Comunismo - Scintilla Rossa

Il settimo satellite, di Boris Andreevič Lavrenëv

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view post Posted on 14/3/2012, 15:02

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Il settimo satellite

di Boris Andreevič Lavrenëv




Boris Andreevič Lavrenëv scrittore russo (Herson 1891-Mosca 1959). Combattente nell'Armata Rossa durante la Rivoluzione, si dedicò alla letteratura a partire dal 1921. Esordì come poeta futurista, ma in seguito divenne un tipico scrittore social-realista in numerosi romanzi e racconti (spesso portati sullo schermo o sulle scene) incentrati sui problemi degli intellettuali della vecchia guardia, sulle lotte rivoluzionarie, sulla vita dei soldati durante la I e la II guerra mondiale. Alcune sue opere narrative, come Vento (1924), Il quarantunesimo (1926) e Il crollo della repubblica di Itl (1926), drammatizzano il contrasto fra dovere rivoluzionario e sentimenti individuali. Tra i suoi drammi si ricordano in particolar modo: La rottura (1927) e Per quelli che sono in mare (1946), ambientati nel mondo dei marinai, e La voce dell'America (1950), di contenuto politico.

romanzo liberamente tradotto da Tatiana B.

NOTA: questo romanzo è stato pubblicato in italiano dall'editore "La Nuova Biblioteca" nel 1945 ma ovviamente è introvabile...

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Capitolo Primo


Dalla finestra si scorgeva un camion verde che, sconvolgendo il lastricato sconnesso, era passato fragorosamente oltre la casa, trascinandosi dietro una scia blu di puzza di carburante.
Il camion aveva le sembianze di un porcospino. Correva come un porcospino, palpando e annusando la strada con l’ottuso grugno del radiatore, e le baionette dei soldati della Guardia Rossa sporgevano dal suo dorso-cassone come ispidi e minacciosi aculei.
Nell’attimo in cui la sua corsa arrivò all’altezza della finestra, si sentì lo scoppiettio di due spari, partiti dal camion. Non si capì bene, se fossero stati sparati per caso o a scopo intimidatorio. Il camion sparì dal campo visivo.
Evgenij Pavlovič, scuotendo la testa, disse ad alta voce: «E’ un paese incredibile! Tre anni di guerra, ma ancora non risparmiano né uomini né pallottole. Hanno soltanto cambiato l’obiettivo prescelto.»
Detto questo, si mise a camminare per lo studio. Nel camminare si accorse che sulla parete il ritratto della moglie, nella pesante cornice di quercia, era appeso storto. Si avvicinò e lo raddrizzò macchinalmente, ma subito pensò: «E a cosa serve? Tanto, tutto è diventato storto!»
Il tendaggio sopra la porta della sala da pranzo oscillò e, da sotto apparve la sagometta con il nasino appuntito di una vecchiettina.
«Pélin’ka, cosa c’è?»
Pélin’ka, Pelagea era rimasta l’ultima anima fedele, dopo trent’anni di vita trascorsi fra le stesse mura domestiche con Evgenij Pavlovič con sconfinata devozione da vecchia balia verso un padrone di casa solitario, abbandonato da tutti.
Pelagea, strizzando gli occhi, disse biascicando: «Shtai shempre a camminare, carishshimo mio?.. Ma che vita, è adessho!.. Shempre, shempre camminare e camminare, shensha pace.»
Evgenij Pavlovič si fermò e cercò di stuzzicarla: «E tu, shempre, shempre sheduta, vecchia mia, a conshumare le shedie?»
La vecchietta non rispose, soltanto sbatté una manina secca, si chinò e tolse con il grembiule la cenere di sigaretta dal parquet del pavimento. Evgenij Pavlovič storse le labbra in un sorrisetto.
«Pulici? Povera cara, non ne potresti fare a meno! Ehi, vecchia, vecchia mia, forse, quando starai per varcare le porte del paradiso, anche lì, prima d’entrare, ti metterai a rassettare l’ingresso, per abitudine?» – E aggiunse: «Io, Pélin’ka, ora andrò al mercato. Cercherò di comprare qualcosa da mangiare.»
Pelagea, con il mento tremante, lo accompagnò nell’anticamera, lo aiutò ad indossare il pastrano. Chiuse la porta e a lungo fece tintinnare la catenella, non riuscendo a centrare l’intaglio; questo tintinnio accompagnò Evgenij Pavlovič lungo la scala.
Sul pianerottolo del piano inferiore incrociò un vicino di casa, l’ingegner Arandarenko. L’incontro gli era sgradito. A Evgenij Pavlovič, gli uomini che avevano tanto da dire, sembravano finti e li paragonava, semmai, a un giocattolo meccanico o a un merlo parlante; in quel periodo poi, uomini simili riuscivano a irritarlo assai più di prima.
Fatto un inchino in segno di saluto, avrebbe voluto svincolarsi subito, ma Arandarenko gli sbarrò la strada con i suoi sette pud* di carne e un bottone del pastrano del generale si trovò a girare tra le dita tipo cetriolini del vicino.
«Eccellenza!.. Buon giorno, salve! Che ne dice? Ah? Chi raccapezza più niente… Ha sentito? A loro non serve alcuna intellighentsia! Ah! Quelli asseriscono: “Ogni massaia è in grado di governare lo Stato!” La massaia! Ah! Una massaia, diventerà ministro! E noi? Ci manderanno in cucina a fare i garzoni. Evviva, niente male, non le pare! Un ingegnere e un professore dell’Accademia giuridico-militare faranno i garzoni di cucina. E’ roba da matti! Davvero! E’ la vita al rovescio! Ah?»
Il bottone si stava attorcigliando sempre più strettamente e sembrava che Arandarenko, da un momento all’altro, lo avrebbe strappato con tutta la stoffa. Per questa ragione e anche per qualcos’altro, che proveniva dall’inconscio, il generale aveva avvertito un caustico astio verso l’ingegnere, quindi disse con poco camuffata freddezza: «Non giudichiamo, per non essere giudicati.»
Arandarenko lasciò in pace il bottone, schioccò la lingua.
«E’ sconforto? Apatia? E’ male, molto male, caro Evgenij Pavlovič. Bisogna lottare sino all’ultimo sangue. Noi, l’intellighentsia…»
«Per cortesia, venga a trovarmi una sera di queste, sarà il benvenuto e ne parleremo… Adesso però, mi scusi, ho fretta d’andare al mercato, altrimenti farei troppo tardi.»
Avvicinò in segno di saluto la mano alla visiera, scivolò, strisciando con la schiena lungo il muro per aggirare l’ostacolo e, lasciandosi l’ingegnere dietro alle spalle, uscì in strada. Guardare la strada era increscioso e curiosamente interessante.
Si stava squamando. Dal suo corpo di pietra si scrostava, con sibilo e fruscio, precipitando, una secca infestante scorza che dilagava, rotolandosi di corsa lungo il lastrico e i marciapiedi, sospinta dalle folate bagnate del ventaccio umido, giunto furiosamente dal mare. Questa scorza si staccava visibilmente da ogni parte: sotto forma di buccia di semi di girasole dalle labbra atoniche e avvizzite dei passanti distratti che si trascinavano incuranti di ogni cosa; dalle mura – con grumi colorati di calce e di stucco; dalle insegne cascanti in modo cadaverico sotto forma di precisi quadratini della vernice crepata e dei sottilissimi strati di metallo in foglietti d’oro.
La strada si stava denudando, giorno dopo giorno con fiacco, indifferente e insensibile cinismo.
Persino le persone assunsero l’aspetto di scorza smorta, gettata all'esterno dagli appartamenti sofferenti in balia dell’umido vento.
Pure a se stesso, Evgenij Pavlovič, sembrava ad essere la medesima crosta secca staccata da un corpo distrutto, patito e sopportato lunghi minuti fatali e ora sospinto dal vento nel mondo spettrale di una strada nuda.
Il vento ora sollevava le falde del pastrano, rivoltandone le viscere rosse della fodera, ora tirava e tratteneva per la martingala pendente, strappata da una parte, ora s’imbrogliava in mezzo alle gambe secche, fasciate dai calzoni a tubo di tessuto diagonale con le doppie bande rosse da generale.
Il vento è come se avesse fraternizzato con i tempi. Se ne infischiava francamente dell’età e del rango del professore di una prestigiosa Accademia giuridico-militare. Picchiava il professore sulla faccia, lo frustava da tutte le parti a sferzate, fischiava nei suoi orecchi come un brigante, lo piegava e lo faceva dondolare, cercava ad abbatterlo e di farlo cadere, e bruscamente spingeva il suo corpo mingherlino tanto forte da farlo avanzare di corsa lungo il marciapiede, gonfiandogli il pastrano come vela.
Il pastrano s’ingobbiva a punta sulla schiena. Giù, dalle spalle, malinconicamente pendevano le estremità dei fili delle spalline tagliate. I fili non erano stati tolti sia per pigrizia, sia perché il generale non se l’era sentito di farlo.
Camminava lungo la strada come un navigatore che osserva attentamente da ambedue i lati, ma con poco interesse, mentre sta conducendo l’imbarcazione per l’ennesima volta attraverso uno stretto tra due sponde da tempo familiari e venute ad uggia. Il navigatore smette di notare le sponde: ai suoi occhi risaltano soltanto gli eventuali cambiamenti dei loro profili, avvenuti nel lasso di tempo tra due tragitti.
Esattamente così succedeva con la strada. Evgenij Pavlovič aveva rilevato che in una sola notte il tempo e il vento avevano rosicchiato la grossa ciambella d’oro dell’insegna della panetteria, chiusa-sbarrata da assi di legno. La doratura e il gesso si erano sgretolati e staccati, e dalla soffice forma stravagante della ciambella si rizzava beffardamente il fil di ferro arrugginito del suo scheletro strutturale.
Evgenij Pavlovič, contrastando il vento, si mise in “deriva” e sollevò verso il relitto della ciambella l’appuntita barbetta. All’improvviso lo sfiorò un pensiero che non c’entrava, apparentemente, per niente: «A Kotja piaceva molto con la marmellata di lamponi».
Come se fosse vivo, la mente gli disegnò l’immagine del figlio corazziere, morto ammazzato nei pressi di Gumbinnen**, all’inizio della Grande guerra. Gli tornò in mente non in vesti di un brillante alfiere, alto e tintinnante nel guscio della corazza luccicante e nell’azzurrognola neve del colet***, bensì di un buffo, dolcissimo bambolotto sorridente di cinque anni. Portava allora braghette corte di velluto, aveva il musetto dalle guance rosse e paffute, e nella mano teneva una ciambella, generosamente spalmata con la marmellata di lamponi; e tutt’attorno alla bocca e sulla punta del nasino a bottoncino era appiccicata una dolce massa rossa.
Evgenij Pavlovič sospirò, s’ingobbì e, affidandosi al vento, si mise a “navigare” oltre.
All’angolo della prospettiva Litejnyj, s’imbatté in uno scoglio.
Veramente, si trattava soltanto di un semplice, comune marinaio. Le spalle larghe, gli occhi di un grigio-acciaio, malizioso, disinvolto, egli stava fermo sul marciapiede con indosso la marinara, aveva sulla spalla una carabina a canna mozza e esaminava ben bene tutti i passanti con sguardo acuto. I pedoni lo aggiravano. Egli sembrava, in mezzo alla spumosa fiumana umana, un solidissimo scoglio-frangiflutti.
Il vento giocherellava con l’orecchino d’argento che pendeva ed oscillava nel suo lobo sinistro.
Il marinaio sfiorò con lo sguardo la fodera rossa del pastrano, i fili rimasti sulle spalle. Ammiccò allegramente: «Sta facendo la muda, povero uccelletto divino nel grado di generale?»
La replica arrivò, spontaneamente, senza pensare: «E sì, sto imparando dalla benefica natura. Il rinnovamento esige la muta. Fanno così i saggi serpenti!»
Il marinaio, alzando una spalla, si aggiustò la carabina che si era spostata e disse con una palese benevolenza: «Fai, fai la muta, saggio serpente, ma falla in fretta, altrimenti molto presto, fratelli-generali, saremo costretti a farvi fuori tutti come un gregge. A compagnie.»
Evgenij Pavlovič ebbe voglia di lanciare una frecciata e, puntando verso il marinaio la sua barbetta, domandò: «E sarebbe questo il consumo socialista del prodotto? Ma amici miei cari, il prodotto è avariato!»
Disse e comprese che la battuta sarcastica non gli era riuscita. Il marinaio si scurì in volto, strinse le labbra e in silenzio indicò il lato opposto della strada e un recente foglio stampato, affisso sul muro.
«Vada lì a leggere, uccelletto divino, così vedrà tutto chiaro.»
Evgenij Pavlovič si avvicinò al foglio, male odorante d’acido di pessima colla, dall’aspetto grigio e tutto tempestato da minuscole scaglie di fibre legnose. Sul foglio brulicavano, a lettere di color della pece, in bassa definizione, le righe stampate in grassetto.
Affetto da miopia, Evgenij Pavlovič si avvicinò a distanza di naso al testo, graffiando il foglio con lo spazzolino argenteo della barbetta. Gli occhi si aggrapparono ai caratteri:
«… all’assassinio del compagno Urizkij, all’attentato al capo della rivoluzione mondiale, compagno Lenin, il proletariato risponderà con il colpo mortale alla borghesia imputridita. Non occhio per occhio, ma mille occhi per uno solo. Mille vite della borghesia, per la vita del capo delle masse operaie. Evviva il terrore rosso!»
La barbetta smise di graffiare il foglio. Il generale si spostò dal muro, rimase per un po’ fermo, impensierito, strizzando gli occhi. Strinse più volte le labbra e, rianimandosi, s’incamminò verso il mercato. Nella tasca tastò una scatoletta di velluto con i gemelli d’oro, preparata per la vendita.

* Antica misura russa di peso, pari a 16 kg.
** E’ odierna Gusev, dal 1946.
*** Un corto giubbino attillato dell’uniforme degli alfieri nell’armata zarista.


bolzev



Traduzione:

Il 30 agosto a Pietrogrado è stato assassinato
il Presidente della в.ч.к.*, compagno Uritzkij.
Nello stesso giorno è stato commesso
LO SCELLERATO ATTENTATO A VLADIMIR IL’IČ LENIN.
All’assassinio del compagno Urizkij, all’attentato al capo della rivoluzione mondiale, compagno Lenin,
il proletariato risponderà con il colpo mortale alla borghesia imputridita.
Non occhio per occhio, ma mille occhi per uno solo.
Mille vite della borghesia, per la vita del capo delle masse operaie.
Evviva il terrore rosso!



* Commissione straordinaria per la lotta alla controrivolizione e il sabotaggio nell’ambito del Consiglio dei Commissari del popolo della R.S.F.S.R. (1917-1922)
 
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Capitolo Secondo



La bianca cattedrale, bassa, con una grande cupola a cipolla e con altre piccole cupole-cipolline, affrescate in turchese e oro, era divenuta una specie di giostra, attorno alla quale stava girando tutto, pur se essa rimaneva immobile a terra a contemplare cupamente il caotico affollamento.
Una stridula musichetta completava la similitudine alla giostra.
Nei pressi della cancellata della cattedrale, sotto un vecchio cannone turco, ancorato a terra come un monumento, un uomo in poddjovka* con un occhio bendato da un fazzoletto nero girava la manovella dell’organetto. Le canne scordate emanavano nel cielo trasparente dell’ultima giornata d’agosto acuti e angosciosi ululati sonori.
L’uomo guardava a terra. Ai lati delle sue guance sporgevano fittissimi e piumosissimi baffi bianchi e anche sopra al labbro c’erano baffetti simili alle antenne di un grosso coleottero villoso che, proprio come le antenne del coleottero, si muovevano, tremavano e si contorcevano. In mezzo a queste antenne canute si nascondeva un naso sottile con una bella gobbetta.
Sul coperchio dell’organetto era stato appoggiato un berretto a visiera con un fregio rosso e un piccolo foro al posto dell’ex distintivo. Riempito a metà, il berretto pian piano stava lievitando con “bolle” di denaro più disparato: marchi di guerra, rubli vecchi, cinquanta copechi e, da un lato, vicino alla fodera di pelle del fregio, stava come orfanella, persino una kerenka** verde.
Alcune delle persone attorno gettavano sguardi fulminei e curiosi all’uomo che suonava l’organetto. Ancor di recente, quest’uomo muoveva le strutture del potere dello Stato, come la manovella dell’organetto, e il suo volto era conosciuto dall’intero paese, riprodotto centinaia di volte sulle pagine delle riviste e dei giornali.
Nelle pieghe delle sue labbra, nell’aristocratica gobbetta di razza del naso, si occultava la dignità degli antichi senatori romani, acquisita nei secoli, i quali, avvolti nelle proprie toghe, indifesi e inermi, attesero i colpi mortali delle orde barbariche che avevano oramai varcato con irruenza le mura del forum.
Tutt’attorno a quell’uomo, lungo il perimetro della cancellata della cattedrale, stavano seduti e in piedi, identici nello stesso suo destino, i senatori dell’Antica Roma, appoggiando le schiene alle lance dell’inferriata e ai cannoni di ghisa.
Gli interni delle ville, dei palazzi, degli appartamenti ministeriali, scossi, sconvolti dai ruggenti spasmi infuriati dell’epoca, eruttavano sotto la cancellata della cattedrale una fantastica, variopinta molteplicità di soggetti.
Le dame d’onore di corte: esordienti e sopravvissute a se stesse, magre e grasse, bellissime e ripugnanti, ma tutte, senza eccezione, compenetrate dalla grandezza della nobiltà e dalle eccellenti maniere, facevano cenni con le mani, agitavano le braccia sulle quali era stata appesa e oscillava in balia del vento tutta la magnificenza delle merci preziose, esposte in bella mostra per i barbari vittoriosi.
Fiocchetti, ruche, passamanerie decorative, pizzi, solennità elegante dei velluti di Lione, lucidezza intensa delle sete dei casati, scintillanti macchie “a pavone” degli scialli di nonne e bisnonne, stupendi crespi di Cina della biancheria, finissima batista di cui si faceva la scorta per anni e anni per i matrimoni e le notti nuziali, merletti del Belgio e dell’Olanda, ricami a giorno, raffinatissimi merletti-ragnatele a tombolo, ad ago, all’uncinetto, con magnifici disegni sui quali divenivano ciechi gli occhi indeboliti delle merlettaie nelle tenute dei ricchi a Rjazan, a Kursk, a Mosca… e poi borsette, specchietti, portacipria d’argento e d’oro, borsellini, ditali, agorai, nécessaire… suscitavano meraviglia e stupore, stimolando voglie incontenibili nell’ingenuo acquirente.
Le dame d’onore di corte agitavano le manine; dame d’onore di corte, le cui labbra erano abituate alle tonalità musicali della lingua francese e ai titoli da giramento di testa: Votre Majesté, Votre Altesse impériale, mon prince, monsieur le comte, – con quelle stesse labbra, urlavano apertamente in pubblico parole inaudite: «Ehi, prendete tutto! Servitevi! Forza! Pizzi-merletti, sete, mutandoni da donna, zephir!»
Oh, come si stringevano le loro bocche nella parola «mutandoni»! Oh, come si ribellava tutto l’essere loro!
Ancora un anno prima, questa parola veniva pronunciata sottovoce, sussurrando, soltanto nelle conversazioni intime tra le migliori amiche del cuore, riparate in qualche angolino dei salottini silenziosi e suscitava il tremore dello spavento segreto. Adesso, invece, c’era proprio il bisogno di gridarla in modo sonoro, di pronunciarla il più distintamente possibile, per far avvicinare il compratore, senza esitazione, nel punto esatto di vendita di questi articoli.
Finite le file delle dame d’onore di corte, iniziavano le file dei consiglieri di stato, consiglieri effettivi e degli affari particolari, dei comandanti in capo, degli aiutanti di campo, degli aiutanti generali di corte e dei generali delle armate… e anche qui, messi in bella mostra, c’erano: reding-coats di finissimi panni inglesi, tights e frac a code di rondine, giacche con rotondità imbottite, pantaloni a righe e a quadretti, braghe di tutte le sfumature crema con il cordoncino d’oro dai camer-lacché d’alto rango, gilet e panciotti multicolori, cravatte, pettini, colletti, bauletti portasigari e portasigarette d’argento e d’oro, canne da passeggio, cappelli di feltro alla Borsalino, panami di bianca paglia, frusciante e morbida come seta, intrecci di canotjéur, bombette di panno opaco e chapeau-clague di lucido velluto di seta, stelle-onorificenze con smalti artistici, fregi e galloni delle divise degli stabss- hof- jägerconsiglieri e cerimonieri.
Accecati dall’estasi, i barbari conquistatori si gettavano sull’eccitante sfarzo.
Ah, che favola, potersi appiccicare sopra un bel povojnik*** contadino una luccicante stella-onorificenza di Stanislao o di Sant’Anna! E’ assai pratico, per scacciare dall’uscio della casupola della fattoria i maialini e i vitellini, usare una canna da passeggio col pomo d’avorio di manifattura Falger! Si possono benissimo abbellire gli orli dei cappottini e delle pelliccette delle giovinette con il cordoncino d’oro, scucito dalle giubbe delle indescrivibili uniformi di camer-lacché e di cerimonieri, oramai inservibili; dai portacipria d’argento di Ljalik, vengono fuori eccezionali lumini economici, in sostituzione della vecchia sverza!
Del resto, chi mai poteva sapere quante altre cose del genere, lasciate in eredità da una classe che aveva esaurito il proprio ruolo, sarebbero utili in un paese radicalmente trasformato?..
Ed era raggiante e soddisfatto il compratore, palpando il magnifico tessuto di pizzo di Sankt Gallen d’una sottogonna, tutta pieghettata e frusciante, con la quale sarà confezionata una strabiliante toilette per la bella figliola di un fattore che farà impallidire tutti d’invidia al ballo del villaggio; il venditore era altrettanto raggiante e soddisfatto.
Così il mercato è universale.
Poca cosa sono tutti i Tit’s e Wertheime’s, l’Au Bon Marché e gli altri grandi magazzini babilonesi a dieci piani con vetrine a specchio e larghe scale di marmo, a paragone con il mercato della giovane repubblica del millenovecentodiciotto, in quanto in quei grandi magazzini non si possono comprare né miglio non mondato, con cui si cucina una minestra assai corroborante, né lardo non stagionato, né grano saraceno, né pannacida, né soffici pagnotte di farina bianca, né pane nero di segale, il più democratico, ma così invitante con l’incantevole fragranza di crusca e la croccante crostina marrone scuro dorato.
A che cosa servono mai le larghe scale di marmo e le vetrine a specchio, laddove non potresti trovare neppure l’ombra della favolosa romantica e nemmeno uno strascico della tenace e brutale battaglia per la vita?..
Girava e girava attorno alla bianca cattedrale bassa la caotica giostra schiamazzante del mercato; frusciavano sete e batiste, si udiva il picchiettio delle rigide dita degli acquirenti sopra bombette e canotjéu; solleticava il denaro cartaceo di Kerenskij e Romanov, e la mano affusolata dell’uomo dai caratteristici baffi bianchi che si contorcevano come le antenne d’un grosso coleottero villoso, girava e girava la manovella dell’organetto.
Evgenij Pavlovič, sommerso dalla folla, si fece largo a forza di spintoni, per accostarsi alle lance dell’inferriata della cattedrale e riprese fiato.
Adesso doveva assumere l’aspetto rispettabile di una persona indifferente, non notare nessuno della gente che conosceva, così come imponeva una tacita legge di questo mercato, perché era molto penoso guardarsi negli occhi, in quanto, nello sguardo di un conoscente, si sarebbe potuta scorgere una reminiscenza inutile.
A questo punto bisognava stringere al fianco un braccio piegato, sporgere la mano girata all’insù, mettere sul palmo aperto la scatoletta di velluto con i gemelli d’oro e, assumendo un atteggiamento di noncuranza, attendere gli effetti.
Non dovette attendere a lungo.
Un tizio dai capelli rossi con il pellicciotto di agnellino di Persia rovesciato (nonostante ci fosse vento, la giornata era davvero calda) si precipitò svincolarsi “dall’impasto lievitato e scivolante” della folla e si fermò di colpo davanti ad Evgenij Pavlovič.
Dalla sua fronte, sotto un pesante colbacco, scendevano rivoli scuri di sudore sul secco naso storto, verso la sua guancia sinistra. Per circa un minuto, l’uomo dai capelli rossi fissò i gemelli d’oro, poi le sue trasparenti pupille gialle si mossero e cominciarono a scrutare il pastrano del generale, la barbetta appuntita e il berretto a visiera di Evgenij Pavlovič.
Toltosi il sudore dalla fronte con la mano, l’uomo disse: «Oh, mamma mia, cara! C’è da crepare per quanto fa caldo, con tutto questo pelo! E’ come se mi avessero messo dentro a una caldaia e stessero mandando la pressione a tutta birra!..»
«Allora perché si è messo la pelliccia?» – chiese Evgenij Pavlovič.
Il rosso si batté con le mani sulle cosce.
«Che tipi strani ci sono, mamma mia! Ragiona, testolina, dove lo avrei potuto mettere, se l’ho appena comprato? Portarlo di peso sul braccio, sarebbe ancora peggio. Perciò, come vedi, sopporto!» E, passando subito al sodo, indicò i gemelli d’oro. «E questi, li stai vendendo, compagno eccellenza?»
La barbetta di Evgenij Pavlovič si mosse da su in giù, nell’annuire. Il compratore prese la scatoletta, la fece girare un po’ tra le mani. Un pallido sole si accese con un dolce riflesso sui cerchietti d’oro dei gemelli. Il rosso chinò il suo naso storto verso la scatoletta.
«Sono d’oro?»
«Hanno il marchio sul lato posteriore.»
«Uhm… E che cos’è, qui sopra, questa femmina con la bilancia? Che cos’è, uno stemma di casato, o si tratta di qualcosa d’altro?»
Dovette rimandare la risposta per qualche istante, cercando di trattenere una dannosa risata. Spiegò tranquillamente: «Si tratta di Femida – la Dea della giustizia, sulla cui bilancia si soppesano tutte le azioni e i peccati umani.»
Disse, e si ricordò del giorno in cui i frequentatori dell’Accademia gli avevano donato i gemelli come augurio per la promozione al rango di maggior generale. La reminiscenza, tuttavia, arrivò pallida, annebbiata e svanì all’istante.
«Clamida?» – cantilenò il rosso, perplesso, «E’ solo una sciocchezza, compagno eccellenza. Sono fiabe innaturali. Le faccende umane non possono essere pesate, con tutti i loro peccati; gli umani invece ad essere impiccati, piuttosto, questo sì, che si potrebbe fare. Basterebbe solo avere corda a sufficienza. L’entità della cattiveria umana, della schifezza che c’è attorno, non si può pesare, nessuna bilancia sarebbe in grado di sopportarla. Allora, a quanto li vendi?»
Evgenij Pavlovič diede uno sguardo al compratore. Il suo naso storto stava ancora frugando i gemelli d’oro.
Riuscì a dire con facilità e convinzione.
«Cinquecento.»
Dentro di sé pensò invece: «Si potrebbe calare sino a duecento.»
Del tutto inaspettatamente, l’acquirente si mise la scatoletta nella tasca del pellicciotto e, ripiegandone la falda, tolse da una tasca dei pantaloni un portafoglio gonfio con un lembo strappato e contò l’intera somma.
«Tieni, accidenti a tua fortuna! Ho tanto denaro facile e non ho a chi lasciarlo! Non so mai decidermi ad avere dei figli!»
Il pelliccitto d’agnellino rovesciato si lasciò prendere dal vortice della folla. Evgenij Pavlovič si sgranchì le gambe intorpidite e s’incamminò verso la parte degli alimentari del mercato.
Comprò un sacchetto di tela di miglio, un pezzo di lardo, una grossa pagnotta di pane nero di segale e cinque sofficissimi panini tondi di farina bianca. Poi, decidendo di non badare al risparmio, si fece dare anche un pacchettino di saccarina tedesca, mezzo etto di succedaneo di caffè e, soddisfatto, si diresse a casa.

* Soprabito pieghettato alla vita (stor.)
** Biglietto di banca in circolazione in Russia negli anni 1917-20, emesso durante il governo provvisorio, di cui il capo fu Aleksandr Kerenskij.
*** Antico copricapo di donna sposata russa, rappresentato da un morbido cappellino di varie forme.
 
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Capitolo Terzo


All’angolo della prospettiva Litejnyj, non c’era più quel roccioso marinaio. Sembrava che non fosse riuscito a resistere alle potenti, elastiche sferzate delle raffiche di vento brigante che, infuriandosi, stava crescendo, aumentava a dismisura e fischiava sulla città con minaccioso ululato.
Il foglio stampato, appiccicato sul muro, si era staccato ad un angolino, il vento si era intrufolato sotto il lembo e, gonfiando la carta a palloncino, si sforzava di strapparlo del tutto dal muro, per portarselo in giro sopra i tetti dei palazzi.
Evgenij Pavlovič, dapprima aveva proseguito nei pressi del foglio con noncuranza, ma, non avendo fatto neppure dieci passi, si fermò. Uno strano sentimento gli impedì di andare oltre: gli era sembrato di non avere fatto una cosa necessaria e urgente. Prestato ascolto all’inquieto mormorio di quella strana sensazione, il generale capì di essere spinto a tornare indietro, verso quel foglio che si stava staccando.
Sul viso di Evgenij Pavlovič era apparso un cauto imbarazzo, ma le gambe lo avevano oramai avvicinato al foglio, la mano aveva preso la parte scollata e l’aveva schiacciata al muro. Il foglio, però, si era svincolato, liberandosi dalle mani e con più impeto di prima si mise a sbattere contro lo stucco del muro.
Evgenij Pavlovič fece un sorrisino astuto, acchiappò il foglio per la seconda volta e, senza rendersi conto del motivo, sputò in po’ di saliva sopra un suo angolino e poi lo premette forte con la colla inumidita al muro. Il foglio a questo punto s’incollò.
Evgenij Pavlovič gli diede una tranquilla occhiata soddisfatta e si allontanò.
Sopra gli sbiaditi palazzi sbrecciati, sopra il ronzio incessabile del vento, sopra la gobbetta del ponte, Letejnyj, in fondo all’omonimo corso, pendeva, come un glaciale arco, il delicato cielo alto autunnale, già sfiorato sull’orizzonte dall’acre gialliccio del tramonto. Il suo fluente verde echeggiava l’inquietante gracchiare d’uno stormo allarmato dei corvi reali. A poche sagene* da Evgenij Pavlovič, in mezzo al lastrico, stava disteso un cavallo da trasporto moribondo con le zampe anteriori girate sotto il corpo e quelle posteriori protese indietro come bastoni.
Attorno si era raccolto un gruppetto d’imperturbabili sfaccendati: stavano stretti, a testa china, come impauriti dal vivere in questa gelida città morente e gli ultimi respiri del cavallo tendevano la pelle sulle costole tonde con il pelo scompigliato e impregnato di sudore freddo, come se presagissero l’ora, in cui la morte sarebbe arrivata pure per loro, udenti e vedenti, soltanto sino a quel momento.
Il carrettiere, un finlandese, appoggiandosi ora su una gamba ora sull’altra, rimaneva fermo davanti al muso del cavallo, continuando a tenere nel pugno le estremità delle briglie oramai inservibili. Evgenij Pavlovič, passando vicino, notò che gli occhi del carrettiere erano dello stesso freddo colore verde-azzurro del cielo in cui si gelavano le lacrime avare di un povero popolano.
Evgenij Pavlovič affrettò il passo e, giunto al portone della propria casa, sospirò sollevato. Dopo aver suonato il campanello, sentì dietro la porta il cauto strascicare delle pantofole di pelliccia di Pelagea. Senza aprire la porta, la vecchia balia domandò più volte ad Evgenij Pavlovič, se era stato proprio lui a suonare.
Questo contrattempo non fece che accrescergli l’irritazione inconscia accumulata.
«Sei diventata proprio sorda, vecchia?» – domandò, sbarazzandosi nervosamente del pastrano e del berretto a visiera, ma rimase di stucco, notando un subbuglio come di gallina spaventata negli occhi senili, dietro palpebre arrossate e gonfie.
Pelagea batté velocemente le ciglia e si mise a biascicare: «Non shi arrabbi, carisshimo figlio mio. Mi ha prezjo una gran paura. Mentre tu shei shtato via, qui da noi, i banditi hanno ammatshato shignor Rogashčevskij!»
«Come?!» – esclamò Evgenij Pavlovič.
Si sentì tremare le ginocchia, come se all’improvviso gli si fossero rotti tutti i legamenti e, per non cadere, si aggrappò ad attaccapanni.
«Come l’hanno ammazzato?!»
La vecchia tutt’ad un tratto si arrabbiò: «Come, come?!.. E’ shemplice… hanno ammatshato e bashta, mio caro. Shono shaliti al quinto piano, hanno shuonato, hanno chieshto di Shergej Petrovičsh; e non appena lui è arrivato alla porta, i banditi gli hanno chieshto di dare loro dei sholdi. Lui shi è messho a gridare e loro hanno shparato dalle pishtole e shono shcappati dgiù per le shcale, e chi sh’è vishto sh’è vishto. Accorshero i vicini, e lui, tutto inshanguinato, ha sholo shollevato la teshta, ha detto “mi hanno uccizho” e ha ezhalato l’ultimo reshpiro.»
Il generale riuscì a dominare la debolezza improvvisa; solo nella bocca gli era rimasto un nauseante saporaccio metallico, come se avesse masticato una pallottola.
Cominciò a togliere dalla sporta gli acquisti appena fatti e, consegnandoli a Pelagea, brontolò sottovoce: «Riposi nella quiete il defunto; datti da fare, finché c’è vita, il vivente!»
«Cozha, caro?»
«Niente, Pélin’ka, sto parlando tra me e me. Tento di trovare una giustificazione alla mia esistenza. Intanto, sarà meglio che tu prepari una minestra; si deve mangiare in ogni caso, anche se è inutile.»
Entrato nello studio, scostò dalla scrivania un’alta poltrona intagliata nell’antico stile slavo, si sedette e cercò di raffigurarsi nella mente, da vivo, il morto-ammazzato Rogačevskij. Ma non riusciva nell’intento. Chissà perché, ma era stato capace di ricordarsi solamente un grosso astuccio per violoncello del defunto (Il fu Rogačevskij era un musicista dell’opera “Mariinskij” di San Pietroburgo) nei minimi particolari, dalle più piccole scalfitture agli svolazzi del monogramma d’argento “S.R.”, mentre l’aspetto fisico di Sergej Petrovič era coperto da un opaco smalto grigio, sotto il quale scorgeva nitidamente soltanto il suo orecchio sinistro, rosicchiato nell’infanzia da un cane.
Evgenij Pavlovič, socchiudendo gli occhi, scosse la testa, per liberarsi dalle laccate spoglie dell’assassinato.
Nell’anticamera risuonò lo strepito del campanello, si sentirono i passi strascicati di Pelagea. Il generale saltò in piedi, a passo precipitoso si avviò nell’angolo dello studio, tolse un listello di parquet, strinse nella mano la rivoltella estratta dalla piccola nicchia nel pavimento, si avvicinò alla porta, tese l’orecchio.
La voce di Arandarenko barrì nell’anticamera. Evgenij Pavlovič fece una smorfia, rimise la rivoltella a posto, ricoprì la nicchia con il listello e lo schiacciò con un piede.
L’ingegnere, sbuffando, irruppe nello studio a passi di pachiderma.
«Ha sentito, di Sergej Petrovič? Tutto questo è davvero impossibile!» – disse, ricoprendo la mano del generale con l’impasto del suo palmo di mano innaturale, per com’era enormemente flaccido e grosso, e cadde sulla poltrona. «Al punto che siamo arrivati, dove andremo di questo passo? Ah? Nel cuore della città, in pieno giorno, è stato ucciso un uomo!»
Evgenij Pavlovič rimase in silenzio, studiando con interesse le punte delle proprie scarpe.
«E pensi,» – si girò Arandarenko con rivelazione, la poltrona emise uno scricchiolio lamentoso, – «gli inquilini hanno chiamato la loro milizia per la lotta contro il crimine. Sono arrivati tre asini che non hanno fatto altro che sgranare gli occhi e sbattere le ciglia. Allora io ho domandato loro: “Sarebbe questo, quello che voi chiamate il potere dei contadini e degli operai, in cui si ammazzano le persone innocenti alle due di pomeriggio?” E loro, per tutta risposta: “Non abbiamo uomini a sufficienza”. “Allora non dovevate allungare le mani e aggrapparvi al potere, se vi manca la gente”, – dissi loro. E qui, uno di loro mi ha dato una tale occhiata micidiale, dicendo: “Non è una faccenda che la riguardi, compagno!” Ah? Sentitelo che roba, ma come si permette, carogna!»
«Hanno troppe difficoltà» – rispose il generale, malvolentieri, spostando lo sguardo dalle scarpe alla faccia dell’ingegnere.
«Cioè, non la comprendo, Evgenij Pavlovič. Mi scusi, Eccellenza, ma lei è diventato alquanto strano, è come impaurito. Cos’è, il suo discorso? E’ lassismo o, forse, è accettazione totale?»
Gli occhi dell’ingegnere, sbarrati a causa dello stadio iniziale del morbo di Basedow, erano simili agli occhi fuor dalla testa del rospo verde ed egli stesso stava seduto in poltrona, come un grosso, sfatto rospo smarrito, con le gambe allargate goffamente. Nella mente, per un attimo, si fece largo un pensiero avventato: «E se all’improvviso dovesse gracchiare e saltare?»
Per questo, prima di rispondere, sorrise e, soffocando sul nascere la risata, cominciò a parlare: «Accettazione totale? Forse lei ha visto giusto. Non direi, tuttavia, che si tratti di accettazione totale, ma, perlopiù, se proprio vuole, dell’accettazione, che sta qui, da qualche parte» – e il generale si toccò la parte sinistra della sua giubba, – «mi sta dentro veramente. La testa, l’intelletto mi dicono: “non si può, non devi!”, – mentre qui, quel qualcosa sussurra: “E cerca di entrare nel merito!”. Nei primi tempi volevo fuggire, andare all’estero. Ma sono rimasto. E vuole sapere che cosa mi ha trattenuto? Un pensiero: “E sì, me ne vado, parto, e non vedrò mai più questa palizzata russa inclinata, un’isba malandata, le betulle russe, una strada vicinale piena di buche, ma ci saranno tutto attorno a me dei bei recinti, castranti, con le targhette ben lustrate: “qui si può”, “qui non si può”. Non ho potuto partire. E’ meglio sporco, insanguinato, ma stare nel proprio, assurdo, goffo, che causa sofferenze immani, soffrendone disumanamente…»
«Quindi, lei accetta loro?» – interruppe Arandarenko.
Evgenij Pavlovič si strinse con la mano più volte la barbetta. Rispose alla domanda con franchezza: «Riguardo a questo, non potrei neanche io rispondere a me stesso in modo preciso. Sembrerebbe che nessun altro se non io, potrebbe concepire e formulare definizioni esatte. Sono un professore di scienze giuridiche, il cosiddetto “ratto di cavilli”, e tuttavia, s’immagini, io non sono in grado di trovare una giusta definizione. Non potrei affermare che accetto nella stessa misura in cui accettavo il vecchio stato, il vecchio ordinamento, ma non agirò neppure contro. E non sarò mai un nemico. Sono un parallelo di passaggio… uno che osserva. A volte persino sembrerebbe che… Ecco qua, potrei raccontarle un fatto strano… Un manifesto sulla prospettiva Litejnyj. Terrore rosso! A morte la borghesia! Significa a morte lei e me. Dovrei indignarmi. Ma non c’è sdegno. In quanto anche loro hanno tutto il diritto di difendersi.»
«Ah, è per l’attentato a Lenin? Sì, sì, avevano fallito!» – disse l’ingegnere, assalito dai propri pensieri.
«Sono contento che abbiano fallito!» – ribatté Evgenij Pavlovič con sdegno. «Il terrorismo è una porcheria, è una vigliaccheria umana. I terroristi, in novanta casi su cento, sono dei vili mascalzoni, e negli altri dieci, sono degli psicopatici. Non riescono ad affermarsi con l’intelligenza ed afferrano bombe e pistole, senza comprendere che il corso della storia non si può arrestare con le pallottole. E qual è il risultato che ottengono? E’ una nuda azione abietta o una ridicola buffonata! Mi capitò, quando ero ancora un giovane aiuto procuratore a Sebastopoli, di incontrare due mocciosi del genere. Avevano gettato una bomba contro il comandante dell’equipaggio. Quei due avranno avuto sedici anni a testa e cervelli ancora molli, annacquati. Li guardai e mi rifiutai di processarli e condannali. Che cosa si sarebbe potuto pretendere da giovanotti stupidi e ignoranti, cui gli adulti farabutti, avevano fatto prima un lavaggio del cervello e poi si erano riparati dietro alle loro schiene. Uccidere Lenin! Quei socialisti rivoluzionari, non avendo né mezzi né cervelli per combattere il pensiero altrui, hanno trovato un’isterica canaglia, le hanno messo la pistola in mano, e chi si è visto si è visto. Vigliacchi!»
Arandarenko fece scricchiolare forte la poltrona un’altra volta.
«Ma, Eccellenza, lei, a quanto sembra, non si sente bene! Ah? Così, secondo lei, si dovrebbe fare la riverenza e chinare la testa? Invitare loro: venite, cari bolscevichi, mentre ci stendiamo come zerbini ai vostri piedi?! Sarà che lei, caro Evgenij Pavlovič, è un russo e già i suoi nonni furono abituati a chinarsi e a pagare dazi e tributi ai khan tartari e mongoli per i tre secoli di dominio dell’Orda d’Oro, mentre i nostri trisavoli, ucraini, impalavano tartari e mongoli invasori!»
La voce presuntuosa dell’ingegnere fece risvegliare l’orgoglio assopito, collocato profondamente da qualche parte. Gli sembrò assolutamente necessario richiamare alla decenza questo sfatto ciccione, spaparanzato sulla poltrona.
«Lasci in pace i miei avi!» – si tirò all’insù la barbetta del generale. «E’ probabile che dovettero chinarsi, tuttavia finì che i suoi nonni si nascosero sotto le falde dei miei avi, per cercare protezione! E’ questo il punto! Per quanto, invece, concerne il potere recente, l’ho detto e lo ripeto – sì, caro signore, lo accetto! Pur se è difficile accoglierlo subito, ma anche questo per me è del tutto chiaro e comprensibile. Sono un giurista! Qualsiasi rivoluzione, rispetto ai capisaldi della società precedente, è una novella giuridica. La rivoluzione francese fu una novella giuridica rispetto al feudalesimo, questa lo è nei confronti del capitalismo. La gente invece, come lei e me, ottusi mastodonti, poveri schiavi delle tradizioni, non riescono ad accettare e, come gli ultimi degli stupidi, soccomberanno!»
Disse e si spostò verso la finestra. Fuori il vento continuava ad ululare e sulle coperture dei palazzi si adagiava smorta, avvizzita la tenebra notturna. Con gioia maligna, incomprensibile a se stesso, sentì dietro la schiena lo sbuffare dell’ingegnere, che si liberava a stento dall’abbraccio della poltrona.
«Debbo proprio ripeterle, Eccellenza, lei è malato. Ha bisogno di un medico e con urgenza. La saluto, adesso! Sento che con lei è impossibile intendersi.»
In silenzio accompagnò l’ingegnere all’uscita, chiuse la porta con la catenella e si diresse verso la sala da pranzo. Sulla tavola, dentro un pentolino, fumava di vapore una minestra di miglio. Pelagea stava ferma in piedi vicino al muro con le braccia incrociate sul petto rinsecchito.
«Siediti, vecchia mia, si cena insieme!» – disse Evgenij Pavlovič, accostando al tavolo un'altra sedia. «Facciamo, per così dire, l’unione del proletariato con la borghesia. Il riempimento di pancia è un’occupazione non classista!»
La calda minestra granulosa scottava la lingua. Pelagea toglieva la minestra dal cucchiaio con lingua, avidamente, in modo senile, sbattendo le labbra e, nel guardarla, Evgenij Pavlovič fece un sorriso addolorato.
«Ciascuno ha voglia di vivere, persino il più vecchio, inservibile. E tira avanti solo per curiosità, per il desiderio di conoscere…»
Finita la cena, spostò il piatto al centro della tavola e ritornò nello studio. Dal cassetto mediano della scrivania estrasse un quaderno quadrato, rilegato in marocchino verde, fittamente scritto e lo sfogliò lentamente per arrivare a una pagina bianca.
Prese una penna, l’intinse nel calamaio, tolse accuratamente con le unghie dalla punta della penna un filino di lanugine e, dopo aver riflettuto un pochino, si affrettò a scrivere: «Oggi sono andato al mercato per vendere i gemelli con Femida. Sono riuscito a venderli bene. Non posso lamentarmi della vita, in quanto l’offesa subita è stata sostituita dalla curiosità, dalla voglia di sapere: cosa sarà dopo? Non riesco a discutere con Arandarenko. Bisogna negare, non accettare, ma con intelligenza, egli non n’è capace: la sua è l’ira di una popolana qualsiasi del mercato che sia stata truffata. Ho dato un’attenta sbirciata alla città. E’ orrenda, ma la mia impressione, è che non stia morendo, ma viceversa stia ricuperando le forze, come un ex malato grave in via di guarigione, perché la gente, cui adesso appartiene, è sana. Anche la Russia ricupererà e guarirà definitivamente, non appena le sarà caduta tutta la sua crosta atrofizzata.»
Sollevando la mano con la penna tra le dita, si accigliò per concentrarsi e precipitosamente, come se temesse qualcosa, aggiunse: «Ho fede, aiutami, Signore, nella mia miscredenza!»
Chiuse il quaderno e, mentre lo stava mettendo nel cassetto, udì il rombo del motore di un’automobile, che cessò tutto ad un tratto davanti al portone. L’intuito gli suggerì che l’arrivo dell’automobile non era casuale, perciò si alzò dalla scrivania e si allacciò tutti i bottoni della sua grigia giubba a doppio petto. Nell’anticamera si sentì una breve e sonora nota del campanello. Il generale trattenne Pelagea che si era già avviata, strascinando i piedi, verso la porta d’ingresso: «Pélin’ka, lascia stare, vado io!»
Con aria indifferente, mentre il suo stanco cuore, compromesso dagli anni, palpitava precipitosamente, mise la mano sulla maniglia della porta e domandò: «Chi è? Chi cerca?»
Dietro la porta una frettolosa voce maschile, rispose: «Il generale Adamov.»
La catenella cadde giù, stridendo e si mise ad oscillare. Nell’anticamera entrarono, uno dopo l’altro, tre uomini: uno con il cappotto nero, gli altri due con giubbe di pelle dalle cui cinture pendevano le logore fondine bisunte.
L’uomo con il cappotto nero cominciò a dire, in modo serio e noioso: «In seguito al mandato di Ceka, lei è in stato di…»
«Sì. Ho capito. Prego, faccia pure…» – lo interruppe, educatamente e perfino sorridendo, Evgenij Pavlovič.

* Sagena (antica misura di lunghezza russa), pari a 7 piedi = a 2,1336 m.
 
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view post Posted on 16/3/2012, 14:06

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Capitolo Quarto


Gli uomini in un luogo nuovo sono come scarafaggi.
Per accorgersene, basterebbe prendere due scarafaggi, provenienti da luoghi diversi e metterli insieme in una scatola con un coperchio trasparente. Dapprima, gli scarafaggi saranno sopraffatti da un’agitazione irrefrenabile.
Si metteranno a correre inquieti, a strisciare rumorosamente, a dimenarsi, lanciandosi da una parte all’altra della scatola, in modo confuso, senza alcun senso e scopo. Soltanto dopo essersi stancati, per tutta questa corsa deficiente, cercheranno di incontrarsi, girando a parabola, di annusarsi, di solleticarsi con le antenne, come se volessero dire: «Ehi, fatti toccare, per farmi scoprire che scarafaggio tu sia e a quale razza di scarafaggi tu appartenga?»
E non appena “si fanno il naso”, si conoscono, si separano, andando ognuno nel proprio cantuccio nell’angolino della scatola, permanendo lì a lungo in una quieta malinconia e ricambiandosi di tanto in tanto la visita, oramai spensieratamente, senza correre. Si erano ambientati!
Sono così anche gli uomini.
La prima impressione di Evgenij Pavlovič fu quella di capitare nell’aula magna dell’accademia militare, nello stesso memorabile giorno in cui sua madre emozionata lo aveva condotto, iscrivendolo agli studi.
Nell’ampia sala con due lunghe file di grandi finestre, collocate una sopra l’altra, vagava un gruppo di un centinaio di ragazzini, ancora con le braghette corte e le camiciole di diversi colori.
I ragazzini si guardavano attorno, si gettavano occhiate di sbieco; i più timidi si stringevano sotto le ali materne, ma quelli appena più audaci, si avvicinavano agli altri per conoscersi e domandavano: «Come ti chiami?»
«Cosa fa tuo padre?»
«Invece il mio, è un colonnello.»
«E ti hanno comprato le penne?»
«Ma tu, sei capace di giocare ai bottoni?»
Fatto questo primo approccio, i nuovi conoscenti si afferravano per mano e, subito dopo, li si vedeva già correre, allegramente e con foga, per tutta la sala, finché non entrò, a passo saltellato e facendo risuonare di un melodioso tintinnio gli speroni, un ufficiale di turno, che si carezzò con una mano il baffo e ordinò con voce tonante: «Cadetti, in aula!»
Tutto gli sembrava come nell’accademia militare. L’ampia sala bianca con le stesse due lunghe file di grandi finestre, collocate una sopra l’altra, in una palazzina desolata, dove, per mancanza di una sede più adatta, era stata radunata la più disparata folla di uomini ostaggio, era identica all’aula magna dell’accademia militare. Gli uomini che vi si trovavano dentro, parevano gli stessi ragazzini, arrivati per sostenere un tremendo esame.
La differenza consisteva soltanto nel fatto che i ragazzini erano divenuti adulti, calvi, canuti e nei loro occhi baluginava non un leggero, mutevole timore infantile, ma il pesante, immobile ed esplicito terrore della morte.
Ciò nonostante, come nell’accademia militare, si avvicinavano e, con un misterioso sussurro, si domandavano l’uno l’altro: «Quando l’hanno arrestato?»
«Mi hanno tirato addirittura fuori dal letto!»
«Sergej Sergeevič aveva cercato di protestare! L’orgoglio di un principe non poteva tacere. Disse a loro: “Io eseguo gli ordini, impartitemi soltanto da Sua Maestà, l’Imperatore!” E quelli lo avevano prelevato a forza di spintoni, con i calci dei fucili nella schiena!»
«Signori, che succederà adesso? Che cosa ci faranno?»
«E io, sapete, sono riuscito per tempo a nascondere tutti i gioielli!»
I vecchi-ragazzini si univano e si separavano; cupi, scompigliati, smarriti, usciti di carreggiata. Attendevano l’ultimo esame.
L’orrido muso blu della notte autunnale dal di fuori stava sbirciando nelle vetrate a specchio dell’ampia sala bianca, rizzando, con un sogghigno raggelante, i rami degli alberi come gli ispidi baffi ritti dei soldati.
Invece dell’elegante ufficiale di turno, nella porta, bruscamente spalancata, oltre l’apertura della quale scintillavano, nel grigio fumo del corridoio, le baionette delle sentinelle rosse, fece irruzione un segaligno spilungone dagli zigomi appuntiti con uno sporco pastrano da soldato. La sua faccia era pallida e riluceva dall’interno di una cadaverica trasparenza di stearina, e gli occhi fissi di colore verde-erba si erano strutti nell’aureola marrone delle palpebre gonfie d’insonnia.
Lo spilungone spiegò un foglio di carta e saltò con gli stivaloni sopra la seta bianca di una poltroncina dorata, messa davanti alla porta.
«Mettersi tutti in due file davanti al muro!» – gridò. «Faremo l’appello. Non appena chiamerò un cognome, rispondere soltanto con un “Io”. Dài, dài, svelti!»
Il suo falsetto arrochito fece sì che, ammucchiatasi al centro della sala, una folla spaventata di persone importanti d’alto grado e rango, si mise a pestare i piedi, come le reclute campagnole, entrate per la prima volta in vita loro nelle caserme; si spostò in un fitto mucchio verso il muro, si espanse a soffietto e s’incollò con le schiene lungo il muro con le finestre.
Alle due file di facce mortalmente pallide baluginavano gli occhi angustiati come tremanti lumini, calamitati verso le guance di stearina dell’uomo, che stava in piedi sulla poltroncina.
L’uomo sputò sul pavimento e disse in modo persuasivo: «Attenti! Io sono il vostro comandante. Chiunque vorrà andare al cesso, dovrà rivolgersi a me! E ora, rispondere all’appello!»
Dallo steccato umano, allineato lungo le finestre, scivolarono nell’aria dei sospiri flebili, e una voce, ostentatamente tranquilla, pose una breve domanda, celando un non pronunciabile sospetto, come se avesse paura di se stessa: «A che cosa serve l’appello?»
All’improvviso la faccia di stearina fece un largo sorriso.
«Per avere tutto in ordine! E’ possibile che voi non lo sappiate? Io devo o no avere una lista chiara per il rilascio del mandato e ricevere per voi la roba da mangiare?»
E, prevenendo altri discorsi, gridò a squarciagola: «Adamov!»
Era inaspettatamente strano sentire il proprio cognome spogliato, liberato dal rango, dalla qualifica, dal nome e dal patronimico. Evgenij Pavlovič non aveva persino compreso subito che lui, Sua Eccellenza, maggior generale, professore dell’Accademia giuridico-militare, potesse essere solo un nudo Adamov.
Per questo non aveva risposto subito e, perplesso, fece scorrere gli occhi sulle file schierate, cercando un altro Adamov nascosto. Dalle file, però, stavano scrutando gli stessi sguardi, perplessi ed interrogativi.
«Non c’è Adamov, è possibile?» – chiese il comandante e ripeté sillabando: «A-da-mov!»
Evgenij Pavlovič si raddrizzò il petto, si mise sull’attenti e, come nella fanciullezza durante l’appello dei cadetti, sonoramente buttò nell’aria: «Io!»
Il comandante storse gli occhi.
«E come mai ha taciuto, vecchietto? Se dovessi gridare per ognuno più volte, dovrei avere una gola di ferro, non le pare? Capirei, se lei fosse un generale civile, ma è un militare, perciò dovrebbe capire al volo!»
La voce sprezzante e stanca del comandante, risvegliò nella memoria di Evgenij Pavlovič l’imbarazzo dell’adolescente per una paternale del superiore, assopito da tempo. Chinò la testa ed arrossì. Si riprese soltanto sentendo il cognome seguente: «Archangelskij!»
Verso la fine dell’appello, la voce del comandante si era arrochita del tutto, perciò chiamò l’ultimo cognome con evidente sollievo: «Zubatov!»
Il profilo mummificato del gran gendarme biascicò con freddezza: «Io.»
Il comandante saltò giù dalla poltroncina.
«E’ esatto. Tutti presenti. Centottantadue» – disse e si asciugò il sudore sotto il naso con la manica del pastrano. «E adesso, si va a riempire di paglia le fodere del materasso. C’è bisogno di venti volontari.»
Lo steccato umano si ruppe, si mise a respirare, si sparse per la sala.
Una voce isterica piena di bile sbatté contro la faccia di stearina del comandante: «E i letti, dove sono i letti?»
Il comandante retrocesse di un passo e mandò un gemito di stupore.
«I letti?.. Non è stata fatta ancora una scorta di letti, per le vostre signorie. Starete bene anche per terra. Anch’io passo la notte in un armadio, oramai da cinque giorni. A che vi servono i letti, quando, forse, non avrete più vita a sufficienza per provarli. Buttatevi per terra e non fate storie!»
La folla di persone d’alto grado e rango si smosse.
Verso il comandante rotolò un immenso pallone per il gioco del polo della cavalleria. Sotto, il pallone aveva le gambe, avvolte in calzoni grigi di una larghezza, degna delle larghissime braghe dei cosacchi. Sopra, il pallone era coronato da un’apoplettica testa bruna con delle grosse labbra sporgenti. Il pallone aveva il rango di consigliere particolare dello Stato e il titolo di senatore.
Agitando le braccia corte, simili a salsicciotti attaccati al pallone, il “particolare” si mise ad urlare con uno strano discanto infantile:
«Per terra? Buttatevi per terra? A chi? A me? Al consigliere particolare dello Stato?! Uccidimi piuttosto, carogna, lurido cafone, maleducato! Non se ne parla nemmeno, che io – senatore, cavaliere dell’onorificenza di Aleksandr Nevskij, mi distenda sul pavimento. Non ho mai dormito, in tutta la mia vita, sul pavimento; lo capisci, tu, babbeo!»
Gli occhi del comandante strutti nell’aureola marrone delle palpebre, divennero tondi di rabbia e il bulbo bianco dell’occhio si riempì di sangue.
«Non ti butti?» – domandò con sicurezza. «Ti butti, eccome se ti butti, brutto figlio di tua madre! Nella merda ti stendi e ti coprirai con il letame! Anch’io ero abituato a dormire sul giaciglio, bello-caldo, della stufa a casa mia nel villaggio, ed ora debbo soffrire, per causa vostra, come l’ultimo figlio di cane! E anche tu dovrai patire, un accidente ti pigli!»
«Non ti permettere di darmi del tu, canaglia!» – strillò il “particolare”.
Il comandante si mise le mani sui fianchi e, con un sogghigno, stava fissando in tralice il “particolare”. La mandria umana si divise in due branchi. L’uno, il più numeroso, retrocesse nell’angolo; l’altro, con meno anime, circondò il comandante e il “particolare”, mormorando e infervorandosi con rabbia.
«Ci deve essere il letto!..»
Il “particolare”, divenuto gonfio e paonazzo per l’afflusso apoplettico del sangue alla testa, afferrò la poltroncina, sulla quale stava il comandante durante l’appello, la sollevò sopra la testa e la scaraventò con forza sul pavimento. I piedini della poltroncina frantumata volarono da tutte le parti, uno di essi colpì il comandante al ginocchio. Il comandante mandò un urlo di dolore e affondò una mano in tasca.
Il branco mormorante si sparpagliò per la sala, come le bilie del biliardo. Il “particolare” e il comandante erano rimasti a quattro occhi, uno di fronte all’altro. Dalle flaccide guance del “particolare”, si mise lentamente a rifluire una spremuta di barbabietola rosso-violacea e sulle sue labbra comparve un torbido azzurro. Il comandante, con dita tremolanti, continuò a tirare a strappi la tasca, finché nel suo pugno non si scoprì, freddamente e foscamente baluginando, l’acciaio brunito di una pistola a tamburo. La pistola a tamburo fu sollevata contro la faccia impallidita del “particolare”.
Qualcuno nell’angolo, gettò un urlo, scorgendo le labbra strette tra i denti del comandante e le sue pupille, svuotate e profonde, come la bocca della pistola.
Una manica grigia si protese nell’aria e, sopra il pugno tremante del comandante che stringeva la pistola, si pose una piccola mano secca. E una voce calma, disse: «Non lo faccia, lasci stare...»
Il comandante volse la testa e incontrò lo sguardo acceso dell’uomo con una giubba grigia di generale. Gli occhi del comandante si spensero.
«E lei, vecchietto, di che s’impiccia?» – domandò il comandante a stento, ma un po’ più tranquillo. Evgenij Pavlovič ripeté: «Non lo faccia, lasci stare!»
Il comandante abbassò la rivoltella ed esplose proferendo un sacco di parolacce. Evgenij Pavlovič, non badandogli, si rivolse agli uomini, radunati in una fitta folla nei pressi del muro.
«Signori, perché non smettiamo intanto di irritarci a vicenda. Il comandante non può, neppure volendo, escogitare dei letti che non ci sono. Se poi vogliamo esigere qualcosa, si deve farlo in modo organizzato e corretto. Per adesso, però, si dovrebbero riempire i materassi e servono dei volontari. Chi è pronto a farlo?»
«Ecco!» – disse il comandante, rimettendo la rivoltella nella tasca dei pantaloni. «Questo è quel che si chiama parlare giusto, bravo vecchietto! Tutto si può risolvere con calma e dimenticatevi, bravi signori, di urlare e ordinare. E adesso, dài, organizziamo una squadra per riempire i materassi. Chi è disponibile?»
Davanti alla porta d’uscita si raccolse un gruppo numeroso. Il comandante scelse e contò personalmente una squadra.
«Basta, basta!» – disse, – «Intanto lei, vecchietto con la testa sulle spalle, La nomino capo della camerata! Sarà lei il responsabile dell’ordine e, mi raccomando, niente gazzarra qui dentro!» – disse e carezzò una spalla del generale.
La squadra dei volontari stava uscendo dalla porta. Il “particolare”, ripreso fiato, stringendo con disprezzo le labbra gonfie, buttò là le parole velenose, indirizzate ad Evgenij Pavlovič: «S’ingrazia, Vostra Eccellenza! Vuole diventare un comandante rosso? Badi, finirà sulla forca!»
Evgenij Pavlovič diede uno sguardo alle guance ancora tremanti del “particolare”. Avvertì per quest’uomo una viva compassione. Pensò con indulgenza e senza rabbia: «Ohibò! Sul petto hai una stella di brillanti di Aleksandr Nevskij, ma nella testa ti manca persino una croce di latta, di quarto grado!»
Tuttavia, non disse nulla.
Il comandante stava affrettando l’uscita della squadra.
«Avanti, cammina, fratello!» – disse al generale con un sorriso stanco.
Dopo non più di un’ora, tutti gli alti ranghi e gradi si erano sistemati sulla soffice paglia scricchiolante, ognuno nel proprio angolo, come scarafaggi. I “particolari” con dei “particolari”, gli “effettivi” con degli “effettivi”, i militari con dei militari e, come scarafaggi, uscivano dai propri cantucci per farsi visita.
Ad un corpo esausto dalle preoccupazioni era stato piacevolissimo distendersi sopra un soffice materasso scricchiolante. Evgenij Pavlovič, aggiustandosi sotto un po’ più paglia, per sentirsi più comodo, si rivolse ad un suo vicino: «E sì, sono avvenimenti interessanti!..»
Il vicino, un cupo colonnello dal viso pallido, tipico di un malarico, stava stendendo silenziosamente una coperta sopra il materasso. Rispose mal volentieri: «Forse, saranno anche interessanti, ma, credo, per noi non dureranno a lungo.»
«Bazzecole!» – rispose Evgenij Pavlovič. «Non ho paura per niente della morte. E’ un peccato, però, che non vedremo il futuro. Soltanto questo è increscioso, davvero!»
«Non vale la pena vederlo. Un pessimo futuro, Vostra Eccellenza.»
«No, non me lo dica: il futuro è sempre meraviglioso, anche quando sorride agli altri!»
 
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Capitolo Quinto


Di tutte le notti passate nell’ampia sala bianca con due lunghe file di grandi finestre, nella memoria rimase per sempre la quinta notte. Venne memorizzata violentemente, sino al minimo particolare, conservando la sua reminiscenza nel freddo-gelo della brina aguzza e penetrante.
Alle dieci di sera, dopo aver consegnato al comandante gli elenchi dei presenti per la razione alimentare, Evgenij Pavlovič si distese sopra il suo materasso, sopraffatto, sfinito da una densa, vischiosa stanchezza. Nel subbuglio e nell’angoscia di quei giorni, il generale non aveva potuto dormire bene e a sufficienza, perciò le sue palpebre gonfie non riuscivano più a star su e calavano sugli occhi come pesanti cuscini. Evgenij Pavlovič aveva finito con qualche tirata una sigaretta, fatta a mano dal suo vicino-colonnello e, dopo aver messo sotto la testa una secca manina, si era subito addormentato, aprendo la bocca e leggermente sibilando col naso, come un neonato.
La barbetta appuntita, brillando pallidamente d’argento, guardava all’insù verso il soffitto.
Nel sonno, oscuro e soffocante, vide se stesso, Evgenij Pavlovič, nella sala da pranzo del proprio appartamento, dentro una bella culla, tutta adornata di fiocchi di seta celeste. Era un neonato d’un paio di mesi, però aveva il faccino d’un vecchio, proprio com’è adesso, con la barbetta canuta che si muoveva sotto un angolino del lenzuolino per lattanti, ricamato a giorno. Evgenij Pavlovič era coperto non da una soffice trapunta di seta da culla, ma da una gualdrappa dei cavalieri di guardia con tante stelle-onorificenza di Sant’Andrea, ricamate sopra. Anche indosso, il neonato Evgenij Pavlovič, non aveva un coprifasce, ma una divisa completa di generale con tutte le decorazioni. Vicino alla culla stava seduta la sua vecchia balia, Pélin’ka, con una luccicante giubba di pelle e, con una manina avvizzita, dondolava la culla pian pianino, mentre con l’altra toglieva delicatamente, una dopo l’altra, le decorazioni e le gettava via, così come solitamente ci si sbarazza dagli insetti, con brevi e schizzinosi buffetti e intanto diceva ad Evgenij Pavlovič: «Ma guarda, guarda, di quante brutte croste ti sei tutto ricoperto, povero bambino mio ammalato. Come ha potuto attaccarsi a te, poveretto, tutto questo malanno?..»
Evgenij Pavlovič avrebbe voluto rispondere alla balia, che tutto questo gli sarebbe passato molto presto, che sarebbe guarito e ripulito da questa orrenda crosta, invece dalla bocca aperta non gli uscivano parole, ma un guaito urlato, risuonante: «Ua-ua-uaaaaa!»
Evgenij Pavlovič si svegliò, per un brusco strattone alla testa e, appoggiandosi su un gomito, si guardò attorno…
L’urlo risuonante rimaneva ancora nell’aria, ma il generale riuscì a comprendere l’accaduto solamente dopo che il comandante, stando sull’uscio della porta spalancata, ebbe gridato per la seconda volta: «Sve-glia-aaaa!»
Nuovamente, come la prima sera, le due file di persone d’alto rango e grado si estesero a soffietto e s’incollarono con le schiene lungo il muro e gli occhi si accesero sulle facce, come torce funebri, disegnate da un tenebroso pittore visionario, oppresso da incubi di morte.
Nelle porte, spalancate verso il corridoio, baluginavano, con scintille arancione, le punte delle baionette e si arruffavano i colbacchi sgualciti dei soldati della Guardia Rossa.
Il comandante scrutò con le pupille color verde-erba le file allineate, scosse stancamente la testa e disse: «Adamov!»
Evgenij Pavlovič sollevò la testa china e guardò in faccia il comandante con uno sguardo onnicomprensivo che coglieva tutto al volo, mentre le dita delle mani gli s’agghiacciarono all’istante e s’irrigidirono.
Il comandante, tuttavia, non trattenne l’attenzione su Evgenij Pavlovič, ma con una smorfia accigliata gli mise in mano un foglio di carta.
«Chiama!» – ordinò. «Chi sarà annunciato, deve andare verso la porta.»
Evgenij Pavlovič posò lo sguardo sul foglio. Le lettere si gonfiavano e traballavano. Con voce flebile, interrotta, annunciò il primo cognome, e dal muro, come se si fosse scollato, si staccò e subito perse lo stretto collegamento vivo con tutto il resto degli uomini in fila, il consigliere particolare, così simile ad un enorme pallone da polo di cavalleria. Il “particolare” trascinò pesantemente le gambe verso la porta, come se si stesse disfacendo, strada facendo, in tutti i suoi legamenti e giunture e quei quindici passi gli costarono molta più fatica dello spazio attraversato in tutta la sua vita, piuttosto lunga. Ciò era evidente dal modo in cui appoggiava sullo sporco parquet i suoi piedi: con le punte all’interno, in modo elefantiaco e goffo. I suoi larghissimi pantaloni grigi gli fasciavano le gambe, come se cercassero di dissuaderlo dal camminare; e le gambe nei pantaloni non si piegavano più, come se fossero morte.
Il “particolare” fu seguito da altri, ugualmente persi, ugualmente strappati alla vita in un attimo, in modo brusco e orrendo, poiché intravedevano già, oltre la nebbia offuscante del corridoio, oltre le scintille arancione delle baionette dei soldati rossi, l’ultimo e ineluttabile vuoto.
Nella lista c’erano ventisette cognomi, i ventisette cognomi avevano ventisette cuori, che strepitavano con un battito spaventato, stringevano i loro muscoli cardiaci, come se fossero già sfiorati dal rovente e appuntito musetto di una pallottola.
Vacillando e fissando il soffitto, per non vedere questi volti e questi occhi, Evgenij Pavlovič turbato, abbassò la mano con il foglio; il foglio di carta sfuggì dalle dita e, volteggiando nell’aria due volte, si posò al suolo.
Il comandante, aggiustandosi la cintura del pastrano, bofonchiò sordamente, sfuggendo con lo sguardo verso l’angolo della sala: «Uscire nel corridoio! Non prendere cose personali. Non serve.»
Tacevano.
Rimanevano immobili, senza staccare gli occhi da quelli che erano rimasti nelle file.
«Ho detto di uscire!» – urlò il comandante e ad Evgenij Pavlovič sembrò che la voce, da un momento all’altro, si sarebbe spezzata, si sarebbe spenta per il sofferto dolore, insopportabile per lo stesso comandante.
A questo punto, le gambe di piombo, scollandosi a fatica dal suolo, si misero a pestare i piedi e qualcuno degli uomini che doveva andar via cominciò a gridare con voce acuta e su una nota alta: «Addio, signori! Non serbateci rancore!..»
Questo grido divenne come il potente raggio di un faro, penetrato nell’animo sconvolto, come un segnale illuminante che richiamava alla vita, pur se era inutile e strana, trascorsa da prigionieri in un’ampia sala bianca con due lunghe file di finestre, pur se buttati per terra sui materassi di paglia, alimentati con una scarsa razione di cibo marcio; ciononostante era una vita incredibilmente meravigliosa; fu così che il consigliere particolare gettò all’improvviso in alto le braccia, attraversò di corsa la sala per unirsi agli uomini rimasti in fila e, strabuzzando gli occhi, si aggrappò saldamente con le dita al bavero della giacca di qualcuno.
Evgenij Pavlovič strinse gli occhi. Gli orecchi furono colpiti dall’onda sonora di un lamento ululato.
Gridava ed ululava il consigliere particolare. Urlava in modo rauco e straziante, soffocandosi e sputando saliva: «No, non voglio!.. Vi dico che non voglio, non voglio!.. Lasciatemi andare a casa!.. A casa mia!.. Voi, non potete trattenermi!.. Io non voglio morire!.. Per ventisette anni, non ho fatto altro che servire il monarca… io avevo ser-vi-to…»
Evgenij Pavlovič, difficoltosamente aprì le ciglia e s’imbatté con lo sguardo negli occhi del comandante, le pupille verde-erba del quale stavano nuotando in un’offuscata torbidezza e le guance di stearina erano tese sugli zigomi, come pelle di gomma.
Evgenij Pavlovič alzò una mano, stava per aprire la bocca, ma all’improvviso il comandante si voltò verso la porta, dove stavano stretti, spostandosi su un piede e sull’altro, gli uomini indecisi sul da farsi.
«Marc’, via!.. Uscite tutti in corridoio, il diavolo vostro e di vostra sorella vi pigli!» – si mise ad urlare il comandante con voce lacerante e, non appena il gruppo, preso dalla paura, urtando gli stipiti della porta, si catapultò fuori, chiamò: «Ehi, chi c’è di là? Timoščiuk! Seredin, Van’ka! Prendetelo, e prendetelo, accidenti!»
In tre, i soldati della Guardia Rossa si aggrapparono al consigliere particolare.
La forza umana è veramente tremenda, se è spinta in una battaglia per la vita. Torcendo le mani, rompendo le dita serrate, ansando e sbuffando, i tre soldati Rossi si misero a staccare il “particolare” dal bavero dell’uomo che, senza volerlo, si era trovato coinvolto. La cosa orrenda era che anche quest’uomo, divenuto bianco-pallido in viso e con la mandibola tremante, si era messo ad aiutare i soldati Rossi, cercando di strappare il suo bavero dalle mani aggrappate; terrorizzato di poter essere trascinato insieme con il “particolare” fuori, oltre la fatidica porta.
Il “particolare” strillava, sputava, mordeva le dita dei soldati Rossi, la faccia gli si era gonfiata, divenendo simile ad un enorme ascesso paonazzo, pronto a scoppiare e inondare tutto con il nero sangue marcio.
A questo punto, i soldati della Guardia Rossa dovettero atterrarlo e trascinarlo di peso, in due, prendendolo sotto le ascelle, mentre il terzo cercava di tenergli le gambe che, il “particolare”, non smetteva di sbattere e di agitare, di dimenarsi come un dannato, di impuntare e pestare per terra i tacchi delle scarpe.
La porta si chiuse, sbattendo.
All’istante, come per un comando, tutti si placarono e s’incollarono, agghiacciati, ai loro posti, tendendo avidamente l’orecchio al ruzzare e alle grida che si allontanavano nel corridoio.
Un angosciante silenzio di piombo, acutamente rimbombante negli orecchi, si posò dopo tutti questi urli e lo sbattere dei piedi, che diffuse nell’ambiente un orrore maggiore. Evgenij Pavlovič sentì nella bocca prosciugarsi la saliva e le labbra incollarsi ai denti.
Si avviò al suo posto sui tavolacci e solo allora comprese, che il suo vicino, il colonnello malarico era fra gli uomini appena portati via. Sopra la sua coperta grigia era rimasto ancora un fiammifero consumato e una fettina morsicata di pane tostato, attorno alla quale le fibre della coperta erano cosparse di briciole gialle.
Meccanicamente, Evgenij Pavlovič raccolse le briciole nel palmo della mano, le sminuzzò con le dita e li sparse sul pavimento. Prese il fiammifero, tolse la capocchia bruciata, lo ruppe in pezzetti e gettò anche quelli per terra. Non appena lo ebbe fatto, fu assalito da un lacerante gelido pensiero: «Il colonnello aveva smesso per sempre di mangiare e di accendere fiammiferi».
Il pensiero gli fece smuovere i nervi, come vermiciattoli in tutto il corpo.
Evgenij Pavlovič si morse le labbra. La mente fu sfiorata da un giudizio breve come la vampa del fiammifero: «Assassini!..»
Subito dopo, però, sul viso gli scese un amaro sorriso imbarazzato e, tirandosi sulla testa la coperta, per non vedere né la propria prigione, né gli uomini oppressi dall’inesorabile respiro della morte, il generale disse a se stesso: «E’ incoerente, Evgenij Pavlovič! E’ stato lei a parlare della novella giuridica, egregio professore di storia del diritto. Ci siamo: tutto ciò è una delle novelle proprio di questa storia!»
Da fuori, un ostinato vento gelido cercava ogni fessura e scappatoia per irrompere nella bianca sala della palazzina, faceva bussare a ritmo regolare sui vetri un termometro da esterno, staccato dal muro. Questo ritmico battere, negli orecchi degli uomini suonava ogni volta come il secco rumore dei cani alzati delle armi da fuoco.
Evgenij Pavlovič lo ascoltò sino al mattino, mordendosi le labbra, sorridendo con imbarazzo e tendendo l’orecchio ai mormorii allarmati degli uomini che trascorsero una notte insonne.
 
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Capitolo Sesto


Quel giorno, come oramai di consueto, Evgenij Pavlovič stava spuntando nell’elenco, con un moncherino di matita, i cognomi degli uomini presenti all’appello mattutino. Era iniziata la quarta settimana dal giorno dell’arresto. Verso la fine dell’appello, davanti agli occhi di Evgenij Pavlovič si misero a baluginare gli intermittenti puntini grigi che si scioglievano lentamente dentro le pupille, come minuscoli brandelli di un velo grigio fumo.
Al generale tremavano le ginocchia, cedevano i legamenti e si piegavano le gambe, tuttavia, come nel sogno, distinguendo a stento le facce degli uomini schierati, riuscì a concludere l’appello.
In tre settimane, le fosche notti autunnali avevano strappato dagli elenchi degli ostaggi sessantanove uomini, mai ritornati indietro e la lista si era ridotta notevolmente. Spuntato l’ultimo cognome, Evgenij Pavlovič ripiegò il foglio, si sedette sul tavolaccio e si strinse le tempie con le mani.
La debolezza che infiacchiva Evgenij Pavlovič, lo abbatteva dai piedi, gli annebbiava la vista e rodeva la salute, come l’acqua lentamente rode gli argini, l’aveva assalito sin dall’inizio della seconda settimana e la sua ragione era molto chiara: il generale si nutriva poco e male.
La salute senile non poteva contrastare la fame. La razione, fornita a spese dello Stato, era inadeguata per riscaldare con sufficiente forza il sangue annacquato negli anni, per farlo scorrere con la giusta pressione lungo i vasi sanguigni. Anche i notturni freddi autunnali, si facevano sentire nell’ampia cubatura della sala con la doppia sfilza di finestre, tanto che assai spesso Evgenij Pavlovič si svegliava con un brivido di freddo mordace e cercava inutilmente di riscaldarsi, imbacuccandosi nella coperta.
Molti altri carcerati cominciarono a ricevere sin dai primi giorni provviste da casa. Quotidianamente le sentinelle Rosse consegnavano ai prigionieri cartocci, pacchettini e cestini con del cibo. Alcuni fortunati ricevevano persino troppo e per quest’abbondanza offrivano un po’ di cibo agli altri.
Evgenij Pavlovič mai aveva ricevuto qualcosa da casa e non poteva neppure aspettarselo. Non aveva parenti a San Pietroburgo e quei conoscenti che aveva, erano, probabilmente, preoccupati già per se stessi; e, peraltro, avrebbero potuto non essere neppure a conoscenza del destino del generale. La vecchia Pélin’ka, invece, era debole, dura di comprendonio e analfabeta e, neanche volendo, sarebbe riuscita a scoprire dove fosse finito il suo padrone.
Di tanto in tanto, ad Evgenij Pavlovič era capitato di condividere con qualche vicino un po’ di cibo, ma malvolentieri. Gli sembrava sconveniente privare altri della loro porzione e i bocconi offerti gli erano duri da ingoiare, tra l’altro, la maggioranza degli ostaggi, segretamente e alcuni apertamente, trattava il generale con manifesta inimicizia e odio.
Odiavano Evgenij Pavlovič, perché era stato nominato capo della camerata, “piegava la schiena davanti ai carnefici” ed era un “traditore del giuramento militare e della patria”; e spesso alle spalle del generale, che stava passando, serpeggiava un attutito, ma distinto sibilare di malevoli: «Guardatelo, come incede il leccapiedi Rosso!»
«Lacché bolscevico!»
«Canaglia!..»
Una volta, di notte, vicino ad Evgenij Pavlovič si sedette un ex consigliere dello Stato dalla barba bianca, il cui nome si poteva trovare spesso nei articoli dei giornali del recente passato con epiteti, come: “autorevole”, “rispettabile”, “stimatissimo”, “egregio”, “grande statista”, “pilastro dell’ordinamento statale”.
Il “pilastro dell’ordinamento statale” chinò verso Evgenij Pavlovič il suo cranio pelato e la gialla gibigiana della lampadina scivolò su un deserto rosa, come su una levigata bilia del biliardo.
«Lei mi dovrà scusare, Eccellenza» – disse, leggermente bisbigliando, – «ma, a quanto sembra, lei non è perfettamente consapevole, in quale situazione lei stesso si sia messo con il suo comportamento!»
Evgenij Pavlovič seguiva una macchia lucida che scivolava sulle calvizie. All’improvviso gli venne da ridere, con una ridarella incontenibile, che dovette sforzarsi di soffocare per cercare di trattenere le convulsioni della risata.
L’interlocutore lo notò e la sua faccia divenne fredda, estraniata, con un’espressione di condanna.
«A quanto sembra, lei ha voglia di giudicare le mie parole alquanto ridicole?..» – domandò con sarcasmo.
Evgenij Pavlovič, senza rispondere, continuò a fissarlo sulla radice del naso. Il “pilastro dell’ordinamento statale” dovette arrossire.
«Allora agisca come le pare, Eccellenza. La mia intenzione è di avvertirla. Lei, peraltro, comprende benissimo, quale responsabilità avrà in prima persona, non appena sarà ripristinato il potere legittimo.»
Aveva pronunciato le parole: "Il potere legittimo”, con un tragico sussurro, sollevando una mano piatta come in segno di giuramento.
Evgenij Pavlovič strinse gli occhi, tanto da farli diventare due sottili fessure.
«Ma lei è proprio sicuro, Eccellenza» – rispose a tono all’interlocutore, – «che il potere presente sia illegittimo?»
L’interlocutore guardò in faccia il generale per alcuni secondi con i suoi occhi arrotondati, in cui risaltava il giallo senile del bulbo dell’occhio, poi, con un gesto di ripulsione, si alzò in piedi in modo brusco e si avviò in fretta al suo posto.
Un lieve sorrisino alle spalle, fu la risposta del generale.
Quella conversazione ritornò vivamente in mente al generale, dopo l’appello, mentre davanti ai suoi occhi stavano veleggiando brandelli di fumo.
Evgenij Pavlovič rimase seduto ancora per un po’ di tempo, cercando di soffocare inutilmente un fastidioso malessere e l’avvicinarsi dell’urto di nausea. Il malessere, tuttavia, ad ogni momento diveniva più acuto. Dovette alzarsi. Gli sembrò che l’ambiente nuotasse in una coltre bianco-latte.
«Avrò fumato troppo!» – pensò e decise di uscire nel corridoio.
Ai detenuti erano permesse le passeggiate lungo un corridoio cieco.
Su uno sgabello nel corridoio stava seduta una giovane sentinella della Guardia Rossa che stringeva tra le ginocchia una carabina e, gonfiando le labbra infantili, leggeva con diligenza un giornale.
Il generale gli diede una breve occhiata.
Valutò la situazione: «Ai nostri tempi, avrebbero fatto marcire in carcere una sentinella, per aver letto il giornale sul posto di guardia. Questo qua, invece, guardatelo, si è incollato come una mosca al miele. E’ un bene o un male? Un soldato istruito politicamente! Serve? Evidentemente, serve, se sta leggendo…»
I pensieri scivolavano e si sparpagliavano.
Il generale si appoggiò alla sporgenza della parete, si mise una mano sulla fronte. Il palmo della mano si appiccicò alla pelle fredda, inumidita dal viscido sudore. Il fatto lo fece stupire e impaurire, ma prima che potesse pensare al da farsi, un offuscamento di fumo grigio gli cadde addosso di nuovo. Nel cercare di mantenersi in piedi, aveva sentito soltanto la propria mano scivolare giù lungo la parete.
Il soldato sentinella della Guardia Rossa gettò via il giornale e saltò in piedi, accorgendosi, che il secco corpicino dell’uomo con la giubba grigia a doppio petto dai risvolti rossi, silenziosamente e lentamente stava scivolando giù per terra, appoggiandosi di schiena alla parete.

Evgenij Pavlovič riprese conoscenza in una stanza a volta, somigliante ad una cappella gotica. Le pareti della stanza erano rivestite di scuro rovere intagliato. Qui, nell’ex studio dell’ex proprietario della palazzina, il comandante si era sistemato l’abitazione.
Le pupille verde-erba del comandante, scrutavano il volto del generale che era stato fatto sdraiare sopra un largo divano di pelle dai soldati della Guardia Rossa. Nelle pupille c’era una viva, umana preoccupazione.
Evgenij Pavlovič si mosse e dalla sua bocca uscì qualcosa tra un sospiro e un gemito. Il comandante sfiorò la spalla del generale.
«Non si muova, vecchietto. Resti così, sdraiato e fermo, fintanto che arrivi il dottore. Cosa è successo?»
Il generale mosse la barbetta.
«Non so, a dire il vero,» – balbettò, come se si scusasse, – «sono caduto, non so neanche io, perché? Sento una tremenda debolezza…»
«Perché si è indebolito tanto?» – chiese il comandante, massaggiandosi una guancia con le dita. «Non si tratta, per caso, di paura?»
Il generale trovò le forze per scuotere la testa in segno di dissenso.
«No… Non ho paura. Credo di essermi indebolito per la scarsità del cibo. Sono già vecchio, la salute se n’è andata» – sussurrò malinconicamente e avvertì un’improvvisa compassione per se stesso e il dispiacere per quel tempo irrimediabilmente perduto, in cui i muscoli erano giovani e forti e lo stomaco disprezzava la fame.
«Ah, ecco di che cosa si tratta!..» – cantilenò il comandante. «E sì, con il mangiare d’oggi, pur chi è assai più giovane di lei, si stringe la cinghia…»
La porta della stanza del comandante emise uno scricchiolio. Scortato dai soldati Rossi, era entrato un giovane medico. Probabilmente era stato prelevato da casa, senza spiegazioni, perciò era spaventato a morte. Gli tremavano non solo le mani, ma persino trasalivano, girati all’insù, i sottili baffetti biondi.
«Compagno dottore, lei ci deve scusare per il disturbo, ma dovrebbe visitare questo vecchietto, che qui da noi si è sentito male» – disse il comandante, indicando Evgenij Pavlovič.
Il medico, che, da quando era entrato, non aveva smesso di fissare il comandante, s’illuminò tutto. Comprese di non avere nulla da temere e, già con un gesto professionale, si sbottonò il cappotto e tirò fuori dalla tasca della giacca il lucido cornetto d’osso dello stetoscopio.
«Si tolga la giubba!» – ordinò ad Evgenij Pavlovič.
Il generale si alzò docilmente e si tolse gli abiti. Nella flebile luce grigiastra del mattino autunnale, filtrante miseramente attraverso il telaio dell’unica finestra, il proprio corpo gli era sembrato misero e inutile, penetrato da tutto questo malaticcio giallognolo e con delle costole sporgenti come archi dalla grinzosa pelle d’oca. Il medico si chinò e avvicinò lo stetoscopio alla clavicola dell’ammalato.
I soldati Rossi, che si stavano scambiando qualche parola, tacquero come per un comando e il generale ascoltò per alcuni minuti, solo il proprio respiro, rauco e flebile.
«Quanti anni ha?» – domandò il medico, ripiegando lo stetoscopio.
«Sessantatre.»
«Dunque, non c’è niente di grave» – disse il dottore, girandosi verso il comandante, riconoscendolo come funzionario pubblico. «Anemia, catarro delle vie respiratorie, scarsa alimentazione. La causa dello svenimento è la debolezza, dovuta ad una prolungata mancanza di cibo e di aria fresca. All’età del paziente…»
«E’ chiaro» – interruppe il comandante. «Adesso, vada pure a casa, dottore. Penseremo noi stessi a come si possa rimediare. Non prescriverà nessuna medicina?»
«No. Il malato non ha bisogno di medicine. Aria fresca e alimentazione adeguata. Nient’altro.»
Il medico se n’è andato. Evgenij Pavlovič stava cercando d’infilarsi la giubba. Per il freddo tremava sempre più e non riusciva a centrare le maniche. Il comandante, meccanicamente, gli diede una mano, pensando a qualcosa d’altro e, non appena Evgenij Pavlovič si fu abbottonato, il comandante come se si risvegliasse, concentrò lo scintillio verde-erba dello sguardo sul volto del generale.
«Cosa le succede, vecchietto? Agli altri, il cibo viene portato da casa e a lei mai niente. Possibile che i suoi parenti l’abbiano dimenticato del tutto o, forse, hanno paura di farsi vedere da noi, in questo posto?»
«Qui in città, non ho nessuno» – rispose il generale, fiaccamente.
«E dove sono i suoi familiari?»
«Mia moglie è morta, il mio unico figlio maschio è stato ammazzato in guerra, le due figlie femmine sono sposate e vivono lontano da Pietroburgo. Qui in città abitavo solo io e la nostra vecchia balia. Lei, però, è troppo vecchia, troppo debole ed è analfabeta: non è in grado di agire. Probabilmente, lei non sa neppure dove mi trovo e io non posso avvertirla in nessun modo. Sono del tutto solo!» – disse Evgenij Pavlovič con intensa disperazione e diede uno sguardo al comandante.
Nuovamente nei suoi occhi scorse una viva, umana compassione. Il comandante rimase fermo e, accigliandosi, si mise a riflettere.
«Dov’è il suo domicilio, vecchietto?» – domandò finalmente.
«Abitavo al ventisette di via Zachar’evskaja» – rispose Evgenij Pavlovič.
Il comandante mise una mano sulla spalla del generale e, con voce volutamente vivace e allegra, disse: «Adesso, lei vada al suo posto e si distenda, riposi, vecchietto. Io invece, domani, non appena avrò un momento libero, andrò a trovare la sua balia per dirle di portarle qualcosa da mangiare.»
«Grazie. Mi spiace, davvero, di scomodarla…» – disse Evgenij Pavlovič, arrossendo. «Potrei scrivere, però, a Pélin’ka di vendere qualcosa e comprare dei viveri!»
«No, per quanto riguarda lo scrivere; è proibito. Lei mi dica e io trasmetterò a voce.»
Evgenij Pavlovič rifletté per qualche istante.
«Allora le dica di vendere dei cucchiai d’argento che stanno nel cassetto sinistro della credenza e poi anche il portasigarette d’oro, lei sa dove sta; e ciò mi basterebbe, fintanto che vivo!»
«Ma perché dovrebbe morire, vecchietto?» – domandò il comandante.
Evgenij Pavlovič non rispose e guardò perplesso il comandante. Il comandante, comprendendo quel pensiero inespresso, scivolato come malinconica ombra, sul viso del generale, fece un sogghigno forzato: «Ah, sì…, sì… certo» – pronunciò con una pausa tra le parole. «Ma se fossi io a decidere: l’avrei lasciato libero d’andare dove le pare e piace. Dal momento che da lei, vecchietto, può venire lo stesso pericolo a danno del proletariato, scusi: è quanto avere latte da un caprone..»
Evgenij Pavlovič tacque. Entrambi sentirono un certo imbarazzo, e il comandante pose fine alla conversazione con tono autoritario: «Torni al suo posto, vecchietto. Presto sarà distribuito il pranzo.»
Evgenij Pavlovič uscì nel corridoio e, sostenendosi ai muri, si trascinò pian pianino verso la camerata dei detenuti.
 
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Capitolo Settimo


Chi non si ricorda di quel sapone? Era davvero stupefacente! Il suo denso, caldo color marrone, accarezzava così dolcemente i nostri occhi nell’anno diciotto e seguenti, sino al millenovecentoventidue, quando la Repubblica dei Soviet sostituì la spada con l’aratro e gli eroi cominciarono a lavarsi le mani con il sapone Rond, schiumoso e delicatamente profumato.
Nessun trucco o espediente borghese sarà mai in grado di cancellarci dalla memoria il magico, meraviglioso ricordo del sapone, in uso nel millenovecentodiciotto.
Questo sapone era distribuito con tessere del comune; per riceverlo si dovevano fare lunghissime malinconiche file, per ore e ore, nelle desolate strade, ricoperte da uno spesso manto di neve. Una volta ricevuto tra le mani uno di questi panetti dall’aspetto miserabile, ognuno di noi provava la splendida sensazione d’essere come uno, che ha raggiunto il punto esatto del polo nord o ha risolto l’insolubile dilemma dell’eterna giovinezza. Ci dirigevamo verso le nostre abitazioni fredde, inciampando nei cumuli di neve, cadendo, ma, stringendo al petto, con la massima cura, il sapone recondito.
Spesso questo sapone era distribuito, invece del pane, nei giorni in cui le squadre per l’approvvigionamento alimentare, create dal governo, non riuscivano a racimolare nelle campagne né farina, né carne, né alcun altro prodotto commestibile. Ciò nonostante, tale assegnazione apportava incantevole delizia e saggezza.
E odore! Oh, cercate di ricordarvelo, quell’odore! Era un miscuglio straordinario e insuperabile. Sapeva di pesce, di lucido da scarpe, di fondi della distillazione dell’alcool, di naftalina, di fenolo, di marcio e insieme, tutti questi odori, fondendosi e sovrastandosi a vicenda, creavano un unico aroma, solenne e onnipotente.
Nei luoghi in cui erano ammassati più di dieci chili di quel sapone, morivano tutti gli altri odori entro un raggio di venti metri. Certamente ricorderete anche che, ritornati a casa, vi mettevate inutilmente ad accendere una stufetta di ghisa con fibre bagnate del legname di pino, e all’improvviso, dall’angolo della stanza, in cui avevate accatastato il sapone come pietre d’angolo d’un cantiere edilizio, percepivate un forte, penetrante odore, rincuorante, esortante alla calma e all’autocontrollo…
Evgenij Pavlovič, chino sul lavabo del gabinetto, stava pazientemente sfregando con il sapone il calzone sinistro dei mutandoni. Dal rubinetto, con un sottilissimo getto, attorcigliato come il caffè versato dalla caffettiera, scorreva una gelida acqua argentea.
Le mani del generale, sbracciato al gomito, erano riempite di sangue ed emanavano trasparente vapore.
Era difficile lavare. Il sapone lasciava sui mutandoni delle tracce marrone scuro. L’acqua fredda non solo non era in grado di cancellarle, ma sembrava fissasse sul tessuto queste tracce per sempre.
Evgenij Pavlovič si raddrizzò e, con aria smarrita, si strofinò la fronte con il dorso bagnato della mano. Lasciato da parte il sapone, sollevò gli appesantiti mutandoni bagnati fradici e, tenendoli sotto il getto d’acqua, si mise a strofinarli. Nei movimenti delle sue mani si poteva notare tranquilla sicurezza, come se l’arte misteriosa del lavaggio non fosse poi tanto misteriosa per il generale.
Non lo era davvero. Non appena Evgenij Pavlovič si accorse che i due cambi di biancheria, presi con sé al momento dell’arresto, avevano assunto una tonalità grigiastra, gli venne in mente una monelleria della sua infanzia, per la quale era spesso rimproverato dalla madre. Si era ricordato dei giorni in cui in casa di Adamov si faceva il bucato e lui, allora ragazzino, s’introduceva alla chetichella nella lavanderia e si addossava alle lavandaie. Era divertito dal processo stesso del lavaggio: grossi nuvoloni di vapore profumato; carezzevole acqua calda, ondeggiante nella tinozza grande; montagne di schiuma spumeggiante che faceva dolce carezza avvolgente alle mani affondate dentro.
Le lavandaie si arrabbiavano e scacciavano il piccolo cadetto dalla lavanderia, ma lui metteva nelle loro rosse mani dei dolciumi, rubati dalla sala da pranzo e delle monetine e le donne, ridendo e scherzando, permettevano al ragazzino di rimanere, sino a quando sua madre lo trovava in quest’occupazione e lo portava via per forza, mentre lui s’impuntava nel protestare e piagnucolava facendo capricci. Così, ridendo e scherzando, Evgenij Pavlovič aveva imparato l’arte del bucato.
Il generale fece un profondo respiro e appoggiò i mutandoni nel lavabo. Si chinò, sollevò dal pavimento un bollitore di rame, riempito con l’acqua calda durante distribuzione del rancio, tappò lo scarico del lavabo con un pezzo di giornale appallottolato e versò dentro tutta l’acqua calda.
Le strisce marrone scuro, lasciate sul cotone dal sapone, si sciolsero lentamente e si dissolsero. Evgenij Pavlovič immerse le mani nell’acqua calda, facendo smorfie e muovendo la barbetta, e riprese a strofinare con forza.
Un sorriso infantile felice allargò le sue labbra diligentemente serrate. Il tessuto si stava sbiancando, acquisendo il colore originale; l’acqua invece, raffreddandosi, si era intorbidata ed ingrigita. Data l’ultima strofinata ai mutandoni, un calzone dopo l’altro, il generale scaricò l’acqua, risciacquò la biancheria lavata sotto l’acqua fredda e si mise a strizzarla. Le mani, però, tremavano per la fatica e la stanchezza e solo un po’ d’acqua appena sgocciolava dal cotone strizzato.
Dietro alla schiena sbatté la porta.
«Adamov? Ah, ecco dove sei!»
Evgenij Pavlovič si volse al rumore e vide una giovane sentinella della Guardia Rossa di nome Prochor, ossia Proška, così com’era chiamato in modo familiare da tutti gli altri soldati. La faccia di Proška si allargò in un sorriso, scoprendo la biancheria bagnata nelle mani del generale.
«Guarda, guarda, ma sei, tale e quale, una vera lavandaia! Intanto, il comandante ti sta cercando!» E, sporgendo fuori del gabinetto la testa, Proška si mise a gridare: «Compagno comandante! E’ qui, è qui Adamov!»
Al comandante non era stata possibile mantenere la promessa, data ad Evgenij Pavlovič, di fare una puntata a casa del generale per parlare con la sua balia, né all’indomani né nei giorni successivi. Erano sopraggiunti tempi pieni d’agitazione tremenda e di disordine. In città era svolta una vasta retata della polizia Rossa contro banditi, rapinatori, ladri, borsaneristi. Durante gli ultimi tre giorni erano stati portati in continuazione gruppetti di delinquenti comuni, che in parte furono sistemati nelle stanze adiacenti alla sala grande della palazzina e in parte nella stessa sala, nei posti liberati da gente fucilata. Consiglieri effettivi e particolari, camer-lacché e titolari di fabbriche, generali e proprietari terrieri furono uniti in promiscuità con ogni sorta di delinquenza: borsaioli e topi d’appartamento, rapinatori, scassinatori, banditi feroci e spacciatori di narcotici. Insieme ai delinquenti comuni entrarono nella sala grande maniere spregiudicate, imprecazioni volgari da veri avanzi di galera, ma nello stesso tempo la spensierata allegria di uomini disperati che avevano scommesso sulla propria vita tutto e per tutto.
Per assurdo, nella sala grande era arrivata molta più tranquillità e spensieratezza. Soltanto un esiguo gruppetto di aristocratici politici aveva cercato di incitare gli altri per protestare contro la promiscuità della detenzione con delinquenti comuni, non trovando, però, degli alleati. La maggioranza era stata perfino contenta di questo irrompere nell’ambiente di spericolati vicini: insieme a questi scavezzacolli era come se dentro irrompesse e ricominciasse la vita, vivace e giovanile, alla quale in molti avevano già detto addio.
Il comandante era sfinito, dall’estenuante lavoro per la sistemazione di tutti i nuovi inquilini e non era potuto assentarsi dalla palazzina negli ultimi giorni.
Evgenij Pavlovič diede uno sguardo all’aspetto incupito del comandante, entrato nel gabinetto. Avvertì subito, con un sesto senso, che il comandante era arrivato per dare qualche brutta notizia e non si era sbagliato.
Il comandante fece scorrere rapidamente gli occhi sui mutandoni, appesi al braccio sinistro piegato del generale e si scurì ancor di più in volto.
«La stavo cercando, Adamov,» – disse in modo demotivato e fiacco, – «hanno preso una brutta piega le sue faccende.»
«Ma come?!» – esclamò il generale, stringendo i mutandoni al petto.
«E’ proprio così. Stamani, sono andato a trovare la sua balia, ma non c’è più, è svanita.»
«E’ morta?» – pronunciò Evgenij Pavlovič con flebile voce; e gli era sembrato che nel petto, vicino al cuore, una crudele mano avesse strappato con artigli di ferro, dolorosamente, sanguinante, un pezzo di carne viva.
«Ma no, non è morta! E’ andata via la sua vecchietta, probabilmente, da qualche parente in campagna, perché non aveva più alcun sostentamento. Adesso nel suo appartamento abita altra gente. Il capo comitato degli inquilini vi ha alloggiato una famiglia di gente povera. Ecco, questo è quanto.»
Evgenij Pavlovič, avvilito, agitò le mani in modo brusco. I mutandoni finirono per aria e sarebbero caduti a terra, se il comandante non li avesse acchiappati al volo. Aveva trattenuto dal cascare la biancheria lavata e incuriosito l’aveva distesa sul palmo della mano.
«E’ lavata molto bene. Sembra che sia stata lavata dalle mani di un’esperta» – disse pensosamente.
Evgenij Pavlovič, intanto, trovò dentro di sé la forza di dire: «Ma aspetti… Com’è possibile? Nell’appartamento ci sono tutte le mie cose… Documenti… Lettere… Mobilio… Tutto quel che c’è di più caro al mio cuore! Ma come, come è possibile tutto questo?!»
Il comandante, macchinalmente, strizzò i mutandoni in modo energico e forte. Sul pavimento scrosciò una cascata d’acqua.
«Strizzare come si deve, però, non le riesce mica!» – disse e, solo dopo aver strizzato tutta l’acqua, rispose alla domanda angustiata di Evgenij Pavlovič.
«Si tratta, certamente, di un malinteso. E’ successo che lì, nella casa, avevano creduto che lei non fosse più di questo mondo. S’immaginavano che lei stesse scovando ormai la sottoterra con il naso. E c’è tanta povera gente che abita negli scantinati. Così, vi avranno alloggiato qualcuno… Ma lei non si preoccupi, e non abbia paura» – disse il comandante con tono rassicurante. «Le svelo un segreto: dopodomani deve arrivare una commissione da Ceka. Dovranno giudicare chi rilasciare e chi trattenere ancora. C’è da supporre che lei sarà rilasciato definitivamente… Su, adesso io vado, c’è tanto lavoro da sbrigare. Auguri!»
Mise nelle mani del generale dei mutandoni e andò via.
Evgenij Pavlovič rimase immobile, stravolto, abbattuto; solo con i mutandoni bagnati, appesi malinconicamente sull’esanime braccio.
La mente non riusciva a concepire l’accaduto. La sofferenza maggiore era suscitata dal pensiero che nei cassetti della scrivania, accuratamente legate con cordoncini, erano rimaste tutte le lettere della moglie defunta e dei figli. E che, probabilmente, mani impassibili ed estranee di qualcuno, già stavano strappando i cordoncini, rovistavano tra i fogli fruscianti; occhi indifferenti scorrevano le righe scritte, tanto care alla sua memoria ed inservibili a questa gente incurante; forse, erano state buttate nel mucchio di pattume, calpestate, bruciate. Non sentiva dispiacere per il resto dei suoi beni, lo facevano penare unicamente questi adorati diari del vissuto.
Evgenij Pavlovič diede uno squittio come un ratto ferito e si diresse, barcollando verso la sala grande della prigionia. Arrivato al proprio posto, gettò i mutandoni sulla coperta, si sedette tutto ingobbito, nascose il viso con le mani e sotto le dita scorsero giù lentamente traboccanti lacrime cocenti.
Un uomo sdraiato vicino, che tranquillamente fumava una sigaretta arrotolata a mano, sollevò il corpo e diede di sbieco uno sguardo stupito ad Evgenij Pavlovič. Poi fischiò per la meraviglia e sfiorò con una mano le tremolanti scapole del generale.
«Ma che cosa le è successo, Signoria?» – domandò con una strana vocina pigolante, da pennuto.
Evgenij Pavlovič trasalì spaventato, si scoprì il viso, si volse verso la voce che domandava e s’imbatté nello sguardo di un faccione gonfio e baffuto. Da ambedue i lati del faccione, sotto un naso gibboso a melanzana, pieno di brufoli neri, si rizzavano i due salamini uguali dei baffi lustri e ben curati: sembrava che al labbro superiore fossero incollate due canne brunite di rivoltella.
Notato negli occhi del generale una domanda allarmata, l’uomo mosse i baffi: «Non abbia paura, Signoria! Io sono un rapinatore, di nome Nikita Šurov, conosciuto nell’ambiente nostro con il soprannome “Turka”. Sono stato catturato per omicidio. Finirò messo al muro, tirerò le cuoia e, ti saluto mamma mia bella; eppure, scusi, Signoria, non piango mica. Così è la vita, brutta carogna schifosa – come la giri, giri; puoi fare bene o male, finirai lo stesso nella bara!»
Le balzanti fiammelle castane bruciavano al di sopra dei baffi, in modo baldanzoso e forsennatamente disperato.
Evgenij Pavlovič fece un sorrisino storto.
«Non c’entra per niente la morte,» – rispose a Turka, – «mi preme un’altra cosa.»
Inaspettatamente e all’improvviso, come gocce d’acqua traboccate, fluì tutto il racconto del suo guaio d’un vecchio solo ed abbandonato.
Turka rifletté un poco, dopo diede una leggera pacca sul ginocchio del generale.
«E’ proprio vero, scusi,» – stridette con la sua vocina da pennuto, così assurda e strana per la sua granitica faccia, dagli zigomi larghi e dagli immensi baffi, – «questa è una cosa comune a tutta la gente istruita. Probabilmente, sarà per troppa intelligenza o per qualcosa d’altro! Puoi toglierle ogni bene materiale, scusi, e te lo dà senza protestare, senza battere ciglio, ma per una qualche bazzecola d’animo, si metta, scusi, a soffrire da morire. Ma che saranno mai, tutte queste lettere, fotografie, fiocchetti, nastrini? Scusi, ma sono scemenze al confronto delle ricchezze dei beni materiali. E invece no, pure lei, non si è dispiaciuto per tutta la roba di casa perduta, ma si è messo, Signoria, a disperarsi per le lettere, scusi. Pochi giorni fa, mi è capitato un fatto di genere. Scusi, stavamo svaligiando un appartamento proprio giusto di una famosa attrice. Abita al centro, l’attrice di nome Tamarova. Probabilmente la conosce per sentito dire, Signoria? E così, abbiamo riempito tre grossi sacchi, pieni zeppi di roba di prima scelta. Cosa vuole, scusi, è una “casetta” a dodici stanze; è facile immaginare quanta roba c’era per scaldarsi le mani! Scusi, avevamo ormai deciso di togliere il “disturbo”, e qui il mio socio ha notato su un tavolino una gattina. Una gattina d’argento, piccola quanto un ditale e il suo prezzo sarà stato al mercato, sì e no, di una cinquantina di copechi, una miseria. Il socio, strada facendo, la prese e se la mise in tasca. L’attrice, invece, per tutto il tempo, finché prendevamo le altre cose, non ha aperto bocca, stava seduta sul divanetto e sogghignava con disprezzo. Non appena ha visto, però, che era stata presa la gattina è saltata, scusi, lei stessa come una gatta rabbiosa e urlando: “Restituiscimela, carogna!”, si è buttata con le unghie in faccia al mio socio. Insomma, ha sollevato un baccano da non credere. E io: “Pardon, madame, è molto strano il suo atteggiamento, lei ci ha consegnato tutta la casa, scusi, senza fiatare, invece per una gattina da quattro soldi sta facendo un casino!”. L’attrice si è messa a piangere con lacrime amare a dirotto e ha risposto di tutto cuore: “Uccidetemi piuttosto, ma non toglietemi la gattina. Con questa gattina amava giocare la mia figliola morta”. Certo, pur se siamo rapinatori, anche il nostro animo non è fatto di tela greggia. Abbiamo restituito la gattina e siamo andati via con tutto il malloppo. L’attrice, allora, è da non credere, ci ha accompagnati alla porta e ci ha perfino ringraziati. Disse: “Grazie!”. Ma per che cosa? E’ molto strano, scusi, non le pare?»
Il rapinatore aspirò profondamente il fumo del tabacco forte e fece uscire dalla bocca una decina di densi anelli di fumo, che passando uno nell’altro, si diressero verso il soffitto.
Il generale si asciugò dalle ciglia le lacrime e, dopo aver seguito gli anelli fatati, il suo viso s’illuminò con un confuso sorriso fanciullesco, diretto agli anelli e al rapinatore.
Turka ammiccò e chiese: «E lei, perché si trova qui, Signoria?! Cos’è, un controrivoluzionario?»
Evgenij Pavlovič si strinse nelle spalle. La domanda di Turka lo sconcertò. Mai neppure gli era passato per la mente di chiedersi, per quale ragione si trovasse in carcere. C’era un’attutita, impercettibile rassegnazione davanti al fatto compiuto. Tuttavia a Turka doveva rispondere e l’accademico di storia del diritto, perplesso e turbato, strinse più volte le labbra.
«Non lo so» – rispose finalmente. «Sarei in difficoltà, a dire il vero, a giudicare il mio comportamento come controrivoluzionario. Io non facevo niente. Se definire questo controrivoluzione… Anche se, sa, pure un grosso masso di pietra che si trova in mezzo alla strada, probabilmente, si crede d’essere innocuo, però la gente lo considera come un intralcio al movimento… A vederci chiaro…»
Turka strizzò ironicamente l’occhio sinistro.
«Signoria, ma che modo astruso usa per parlare! Lei non sembra un generale, scusi, ma un professore scientifico!»
«Sono davvero un professore, ma militare» – sorrise Evgenij Pavlovič.
Turka alzò di colpo la testa e di nuovo emise dalla bocca degli anelli fatati.
«Nientedimeno, scusi!» – disse, – «Signoria, allora ho per lei un discorso serio, su una questione che m’interessa molto, scusi. Lei intanto non consideri, scusi, che sono un rapinatore. E’ la mia vita che non si era messa per il verso giusto ed era uscita lontano dagli argini del lecito, se no, forse, ai tempi d’oggi, avrei potuto essere un qualche capoccia nel ramo ferroviario, come un ex scambista, scusi. Sono stato fregato dal vecchio regime, dalla vodka e, scusi, per mancanza di carattere. Voglio, dunque, porle una domanda utile, riguardante la vita odierna. Ecco, questo misero popolino, privato di ogni soddisfazione, vissuto da sempre negli scantinati, scusi, pensava che non appena fatta la rivoluzione, la vita si sarebbe messa per ognuno verso il piacere reciproco ed assolutamente equo. E poi, che quelli che, scusi, simili a lei, i professori e la gente intellettuale insomma, da sempre vissuti ai piani alti, avrebbero fraternizzato con gli “scantinati” e insieme, scusi, avrebbero costruito una casa comune, in modo che tutti vivessero finalmente in modo decoroso e al calduccio. Gli “scantinati”, scusi, hanno i pugni, i “piani alti” sono provvisti dei cervelli! Si sarebbe potuto costruire magnificamente! Voi, invece, i “piani alti”, subito avete voltato i musi dall’altra parte degli “scantinati”. Avete puntato le “code” nei fianchi e non avete voluto sporcarvi con ogni sorta di pezzenti. Così, vi siete dedicati ad una totale e sanguinaria controrivoluzione. Si può sapere perché, scusi?»
Il generale diede uno sguardo perplesso a Turka e, come se riflettesse, disse a voce piana: «Non ci hanno chiamato.»
Turka batté le mani e si mise a sogghignare: «Scusi, ma le parole che dice non sarebbero da persona istruita, Signoria. Persino sono parole assurde! Che significa: non vi avevano chiamato?.. E voi stessi, scusi, non potevate farvi avanti? E’ che non volevate e basta. Tutto il resto, è una finta scusa che non sta in piedi. Possibile, che non abbiate pensato che bisogna aiutare il fratello minore?»
«No, non ci ho pensato! Per quanto riguarda tutti gli altri, non so rispondere» – rispose il generale, sconcertato.
«Lei non ci ha pensato?! Scusi!» – s’infervorò Turka, mosse i baffi e li puntò contro il generale. «E’ vergognoso perfino sentire uscire dalla bocca una tale obiezione. Scusi, e adesso io, forse, anche per il vostro comportamento indeciso, sarò spedito dritto-dritto al creatore, perché non c’era nessuno ad indicarmi la via giusta per la vita. Vergognatevi, teste di rapa! Vi date ai ragionamenti astratti sul cielo, invece non siete in grado neppure di appollaiarvi sulla Terra!»
Gettò ostilmente il mozzicone della sigaretta, fulminò il generale con gli occhi, si distese e gli girò la schiena.
Evgenij Pavlovič, come uno sbarbatello dopo aver combinato una birichinata, quatto-quatto, per non far scricchiolare le assi del tavolaccio, si distese e cercò di addormentarsi. Il sonno non arrivava. Era tormentato dal ragionamento, improvviso e piuttosto rozzo, del rapinatore, che aveva fatto incappare il generale negli spigoli duri della sua verità orrendamente spaventosa. Evgenij Pavlovič, preso dall’agitazione, non smise di girarsi e rigirarsi sul tavolaccio, finché una sentinella Rossa, affacciatasi alla porta, gridò a squarciagola: «Portate il pentolone! Si mangia!»
Evgenij Pavlovič saltò in piedi. Il rapinatore si sollevò, strofinandosi gli occhi, poi diede di nuovo uno sguardo di sbieco al generale e fece un sorrisino: «Su, Signoria, non mi serbi rancore, per averle fatto ingoiare tutte le cazzate amare. Via, filiamo a ritirare la roba da mangiare. Ora noi, scusi, siamo uguali. Lei è un professore, io sono un rapinatore, ma stiamo entrambi nella stessa gabbia, a sfamare i pidocchi. Non mi tenga il muso!»
«No, non me la prendo» – rispose pacatamente Evgenij Pavlovič e strinse una “zampa” ruvida protesa di Turka.
 
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Capitolo Ottavo



Di notte, Turka e altri sette criminali comuni, furono portati via. Li condussero fuori in silenzio, senza l’appello, cercando di non svegliare il resto dei carcerati. Il comandante con una sentinella si avvicinava ad ognuno di questi uomini separatamente e, scuotendolo, lo svegliava. Non appena l’uomo si alzava, era portato vicino alla porta e il comandante ritornava per svegliare il prossimo. Mentre scuotevano Turka, per farlo alzare, si svegliò Evgenij Pavlovič e, scorgendo le guance di stearina del comandante, comprese tutto.
Avvertì un tremendo palpito al cuore e una dolorosa compassione, come se venissero per separarlo da un fratello, ritrovato da poco, dopo anni e anni di separazione.
Turka dormiva profondamente e soltanto ronfava ad ogni spintone alla spalla.
Evgenij Pavlovič, parlando sottovoce, domandò al comandante: «E’ possibile che sia fucilato!»
Il comandante contorse una guancia nervosamente e gettò uno sguardo al generale con occhi stizziti.
«No, gli sarà offerto un caffè con la panna!» – tagliò corto il comandante imbronciato e borbottò: «Dorma, vecchietto. Non è affare suo.»
Sarà forse per il fatto che dall’espressione di Evgenij Pavlovič trapelava una tale angoscia e afflizione d’impotenza, che il comandante aggiunse: «Ha trovato per chi dispiacersi! Ha sgozzato perlomeno venti persone, questo figlio di cane. La gentaglia come questa deve essere eliminata per prima, per non farli insozzare la terra con i suoi escrementi.»
Turka si svegliò. Un suo baffo continuava rizzarsi come una canna d’arma da fuoco; mentre l’altro si era sparso a ventaglio sulla guancia. Non si mise domandare niente, si arrotolò velocemente le pezze da piedi e s’infilò gli stivali di vernice a soffietto. Solo la sua faccia assunse un colore terreo e gli occhi presero a muoversi veloci-veloci, come dei sorci.
Non appena ebbe finito, chiese al comandante: «Cos’è, l’ultimo viaggio?»
Il comandante replicò senza fretta: «Domandalo lì, alla pallottola.»
Turka si girò il baffo, si alzò in piedi e scoppiò a ridere: «La pallottola, fratello, fischia senza intendere: è inutile aspettarsene la risposta!»
Si girò i baffi un’altra volta e si afflisse.
«Ohimé, ma che peccato per i baffi: da dieci anni cresciuti e curati!» – e si volse verso Evgenij Pavlovič.
Dall’aspetto del generale comprese tutta la sua angoscia penosa e gli accarezzò amichevolmente una spalla.
«Non si addolori tanto, Signoria. Lì, prima o poi, saremo tutti. Ecco, vorrei darle questo, scusi, per ricordo, di tutto il cuore. E’ una scemata, rimasta buttata da tempo in tasca… Oramai non serve a niente.»
Tolse dalla tasca e mise nella mano di Evgenij Pavlovič un piccolo oggetto pesante, rilucente d’un pallido giallo e, chinandosi all’improvviso, impresse un bacio sulle labbra del generale. Chissà perché, ma i baffi di Turka profumavano di vaniglia.
«Mi perdoni, se l’ha offeso con qualche parola, Signoria.»
Evgenij Pavlovič non era riuscito a guardare negli occhi il rapinatore ed era rimasto fermo, avvilito, a testa china, stringendo il regalo nella mano sinistra.
Turka fu condotto via. Evgenij Pavlovič aprì la mano e vide una piccola immagine intagliata di Buddha, un totem mongolo in miniatura. Buddha era seduto con le gambette fini incrociate, stringeva un serpente nel pugno chiuso e abbozzava sul volto un sorriso di un’insensata saggezza. Il peso e la soffusa brillantezza del metallo fecero capire il generale che il totem mongolo era d’oro.
Evgenij Pavlovič fece un profondo sospiro, si mise il totem nella tasca laterale della giubba e s’infilò sotto la coperta. Nel silenzio dell’ampia sala-prigione, gli parve d’udire ogni tanto degli spari distinti che lo facevano trasalire, tra sonno e veglia.

La mattina presto arrivò una commissione della Ceka. All’ufficio del comandante furono portati le liste con i nomi degli arrestati e cominciarono a convocarli a turno. Quasi a mezzogiorno nella stanza della commissione fu convocato Evgenij Pavlovič.
Dietro alla scrivania del comandante stavano seduti tre uomini: uno di loro era un georgiano un po’ brizzolato. Nelle sue orbite nuotavano follemente degli occhi neri meridionali, dai bulbi bluastri, accesi da un forsennato fuoco. Nel momento in cui Evgenij Pavlovič entrò nella stanza, il georgiano sollevò la testa dai documenti e puntò i suoi minacciosi occhi verso il generale.
Alcuni istanti dopo, parlando con un forte accento caucasico, domandò in modo breve, come se strappasse un pezzo di tela: «Cognome?»
«Adamov.»
«Rango e mansione nelle vecchie forze armate?»
«Maggior generale, professore dell’Accademia giuridico-militare.»
«Ha fatto mai il procuratore della corte marziale?»
«L’ho fatto per due anni.»
Un gracile biondino, seduto a destra del georgiano, dall’età indefinibile a giudicare dalla faccia (con lo stesso successo gli si potevano dare sia diciannove sia quaranta anni), strinse gli occhi e s’intromise nell’interrogatorio: «Il suo cognome è Adamov?»
«Sissignore!» – rispose come un soldato Evgenij Pavlovič.
«Dica, se non m’inganna la memoria, nel millenovecentocinque a Sebastopoli c’era un procuratore della corte marziale di cognome Adamov. Lei c’entra qualcosa con quel tale Adamov?»
«Sì, sono io!» – rispose il generale.
Il biondino si chinò verso il georgiano e si mise a sussurrargli qualcosa. I bulbi bluastri degli occhi del georgiano si misero a roteare, una sua mano si agitò con stizza e, rivolgendosi ad Evgenij Pavlovič, disse: «Perché non lo ha dichiarato?»
«Che cosa?»
«Come sarebbe, che cosa? Ma del fatto che lei, è Adamov.»
Evgenij Pavlovič sorrise.
«Perché avrei dovuto dichiarare che sono Adamov, se il mio cognome c’è negli elenchi?»
All’improvviso sorrise anche il georgiano.
«Io non parlo di questo, compagno. Sto dicendo: perché non ha detto che lei è lo stesso Adamov, che aveva rifiutato di giudicare e condannare?»
«Io non ho attribuito a quel fatto alcun significato» – rispose il generale.
«Non l’ha attribuito?» – si stizzì di nuovo il georgiano. «Lei non l’ha attribuito? E quando l’avrebbe attribuito? Quando sarebbe stato seppellito in una fossa? Sì? Può andare, prego!..»
Il biondino scoppiò in una risata fragorosa, arrivata nella schiena di Evgenij Pavlovič.
Verso le due di pomeriggio, nella camerata dei prigionieri entrò il comandante e chiamò: «Adamov! Raccogli le tue cose! Sei stato rilasciato!»
Il cuore di Evgenij Pavlovič cominciò a rintoccare come le campane in festa. Il volto fiorì di un pallore grigio azzurro, egli stesso invece si mise a barcollare.
«Calmati, non cadere!» – disse il comandante. «Ti avevo detto: per te è troppo presto per morire! Vai a spasso, amico! A quanto pare, tu sei per noi, per tutti i fratelli, come se fossi un cognato. Ma guarda un po’, e tacevi…»
Evgenij Pavlovič raccoglieva in fretta le sue cose. Le parole del comandante suonavano in questo momento in modo vacuo e fluttuante, pari ad un lontano fischiettare di un uccello notturno. Si buttò sulla spalla un fagottino e gettò uno sguardo attorno. Da ogni parte si aggrapparono alla sua faccia le baluginanti candele degli occhi attenti.
In modo goffo e insensato, il generale fece un inchino generale e disse: «Arrivederci, signori!»
Alcune voci dei delinquenti comuni risposero disordinatamente: «Auguri!»
«Stia bene!»
I prigionieri politici rimasero in silenzio e solo una voce sparse nell’aria una cattiveria sibilante: «Si accattivato la benevolenza... il maresciallo della plebe!»
Ad Evgenij Pavlovič tremò un muscolo della mascella. Non replicò niente, seguì solo affrettatamente il comandante. All’uscita il comandante disse alla sentinella: «Fai passare!» – E allungò la mano al generale. «Bene, ti auguro ogni cosa e di tutto... Sei stato un vecchietto giusto, Adamov. Perfino dispiace farti andare via. Chi sarà ora il capo responsabile della cella? Altri, è gente di mezza tacca…»
Evgenij Pavlovič si toccò la visiera e uscì in strada.
Un fresco e umido vento d’ottobre si gettò tra le sue braccia, sul petto, si mise ad abbracciarlo, solleticarlo, inebriarlo. Il generale si tolse il berretto a visiera ed espose la fronte alle sue pacche infradiciate. Rimase per un po’ fermo, esaminando con sguardo la strada desolata, poi a fitti passetti affrettati si avviò lungo il marciapiede.
 
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Capitolo Nono


Un primo breve trillo del campanello, non aveva richiamato l’attenzione di nessuno nell’appartamento. Evgenij Pavlovč attese e pigiò più a lungo il pulsante. Un minuto d’attesa e dietro porta si sentì il calpestio dei leggeri e veloci passi fermi, così diversi dal malinconico strascicare dei piedi di Pelagea. La porta fu aperta. Sbarrandola, sull’uscio rimase ferma una robusta giovane donna dalle guance rosse con un golfino di lana di cammello, lavorato a ferri.
«Chi cerca?» – domandò in modo non ostile, ma con diffidenza.
Evgenij Pavlovič, esitando, avvicinò le dita alla visiera.
«Io… non sto cercando qui nessuno… Sono arrivato a casa, cioè… a casa mia» – rispose, confondendosi nelle parole, e non distogliendo lo sguardo dal neo ovale sulla guancia sinistra della donna.
Gli occhi della donna diventarono più rotondi di colpo. Si confuse per la sorpresa. L’uomo di statura esile con il pastrano di generale, con il berretto a visiera, calcato sugli orecchi e uno spazzolino di barbetta appuntita che si trovava davanti a lei, era mille miglia lontano dal somigliare ad un delinquente o ad un imbroglione, tuttavia quello che affermava, sembrava stranissimo e orrendo. Preoccupata, si girò per guardare dietro, nel buio del corridoio dell’appartamento.
«Come a casa sua? Lei, probabilmente, avrà sbagliato il piano? Qui abitiamo noi!»
«No, non ho sbagliato» – contraddisse Evgenij Pavlovič e indicò la targhetta di rame, avvitata alla porta. Non era stata ancora tolta e sulla sua superficie verdastra, nereggiava la scritta: – Evgenij Pavlovič Adamov –
«Quest’Adamov sono io» – disse il generale, – «vede, non c’è sbaglio.»
«Ma non ci capisco niente» – replicò la donna e all’improvviso, folgorata dall’intuizione, batté le sue giovani mani tonde. «Oh, è lei, allora!..»
I lineamenti della donna si confusero in un sorriso imbarazzato.
«Allora, sarebbe lei, quello stesso generale che…». E, troncando la frase, con una strana voce un po’ masticata, disse: «Guardi, lei dovrebbe parlare con l’amministratore del condominio, perché il suo appartamento è stato occupato.»
«Sì, me lo avevano già detto» – rispose Evgenij Pavlovič, girando un bottone del pastrano. «E solo, come tutto ciò è potuto accadere?.. Io non riesco a comprendere… Dovrei vivere anch’io da qualche parte?!»
«Ma guardi… nel comitato degli inquilini, veramente, credevano che lei…». La donna interruppe la frase e arrossì, sopraffatta dall’angoscia.
«Io, davvero, non saprei spiegarle tutto. Sarebbe molto meglio che lei parlasse direttamente con l’amministratore.»
«Va bene, vado subito a trovarlo!» – esclamò il generale e si girò per scendere le scale: l’amministratore occupava un tempo un appartamento, il cui portone si trovava all’interno del secondo cortile interno del condominio.
«E allora dove sta andando?» – chiese la donna. «L’amministratore adesso abita qua, proprio in quest’appartamento! Abbiamo traslocato insieme. Lei entri, entri, lui adesso è a casa» – disse e retrocesse per far passare Evgenij Pavlovič nell’anticamera.
«Vada avanti. Sa com’è sistemato l’appartamento? L’amministratore occupa l’ex studio e la sala da pranzo» – buttò là la donna e scosse la testa con una sottintesa malizia.
Tutto il suo corpo esprimeva: «C’è una sorpresa!»
Evgenij Pavlovič, esitando e in punta di piedi, s’incamminò per lo stesso corridoio, lungo il quale aveva camminato da legittimo padrone per molti anni e bussò alla porta del proprio studio di una volta.
«Uffa, avanti!» – arrivò da lì una voce.
Evgenij Pavlovič entrò nello studio.
Per primo che erano saltate agli occhi le suole degli stivaloni, sovrastanti il bracciolo del divano e ognuna aveva nel centro un grosso buco tondo. Le suole si muovevano lentamente, battendo con i bordi l’una contro l’altra. Negli stivaloni erano appiccicate le gambe, alle gambe – un corpo, al corpo – una testa. La bocca della testa stava sprigionando il fumo denso di una sigaretta. Attraverso il fumo, chi era disteso sul divano, non poteva scorgere chi entrava, perciò, senza cambiare la posizione del corpo, domandò con indolenza: «Uffa, chi è? Che c’è ancora?»
«Sono io» – disse il generale timidamente. «Io, Evgenij Pavlovič.»
Le suole spiccarono in aria. L’uomo sdraiato saltò in piedi e per alcuni secondi rimasto di stucco e stupefatto, a fissare il generale.
«Lei?.. Lei?.. Lei?..» – esclamò infine per tre volte, come se volesse dire: «Sparisci!.. Sparisci!.. Maligno!..»
«Sì,.. sono stato rilasciato» – disse indistintamente Evgenij Pavlovič, con timidezza come se avesse commesso un’azione indecente ed ora si stesse scusando.
L’amministratore gli diede uno sguardo di sbieco e osservò nell’aspetto del generale uno strano smarrimento e avvilimento. Questo fatto conferì all’amministratore coraggio; raddrizzò il corpo e divenne solenne in modo glaciale.
«Vedo» – disse severamente, come uno che ha il potere. «Lei è venuto da me per qualche faccenda urgente?»
Evgenij Pavlovič avanzò un poco; la sua barbetta trasalì e si mise a tremare.
«Quale faccenda? Sono semplicemente tornato a casa. Mi perdoni,» – continuò nervosamente e agitò le mani, – «ma ci deve essere una spiegazione a tutto questo. La prego, mi faccia capire! L’appartamento è mio e… dopo tutto…»
Il generale si confondeva, s’impappinava e, man mano lo faceva, la faccia dell’amministratore assumeva un’espressione sempre più distaccata e gelida.
«Permetta, cittadino Adamov» – lo interruppe bruscamente, - «qua non c’è niente da capire. E’ tutto elementare. Non esiste più il suo appartamento privato, perché è stato trasformato in una coabitazione, numero sette. Lei è stato considerato defunto e il suo appartamento, adesso, è abitato dalla popolazione lavoratrice. Il provvedimento è stato approvato unanimamente dal comitato degli inquilini ed è irrevocabile. Il fatto che lei sia vivo, è un equivoco!»
«Ma come può essere? Questo è un non-sens giuridico!» – sfinito, riuscì a balbettare Evgenij Pavlovič, sopraffatto dalla tensione
L’interlocutore scalciò con una gamba e si accigliò.
«Non utilizzi le parole del vecchio regime, prego… Anche se lei è vivo, a noi ciò non serve. Il suo appartamento sarebbe lo stesso occupato, in quanto lei è un elemento che non appartiene alla classe dei lavoratori e tutti i suoi beni sono soggetti ad esserle sottratti, per la distribuzione equa tra la popolazione indigente.»
L’amministratore, andando avanti con il discorso, acquisiva sempre più aplomb e pronunciava dei concetti memorizzati pappagallescamente con particolare autocompiacimento. Prima della rivoluzione, quel tale era un impiegatuccio d’ufficio, presso un notaio e nel condominio era considerato da tutti come un essere petulante e lesto di mano. Adesso, ristabilitosi in un attimo dal primo imbarazzo, prendendo atto della depressa condizione psichica del generale, quest’individuo aveva deciso di agire senza ritegno con insolenza spietata.
«Ma, se è lecito…» – lo contraddisse Evgenij Pavlovič, sentendosi mancare il terreno sotto i piedi, «supponiamo pure che l’appartamento e gli altri beni materiali siano stati soggetti a confisca. Essendo, tuttavia, stato prosciolto da tutte le accuse e con ciò assolto, ho diritto di abitare da qualche parte. Peraltro qui si trovano le cose che non mi possono essere sottratte da nessuno… Sono i miei documenti… Lettere… Diari…»
«La proprietà privata è stata abolita» – lo contraddisse l’amministratore con fermezza.
«Scusi, ma lei parla con un giurista!» – scattò Evgenij Pavlovič, «M’intendo delle leggi! Possono essere confiscati i beni materiali e non gli oggetti che hanno un valore solamente per i loro possessori; un valore, peraltro, non reale, materiale, ma morale. Nessuno può privarmi dei ricordi!»
L’amministratore si volse alla finestra. Percepiva che la situazione era diventata parecchio spinosa e pericolosa.
«Veda, cittadino generale,» – cominciò a dire con indulgenza, – «di tutto ciò non è rimasto più niente. In ogni modo, anche lei dovrebbe entrare nel merito della nostra situazione. Sa, nel condominio, tutti quanti erano sicuri che lei fosse ormai morto. Per questo, dal momento che il suo appartamento era stato occupato da altri, ho ordinato di bruciare tutte le cartacce, in modo che non rimanessero buttate inutilmente in giro…»
A questo punto, l’udito dell’amministratore era stato colpito da uno strano rumore che lo fece girare indietro di scatto e, voltandosi, vide come il generale a bocca spalancata, soffocando e boccheggiando, stesse cercando disperatamente di ingoiare l’aria; e ancora, un attimo dopo, lo vide accasciarsi, crollare nella poltrona e scoppiare in un pianto inconsolabile.
L’amministratore fece un passo verso il generale, si fermò, con impotenza diede uno sguardo attorno e corse nella sala da pranzo. Un minuto dopo ritornò con un bicchiere d’acqua e, sollevando la testa del generale, gli diede da bere come ad un bambino. Un sorso d’acqua gli entrò in gola per traverso ed Evgenij Pavlovič, dopo un accesso di tosse, tacque.
L’amministratore andò di nuovo nella sala da pranzo e, per una svista, non chiuse bene dietro di sé la porta. Così, attraverso lo spiraglio della porta, Evgenij Pavlovič poté assistere ad una conversazione a due voci: una maschile e una femminile. Era evidente che l’amministratore parlava con la moglie.
«Poveretto, mi dispiace» – disse la voce di donna, – «è vecchio!»
«E sì, hai compassione per tutti!» – disse l’uomo. «Cosa vuoi? Ritornare nel nostro appartamento vecchio e ridare a lui questo? Bisogna invece sbarazzarsene subito in qualche modo. Sai benissimo anche tu stessa che abbiamo venduto tutti i suoi oggetti di valore. Pensa, in che razza di storia brutta finiremmo di cacciarci, se lui dovesse andare a lamentarsi…»
Le voci si abbassarono ed Evgenij Pavlovič non udì più nulla. Si asciugò le palpebre e si alzò in piedi. Nello studio era rientrato l’amministratore; i suoi occhi sfuggivano ed evitavano di fermarsi sul volto del generale.
«Lei non si strugga intanto. Si potrebbe, forse, ancora rimediare in qualche modo!» – pronunciò, assumendo il tono ufficiale di prima. «Lei faccia domanda al comitato degli inquilini e noi le cercheremo qualche stanzetta…»
«No, non serve» – interruppe Evgenij Pavlovič, – «e non abbia paura: io non andrò a denunciarla. Tanto fa lo stesso. Andrò a sistemarmi da qualche conoscente. Arandarenko abita ancora in questa casa?»
«Ormai da tre settimane è partito per l’Ucraina.»
«Tanto fa lo stesso» – disse il generale un’altra volta, – «non importa!»
Intanto gli occhi abbracciavano lo studio come se salutassero per sempre ogni cosa familiare in cui si celava una particella della propria vita ed egli scorse all’improvviso, sopra il divano, il ritratto della moglie. Il ritratto stava appeso inviolato, nella stessa pesante cornice di quercia, come sempre un po’ storto. A passo deciso, si avvicinò al divano.
«Io prendo questo.»
«Ma certo, certo. Capisco… per spirito umanitario» – si precipitò l’amministratore rallegrato e salì frettolosamente sul divano per togliere il ritratto. «Se vuole, prenda anche qualche altra cosa. Pur se ora, tutto questo appartiene alla casa ed è stato trascritto nel registro, ma mi metto nei suoi panni.»
Incontrato, però, lo sguardo di Evgenij Pavlovič, tacque subito e gli diede frettolosamente il ritratto; Evgenij Pavlovič se lo prese a fatica sotto il braccio e si mise il berretto a visiera.
«Buona fortuna, vivete felicemente… se ci riuscite!» – disse, sottovoce.
«Sia indulgente, cittadino Adamov. Davvero, io per ogni... con piacere, ma è il tempo, sa com’è… Non sono stato io ad imporre la risoluzione… è il comitato… degli inquilini… l’assemblea!..»
Il generale, non ascoltandolo, correva per il corridoio verso l’uscita, portandosi sotto il braccio il pesante ritratto. Gli mancava l’aria. Gli sembrava che, se non avesse potuto respirare subito aria fresca, sarebbe soffocato all’istante, crollando a terra esanime.
Evgenij Pavlovič, arrivato al pianerottolo del piano di sotto, si fermò, appoggiò al calorifero il ritratto della moglie e si sedette sul davanzale della finestra. Il suo cuore non batteva quasi e per tutto il corpo si era sparso un freddo sudore spossante.
A lungo restò seduto sul davanzale, guardando davanti a sé, in modo insensato ed esausto. Finalmente mosse le labbra e parlò quasi sussurrando, ma le sue parole caddero con effetto risuonante nella tromba vuota delle scale: «E’ una novella giuridica, professore! Calma e sangue freddo!»
 
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view post Posted on 19/3/2012, 22:18

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Capitolo Decimo



Sollevatosi dal davanzale, Evgenij Pavlovič si rimise il ritratto sotto il braccio e si trascinò giù per le scale. Trovandosi per strada si fermò meditabondo, riflettendo su dove andare. Si rammentò che poco lontano, a distanza di tre quartieri, abitava un suo vecchio compagno di studi all’Accademia militare, di cognome Priklonskij. Priklonskij si era ritirato presto dal servizio e si era impiegato al ministero degli esteri, tuttavia erano rimasti tra loro dei rapporti amichevoli. Si frequentavano spesso, fino agli ultimi tempi, e questi incontri erano sempre cordiali.
Evgenij Pavlovič tirò su la barbetta e, piegandosi verso sinistra sotto il peso del ritratto e del fagotto con i vestiti, s’incamminò lungo il marciapiede.
A casa dei Priklonskij gli fecero un lungo e dettagliato interrogatorio, attraverso la porta chiusa: chi era, chi cercava, cosa voleva? Evgenij Pavlovič riusciva a rispondere a fatica. La camminata per le vie della città lo aveva indebolito definitivamente; e, quando la porta fu finalmente aperta, mancò poco che cadesse nell’anticamera a peso morto.
Priklonskij ricevette il generale in una stanzetta, occupata quasi interamente da una esageratamente larga ottomana, coperta con un tappeto persiano e da una scrivania.
«Ma chi si vede! Salve!» – salutò, vedendo entrare Evgenij Pavlovič. «Sei proprio sparito dall’orizzonte! Scusami, se ti ricevo in questo sgabuzzino, ma siamo stati incomodati dai nuovi inquilini. A noi sono rimaste solo due stanze, per cinque persone, più questa mia stalluccia.»
Il tono di voce e il modo di parlare di Priklonskij erano insolitamente precipitosi e saltellanti; peraltro continuava a guardarsi attorno inquieto e a trasalire spesso.
«Come sarei potuto venirti a trovare?!» – disse il generale, sedendosi sull’orlo dell’ottomana. «Sono stato rilasciato soltanto oggi. Per due mesi sono stato rinchiuso dentro come un ostaggio.»
Gli occhi di Priklonskij si arrotondarono con sgomento e si misero a divorare il generale.
«Cosa dici?! Sei stato arrestato ed eri in galera? Dove?»
«Ero recluso in un penitenziario provvisorio del distretto comunale, Litejnyj, della commissione straordinaria della Ceka» – rispose Evgenij Pavlovič, come se formulasse un rapporto ad un superiore.
Priklonskij cominciò a dimenarsi per la stanzetta, agitato inciampò nell’ottomana, afferrò dalla scrivania, non si sa per quale ragione, un nettapenne e si mise a girarlo tra le mani; se ne sbarazzò, gettandolo nervosamente e, con sguardo scrutatore, si rivolse ad Evgenij Pavlovič.
«Allora sei fuggito!» – affermò con sicurezza. «Sei fuggito... fuggito…»
«Ma cosa ti prende?» – Il generale alzò con stupore la barbetta. «Perché la tua testa ti dice, che sono fuggito? E poi, come mai sei così nervoso?.. Stai tranquillo: sono stato semplicemente rilasciato.»
«Blablà blablà, amico!» – fece Priklonskij. «Raccontalo a qualcun altro! Io non sono un bambino: so perfettamente che, da lì, nessuno esce! Non devi temermi: io non farò la spia!»
«Macché, sei impazzito!» – scattò il generale irritato. «Ti ripeto: mi hanno rilasciato. E adesso sono venuto da te con una preghiera d’offrirmi un temporaneo alloggio.»
Priklonskij si scostò bruscamente: le sue guance divennero flosce e cascanti come due vecchi stracci.
«Come mai non sei tornato a casa tua?» – domandò e ammiccò maliziosamente.
«Perché l’appartamento mi è stato requisito. Mi consideravano morto. Io, a questo punto, non so dove andare. Vorrei pernottare a casa tua e farmi consigliare su cosa fare a questo punto.»
Priklonskij fissava Evgenij Pavlovič con un sogghigno di diffidenza e, non appena lui tacque, cominciò a borbottare: «Beh, beh, certo. Però non vuoi essere sincero e raccontarmi la verità, invece che inventare le fandonie, riguardanti il tuo appartamento… E poi… poi...» – Priklonskij abbassò la voce e si mise a sussurrare. «Ti prego, non restare a casa mia. Cerca di non fraintendermi… No, io non dimentico la vecchia amicizia… ma capisci… su di me ci sono delazioni sulle delazioni, io stesso da un minuto all’altro aspetto un arresto; e insomma, sono un uomo sposato e ho dei figli… Se dovessero scoprirti a casa mia – per noi tutti sarebbe la fine. Dovresti comprendere in che condizione mi trovo…»
«Ma non ho un solo posto dove andare… Non ho un tetto per stanotte. Volente o nolente, ormai non posso andarmene. E’ già tardi! Fammi dormire stanotte su quest’ottomana e domattina, me n’andrò via, giacché non riesci a credermi e hai tutta questa paura» – disse amaramente Evgenij Pavlovič.
Priklonskij cominciò un’altra volta a dimenarsi per la stanzetta, stringendosi la testa tra le mani.
«Evgenij, ascolta… Beh, cosa vuoi? Beh, ti servono dei soldi? Te li do… ma vattene, vattene ti prego… Per amor di Dio… Cosa vuoi, che mi metta davanti a te in ginocchio. Abbi pietà dei miei figli!» – cominciò a balbettare, perdendo le ultime briciole di coraggio e sbirciando come un cane bastonato nel viso di Evgenij Pavlovič.
Evgenij Pavlovič mandò un gemito. Una torbida scia di gelido freddo s’avvicinò lentamente alla gola; avvertì una terribile nausea e un autentico spavento davanti al fatto che quest’uomo, impaurito a morte, veramente si mettesse davanti a lui in ginocchio. Si sollevò dall’ottomana, la barbetta cominciò a tremargli, buttò là con un fievole e perciò orribile disprezzo: «Calmati… me ne vado via…»
Priklonskij divenne subito raggiante.
«Beh, lo sapevo, sapevo, che sei un buon amico di vecchia data e che non vorrai compromettermi in alcun modo e farci del male. Forse, ti serve davvero il denaro? O no, meglio, sai cosa faccio? Ti scriverò un bigliettino per un uomo fidato. Lui potrà sicuramente ospitarti…» – si affrettò, gettandosi alla scrivania e afferrando un bloc-notes, ma lo abbandonò subito e corse per abbracciare Evgenij Pavlovič.
Il generale si svincolò seccamente.
«No, non mi toccare!» – esclamò e mosse con disgusto le labbra impallidite.
Prese dal pavimento il ritratto e, non degnando Priklonskij di un solo sguardo, senza salutarlo, si avviò in silenzio alla porta d’uscita, la aprì e scese in strada.
La pioggia, appena gocciolante mentre Evgenij Pavlovič si avvicinava alla casa di Priklonskij, era divenuta battente con tutta la sua furiosa autunnale sfrenatezza, da sembrare che nell’oscurità serale, sulla strada nera, tersa e rilucente dall’acqua piovana, lavorasse frettolosamente ed efficacemente un’immensa filatrice, filando dei lunghi, sonori e bagnati fili di un argento trasparente.
Già al primo portone, lungo il marciapiede, un intero torrente d’acqua scrosciò su Evgenij Pavlovič dalla pensilina spiovente d’ingresso. Dei rivoli gelidi gli “arroventarono” la testa, scivolarono giù dal collo per il bavero del pastrano, diedero una mano di vernice fresca alla cornice e al vetro del ritratto. Il generale balzò verso il muro spaventato e aderì con tutto il corpo alla sporgenza del palazzo. Qualcosa che era nella tasca interna della giubba gli schiacciò dolorosamente una costola. Con un movimento automatico, Evgenij Pavlovič tirò fuori l’oggetto del fastidioso dolore e nel buio della pioggia sferzante distinse l’opaco luccichio del piccolo totem d’oro, regalatogli da Turka fucilato. Tenne per un po’ il feticcio in mano, lo rimise con cura in tasca e, come se avesse finalmente preso una decisione definitiva, affrettatamente s’incamminò saltelloni, sguazzando nelle pozzanghere della pioggia.
Dopo un’ora di camminata arrancante lungo delle strade mortalmente desolate, in lontananza scorse il baluginare della luce bassa di una lampadina sopra un portone d’ingresso. Arrivato a quella luce del portone, Evgenij Pavlovič riprese il fiato, si tolse il berretto a visiera bagnato fradicio, ne scrollò l’acqua, e solo dopo spinse deciso la porta dell’ingresso per entrare.
Per traverso dalla scala si protese una carabina ed una guardia Rossa, con ai piedi dei pesanti scarponi bullonati, gli sbarrò la strada d’accesso: «Ferma! Chi è lei? Non si può! Il lasciapassare!» – gridò severamente.
Evgenij Pavlovič guardò la sentinella con aria supplichevole.
«Il comandante è a casa?» – chiese, aggrappandosi all’ultima speranza.
«Quale comandante?»
«Il nostro, di questo penitenziario, Kuchtin…»
La guardia strabuzzò con perplessità le fessure a mandorla degli occhi, guardando la figuretta irreale nel pastrano di generale bagnato, con un ritratto di donna sotto il braccio e, dopo essersi stretto nelle spalle, si mise a gridare in sù in modo risuonante e staccato: «Ehi! Caporale di muta! Chiama il comandante! Qui c’è uno, che lo sta cercando… Siediti intanto, compagno!» – E indicò ad Evgenij Pavlovič, con la punta della baionetta, uno spigolo di marmo rosa della scala.
Evgenij Pavlovič si appoggiò allo spigolo. La guardia continuò a fissarlo, poi domandò finalmente: «Ti sei bagnato tutto, nonnino?»
Evgenij Pavlovič annuì silenziosamente e batté i denti per il freddo preso.
La guardia storse gli occhi pietosamente.
«A te, nonno, servirebbero adesso un tè e un giaciglio di stufa, belli caldi, anziché andare in giro con questo tempaccio» – disse con aria affettuosamente beffarda. «Quale motivo ti ha portato dal comandante? Hai qualche parente nel nostro penitenziario?»
Evgenij Pavlovič non fece in tempo a rispondere, perché si sentì un fragore di passi precipitosi, lo sbattere di porta e la voce incollerita del comandante, la cui testa apparve da sopra, nella semioscurità della rampa di scala: «Qual è l’accidente che ha tutta questa fretta? Non c’è un momento di pace, da questi diavoli! C’è la disposizione che si riceve sino alle diciotto!»
Evgenij Pavlovič si alzò e con un ultimo sforzo si mise sull’attenti.
«Sono io! Adamov…»
Il comandante, saltando due-tre gradini per volta, piombò giù e afferrò il generale per le spalle.
«Adamov? E perché?»
Evgenij Pavlovič, con un movimento disperato, sollevò di scatto le mani e si aggrappò alla camicia d’ordinanza del comandante.
«Mi riprenda indietro!» – gemette con voce interrotta. «Prendetemi, vi prego! Fucilatemi piuttosto. Non ho un altro posto dove andare. Io non ho più la casa, non ho niente, da tutte le parti sono stato scacciato. Io non voglio morire sulla strada!»
La sentinella, sconcertata, guardava in modo interrogativo il comandante: anche il comandante aveva un’aria smarrita. Cessato l’urlo dell’animo distrutto, Evgenij Pavlovič affondò la faccia nella insudiciata camicia d’ordinanza del comandante e tacque.

«Continua a bere, bevi più che puoi, Adamov» – diceva il comandante, versando dal bollitore di rame, annerito di fuliggine, già il quarto boccale di succedaneo del tè: marrone scuro, odorante di catrame e di valeriana.
«Bevi, fratello, devi scaldarti come si deve, se no ti abbatterai del tutto. Non appena ti riempirai la pancia con il tè, ti darò pure un bicchierino di vodka casereccia, per sciacquarti la gola. E speriamo che non ti prenda un malanno.»
Evgenij Pavlovič era seduto nudo sul divano del comandante, imbacuccato nel suo pastrano. Le gambe erano avvolte in una vecchia coperta bucata. Stava lentamente sorseggiando il tè bollente, e il vuoto stanco delle sue occhiaie si rifletteva nell’incerto specchio fluttuante della superficie d’alluminio del boccale.
Il comandante mise nel tè un pezzo di zucchero.
«Ecco, te lo faccio anche dolce! Invece, per quanto riguarda questo tuo amministratore del condominio, domani andrò io stesso a parlargli. Dovrà stringersi, eccome, e restituirti una stanza!»
Evgenij Pavlovič scosse la testa con disappunto. Già il pensiero del ritorno nel mondo in cui per lui non si era trovato un posto, gli sembrava orrendo e spaventoso. Il generale timidamente sollevò lo sguardo fisso al comandante. Le guance di stearina del comandante svelarono semplice umana bontà e compassione.
«No. Io non voglio tornare più là. Mi è difficile e doloroso ritornare al passato» – disse il generale ansioso. «Mi permetta di rimanere qua. Non vivrò a lungo.»
Il comandante si arruffò i capelli in testa.
«Sei un vecchio giusto, non c’è niente da dire,» – disse impensierito, – «non hai niente a che vedere con tutta l’altra feccia borghese e hai l’animo umano, pur avendo un pastrano di generale. Solo, con quale diritto ti potrei lasciare qui? Non sono in grado di arrestarti di nuovo. Per quale motivo, senza un mandato? E anche se ti tenessi qui senza una ragione, non mi farebbero certamente delle lodi!»
Entrambi tacquero.
«Forse si potrebbe trovare per me qualche lavoretto? Da scrivano nella vostra cancelleria… o prendetemi come soldato semplice» – disse all’improvviso il generale.
Il comandante si abbandonò sullo schienale della sedia, strabuzzò gli occhi e si mise a ridere sonoramente.
«No, amico mio, questo non si può. Noi teniamo per i lavori di cancelleria la gente del partito, la nostra documentazione è segreta. Invece, per diventare una Guardia Rossa, è la tua età che non lo consente. C’è poco da scherzare» – accigliandosi, tutt’ad un tratto mutò il comandante l’aria divertita, abbassando la voce. «Il nostro lavoro è molto pesante. Ci capita di fucilare. Persino chi ha una rabbia matta contro i borghesi, per tutto quello che ci avevano fatto, non riesce a sopportarlo a lungo – rischia di impazzire. Tu poi, non c’entri proprio.»
Evgenij Pavlovič chiuse gli occhi e trasalì con tutto il corpo.
«Però, aspetta, c’è una cosa» – continuò il comandante, rallegrandosi, «a quanto pare, tu sei bravo a fare il bucato?»
Evgenij Pavlovič annuì.
«E allora. Qui da noi, i detenuti si lamentano che c’è sporco, in molti non riescono a cambiarsi la biancheria. Assumere una lavandaia, sarebbe una cosa impensabile: è una femmina, invece qua da me sono raggruppati certi stalloni. Si creerebbe l’oscenità e il bordello con qualsiasi femmina: giovane o centenaria. Ecco, se desideri, avrai una razione doppia e mettiti a lavorare. Adibiamo nella stanza da bagno una caldaia per il bucato e tutto quel che ti potrà servire. Per i detenuti poveri lava gratis e invece i ricchi borghesacci, puoi far pagare quanto ti pare. Che ne dici? D’accordo?»
Il generale strinse più volte le labbra e bevve un sorso di tè. Superato il primo minuto d’incredulità sbalorditiva, percepì con tutto il suo essere una straordinaria gioia e allegria; gli venne da ridere, come nell’infanzia, quando riusciva ad escogitare qualche eccezionale monelleria senza precedenti. Con il volto illuminato da un rasserenato sorriso aperto, disse al comandante soltanto un breve: «Grazie, compagno!»
Ed avvertì con vivo stupore, come suonasse per lui stesso, stranamente facile ed eloquente, questa parola, vischiosa sino a quell’istante e bloccante tra i denti: «Compagno».
 
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view post Posted on 20/3/2012, 14:11

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Capitolo Undicesimo


Il tempo scorrazzava per la città a gara con il vento del mare e per sollazzo si dedicava alla demolizione. Con un’immensa mano invisibile frantumava vetri di finestre; rompeva infissi, telai, porte; leccava via angoli delle case; alzava lembi di stucco, denudando le gonfie piaghe rosse dei mattoni.
Il tempo faceva imbarcare e screpolare l’asfalto dei marciapiedi sprofondati; cavava dal lastrico la diabase e le testate di pietra; giaceva nelle frane scavate delle fosse.
Il tempo rodeva coi denti i grossi pezzi dello zucchero granitico del lungofiume; strappava via i pennoni dei palazzi; sollevava e arrotolava in tubi le lamiere di ferro arrugginite dei tetti marci. Il tempo insieme al vento soffiava sulle fiamme dai lunghi capelli d’oro degli incendi, divampati dalle arroventate stufette a carbone.
A volte, stanco di questa frenesia, divenuta non più divertimento, ma un vero e proprio lavoro, il tempo si distendeva sulla città sopra i bassi nuvoloni grigi, col pancione all’insù, e, sbuffando, si meravigliava perfino egli stesso per la resistenza tenace della vita.
La vita non si spegneva con nessuno stratagemma. La vita guardava al tempo sfinito con migliaia di occhi beffardi da ogni squarcio delle case diroccate. La vita imparò a saltare attraverso le frane delle strade lastricate sui pesanti autocarri ruggenti e le motociclette.
La vita prendeva in giro il tempo e, non badando alla demolizione disastrosa del vecchio, costruiva il nuovo, stringendo forte nelle mani pietrificate un martello rovinato e delle tenaglie scheggiate.
E il tempo si abbandonava alla disperazione davanti a tutto questo lavoro da formiche, davanti agli uomini ritti, mai cedevoli, che riuscivano a scorgere davanti a sé quanto era invisibile persino al tempo.

Si disciolsero le nevi, rumoreggiarono e poi cessarono i temporali primaverili, una breve estate con il suo caldo fasullo e la polvere corrosiva smise d’investire marmi e graniti. La polvere fu lavata dalle piogge autunnali, e nuovamente la notte e la mattinata argentavano i rami degli alberi e gli spigoli dei palazzi, con la fitta brina aghiforme.
Evgenij Pavlovič non si assentava mai dal penitenziario in cui si era abituato, con cui familiarizzò e in cui si fuse, divenendo parte integrante delle sue mura e il proprio passato, passato di generale maggiore, di professore dell’Accademia giuridico-militare, era morto per lui, come se qualcuno lo avesse cancellato con un semplice e deciso tratto di matita rossa.
Un sofà nell’angolo della stanza del comandante divenne per lui la casa; le pareti, rivestite di maiolica, dell’ex stanza da bagno degli ex proprietari della palazzina, in cui adesso era stata collocata la caldaia del bucato, divenne il suo mondo.
Nella stanza da bagno era sempre caldo. Mentre negli ampi locali con altissimi soffitti regnava il freddaccio, impregnato di fumo e di puzza di tabacco forte, lì dentro scoppiettavano e si sprigionavano le scintille da vecchie palizzate, portoni e porte strappati chissà da dove, ciocchi di travi e di solai delle case in rovina, bruciati nella stufetta della caldaia del bucato.
Nelle nubi calde del vapore si affaccendava l’esile corpicino, che si spostava affrettatamente dalla caldaia alla vasca per il bucato e ai soldati della Guardia Rossa piaceva fare un salto per scaldarsi dalla «generalessa», com’era stato soprannominato da loro Evgenij Pavlovič.
Si accomodavano sul davanzale della finestra, sullo spigolo della vasca di marmo e, accendendosi una sigaretta arrotolata a mano, si mettevano a chiacchierare delle loro faccende domestiche, dei parenti, degli amici e dei conoscenti, della rivoluzione; invece, durante le lunghe serate buie, si raccontavano a bassa voce le favole.
Evgenij Pavlovič, con scarponi bullonati in cui sprofondavano le sue gambette secche avvolte nelle pezze da piedi, con le lise braghe da soldato e una camicia d’ordinanza sbottonata; insaponava e sfregava, insaponava e sfregava. La schiuma di sapone lievitava con migliaia e migliaia di bolle, avvolgeva delicatamente le sue mani rosse screpolate, mentre tutto attorno gorgogliava e ribolliva l’acqua e sguazzava la biancheria tuffata.
Gli pareva che ogni cosa fosse come nell’infanzia, nella lavanderia della casa paterna, persino la monotona voce del narratore di turno di favole, giungendo all’orecchio attraverso il vapore opalino, somigliava alla voce d’una loro domestica, di nome Avdotja.
Dopo aver caricato la caldaia del bucato con un mucchio di biancheria sporca, lasciandola in ammollo per la notte, il generale andava nella stanza del comandante e, riempiendosi la pancia con il liquido marrone e un tozzo di pane di segale razionato, si metteva a dormire.
Non appena una partita di biancheria era stata lavata ed asciugata, Evgenij Pavlovič si lavava personalmente a lungo e con molta cura, si pettinava i suoi capelli tagliati a spazzola, si metteva le braghe di gala con le bande rosse da generale, la giubba grigia coi risvolti rossi e, tutto piegato sotto il peso della cesta, portava la biancheria nelle celle per consegnarla ai detenuti.
A poco a poco, senza accorgersi, aveva acquisito tutti i modi di un’autentica lavandaia.
Esaminava la biancheria sporca controluce, palpava la stoffa ed era in grado di stabilire a priori le eventuali difficoltà e il risultato del lavaggio. Discuteva sui prezzi con i committenti, usando la voce stridula d’una vera donna-lavandaia ed era assai strano notare come a questa donna tremolasse sul mento una appuntita barbetta argentea.
Se qualcuno dei clienti osava rimproverarlo per la presenza sulla biancheria lavata di colore giallo o di macchie, il generale metteva il broncio, diveniva paonazzo di rabbia e furiosamente scagliava la biancheria contro il malcapitato, gridando con il suo falsetto irritato: «Giallo, macchie? Se la lavi da sé allora! Non pretenderà, per caso, che per una misera kerenka, le consegni la biancheria inamidata ed apprettata? Adesso che io lavi per lei? No, grazie tante, neanche per sogno! Gran signore dei miei stivali!»
Detto ciò, girava risolutamente le spalle al cliente sbigottito e spiazzato.
Il generale cominciò persino ad accorgersi della presenza in se stesso di certi aspetti d’avidità e d’avarizia da donnacciola, che, tuttavia, non gli provocavano alcun rammarico, ma viceversa gli suscitavano addirittura una gioiosa allegria. Usufruiva, per ordine del comandante, di una razione doppia del cibo per il lavoro di lavanderia; perciò il generale non acquistava mai nulla ai mercatini ambulanti, come facevano i detenuti e i soldati della Guardia Rossa, per cercare d’arricchire il pasto di qualche prodotto.
Si comprò soltanto un bauletto ferrato con una serratura ingegnosa a suoneria, dove metteva il suo abbigliamento di gala da generale e, sempre lì, depositava in uno degli angolini tutta la cartamoneta colorata, guadagnata con il bucato. Nello stesso bauletto era conservato con la massima cura il regalo di Turka il rapinatore – il totem d’oro di Buddha.
Spesso, durante le sere, Evgenij Pavlovič prendeva il tè in compagnia del comandante. Bevevano il tè e conversavano, parlando un po’ di tutto.
Il più delle volte il comandante affrontava il discorso dell’amore.
Il comandante desiderava ardentemente trovare una donna che fosse affine al suo cuore. Il popolano della provincia di Novgorog, emigrato nella capitale per lavoro, poi arruolatosi e combattente nella guerra zarista come un sottufficiale superiore, il comandante Kuchtin aveva gusti raffinati e un cuore sensibile e sentimentale. Durante queste serate capitava che entrambi condividessero anche un bicchierino o due di vodka casereccia e il comandante, un po’ stordito dall’alcool, con le guance di stearina d’un leggero colore rosa, seduto al tavolo di fronte ad Evgenij Pavlovič, diceva: «Tu, fratello Adamov, entra nel merito del mio ragionamento. Certo, oggi come oggi, non è proprio il momento giusto per cercare una relazione duratura con una donna, ma dentro di me ci sono il tormento e la smania forti di avere una femmina come la voglio io. Giudica tu stesso – che ne dici? – se sia allegra la mia vita con quest’occupazione. Fare da cane da guardia a gentaglia di ogni specie e spedirla al creatore nel regno delle fosse?! Per contrastare tutto questo, io certo non apro bocca – cosa ne potrei sapere io?! E se alla rivoluzione serve, che Kuchtin s’imbratti le mani nel sangue per la lotta contro tutti i nemici e le canaglie, Kuchtin non dirà mai una sola parola contro. Pur se, a volte, tutto ciò è proprio insopportabile! Sai, io sono già attempato, ormai sto per compiere i trent’anni! Dalle nostre parti si sposano sovente attorno ai diciotto anni per mettere su casa con i figli e tutto il resto. Io invece, tranne che accoppiarmi con le donnacce, non ho mai avuto una donna come si deve, una donna tutta mia, bella calda, che fosse per me solo. Il cuore che ho, però, è quello di un maschio popolano, terra-terra, che tiene assai al proprio seme. E’ solo che desidero sposarmi con una donna istruita e di ceto alto. Ora una così si può trovare. Le femmine della nostra cerchia sono tutte ottuse e insignificanti come le brenne. Io invece vorrei trovarmi una giovane nobildonna, diciamo una contessa: che fosse pulita, con le maniere dolci e che lavasse i musi ai figlioli e pulisse i loro nasi e poi insegnasse loro anche la lingua francese e il pianoforte. Ecco, è una femmina così che cerco, Adamov. La tratterei con ogni riguardo e la porterei, come si suol dire, sul palmo della mano e non degnerei tutte le altre femmine neanche d’uno sguardo. Ah? Adamov, mi riuscirà o no questa cosa? Tu, che sei un vecchietto acuto, dammi il tuo parere!»
Il generale alzava di scatto sul comandante le sue fessurine divertite degli occhi giocondi.
«Non saprei proprio» – diceva. «E come mai, lei vorrebbe sposare per forza una contessa?»
Il comandante, nel protestare e offeso, batteva le mani.
«Ehi, perché non riesci a capirmi, ma guarda un po’ e tu saresti un professore?! Come mai, come mai?! E’ perché soltanto una donna aristocratica saprebbe educare i figlioli in modo giusto! Io non riesco a cancellarmi dalla testa questo: il mio genitore, defunto, faceva il cocchiere nella tenuta di Novgorod dei conti Kurakin. E’ lì che mi è capitato spesso di vedere i figlioli del conte. Erano vestiti di tutto punto, puliti e ordinati, sapevano in che modo muovere il piedino, come fare dei cenni con le manine; cinguettavano in francese come dei canarini. E io al loro confronto: tutto irsuto, spettinato, il muso mai lavato, l’unica bretella delle braghe lise sempre rotta e le braghe che calano giù bisogna tenerle su con le mani. E se aprivo la bocca per parlare, non spiccicavo altro che un sacco di parolacce. E’ lì che ho visto una contessina. Aveva i capelli del colore del grano e gli occhi azzurro mare. E’ una così che vorrei sposare. L’avrei cullata per notti intere!»
«Lei, Kuchtin, ha la fantasia malata» – replicava il generale. «Peraltro, lei è un uomo scombinato: bolscevico, nemico dei borghesi e vorrebbe sposare una contessa! I suoi figli cresceranno, sapranno sbattere i tacchi, cinguettare in francese, ma saranno nemici della rivoluzione e i nemici suoi. Così verrebbe fuori la vera contraddizione classista, in cui sarebbe lei, in primis, a rompersi il collo. Lei continuerebbe a fucilare dei borghesi nemici, invece la sua signora-contessa si adopererebbe per insegnare ai figli l’inno: “Dio, salvi l’imperatore!”.»
Il comandante, perplesso, sbatteva per qualche secondo le ciglia, poi batteva un pugno sul tavolo.
«Col cavolo!» – urlava. «Col cavolo! Dici fesserie, Adamov. Di quale razza di inno “Salvi l’imperatore” parli, se le dirò che dovrà educarmi i figli da veri bolscevichi! Per far sì che non siano ignoranti grigi, e non si soffino il naso nel pugno, ma possano apprendere tutte le scienze e diventino veramente intelligenti.»
«E lei crede che la signora le darebbe retta?» – domandava il generale ancor più maliziosamente.
Il comandante impallidiva.
«Se non mi darà retta, allora si potrebbe darle una lezione: con la mano o la cintura.»
Il generale rideva.
«Insegnare alla contessa con la cintura? No, non ne verrebbe fuori nulla di buono. Smetta di dire sciocchezze, Kuchtin. Sarebbe meglio se si trovasse una donna di campagna brava e mite; invece con una contessa si farebbe venire soltanto un’ernia.»
Il comandante saltava in piedi e rabbiosamente beveva d’un fiato l’ultimo bicchierino di vodka.
«Me la troverò» – diceva, – «e non potrai dissuadermi, qualunque cosa mugugnassi contro!»
La lampadina si spegneva. Entrambi si mettevano a dormire. Uno con la bramosia d’una dolce contessa comunista bionda e occhiazzurra, l’altro senza bramosie di sorta.

Svanì l’autunno. Gli aghi della brina notturna e mattutina divennero più robusti, fitti e pungenti, mentre la prima neve, debole e indifesa, cadeva e si scioglieva, invano cercando di fasciare, con il suo soffice manto, ferite e piaghe marce della città sofferente.
Il tempo si capovolgeva, capitombolava, faceva acrobazie e capriole sui nuvoloni bassi, ridacchiava sguaiatamente coi fischi e gli ululati del vento. Il tempo rideva a crepapelle e scherniva, volgendo lo sguardo a ponente. Lì, all’occidente, gente frettolosa si era messa ad appiccicare sui muri cittadini e sulle fatiscenti costruzioni di campagna dei manifesti colorati con le righe per incise dei proclami. Sui manifesti, per tutta l’estensione del foglio, s’impennava un faccione carnoso dipinto con le guance flaccide da mastino, gli occhi gonfi e dei biforcuti baffi pendenti. Il colletto della giubba dell’uniforme stringeva talmente forte il suo grosso collo grinzoso, da formarne attorno delle specie di taralli che calavano giù sul suo petto a balze. Sulle sue spalle si arricciavano le lunghe frange delle spalline d’oro da parata, mentre gli occhi dell’uomo ritratto esprimevano la vera minaccia.
Sotto le guance cascanti da mastino c’era scritto su un nastro tricolore: «Generale Judenič».
I proclami sbraitavano i rimproveri sul disonore della capitale Mosca dalle cupole d’oro. I proclami esortavano i figli fedeli della patria ad annientare, distruggere, liquidare le canaglie infedeli, entrate in combutta con i servi dell’anticristo e il potere giudeo.
Lungo le strade sconnesse, si radunavano e affluivano nello stesso punto, come confluiscono le acque di piena primaverile dai piani scoscesi nel fossato profondo, le truppe armate più disparate, coi colbacchi cosacchi, coi caschi d’acciaio tedeschi, coi berretti a visiera inglesi, per fluire insieme su Pietrogrado.
In una delle giornate invernali nel penitenziario arrivò un uomo con il colbacco siberiano dalle lunghe orecchie da lepre. Aveva la barba alla cappuccina delle icone e gli occhiali con le lenti spesse come fondi dei bicchieri. Una stanghetta degli occhiali era rotta ed era attaccata con un filo di seta gialla.
L’uomo era arrivato per arruolare dei volontari nei reggimenti della Guardia Rossa, per combattere le truppe nemiche Bianche, comandate dal generale con le guance cascanti da mastino. Il governo della repubblica dei Soviet prometteva ai prigionieri volontari l’oblio di tutte le colpe e il condono totale. Alla domanda dell’uomo su chi fosse disposto di combattere per la Repubblica dei Soviet, fecero un passo avanti la metà degli uomini reclusi.
L’altra metà, sogghignando forzatamente e con gioia maligna, fissava le gibigiane nervose delle lenti sul naso dell’uomo col colbacco siberiano.
«Va bene» – disse l’uomo, abbagliando il comandante con la luce delle fiamme bianche delle lenti. «Registrare e accompagnare scortati tutti i volontari, verso sera, nelle caserme dell’equipaggio di guardia.»
Data la disposizione, l’uomo con gli occhiali volle visitare tutto il penitenziario, entrando in ogni minimo particolare con attenzione rapida e acuta.
Aprendo la porta della stanza da bagno, vide le nuvole della nebbia opalina e le lenti degli occhiali gli si velarono di una finissima rugiada.
«E’ la lavanderia?» – L’uomo chiuse la porta e sollevò le gibigiane delle lenti offuscate sul comandante. «E’ un’ottima idea! La ringrazio per l’iniziativa, compagno! Lei è il primo di averlo pensato, bravo!»
Il comandante avvicinò le dita alla visiera e, impazientemente, cercando colpire ancor di più l’uomo con gli occhiali, disse in fretta: «Mi permetta di riferire, compagno commissario. Una lavanderia non è una meraviglia, ma abbiamo una lavandaia davvero meravigliosa. Indossa le braghe ed è un ex generale. E’ un ex generale e un ex professore perfino. Peraltro è un vecchio talmente diligente e bravo, che non pare neppure essere un borghese.»
Il commissario, stringendo un occhio, guardò il comandante con un’espressione strana e, senza dire nulla, riaprì di scatto la porta della stanza da bagno. Evgenij Pavlovič si volse e sbatté le mani, liberandole dalla schiuma.
L’uomo con gli occhiali gli si avvicinò in modo rasente.
«Mi scusi, lei è un ex generale?» – domandò educatamente.
Evgenij Pavlovič, come se dubitasse della reazione, dapprima aveva indugiato a rispondere. Si asciugò le mani bagnate sulle braghe e soltanto dopo, sollevando in sù la barbetta, rispose.
«Sì, lo sono.»
«Quale ruolo copriva nelle forze armate zariste?»
«Io non ero nel servizio effettivo. Ero professore della storia del diritto all’Accademia giuridico-militare» – rispose Evgenij Pavlovič ad occhi abbassati, come se se ne vergognasse.
L’uomo con gli occhiali si volse verso il comandante e lo trapassò silenziosamente col fuoco delle lenti, che brillarono, benché fossero coperte dalla finissima rugiada, in modo micidiale, così che il comandante fece persino qualche passo indietro. L’uomo, tuttavia, non disse al comandante una sola parola. Prese Evgenij Pavlovič sottobraccio.
«Generale, a lei dispiacerebbe, se la pregassi di venire con me in automobile al quartiere generale della difesa?»
«Per quale ragione?» – chiese il generale con prudenza.
«Le spiegherò tutto dettagliatamente sul posto. Adesso, però, vorrei porle una domanda concreta. La nostra ripubblica» – l’uomo con gli occhiali evidenziò la parola “nostra” in modo breve e staccato, – «sta combattendo le orde Bianche! Ora non c’è più tempo per affrontare discussioni intransigenti, per le rivalse e le offese. Ora tutti quelli in cui batte un cuore vivo e chi ha un vero animo patriottico dovrebbero schierarsi dalla nostra parte. Lei, generale, ha l’istruzione e conoscenze importanti. Vorrebbe aiutarci?»
Il generale rimase zitto. Il comandante gli diede uno spintone da dietro, invisibile per gli altri, e fece gli occhi grossi. Evgenij Pavlovič si mise a ridere sommessamente e disse: «Se posso essere utile…»
Dopo un po’ di tempo, il generale aveva già messo il suo bauletto nell’automobile del commissario. Non fece in tempo neppure a cambiarsi e rimase con la camicia d’ordinanza, ma si mise sopra il pastrano di generale. Non possedeva altro.
L’uomo con le lenti sorrise.
«Caro generale» – buttò là, – «sarebbe meglio se lei nascondesse i suoi risvolti “rivoluzionari”. I tempi oggi sono agitati e la mia macchina con un passeggero così lontano dall’accettazione comune, potrebbe fare da bersaglio a qualche patriota. Noi cercheremo di vestirla in un modo più moderno.»
L’uomo con gli occhiali si calcò il colbacco siberiano in testa e tacque, proteggendosi la bocca dal vento. Rimasti fermi sull’incrocio d’una strada, si scoprì un po’ la bocca e domandò: «Per quanto tempo lei ha fatto… da lavandaia?»
«Quasi un anno.»
«Perché non ha cercato per sé un’occupazione più adeguata, non è andato a lamentarsi e ad avanzare rivendicazioni?»
Il generale guardava il susseguirsi della strada difficilmente percorribile, piena di gente. Nei pressi della loro macchina ferma per un intoppo passò una formazione dei marinai, baldanzosamente spiegando le braghe scampanate come vele ondeggianti e la schiuma dei riccioli dei capelli sotto i berretti senza visiera. I marinai battevano fragorosamente il suolo con gli scarponi bullonati e cantavano a squarciagola:

Rotola, rotola mela-melina, scagliata da Judenič,
quando t’imbatterai nei marinai avrai la brutta fine!

Il motivetto insistente continuava girare e rigirare vorticosamente nel nevischio della strada affollata. Il generale accompagnò con lo sguardo il drappello dei marinai e solo dopo rispose al commissario: «Lei, probabilmente, non ci crederà, ma per la prima volta nella vita mi sono sentito veramente utile.»
 
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view post Posted on 20/3/2012, 16:07

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Capitolo Dodicesimo


La città di Pietrogrado, per difendersi, lanciava nel combattimento distaccamenti, reggimenti e divisioni delle Guardie Rosse, come una stazione radio lancia le onde sonore nell’etere. Distaccamenti, reggimenti e divisioni piombavano sulle orde nemiche delle Guardie Bianche con attacchi frequenti, ma poco efficaci. La radio-stazione bellica funzionava sull’onda corta, raccogliendo in fretta e furia gli atomi dell’energia umana.
Dopo aver sferrato un colpo al nemico, le formazioni Rosse retrocedevano sanguinanti, assordando la città con le voci sulle sconfitte e le disfatte.
Affluivano unità combattenti fresche, ma ugualmente, dopo aver assegnato un debole colpo secco al nemico, si ritiravano indebolite dalla fame, dalla catastrofica mancanza di munizioni, dalla sibilante propaganda nemica che s’intrecciava ad ogni angolo come grovigli di serpi grigie.
Le strade maestre, sconnesse e impantanate, zuppe dell’orina di cavalli e del letame, come le strade vicinali innevate furono disseminate di carcasse di cavalli, di carri sfasciati ed abbandonati, di cannoni rovesciati.
Ormai da tre giorni sul colle del poggio nei pressi del borgo Gatčina, stava malinconicamente piegato su un fianco un autoblindo scrostato. Attorno, senza sosta, si affaccendavano i meccanici, con martelli rovinati e tenaglie scheggiate, invocando ogni sorta di maledizioni al gonfio borioso tempo beffardo che rotolava insensibile contro la vita, spietatamente minaccioso.
Tuttavia nessuno stratagemma del tempo poteva estirpare e spegnere la vita. La vita si dava da fare con tenacia inaudita sulle strade sconnesse, nello scatenato fragore rombante dei cannoni. La vita non badava agli sputi scoppiettanti del piombo rovente delle mitragliatrici, lanciati per romperle le ossa e per annegarla nel sangue, per annientarla.
Intanto lontano dalla prima linea rovente del fronte, non più sul manifesto, ma sulle grosse spalle vive, si accigliava, si corrugava il faccione da mastino del generale Judenič, che frustava furiosamente, con lo staffile dei cosacchi, il deretano del suo cavallo bianco e dava violentemente di sproni.
Il generale Judenič assomigliava al tempo. Era ugualmente grosso, minaccioso e scuro in faccia, com’erano minacciose le grosse nubi nere del cielo su Pietrogrado. Era pieno di malvagità, rabbia e astio nel volere, al pari del tempo, schiacciare la vita, incarnatasi per lui nell’armata nemica.
Al generale Judenič era tutto incomprensibile in questa strana armata.
Invece dei drappi di velluti, sete e broccati, dipinti con croci iridescenti e spessi strati di oro zecchino dello sfarzo pesantemente opprimente dell’impero, a quest’armata fungevano da bandiere i fazzoletti rossi di cotone delle operaie, che combattevano nelle file dei drappelli, schierate contro il generale Judenič, al pari dei mariti, dei fratelli e degli amanti.
Quest’armata non organizzava né parate, né cortei solenni nelle città conquistate, né servizi di te deum, né processioni di ringraziamento sulle piazze ancora insanguinate dai combattimenti, ma, silenziosamente, premeva nell’incontenibile stimolo a voler andare avanti, convulsamente stringendo mascelle e carabine; e negli occhi dei soldati caduti di quest’armata, anche dopo la morte si poteva leggere un volitivo rimpianto per il fatto che un pezzetto di piombo rovente, scagliato nel loro petto per mano del soldato Bianco, tolse loro per sempre la soddisfazione di scontrarsi, faccia a faccia, con il generale Judenič.
Nel guardare dentro a quegli occhi, il generale trasaliva con tutto il suo pingue corpo e le flosce guance da mastino cominciavano a tremargli già solo al pensiero di questo scontro.
Sovente, entrando in una città conquistata, in sella al suo ben nutrito cavallo bianco, egli ponderava, deluso e insoddisfatto, sull’impressionante ostinazione da formiche e lo stoicismo di questa vita, nell’aspirazione e nello sforzo di sconfiggere persino sua maestà – il Tempo.
Rifletteva sull’ingratitudine di questo paese cui, invece della fame, del dolore e della sofferenza per la conquista dei beni sconosciuti nel futuro incerto, egli stava portando ora, adesso, dentro i convogli ben sigillati, vere, sofficissime pagnotte di pane bianco e panetti grassi di burro canadese pressato. Centinaia di migliaia di mani, sollevate contro la marcia dell’avanzata del generale Judenič, non prendevano la sua farina e il burro, ma li respingevano con rabbia e sdegno.
Era questo, che il generale non riusciva proprio a comprendere.
Ogni sera, leggendo i bollettini operativi del comando, che scorrevano, come plotoncini lilla perfettamente allineati, sopra una bella striscia di carta di produzione inglese, liscia e frusciante, il generale Judenič s’imbestialiva, gonfiava le guance e strabuzzava gli occhi. Le sue corte dita nodose appallottolavano, sgualcivano furiosamente la pergamena britannica. Il generale Judenič raccoglieva con urgenza in riunione i capi degli stati maggiori e, con rauco basso tono da sottufficiale, esigeva da loro di rinforzare l’irruenza degli attacchi, per piegare e porre fine all’incomprensibile resistenza dei difensori di Pietrogrado.
Nell’etere si mettevano a ronzare i radiotelegrammi e la mattina dopo i reggimenti della gloriosa armata russa, vittoriosa nel corso degli ultimi due secoli, si buttava in accaniti attacchi, stringendo sempre più stretto il cappio attorno alla città agghiacciata, e già crepitavano gli ordigni di schrapnel sopra i parchi dei borghi Zarskoe Selo e Gatčina; e i mirini dei cannoni palpavano le ciminiere delle fabbriche nelle periferie di Pietrogrado.

Lo stato maggiore di divisione della Guardia Rossa fu dislocato nelle isbe di uno dei tanti villaggi d’Ekaterina. Gli imperatori e le imperatrici russi avevano piazzato nei dintorni di San Pietroburgo un gran numero di villaggi onomastici dedicati ai personaggi regali, come se fossero dei loro figli illegittimi.
Il fragore delle cannonate si avvicinava sempre più al villaggio d’Ekaterina e gli ordigni schrapnel fischiavano sempre più acuti e bassi, squarciando la neve con le loro pallottole sibilanti.
Lungo la strada rotabile, oltre una garitta di guardia, crollata come una casetta di carte da gioco, correva a tutta birra senza fiato, frustando i cavalli attaccati ai carri, una squadra per l’approvvigionamento alimentare della divisione, scappando dal fuoco nemico. Sui carri non c’era neppure l’ombra dei rifornimenti alimentari ed erano stati riempiti sino all’orlo di ogni sorta di cianfrusaglie: vasi coi gerani spezzati e congelati dal freddo, sedie e divani zotici coi piedini divaricati, materassini di piume, letti.
Su uno dei carri saltellava una statua di marmo di una ninfa, legata in piedi al carro, presa, probabilmente, in uno dei parchi, annesso a qualche palazzo.
Il suo braccio affusolato e la mano con le graziose dita paffute di una cortigiana nullafacente del diciottesimo secolo, erano rivolti al cielo e si sollevavano su ogni dosso della strada; sembrava che una pallida dea volasse sopra il carro, benedicendolo in questa fuga precipitosa e infruttuosa.
Gli ordigni giungevano sempre più bassi e cadevano sempre più fitti; ed ecco la strada fu scossa da uno scoppio fragoroso e una fontana di fuoco investì in pieno un carro in corsa, rovesciandolo, mentre le sue ruote continuarono a ruotare a vuoto nell’aria, cigolando su una cinica nota. Il carro rovesciato investì i cavalli, facendoli stramazzare al suolo. L’ultimo carro con la ninfa marmorea urtò contro il carro rovesciato.
Svanì lentamente il fumo dello scoppio. La ninfa continuava ad oscillare sopra il carro, ma senza braccio. Il petto e il volto furono ricoperti da una spessa scia rosso-scarlatta e attorno al suo collo si avvolse, come un boa, una zampa del cavallo.
In lontananza apparvero le sagome grigie degli uomini con le gambe allargate goffamente che, usciti lentamente da un boschetto, s’arretravano di schiena. Sotto il fuoco rovente degli attacchi delle Guardie Bianche stava retrocedendo l’ultima copertura dello stato maggiore di divisione.
Sul terrazzino dell’isba in cui c’era la sede dello stato maggiore, uscì il comandante di divisione e avvicinò agli occhi il binocolo. Era allarmato dal fragore vicino dei tiri dei mortai, ma la situazione reale del fronte gli era oscura. Ancora poco prima, il collegamento telefonico con il fronte gli aveva assicurato che tutto era sotto controllo e che gli attacchi dell’Armata Bianca erano stati frenati dalle riserve della Guardia Rossa.
Il binocolo appena sollevato agli occhi, cadde giù e rimase a dondolare sul cinturino.
Il comandante di divisione si strappò dalla testa il colbacco, lo sbatté con rabbia al suolo ed imprecò con una breve sfilza di parolacce micidiali. Tirò di scatto la porta dell’isba e urlò: «Tutti fuori! Veloci! Lasciate al diavolo tutte le scartoffie della malora! Tirate fuori le mitragliatrici! I bianchi ci hanno sfondato la copertura!»
Dalla porticina gobba, con ronzio e calpestio di piedi, come uno sciame di api scacciate con fumo, cominciarono ad uscire a stento, nella calca, gli aiutanti dello stato maggiore con le carabine in mano. Alla soglia dell’uscio si formò un groviglio umano. Gli uomini all’interno, occupati alla mitragliatrice, non vollero attendere finché si placcasse la confusione. Avvicinarono la mitragliatrice alla finestra, sollevarono quella “sputa pallottole” con la bocca di fuoco digrignata messa in avanti e, dondolandola per conferirle più forza, la sbatterono contro il telaio della finestra. Il telaio si ruppe con fracasso, tintinnio dei vetri frantumati, scricchiolio delle cerniere arrugginite; cadde fuori e la mitragliatrice rotolò morbidamente nel cespuglio del ciliegio selvatico sotto la finestra.
Il comandante di divisione stava vicino al terrazzino dell’isba e agitava la mano in aria tenendo stretta nel pugno una pistola a tamburo.
«Tutti in catena, compagni! In catena! Si va verso il bosco per rinforzare la protezione! Mitragliatori, sistemate il vostro “mops” sul limite del villaggio! Dài, muovetevi, accidenti! Svelti, compagni, svelti!»
Detto questo, corse per raggiungere lo schieramento degli uomini che avanzavano perfettamente allineati, messi per traverso alla strada e, sempre correndo, mettendo le mani a megafono, gridò, voltandosi indietro: «Gre-ben-kov!.. Manda qualcuno al tribunale per dire di svignarsela! Non c’è tempo per processare! Dì loro di finire i condannati e di scappare a gambe levate!»
Il capo di stato maggiore di divisione toccò la schiena di un giovane soldato della Guardia Rossa con gli stivaloni di feltro giallo, arabescati di vari colori d’anilina e lo fece andare al margine del villaggio. Il soldato corse dondoloni, come un papero dalle zampe gialle, sopra un leggero manto di neve, lanciando in alto la carabina.
Il soldato con gli stivaloni gialli si avviava verso un’isba che aveva un muricciolo in mattoni. Sul terrazzino d’ingresso dell’isba stava seduto un soldatino di statura piccola-piccola con una bonaria faccia tonda, fittamente arabescata da allegre minute efelidi dolcissime, e minacciava di infilzare sulla baionetta della carabina, sporgendola a destra e a manca, un gruppo pressante, accalcato attorno a lui, di cupi omoni finlandesi.
«Alt, indietro!.. E sì, ora condanneranno sicuramente il vostro amico, kulak, asociale e sfruttatore, e gli riempiranno la pancia grossa… col grano di piombo.»
Gli omaccioni finlandesi tacevano, ma gettavano al soldatino degli ottusi bestiali sguardi di traverso; minacciosi e orrendi.
«Kimka!» – gridò, avvicinandosi, il soldato con gli stivaloni di feltro giallo. «Ma che, siete matti? Chiudete la baracca! E’ l’ordine del comandante di divisione! Siamo circondati dai cadetti!»
Kimka, il lentigginoso, indicò con indifferenza i finlandesi.
«Intanto vado ad avvertire, dài un’occhiata a questi e se si metteranno a spingere, bucali la pancia» – disse flemmaticamente ed entrò nell’isba.
I finlandesi tesero l’orecchio. Dentro l’isba scoppiò sordamente, come attraverso un cuscino, uno sparo. Gli omoni finlandesi cominciarono a balbettare qualcosa velocemente nella lingua loro, e il soldato rosso con gli stivaloni di feltro giallo avvertì i brividi lungo la schiena. Subito dopo lo sparo, dall’isba uscì un uomo lungo e magro un po’ ingobbito che chiudeva, strada facendo, la fondina; era il capo della corte marziale. Le sue pallide labbra si contraevano nervosamente.
«Via, andatevene via!» – si mise ad urlare ai finlandesi. «Se no, vi stacco la testa a tutti quanti, brutti parassiti, accidenti a voi, sanguisughe!»
Gli omaccioni finlandesi corsero via a perdifiato, soltanto i codini di pelliccia dei loro colbacchi baluginavano dietro gli alberi e gli steccati delle palizzate. Un soldato della Guardia Rossa, anch’egli con gli stivaloni di feltro multicolore, uscito subito dietro il capo del tribunale, si strinse più forte sulla pancia il cinturone con le giberne nuove e corse per raggiungere la catena dei compagni, guidata dal comandante di divisione.
«Trasmetti al comandante che noi ci avviamo al villaggio Antropšino!» – gli gridò dietro il capo della corte marziale.
Tutti gli addetti della corte marziale si riunirono nei pressi del terrazzino dell’isba. Un vecchietto mingherlino nel pastrano un po’ stropicciato, ma ben adattato al suo corpicino secco, con un elmetto di lana in testa che gli calava leggermente su occhi e orecchi, era uscito per ultimo dall’isba e seguiva attentamente, dietro le spalle degli altri, lo svolgimento dell’avanzata della catena umana guidata dal comandante di divisione; l’ispida barbetta argentea del vecchietto si contraeva e si contorceva per la forte tensione.
«Compagni, avviamoci, forza!» – disse il capo della corte marziale e s’incamminò lungo la strada.
Gli altri lo seguirono, trascinandosi in frotta.
Avevano quasi raggiunto le ultime isbe del villaggio, da dove un largo viale li avrebbe portati nel boschetto, quando all’improvviso, proprio da quel boschetto, così come sbucano fuori su una lingua di terra non arata le lepri da dietro le spighe di grano, sbucò fuori una cinquantina di cavalieri con i caschi d’acciaio tedeschi in testa.
Si trattava dei cavalleggeri del colonnello Bermonte-Avalov. Quel tale colonnello senza scrupoli che era assai abile a vendersi al miglior offerente spada, onore, cittadinanza dietro un allettante compenso in marchi tedeschi, come pure in rubli russi, come pure in sterline inglesi.
I cavalleggeri avanzavano disordinatamente. Le sciabole sguainate splendevano pallidamente nell’aria innevata.
Il capo della corte marziale si fermò ed estrasse nervosamente dalla fondina la pistola a tamburo.
«Sparpagliarsi, forza! Correte, fuggite per i cortili dietro le isbe, per gli orti! Chi riuscirà a svignarsela, vada al villaggio Antropšino!»
Il gruppetto di uomini si sciolse e si sparpagliò all’istante.
Il capo della corte marziale si nascose dietro il tronco di un tiglio centenario e, appoggiando la rivoltella al ruvido strato di corteccia, prese di mira il cavallerizzo che cavalcava davanti agli altri. Fece in tempo ad alleggerire il tamburo della pistola di cinque colpi, poi uno dei cavalli lo schiacciò contro l’albero e una sciabola gli lasciò in testa un profondo squarcio.
Gli altri addetti della corte marziale, rispondendo al fuoco nemico, saltando e scavalcando palizzate, cercavano di fuggire per cortili e orti. I cavalleggeri davano loro la caccia, li inseguivano in sella ai cavalli.
Il soldatino della Guardia Rossa con la faccia tempestata dalle efelidi dolcissime e il vecchietto mingherlino con l’elmetto in testa leggermente calante sugli occhi e gli orecchi, stavano ormai per raggiungere il margine del boschetto. Dietro, rantolando pesantemente e battendo il tippete tappete con gli zoccoli ferrati, li stava incalzando un cavallo pezzato. Il soldatino si fermò e alzò di scatto la carabina. Scoppiettò uno sparo, si vide una linguetta gialla di fuoco e il cavalleggero stramazzò al suolo come un grosso sacco. Il cavallo in corsa arrivò rasente al soldatino e si fermò di colpo. Il soldatino l’afferrò per la briglia e si volse verso il vecchietto.
«Compagno magistrato, salga e io mi metterò dietro. Caspita, con un cavallo, siamo a cavallo!»
Aiutò il vecchietto a mettersi in sella e s’inerpicò sulla groppa del cavallo. Un momento dopo il deretano del cavallo baluginò in mezzo alle piante del boschetto e sparì dalla vista.
Oramai finita l’impari rincorsa degli addetti del tribunale, i cavalleggeri del colonnello Bermonte-Avalov cavalcarono via, diretti nelle retrovie delle Guardie Rosse in ordine sparso.
Non appena attorno non ci furono combattenti, vicino alla salma del capo della corte marziale cominciarono a riunirsi, come le iene attorno alle carogne, gli omaccioni finlandesi scacciati prima. Per alcuni secondi stettero fermi in silenzio e, all’improvviso, come se si fossero accordati tra loro, si misero a calpestare il cadavere accanitamente con i piedi negli stivaloni di feltro di qualità pregiata suolati di cuoio.
 
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Capitolo Tredicesimo


«Davvero, abbiamo smarrito la strada. E’ buio pesto! Non si vede un accidente. Peccato, ma saremo costretti a passar la notte sotto i cespugli.»
Evgenij Pavlovič cercò scorgere qualcosa, fissando con lo sguardo sopra la macchia fitta di un cespuglio irsuto sul limite del bosco. Dietro a quella macchia, ad una ventina di passi, una pallida, appena percepibile striscia di neve, diveniva nera e sprofondava nel vuoto buio pesto, che emanava e conferiva un freddo gelido da brividi e una desolazione disperata. In quell’abisso brunito, di tanto in tanto, come se ammiccasse, brillava un puntino sfavillante.
«Rybkin, guardi, sembra che lì ci sia una luce» – disse Evgenij Pavlovič con voce scaldata dalla speranza.
Il soldatino Rosso cercava di forare con gli occhi l’oscurità, ma poi scosse la testa.
«No, è solo stanchezza e fame. E poi, anche se fosse vero, è lo stesso, compagno Adamov. Non possiamo metterci il naso, prima che arrivi giorno. Si può imbattersi nei Bianchi. Arri!.. Ferma, accidenti, sono finiti i vizi, beniamino degli ufficiali!» – sgridò al cavallo pezzato che strattonava con forza le redini.
«Cosa si fa allora?» – domandò malinconicamente Evgenij Pavlovič.
«C’è solo questo da fare: nasconderci nel fitto del bosco, far sdraiare il cavallo per terra, metterci vicino alla sua pancia calda per non ammalarsi per il freddo e passare così la notte.»
Evgenij Pavlovič seguì Rybkin e il cavallo, sollevando a fatica i piedi che si stavano congelando.
Rybkin scelse un posto in cui il cespuglio formava un cerchio, poi tirò, spezzando i rami, il cavallo nello spiazzo interno e, dando alcune pacche sulle ginocchia del cavallo, lo obbligò a sdraiarsi per terra. Avendolo fatto, chiamò: «Venga qui, compagno Adamov! Si sdrai vicino, stretto al suo ventre, gli appoggi i piedi all’interno delle cosce. Vedrà, sentirà caldo come su una stufa.»
«E tu?» – chiese il generale.
«Anch’io mi appoggerò al fianco del cavallo. Tranquillo, noi siamo gente abituata!»
Evgenij Pavlovič si sdraiò. Il calore e i respiri regolari del cavallo gli trasmisero, attraverso il pastrano, un bel calduccio cullante.
Sopra la testa si sentiva il tintinnio cristallino dei ramoscelli gelati. Le nuvole si precipitavano, correvano e si strappavano, aprendo sprazzi nel cielo e permettendo alle luccicanti stelle di un tenue color lilla di affacciarsi sulla Terra.
Rybkin si mosse e sollevò la testa.
«Sta schiarendo» – mormorò, – «si vedono le stelle» – e, tacendo per un po’, aggiunse: «Sono curioso di sapere, se c’è Dio o, veramente, se c’è solo l’aria? Lei, compagno Adamov, che conosce le scienze, me lo spieghi.»
«Ma sei un bolscevico?!» – rispose il generale con tenero stupore.
Rybkin si mise a ridere.
«Sicuro. Ho la tessera in piena regola.»
«Quindi, tu non puoi credere in Dio.»
«E sì, questo è certo» – rispose il soldato della Guardia Rossa, – «ma è tutt’uno: per noi è molto strano stare senza Dio… Noi siamo dei cristiani. Possibile che non si possa unire la verità di Dio con la verità bolscevica?..»
Un sopore chiudeva gli occhi di Evgenij Pavlovič. Il sussurro di Rybkin si fondeva con il delicato tintinnio cristallino dei ramoscelli. Rispose tra il sonno e la veglia: «La verità è sempre una sola, Rybkin. E’ sempre una sola. E ognuno dovrebbe conoscerla e comprenderla. E’ molto difficile spiegare qualcosa in proposito. Può essere anche conciliata, certo. C’è bisogno soltanto d’essere convinti che la verità, alla quale tieni veramente, sia davvero unica e autentica.»
Rybkin si mosse, cercando di coprirsi le gambe con le falde del pastrano liso e diede qualche leggera pacca, con la tenerezza di un contadino, sulla pancia del cavallo che cominciò ad agitarsi.
Il cavallo si tranquillizzò. Rybkin disse: «Anche secondo me, possono benissimo essere conciliate. Certo, noi siamo poco istruiti. Per qualche poluška4 di rame, uno scrivano mi aveva insegnato a leggere a malapena. Ma se si legge, diciamo, il Vangelo e il programma del partito bolscevico, ci si accorge subito che tanto nel Testamento, quanto nel programma, la verità è tale e quale. Gesù Cristo ci teneva e si adoperava per la gente povera, di fatica, e pure i bolscevichi si preoccupano e lottano per far stare meglio i lavoratori. Il fatto però è che la chiesa è sempre dalla parte dei ricchi, in ciò è la colpa dei preti. Perché pure i preti sono uomini e soggetti ai peccati.»
«Sì» – rispose a monosillabi Evgenij Pavlovič.
«Si sente che ha tanto sonno, compagno Adamov. Dorma. Speriamo di cavarcela domani. E se pur non riuscissimo a cavarcela, per lei sarebbe metà della rogna, mentre per me una rogna…»
«Come mai per me soltanto metà della rogna?» – si animò Evgenij Pavlovič, riaprendo gli occhi.
«Secondo il giudizio dei cadetti, lei sarebbe perdonato, in quanto lei è un generale; Rybkin invece, essendo un semplice contadino, finirebbe di sicuro messo al muro.»
«Stai dicendo sciocchezze, Rybkin. Andrebbe davvero malissimo per ambedue. E ora, dài, dormiamo!..»
«Buona notte, compagno Adamov» – disse con un sospiro il soldatino.
Evgenij Pavlovič si strinse ancor di più al ventre del cavallo. Sul punto di addormentarsi, gli tornarono in mente le parole di Rybkin e il generale s’immaginò il suo eventuale incontro con i Bianchi. Tutto ad un tratto avvertì orrore e ribrezzo angosciante. Per porre fine al pensiero orrendo, si calò sugli occhi l’elmetto e affondò il naso nel pelo del cavallo.

«Si alzi, compagno Adamov. E’ ora d’andare. Albeggia.»
Ancora preso dalla mano del sonno, il generale sentì un delicato colpetto alla spalla e aprì gli occhi. Le efelidi delle guance di Rybkin, gli sorrisero dolcemente.
«Dormiva tanto bene, mi spiaceva svegliarla, ma bisogna andare.»
Evgenij Pavlovič affrettatamente si strofinò la faccia con la neve e montò sul cavallo.
Rybkin tirò le briglie.
«E tu perché non sali?»
«Il cavallo si è indebolito. Non riuscirebbe a portarci tutt’e due. Ormai non ci sarà poi tanto da camminare.»
Il soldatino s’incamminò, conducendo il cavallo per le briglie.
Oltre il margine del bosco, dove ieri avevano scorto soltanto una depressione nera, c’era invece una bianca radura innevata, che a sua volta si chiudeva con un rado boschetto di betulle. Non appena attraversato il boschetto di betulle, Rybkin si fermò.
«Guardi, c’è un villaggio» – disse ridacchiando e indicò con un dito. «A averlo saputo, non avremmo passato la notte al ghiaccio. E solo, di chi sarà? Loro o nostro?»
Entrò nel fitto del cespuglio, si accovacciò, guardò a lungo da sotto la mano e con la faccia piena di gioia si volse verso il generale.
«E’ nostro. C’è la bandiera rossa sopra un’isba. Ha visto, la fortuna ci ha sorriso! Andiamo, svelti!..»
Afferrò nuovamente le briglie del cavallo e corse saltelloni sopra la neve, trascinandosi dietro la carabina. Arrivati oramai nei pressi delle prime costruzioni del villaggio, da dietro un’isba sbucò un gruppo di soldati che portava un lungo tronco d’albero.
«Compagni!» – si lamentò Rybkin. «Fratelli! Aiutateci!»
I soldati sentirono le urla, buttarono il tronco d’albero per terra, raddrizzarono le schiene e si voltarono. Rybkin esclamò un sonoro ‘oh’ e si accasciò lentamente a terra, distinguendo sulle spalle dei soldati le spalline con le striscioline dorate. Subito dopo, però, Rybkin si gettò di slancio verso Evgenij Pavlovič.
«Sono i Bianchi!.. Fugga nel bosco, per me è comunque la fine. Io cercherò di trattenerli!» – gridò, appoggiandosi su un ginocchio e alzando di scatto la carabina.
Il generale obbligò il cavallo a girarsi indietro e gli diede il comando, stringendolo coi gambali, di correre avanti. L’animale stanco e affamato, tuttavia, fiutando gli odori del cibo e della stalla, s’intestardì e non volle obbedirgli. Il generale guardò indietro. Tanti altri soldati bianchi, usciti dalle isbe, correvano per raggiungerli. Rybkin tirava furiosamente l’otturatore della carabina e, mettendosi ad ululare, la scaraventò al suolo.
«L’otturatore si è bloccato per il gelo!» – urlò. «E’ la fine! Brutti figli di cagna! Accidenti a loro e a chi li aveva messi al mondo! Che sputino sangue, carogne schifose!»
I soldati Bianchi gli si buttarono addosso. Il generale vide come in tre atterrarono Rybkin. Altri due raggiunsero il cavallo, acchiapparono le briglie e, violentemente, con uno strattone, tirarono giù il generale dalla sella. Dopo aver legato le braccia a Rybkin dietro la schiena con un cinturone, lo sollevarono da terra. Dalla bocca gli usciva un rivolo di sangue. Rybkin taceva. Lo portarono vicino ad Evgenij Pavlovič. Un alto soldato Bianco dalla faccia straniera, si avvicinò ad Evgenij Pavlovič e, sbirciandolo nel viso, gli tirò forte, con uno strattone, la barbetta.
«Vechi caronj!» – disse e sputò. «Ha un pied in foss, eppure balsevik.»
Un altro soldato, scoppiato in una risata, diede un brusco colpo fendente nel fianco di Evgenij Pavlovič con il calcio della carabina di Rybkin. Evgenij Pavlovič vacillò e lanciò un infantile ‘ohi’ di lamento.
Qui successe che, sarà stato per la compassione o per l’impulsività innata, a Rybkin sfuggirono di bocca, di tutto il cuore, parole impensate: «Giù le mani dal vecchietto, lasciatelo stare, non picchiatelo, brutte serpi velenose. E’ vostro lui, è vostro. E’ un generale.»
I soldati Bianchi si scambiarono degli sguardi. Il soldato alto, dalla faccia straniera, si accigliò, arrossì e, celando l’imbarazzo, diede sulla voce: «Vorwärts! A stat magior, marc’!»
 
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Capitolo Quattordicesimo


Evgenij Pavlovič stava fermo davanti alla scrivania e, senza sollevare gli occhi, seguiva le dita rosee infantili, piene di pipite d’unghia, del tenente.
«Lei sarebbe in grado di confermare, in modo ufficiale e documentato, la dichiarazione del soldato della Guardia Rossa, fatto prigioniero insieme a lei, che lei è un generale?» – sentì il generale la giovane voce decisa e ferma dell’ufficiale.
«Certo. Ho libretto di servizio con tutto il mio schedario militare» – rispose il generale. «Ma non capisco, a cosa le serve?»
«Come a cosa serve?» – si stupì il tenente. «Ma questo cambia completamente le cose. Dov’è il suo libretto?»
Evgenij Pavlovič si sbottonò il pastrano, tirò fuori il libretto dalla tasca interna e lo allungò all’ufficiale. Il tenente lo prese con un certo disgusto, lo aprì e, scorrendo con gli occhi il testo, lo lesse. Il suo viso fiorì di rosa, si schiarì e si rasserenò.
«A questo punto» – disse, ripiegando il libretto, – «considero come mio dovere porgerle le scuse per la mancanza di ritegno da parte del nostro personale subalterno. Le posso assicurare, Eccellenza, che queste persone avranno la sanzione disciplinare che si meritano. Lei è libero, Eccellenza. Lo riferisco subito al colonnello. Da noi si avverte una gran mancanza di personale altamente qualificato per le cariche del comando superiore e della corte suprema, Eccellenza.»
Il generale chiuse stancamente gli occhi. Per qualche momento, davanti gli apparve il mondo morto e seppellito dei generali, delle spalline, della subordinazione pietrificata di una cadaverica macchina dell’impero sgretolato e distrutto, personificato in quell’istante da questo soldatino di piombo, seduto di fronte, compenetrato da efficienza d’effetto, da disciplina ferrea, da precisione ridotta all'ubbidienza. Divenne chiaro sino a che punto questa macchina gli fosse ormai estranea, avversa e ostile e sino a che punto egli stesso le fosse estraneo, avverso e ostile. Il generale, come per un attacco di mal di denti, si accigliò, scosse la testa e disse all’ufficiale, lentamente e scandendo parole:
«E lei crede che io potrei servire le vostre forze armate?»
Il tenente sorrise.
«Ma perché no, Vostra Eccellenza?» – rispose, senza comprendere, senza dubitare che la frase del generale si sarebbe potuto intendere diversamente. «Lei non è un qualunque portinsegna in tempo di guerra, proveniente dai ranghi degli studenti. Nessuno potrebbe sospettarla mai di bolscevismo volontario, Eccellenza?»
Il generale sogghignò.
«Lei mi ha frainteso, signor tenente» – lo contraddisse, – «volevo dire propriamente, che per me il servizio nelle vostre forze armate è inaccettabile eticamente.»
Il tenente fece cadere dalle mani sulla scrivania un portasigarette di pino di Karelia e divorò con gli occhi il viso avvizzito.
«Ma lei è impazzito?» – esclamò.
Il generale, con odio improvviso, sorto in lui dal profondo, sentì che la faccia incurante dalle guance rosee dell’ufficiale, con i baffetti neri ben curati sopra di labbro turgido, gli suscitava un vomitevole ribrezzo.
«Cerchi di contenersi nei limiti della decenza» – con la mascella tremante, buttò là al tenente, – «sono più anziano di lei del doppio! Tuttavia mi trattengo dall’affermare che lei sia impazzito se presta servizio nelle vostre forze armate!»
L’ufficiale raccolse dalla scrivania il portasigarette, lo aprì, afferrò e si cacciò in bocca una sigaretta e l’accese nervosamente. I suoi occhi si strinsero e divennero “astuto-predatori” e penetranti.
Si sedette su uno sgabello, incrociò le gambe, appoggiò le mani sopra le ginocchia e, aspirando profondamente la sigaretta, gettò il fumo dalla bocca, in modo intenzionale e sfacciato, sul viso di Evgenij Pavlovič.
«Ma non me lo dica, lei cos’è, un bolscevico?» – domandò con l’ironia beffardamente sprezzante d’un giovincello testardo e scoppiò in una risata fragorosa. «Questa poi, è una vera barzelletta!»
«No, non sono bolscevico!» – rispose Evgenij Pavlovič.
«Perché allora lei non vorrebbe essere al servizio della nostra armata? Chi è lei?»
Il generale si strinse nelle spalle.
«Lei non lo capirebbe» – disse con lo stesso pacato disprezzo con cui aveva parlato un giorno con Priklonskij, – «non sarebbe in grado di capire… Quando un immenso corpo vola nell’universo, nella sua orbita vengono attirati i corpi piccoli, persino contro la loro volontà. In questo modo si forma e appare un qualche, per così dire, settimo satellite… Ma tanto lei non capirebbe niente lo stesso e io considero che parlare con lei e cercare di spiegarle qualcosa, sia del tutto superfluo» – terminò, sentendo che tutto il sangue gli affluiva al viso per l’improvviso odio furioso verso quel soldatino di piombo, che strizzava stupidamente gli occhietti inespressivi di un automa.
Il tenente si alzò dallo sgabello e emise un fischio.
«Cambi la canzone, è vecchia! Capisco, lei fa finta d’essere pazzo.»
Si avvicinò alla porta, l’aprì e gridò nell’antiporta dell’isba: «Zacharčenko! Fai subito un salto da signor colonnello. Digli, che lo prego di venire qua, con urgenza.»
Chiuse la porta e, sedendosi nuovamente sullo sgabello, si mise a scrutare il generale dalla testa ai piedi, con la sfrontatezza indisponente della gioventù presuntuosa.
Evgenij Pavlovič gli girò le spalle.
Non si volse ai passi cadenzati, né allo sbattere della porta. Stava osservando con vivo interesse il cortiletto interno dell’isba su cui si affacciava la finestra. Un maialino pezzato di bianco e nero si stava grattando un fianco contro uno spigolo del truogolo. Un cucciolo di cane, con il pelo arruffato, stava tentando d’addentarlo per il ricciolo agitato del codino. Un altezzoso gallo vecchio, restando fermo su una zampa sola, seguiva malinconicamente, a cresta piegata, con un occhio giallo vitreo semichiuso, i tentativi ardui del cucciolo, come se volesse dire: «Sarei proprio curioso di vedere che cosa saprete combinare nella vita?!»
Evgenij Pavlovič si volse soltanto al richiamo della voce severa del tenente: «Prigioniero!.. All’erta!»
Evgenij Pavlovič guardò e scorse davanti a sé la faccia ben rasata di un pasciuto colonnello, fasciato piuttosto strettamente da un’uniforme inglese con le spalline tedesche sulle spalle, che stava ascoltando un precipitoso rapporto del tenente, leccandosi le labbra gonfie come i tubolari della bici.
Finito il rapporto, fece un passo verso il generale.
«Lei rifiuta di passare al servizio della gloriosa armata nordica?»
Il generale tacque. Le labbra per conto loro si curvarono in un sorrisetto: cheto, serpeggiante, intollerabile, sfuggito al controllo.
«Parlo con lei, risponda!» – alzò la voce il colonnello.
Per una reazione spontanea, gli venne una voglia matta di lanciare una frecciata, pur se fosse l’ultima, ma tale da far esplodere con un’offesa quella faccia levigata da un rasoio Gillette, del mestierante-mercenario.
Indi, il generale, strizzando un occhio, disse: «Nordica? Per caso avete un’armata in tutti i punti cardinali del mondo?»
Il colonnello si scostò bruscamente come per una frustata. I suoi “tubolari” si mossero, saltarono all’insù, sibilarono: «Lei comprende le conseguenze?»
Ancor più strisciante, intollerante e incontenibile divenne il sogghigno. Gli tornò in mente l’ex consigliere dello Stato dalla barba bianca, che lo avvertiva anche delle conseguenze, lì, nell’immensa sala bianca con la doppia fila di finestre.
Così disse a voce alta: «Comprendo le conseguenze, è lei che non riesce a comprendere le cause!»
Il colonnello gli lanciò uno sguardo d’ira. Gridò.
«Le domando per l’ultima volta: rifiuta di servire la Russia?»
Il colonnello Bermonte-Avalov era veramente agitato e preoccupato. Stretto in una divisa militare inglese, con le spalline tedesche e le onorificenze russe, non riusciva a capire questo vecchio, così come il generale Judenič non era in grado di comprendere la città di Pietro, Pitrogrado, che rifiutava da lui il burro e la farina canadesi.
Per risposta, il generale soltanto oscillò indietro e scosse la testa in segno di rifiuto.
«Perquisire il mascalzone!» – ordinò il colonnello, impietrito in faccia.
Le mani dei soldati spalancarono le falde del pastrano, si ficcarono dentro le tasche, si misero, duramente e dolorosamente, a stringergli le costole. Una mano tastò un oggetto nel taschino pettorale della camicia d’ordinanza e lo tirò fuori. L’oggetto scintillò pallidamente.
«C’è una cosuccia, vostra signoria!» – disse il soldato, consegnando l’oggettino al colonnello.
Nella mano larga del colonnello si posò, come nella culla, un totem d’oro di Buddha, il regalo preservato con cura dell’ardito bandito-rapinatore Turka. Il colonnello si chinò per esaminarlo. Nel sorriso dell’insensata saggezza di Buddha, il colonnello scorse una strana similitudine con il sorriso del vecchio con l’elmetto in testa da soldato della Guardia Rossa. Si accigliò e soppesò nella mano la divinità orientale.
«E’ d’oro!» – sogghignò. «E bravo generale! Il rapporto tanto stretto con la feccia bolscevica gli ha insegnato persino a rubare!» – E all’improvviso, imbestialendosi, urlò istericamente: «Dì, chi hai rapinato, vecchia carogna?! Chi?!»
Tremarono pallidamente le labbra senili. Tuttavia il generale non pronunciò una sola parola. Gli sembrava inutile e ridicolo.
Il colonnello gettò il totem di Buddha sulla scrivania.
«Comandi, signor colonnello?» – domandò il tenente mettendosi sull’attenti, leggendo negli occhi del colonnello la decisione presa.
«Fucilare!» – tagliò corto il colonnello, aggiustandosi la cintura di vernice.
«Entrambi?»
«Entrambi.»
«Zacharčenko, portali fuori!» – gridò a pieni polmoni il tenente, anche se il soldato si trovava vicino.

Davanti al muro stavano appoggiati per metà l’uno all’altro, legati ai polsi da un cinturone: il generale con le vecchie mani rinsecchite e il soldato d’ordinanza del tribunale, Kimka Rybkin, con le ruvide mani pelose da contadino.
Il cielo grigio-gialliccio sparpagliava sulla terra una neve minuta. In lontananza incessantemente rotolava il fragore rimbombante dei cannoni. Pareva che nel cielo fossero azionate grosse macine pesanti e da un immenso setaccio cadesse fior di farina, soffice e bianca, come neve.
Kimka, poggiandosi prima su un piede, poi sull’altro, disse proprio questo: «Il nevischio, è come la farina!»
Di fronte si schierarono i soldati Bianchi con i caschi tedeschi d’acciaio.
Il colonnello, appoggiandosi su una canna da passeggio, rimase fermo un po’ in disparte.
Evgenij Pavlovič abbracciò con lo sguardo il basso orizzonte paludoso, vedendolo tutt’ad un tratto allargarsi e aprirsi. Sul volto soffiò una scia della dolce aria rincuorante e, con questa ventata, tutto il mondo circostante cominciò scivolare nel vuoto lontano, come se dietro le spalle si spiegassero, frusciando, grandi ali per sollevarlo in alto. Il generale si volse, quel tanto che gli permisero le mani legate dietro, verso il soldatino con cui era unito e gli disse dolcemente: «Addio, compagno Rybkin.»
In ugual modo, con voce dolce e soave, gli rispose Kimka: «Grazie per le buone parole, compagno Ada…»
Le linguette gialle dello sparo avvolsero la sillaba non pronunciata.

Leningrado, 9 Dicembre 1926 – 3 Aprile 1927

F I N E



Ndt (13-mo capitolo): poluška - antica moneta russa, pari ad un quarto di copeco, veniva coniata sin dal XV-mo secolo, in disuso dal 1916.
 
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