è dispiaciuto per tutta la roba di casa perduta, ma si è messo, Signoria, a disperarsi per le lettere, scusi. Pochi giorni fa, mi è capitato un fatto di genere. Scusi, stavamo svaligiando un appartamento proprio giusto di una famosa attrice. Abita al centro, l’attrice di nome Tamarova. Probabilmente la conosce per sentito dire, Signoria? E così, abbiamo riempito tre grossi sacchi, pieni zeppi di roba di prima scelta. Cosa vuole, scusi, è una “casetta” a dodici stanze; è facile immaginare quanta roba c’era per scaldarsi le mani! Scusi, avevamo ormai deciso di togliere il “disturbo”, e qui il mio socio ha notato su un tavolino una gattina. Una gattina d’argento, piccola quanto un ditale e il suo prezzo sarà stato al mercato, sì e no, di una cinquantina di copechi, una miseria. Il socio, strada facendo, la prese e se la mise in tasca. L’attrice, invece, per tutto il tempo, finché prendevamo le altre cose, non ha aperto bocca, stava seduta sul divanetto e sogghignava con disprezzo. Non appena ha visto, però, che era stata presa la gattina è saltata, scusi, lei stessa come una gatta rabbiosa e urlando: “Restituiscimela, carogna!”, si è buttata con le unghie in faccia al mio socio. Insomma, ha sollevato un baccano da non credere. E io: “Pardon, madame, è molto strano il suo atteggiamento, lei ci ha consegnato tutta la casa, scusi, senza fiatare, invece per una gattina da quattro soldi sta facendo un casino!”. L’attrice si è messa a piangere con lacrime amare a dirotto e ha risposto di tutto cuore: “Uccidetemi piuttosto, ma non toglietemi la gattina. Con questa gattina amava giocare la mia figliola morta”. Certo, pur se siamo rapinatori, anche il nostro animo non è fatto di tela greggia. Abbiamo restituito la gattina e siamo andati via con tutto il malloppo. L’attrice, allora, è da non credere, ci ha accompagnati alla porta e ci ha perfino ringraziati. Disse: “Grazie!”. Ma per che cosa? E’ molto strano, scusi, non le pare?»
Il rapinatore aspirò profondamente il fumo del tabacco forte e fece uscire dalla bocca una decina di densi anelli di fumo, che passando uno nell’altro, si diressero verso il soffitto.
Il generale si asciugò dalle ciglia le lacrime e, dopo aver seguito gli anelli fatati, il suo viso s’illuminò con un confuso sorriso fanciullesco, diretto agli anelli e al rapinatore.
Turka ammiccò e chiese: «E lei, perché si trova qui, Signoria?! Cos’è, un controrivoluzionario?»
Evgenij Pavlovič si strinse nelle spalle. La domanda di Turka lo sconcertò. Mai neppure gli era passato per la mente di chiedersi, per quale ragione si trovasse in carcere. C’era un’attutita, impercettibile rassegnazione davanti al fatto compiuto. Tuttavia a Turka doveva rispondere e l’accademico di storia del diritto, perplesso e turbato, strinse più volte le labbra.
«Non lo so» – rispose finalmente. «Sarei in difficoltà, a dire il vero, a giudicare il mio comportamento come controrivoluzionario. Io non facevo niente. Se definire questo controrivoluzione… Anche se, sa, pure un grosso masso di pietra che si trova in mezzo alla strada, probabilmente, si crede d’essere innocuo, però la gente lo considera come un intralcio al movimento… A vederci chiaro…»
Turka strizzò ironicamente l’occhio sinistro.
«Signoria, ma che modo astruso usa per parlare! Lei non sembra un generale, scusi, ma un professore scientifico!»
«Sono davvero un professore, ma militare» – sorrise Evgenij Pavlovič.
Turka alzò di colpo la testa e di nuovo emise dalla bocca degli anelli fatati.
«Nientedimeno, scusi!» – disse, – «Signoria, allora ho per lei un discorso serio, su una questione che m’interessa molto, scusi. Lei intanto non consideri, scusi, che sono un rapinatore. E’ la mia vita che non si era messa per il verso giusto ed era uscita lontano dagli argini del lecito, se no, forse, ai tempi d’oggi, avrei potuto essere un qualche capoccia nel ramo ferroviario, come un ex scambista, scusi. Sono stato fregato dal vecchio regime, dalla vodka e, scusi, per mancanza di carattere. Voglio, dunque, porle una domanda utile, riguardante la vita odierna. Ecco, questo misero popolino, privato di ogni soddisfazione, vissuto da sempre negli scantinati, scusi, pensava che non appena fatta la rivoluzione, la vita si sarebbe messa per ognuno verso il piacere reciproco ed assolutamente equo. E poi, che quelli che, scusi, simili a lei, i professori e la gente intellettuale insomma, da sempre vissuti ai piani alti, avrebbero fraternizzato con gli “scantinati” e insieme, scusi, avrebbero costruito una casa comune, in modo che tutti vivessero finalmente in modo decoroso e al calduccio. Gli “scantinati”, scusi, hanno i pugni, i “piani alti” sono provvisti dei cervelli! Si sarebbe potuto costruire magnificamente! Voi, invece, i “piani alti”, subito avete voltato i musi dall’altra parte degli “scantinati”. Avete puntato le “code” nei fianchi e non avete voluto sporcarvi con ogni sorta di pezzenti. Così, vi siete dedicati ad una totale e sanguinaria controrivoluzione. Si può sapere perché, scusi?»
Il generale diede uno sguardo perplesso a Turka e, come se riflettesse, disse a voce piana: «Non ci hanno chiamato.»
Turka batté le mani e si mise a sogghignare: «Scusi, ma le parole che dice non sarebbero da persona istruita, Signoria. Persino sono parole assurde! Che significa: non vi avevano chiamato?.. E voi stessi, scusi, non potevate farvi avanti? E’ che non volevate e basta. Tutto il resto, è una finta scusa che non sta in piedi. Possibile, che non abbiate pensato che bisogna aiutare il fratello minore?»
«No, non ci ho pensato! Per quanto riguarda tutti gli altri, non so rispondere» – rispose il generale, sconcertato.
«Lei non ci ha pensato?! Scusi!» – s’infervorò Turka, mosse i baffi e li puntò contro il generale. «E’ vergognoso perfino sentire uscire dalla bocca una tale obiezione. Scusi, e adesso io, forse, anche per il vostro comportamento indeciso, sarò spedito dritto-dritto al creatore, perché non c’era nessuno ad indicarmi la via giusta per la vita. Vergognatevi, teste di rapa! Vi date ai ragionamenti astratti sul cielo, invece non siete in grado neppure di appollaiarvi sulla Terra!»
Gettò ostilmente il mozzicone della sigaretta, fulminò il generale con gli occhi, si distese e gli girò la schiena.
Evgenij Pavlovič, come uno sbarbatello dopo aver combinato una birichinata, quatto-quatto, per non far scricchiolare le assi del tavolaccio, si distese e cercò di addormentarsi. Il sonno non arrivava. Era tormentato dal ragionamento, improvviso e piuttosto rozzo, del rapinatore, che aveva fatto incappare il generale negli spigoli duri della sua verità orrendamente spaventosa. Evgenij Pavlovič, preso dall’agitazione, non smise di girarsi e rigirarsi sul tavolaccio, finché una sentinella Rossa, affacciatasi alla porta, gridò a squarciagola: «Portate il pentolone! Si mangia!»
Evgenij Pavlovič saltò in piedi. Il rapinatore si sollevò, strofinandosi gli occhi, poi diede di nuovo uno sguardo di sbieco al generale e fece un sorrisino: «Su, Signoria, non mi serbi rancore, per averle fatto ingoiare tutte le cazzate amare. Via, filiamo a ritirare la roba da mangiare. Ora noi, scusi, siamo uguali. Lei è un professore, io sono un rapinatore, ma stiamo entrambi nella stessa gabbia, a sfamare i pidocchi. Non mi tenga il muso!»
«No, non me la prendo» – rispose pacatamente Evgenij Pavlovič e strinse una “zampa” ruvida protesa di Turka.