Comunismo - Scintilla Rossa

Il fascismo rialza la testa con il suo razzismo

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-Bardo-
view post Posted on 16/12/2011, 14:28 by: -Bardo-




Anche perchè mi dà troppo al cazzo che i fascisti provino solo a falsificare la realtà a loro vantaggio (come sempre hanno fatto del resto) propongo qui di seguito i fastidiosi articoli del pazzo assassino fascista. La verità dei fatti non può essere cancellata!

Elenco degli articoli di Gianluca Casseri nella sezione letteratura di ideodromo casapound (webacache già scaduta purtroppo) :
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Articoli:
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Benvenuti nell’Ucronia
Di Gianluca Casseri 8 October 2011


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Benvenuti nell’Ucronia

Se Mussolini avesse vinto la guerra,

Mastella sarebbe al potere nel nome del Fasci


Marcello Veneziani



Poniamo il caso che la sera precedente le Idi di marzo del 44 a.C. Giulio Cesare si fosse trattenuto nel giardino della sua domus un po’ troppo a lungo, omettendo di coprirsi bene a dispetto della temperatura non ancora primaverile. Non è peregrino ipotizzare che il mattino successivo si sarebbe svegliato con un febbrone da cavallo e quindi non si sarebbe recato in Senato. Ecco che il conquistatore delle Gallie sarebbe sfuggito ai pugnali dei cospiratori guidati da Bruto e Cassio, dopo di che, ormai padrone assoluto di Roma, postosi alla testa delle sue invitte legioni le avrebbe condotte nel cuore dell’Europa, assoggettando la Germania, i Balcani e addirittura la Russia. Sulla base di una tale ipotesi, non ci vuole molto a convenire che la storia del nostro continente, e del mondo, sarebbe mutata radicalmente. E tutto ciò per un banale colpo di freddo.

Quello che vi ho appena descritto è uno scenario ucronico.

Si definisce ucronia (ma vengono usate anche ulteriori definizioni quali “storia alternativa”, “contro-storia”, “storia virtuale”, “storia controfattuale” e altre) un particolare filone della narrativa fantastica: l’autore di un racconto ucronico prende un evento storico e lo rovescia, vale a dire ipotizza cosa sarebbe successo se quel determinato fatto non si fosse verificato come riferiscono i libri di storia, ma in maniera inversa. Esempio classico: come si sarebbe svolta la storia d’Europa se Napoleone avesse vinto la battaglia di Waterloo invece di perderla?

I fondamenti teorici del genere vengono individuati in un saggio scritto in pieno XIX secolo dal francese Charles Renouvier, e intitolato per l’appunto Uchronie, nel quale si descriveva lo sviluppo della civiltà europea non come si era effettivamente svolto, bensì come avrebbe potuto svolgersi se alla morte dell’imperatore romano Marco Aurelio fosse asceso al trono un successore diverso dal depravato Commodo.

In Italia, negli anni tra le due guerre mondiali, il filosofo cattolico Adriano Tilgher affermava che si riscontrano “nella storia dei momenti cruciali, dei punti nodali, in cui il corso intero degli eventi sembra in modo indubbio sospeso a un evento singolo, individuale, omnimode determinatum, dal non esserci del quale quel corso intero sarebbe stato diversamente atteggiato.” In fin dei conti ci sono “avvenimenti dei quali, anche se non si sono prodotti, abbiamo la più netta coscienza che avrebbero potuto benissimo prodursi”, e nel caso si fossero verificati “il corso degli eventi non sarebbe stato quello che è stato”.

Ma passiamo dalla teoria alla pratica.

Uno dei punti nodali che hanno più attratto gli scrittori ucronici è la seconda guerra mondiale. Negli ultimi sette decenni un gran numero di autori ha ipotizzato che le sorti del conflitto fossero state in tutto o in parte rovesciate, immaginando quindi un dopoguerra diverso da quello in cui viviamo. Alcune di queste opere sono state tradotte nel nostro paese, come La svastica sul sole di Philip Dick, La grande spia di Len Deighton o Fatherland di Robert Harris, tutti ambientati in un mondo dominato dal Terzo Reich che è uscito vincitore dalla guerra. Da parte loro, gli autori italiani si sono più interessati allo sviluppo ucronico del fascismo. Tra gli altri, nel 1950 usciva Benito I Imperatore di Marco Ramperti, e nel 1980 La grande mummia di Vanni Ronsisvalle, che immaginavano un regime mussoliniano saldamente in sella dopo la vittoria bellica. Se entrambe queste opere presentavano un taglio ironico, ben altro tono ha l’epico romanzo di Mario Farneti Occidente, pubblicato nel 2001, gratificato da un notevole successo, e che ha dato origine a una trilogia. La sua notorietà ha varcato persino i nostri confini, se pensiamo che il quotidiano londinese The Times gli ha dedicato il 5 maggio 2001 un articolo su otto colonne.

La vicenda prende il via dall’ipotesi che nel 1940 l’Italia non sia entrata in guerra a fianco della Germania, ma, rimasta neutrale, assistita alla conclusione del conflitto. Nel 1945 l’Unione Sovietica, dopo avere occupato i paesi dell’Est, aggredisce l’Europa occidentale. A quel punto il nostro paese entra in guerra a fianco di USA, Inghilterra e Francia e dà un contributo determinante alla sconfitta dell’Armata Rossa e all’invasione della Russia. Così, negli anni settanta del secolo scorso (epoca in cui è ambientato il romanzo), l’Italia fascista è una potenza mondiale e il suo impero si estende dalle steppe russe all’Oceano Indiano.

Per chiarire gli intenti dell’opera lasciamo parlare lo stesso autore: “La tesi di fondo sulla quale si sostiene il mio romanzo è che, se da un lato il Fatto Compiuto non può essere modificato, dall’altro può invece essere messo in discussione. Questo espediente critico ci permette di prendere in considerazione una gamma di alternative storiche non solo attuabili, ma in certi casi anche auspicabili. Siamo spesso portati a credere che il nostro sia il mondo migliore possibile, ma questa è solo una supposizione che, se riflettiamo bene, non ha alcun fondamento. Per questo motivo, scrivere Occidente è stato per me quasi un dovere intellettuale.” E ancora rileva: “La visione del mondo cui si rifà la nostra cultura attuale è inquinata da un forte complesso di colpa legato alle vicende del ventennio e al disastro seguito alla nostra entrata in guerra. Questi eventi dolorosi hanno agito e agiscono sulla nostra percezione della storia e del presente come una lente deformante. Ecco, io ho voluto eliminare questa lente deformante per riappropriarmi delle radici della nostra tradizione.”

Le parole di Mario Farneti ci fanno sospettare che il suo romanzo – e più in generale ogni narrazione ucronica – costituisca qualcosa di più di un semplice esercizio di fantasia da praticare in un salotto intellettuale per vincere la noia. Questo doveva essere chiaro anche a un altro scrittore, Guido Morselli, il cui romanzo Contro-passato prossimo, pubblicato postumo nel 1975, rovesciava le sorti della prima guerra mondiale, immaginando una storia alternativa per l’Europa. Morselli affermava che “lo storicismo rimane una delle strutture portanti della cultura mondiale […]. Basta ricordarsi che è lo scheletro teorico del marxismo.” Dichiarava poi che, scrivendo l’opera, era sua intenzione “portare un contributo alla negletta, e anzi proscritta, critica 'alla’ Storia.”

Anni prima, il già citato Tilgher aveva scritto: “È bene e salutare che lo storico si ponga il problema del 'se’. Non per fantasticare a vuoto su quello che avrebbe potuto essere e non fu, ma per acquistare chiara e netta coscienza della non-fatalità, della contingenza, della casualità inerente all’accadere storico, ad ogni accadere storico.”

E a distanza di decenni la positiva funzione antistoricista dell’ucronia continua a essere riconosciuta, tra gli altri, dal medievalista Franco Cardini: “Quel che nella storia è accaduto non ha alcun titolo di maggior verosimiglianza rispetto alle infinite cose che avrebbero invece potuto succedere, se non questa: che è avvenuto.” In questo senso “l’ucronia ci libera dal fardello della necessità storia.”

Da parte sua lo studioso di Oxford, Niall Ferguson, ricercatore di Virtual History, dichiara: “Il nostro è un approccio anti-determinista, anti-marxista: cerchiamo di ricreare la natura caotica dell’esperienza per dimostra che il corso della storia non è mai certo.”

In definitiva, l’ucronia avversa lo storicismo e tutte quelle ideologie intenzionate a convincerci che le cose sono andate nel solo modo in cui potevano svolgersi, che la storia marcia secondo una direzione necessaria che è anche l’unica positiva. Contro queste idee dimostra che a determinare la storia sono anche eventi imprevedibili, piccoli e apparentemente insignificanti, proprio come il malanno che avrebbe potuto colpire Giulio Cesare. Ecco allora che scrivere e leggere narrativa ucronica si rivela un modo per destabilizzare la storia e quindi la realtà in cui viviamo.

Ma, attenzione: la storia alternativa può assumere forme diverse. Gianfranco de Turris, introducendo un’antologia ucronica, nota che questi racconti si possono scrivere “per sostenere implicitamente che è stato meglio che le cose siano andate come in effetti sono andate, che la possibile alternativa sarebbe stata peggiore della realtà come la conosciamo, che la Storia ha fatto bene a non prendere vie diverse da quelle note.” Indubbiamente questa impostazione “diminuisce le potenzialità dell’Ucronia”; al contrario vi sono narrazioni “scritte per dimostrare che le cose sarebbero andate meglio e non peggio se la Storia avesse imboccato percorsi diversi”. In questo caso l’ucronia ci abitua veramente al “revisionismo assoluto e all’immaginario politicamente scorretto. Con buona pace dei Guardiani del Pensiero Unico e della Immutabilità Storica. Se non esiste un Piano o Fine generale predeterminato della Storia umana […] non deve nemmeno esistere il tabù del Fatto Compiuto: allora tutte le possibilità sono sullo stesso piano, tutti i futuri sono ugualmente possibili”.

Considerando anche quanto affermato dai teorici citati sopra, possiamo dire che sia questo secondo tipo di narrativa, col suo “revisionismo assoluto”, a costituire la vera ucronia.

Per concludere, se nonostante tutto non siete ancora convinti del valore della storia alternativa, eccovi l’opinione del giornalista, politologo ed ex ambasciatore Sergio Romano: “La storia ipotetica, virtuale o controfattuale […] mi è sempre parsa giustificata. Non può cambiare il corso degli eventi, ma è un’eccellente ginnastica mentale, soprattutto per coloro che dovranno prendere le decisioni di domani.”

Dunque, un consiglio a chi aspira a far parte della futura classe dirigente: studiate l’ucronia!


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Il magico Pound
Di Gianluca Casseri 9 October 2011


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Il magico Pound

Ho portato la grande sfera di cristallo;

chi la può sollevare?

Puoi tu penetrare nella ghianda di luce?


Ezra Pound, Canto 116



Più di un lettore dei Cantos, il capolavoro poetico di Ezra Pound, è rimasto affascinato dalle singolari costruzioni linguistiche forgiate dal “Miglior Fabbro”. Versi apparentemente incomprensibili, frasi prive di una logica evidente, strofe che sembrano create solamente in funzione di un effetto sonoro. Gli esegeti di Pound hanno provveduto a discernere il significato intrinseco del poema, illuminando gli ammaliati lettori sul perché e il percome. Tuttavia i Cantos conservano l’aura di un senso nascosto, che l’esame intellettuale non riesce a fissare, ma anzi, rende ancora più sfuggente. Se i critici ortodossi hanno scritto solidi saggi su Pound poeta, studioso di economia e uomo di cultura, qualcuno ha preferito esplorare terreni più ambigui, chiedendosi se l’opera del Nostro non presenti caratteri occulti, esoterici e, diciamolo pure, magici.

Alcuni testi sull’argomento sono disponibili anche in Italia. Tra questi uno dei primi a vedere la luce fu un breve scritto dell’egittologo Boris de Rachewiltz[i], che riveste particolare importanza perché l’autore era il genero di Pound, avendone sposato la figlia Mary, e si trovava quindi a stretto contatto col poeta.

De Rachewiltz dichiara di non voler “attribuire all’opera di Pound un’impostazione di per sé magico-iniziatica”; semmai la sua intenzione è di “indicare i motivi essenziali e strutturali della tematica poundiana che possono andare riferiti appunto a tale dimensione.” Rilevato che “Pound concorda con l’ermetismo che dà valore a tutto ciò che ha forma, che è compiuto secondo un limite e una misura”, a proposito dei Cantos afferma che la loro struttura “si avvale di elementi visivi, veri ?punti di appoggio’ magici”, tanto che nel poeta rivivrebbe “l’antica idea neoplatonica che i geroglifici egiziani fossero di per sé simboli magici”.

Per dimostrare come sia solidamente attestato il nesso tra magia e poesia, lo studioso cita poi un brano attribuito a Julius Evola: “Chi tiene presente quanto siano legati alle prime forme di coscienza sottile l’elemento «ritmo» e l’elemento «imagine», può comprendere come certe esperienze trascendenti possano esprimersi meglio attraverso la poesia, che non attraverso il comune pensiero astratto. […] Vi è un’arte sottile di associare certe parole, che secondo il loro significato solito tratto da corrispondenze sensibili nessuno penserebbe a mettere insieme.”[ii] Come ho evidenziato all’inizio di questo articolo, basta una rapida scorsa ai Cantos per individuare associazioni di parole e corrispondenze che assumono un significato specifico soprattutto se lette mantenendosi discosti dal rigido razionalismo.

Di grande rilievo è la citazione di Pound “a god is an eternal state of mind [un dio è un eterno stato mentale - T.d.R.]”, che trova il corrispettivo nella dottrina alchemica per cui “dovunque si parla di ?dèi’ o ?numi’, si tratta di stadi trascendentali della coscienza e ?conoscere un dio’ equivale a penetrare in stato creativo”[iii]. Per il poeta, dunque, la divinità è una condizione dello spirito umano, così come nel pensiero magico la tensione verso il divino opera attraverso una mutazione interiore.

Date queste premesse non è sorprendente che altri studiosi abbiano seguito indagini affini.

Demetres Tryphonopoulos, un greco che insegna letteratura negli Stati Uniti e che vanta al suo attivo numerosi studi su Pound, è l’autore di un erudito saggio[iv] che partendo dagli studi giovanili di Pound sull’occultismo, esamina poi i suoi contatti con gli ambienti esoterici di là e di qua dall’Atlantico: tra tutti l’incontro con William Butler Yeats. Quindi punta l’obiettivo su quei Cantos nei quali l’elemento occulto si svela all’occhio e alla mente di chi sa leggere, evidenziando i punti di contatto tra il poema e quelle dottrine legate al “corpo di pensiero religioso speculativo eterodosso che sta la di fuori di tutte le ortodossie religiose e che comprende movimenti quali lo gnosticismo, l’ermetismo, il neoplatonismo, il cabalismo, la teosofia”.

Quello che risulta è un ulteriore aspetto dell’opera e del pensiero di Pound, opera e pensiero multiformi ma che non presentano contraddizioni. Creando “l’epica della Nuova Era”, il “Miglior Fabbro” riuscì a forgiare uno strumento che con le sue molte sfaccettature può servire a scardinare l’uggiosa realtà imposta dal pensiero unico. È chiaro che la rivolta di Pound contro il mondo moderno non era dettata solamente dalla sua avversione per un iniquo sistema finanziario. Si trattava di un’opposizione molto più radicale contro tutto ciò che il razionalismo rappresenta.

Carattere peculiare di chi opera attraverso la magia è di dare preminenza alla ?volontà’ rispetto alla 'ragione’. Lo stesso Pound si rendeva conto di seguire questo principio quando scriveva: “Mi si obietterà che sto cercando di fondare un sistema sulla volontà anziché sull’intelletto. È proprio questa una delle ragioni principali che mi hanno spinto a scrivere questo trattato.”[v]

Se è legittimo sospettare che l’autore dei Cantos seguisse processi mentali affini al pensiero magico, ecco allora, sotto le maschere del poeta e dello studioso di economia, svelarsi l’intima essenza di Ezra Pound, un mago del XX secolo.



NOTE

i Boris de Rachewiltz, L’elemento magico nella poesia di Ezra Pound, Raffaelli Ed., Rimini, 2008, (I ed. Scheiwiller, Milano, 1965).

ii EA, Poesia e realizzazione iniziatica, in Introduzione alla magia vol. III, Ed. Mediterranee, Roma, 1971, p. 27.

iii Julius Evola, La tradizione ermetica, Laterza, Bari, 1931, p. 194, nota 1.

iv Demetres Tryphonopoulos, Ezra Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos, Ed. Mediterranee, Roma, 1998.

v Ezra Pound, L’ABC dell’economia, Bollati Boringhieri, Torino, 2009, p. 39.


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Tex e il fantastico
Di Gianluca Casseri 22 October 2011


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Tex e il fantastico

Il fantastico è frequente nei fumetti di Tex[1]. G. L. Bonelli afferma in una intervista: “Per me le avventure fantastiche [...] hanno rappresentato una specie di ‘vacanza’ che mi permetteva di uscire dai meccanismi inevitabilmente ripetitivi del Western tradizionale. Ho ragione di credere che i lettori abbiano accettato queste ‘divagazioni’ con lo stesso mio spirito!”[2]. In effetti quel tipo di storie sono tra le più amate dai suoi lettori[3], merito anche delle capacità di Bonelli, che sapeva coniugare ad un’ambientazione western,generi come la fantascienza e l’orrore che pure potevano apparirle estranei[4].

È interessante indagare quale sia il ruolo che il fantastico e la magia svolgono nelle avventure di Tex, e quale l’atteggiamento tenuto dal ranger di fronte ai fenomeni inspiegabili.

Sul primo punto è illuminante quanto scrive Silvia Tomasi: “Ecco quindi nell’epopea laica della Colt riaffiorare il volto numinoso del sacro, ma con l’etichetta nera, e questa irruzione deve offrire un panico sconosciuto, deve costituire una minaccia che rompe la stabilità delle leggi in un mondo noto.”[5]. È evidente, in queste parole, il riferimento alla concezione dello studioso francese Roger Caillois che vede nel fantastico “una lacerazione, una irruzione insolita, quasi insopportabile nel mondo reale.”[6] e afferma che “nel fantastico il soprannaturale si manifesta come rottura della coerenza universale.”[7] Non c’è alcun dubbio che il mondo in cui si muove Tex sia il nostro mondo, vale a dire una realtà in cui la magia ed il sovrannaturale non esistono, o non dovrebbero esistere, e che quindi, qualora si manifestino, generano una crisi e destabilizzano le nostre consolidate certezze, provocando il “conseguente sconvolgimento dell’esistenza del singolo e della collettività.”[8] Questa crisi, questo sconvolgimento, sfociano immancabilmente nella paura, come nota ancora Silvia Tomasi: “Le avventure gotiche dei quattro pards [Tex e i suoi tre compagni abituali. - N. d. R.] procurano agli increduli lettori il terrore voluttuoso delle storie di magia.”[9] Ma, si badi bene, la paura è riservata agli “increduli lettori” che sprofondati in poltrona con l’albo tra le mani, si godono la commistione tra paura e incredulità. Tutto ciò non vale per Tex: al contrario dei lettori, il protagonista delle storie non appare né spaventato né incredulo.

Che il ranger non sia terrorizzato dal sovrannaturale è unanimemente constatato. Silvia Tomasi afferma che “nessun aspetto dell’orrore magico inibisce o spaventa Tex”[10]. Sulla stessa posizione Ermanno Detti, secondo il quale l’eroe “combatte più volte dure e difficili battaglie contro i sortilegi del terribile Mefisto e di suo figlio Yama senza conoscere la paura”[11]. Infine, Piero Di Castro conferma che “questa presenza quotidiana del soprannaturale non inibisce Tex e non lo spaventa [...] non è impressionato da incubi, succubi, fantasmi, vampiri, licantropi e poltergeist.”[12]

Quando però si arriva ad indicare i motivi per cui Tex non prova sgomento di fronte a spettri e magie, le opinioni dei critici divergono. Piero Di Castro, ricorrendo a Freud, riscontra che nel ranger è presente “un altro registro, più nascosto e arcaico, che entra in attività di fronte alla provocazione dell’ignoto [...] emerge, senza strappi né conflitti il suo tipo narcisistico"[13], dopo di ché, nonostante nel medesimo articolo escluda di voler sottoporre Tex ad una indagine psicoanalitica, si addentra in una disamina del tipo Tex con ampie citazioni freudiane. Pasquale Iozzino, dopo aver constatato che “perfino il potente Mefisto è sconcertato dall’incredibile coraggio del ranger che irride le sue manifestazioni di magia nera”, conclude: “Uomo pratico, dalle azioni sempre ispirate dal raziocinio, Tex ha un atteggiamento fondamentalmente scettico riguardo ogni cosa che esula dalla normalità, dal quotidiano”[14]. Su una posizione diametralmente opposta alla precedente è Silvia Tomasi che definisce Tex “un ostinato credulone” e, certa che “Willer sa che la quotidianità è ambigua, esiste sempre qualche faglia temporale dove ci si può perdere […]. Quando la civiltà, appollaiata in cima alla propria idea di realtà vacilla e crolla su se stessa, ecco che tornano alla luce tutti i mostri dimenticati e prende il sopravvento il lato oscuro della vita”, conclude: “In fondo non è importante che non creda, ma che non tremi”[15]. Ermanno Detti rileva nel comportamento di Tex un’apparente illogicità: “Il nostro insomma non mette in dubbio l’esistenza di forze misteriose [...] ma anche di fronte alle più terribili forze sovrannaturali si comporta come se il nemico fosse uno qualunque [...] senza paura e senza perdere la speranza di combatterle e di vincerle. È quasi curioso vedere un eroe che, pur in difficoltà di fronte a forze misteriose e occulte, mantiene il suo comportamento e la fiducia nelle proprie forze materiali (pugni e colt).”[16]

Se queste opinioni discordanti ci rendono frastornati, ci soccorre Roger Caillois quando, parlando del racconto fantastico che genera paura nel lettore, nota: “Esso non poteva emergere che dopo il trionfo della concezione scientifica di un ordine razionale e necessario dei fenomeni, dopo il riconoscimento di un determinismo rigoroso nella concatenazione delle cause e degli effetti. In breve, nasce nel momento in cui nessuno crede più alla possibilità del miracolo. Se ormai il prodigio fa paura è perché la scienza lo bandisce e noi lo riteniamo inammissibile, terrificante. [mio il corsivo]“[17]. Dunque le manifestazioni del fantastico e del sovrannaturale atterriscono solo chi non ci crede, mentre chi è disposto ad accettarle, ammettendo che possa esistere qualcos’altro oltre al mondo che ci circonda, sfugge alla morsa del terrore, e trova proprio nella sua accettazione la forza di reagire alla minaccia dell’ignoto. Questa è esattamente la reazione di Tex: la magia di Mefisto, i fenomeni sovrannaturali, i fatti che la scienza non può spiegare, non lo impressionano più di tanto, perché è disposto ad accettarli. Quindi tutt’altro che “scettico” o “credulone”, la sua mente non si fossilizza sulle verità imposte dal razionalismo, invece mantiene un’elasticità di giudizio che, lungi da farne un bevifrottole, gli permette di estendere il confine del reale oltre il limite stabilito dai nostri cinque sensi.

È da notare come i successori di G. L. Bonelli non abbiano saputo recepire questo aspetto della personalità di Tex. Si prenda come esempio la storia La miniera del terrore, scritta da Claudio Nizzi e pubblicata su Tex Gigante nn. 336-338. Il ranger indaga su misteriosi fatti avvenuti in una miniera d’oro, che si dice sia infestata da una sorta di Dio Serpente che assumerebbe forma semi umana. Gli stessi minatori dichiarano a Tex di aver visto l’essere nel suo aspetto umanoide. Alla fine si scoprirà che si tratta di una mistificazione (un uomo agghindato con testa e coda in finta pelle) messa in atto da alcuni loschi individui che vogliono allontanare i minatori per poter avere lo sfruttamento esclusivo della miniera. La cosa che non quadra nella trama è l’atteggiamento assolutamente scettico assunto da Tex, che in una vignetta esclama: “Sa il cielo se ne ho viste di cose strane in vita mia, ma questa, per Giove, le batte tutte!” (T.G. n. 336, p. 49). Sarà bene ricordare a questo punto alcune delle “cose strane” che Tex ha visto in vita sua: 1) ha assistito alla smaterializzazione di una mummia vivente di cui aveva constatato personalmente la materialità (T.G. n. 50, p.74); 2) ha tranquillamente conversato con due persone che poi si sono rivelate essere fantasmi tornati dall’oltretomba per reclamare vendetta (T.G. n. 116, p. 9-32); 3) ha ucciso un negro, solo per sentirsi dire subito dopo da un medico, che quell’uomo era evidentemente morto già da alcune ore (T.G. n. 126, pp. 111-112, e T.G. n.127, pp. 5-6); 4) si è scontrato con un uomo semi trasformato in belva, e per ucciderlo ha dovuto letteralmente riempirlo di piombo (si contano quindici spari di fucile a distanza ravvicinata), dopo che lo stesso aveva piantate in corpo una decina di frecce ed un pugnale (T.G. n. 136, pp. 80-81). In nessuna di queste circostanze Tex ha mostrato il minimo segno di stupore o incredulità. È evidente che, nel caso del Dio Serpente, lo sceneggiatore voleva presentarci un Tex razionalista in mezzo a dei creduloni, ma il personaggio creato da Gian Luigi Bonelli non avrebbe mai tenuto quel comportamento, invece considerato che più volte ha constatato personalmente e senza ombra di dubbio che i fenomeni sovrannaturali esistono, avrebbe preso per un dato di fatto le dichiarazioni dei minatori, poi, senza farsi impressionare avrebbe affrontato il presunto essere mostruoso, pronto ad accettare qualunque verità si fosse rivelata. Questa incomprensione è stata accompagnata dalla rarefazione delle storie fantastiche e dal loro netto peggioramento qualitativo che è culminato con l’ultimo ritorno di Mefisto in una storia sempre scritta da Nizzi che è stata definita “una collezione di ingenuità, leggerezze, occasioni perdute”[18].

Per concludere posiamo chiederci i frequenti scontri tra il ranger e le forze occulte si inquadrino nello schema dell’eterna lotta bene/male, Dio/Satana, a cui ci hanno abituato un’infinità di romanzi, film e fumetti. È evidente che certi poteri di cui si ammantano gli avversari magici di Tex sono di origine diabolica, almeno come la possiamo intendere nell’odierna cultura occidentale. Ma se Mefisto & C. fanno largo impiego di questi poteri, appaiono invece molto più restii a chiedere l’intervento diretto delle entità che ne costituiscono la fonte[19]. Come rilevano Peter e Caterina Kolosimo, Mefisto “evoca soltanto in scarse occasioni le potenze infernali, e lo fa, più che altro, per autosuggestionarsi e aumentare in tal modo i propri poteri.”[20] D’altra parte, se le supreme forze del male si intravedono appena, quelle del bene sono assolutamente latitanti, né Tex si sognerebbe mai di evocarle, fiducioso com’è “nei contro-poteri apotropaici della Colt.”[21] Dunque, nell’universo che fa da sfondo a queste avventure, l’entità suprema che incarna il bene, al pari di quella che incarna il male, è praticamente assente: è una sorta di deus otiosus[22], che si è ritirato dal mondo abbandonando dietro di sé una frazione dei propri poteri, e lasciando gli uomini a sbrigarsela da soli, come fosse infastidito dalle nostre beghe.

In questo mondo privo di senso del sacro (inteso senza differenziazione tra bene e male), in cui il fantastico è un’eccezione che infrange le regole e quindi porta con sé un inevitabile terrore, si muove Tex Willer. Forte delle sue incertezze, pronto a confrontarsi con quelle infrazioni che accetta, consapevole che una realtà possa essere altra, ma non per questo è meno reale.

1 Sul sovrannaturale e il fantastico nelle storie di Tex vedi:

Peter e Caterina Kolosimo, Introduzione al volume a fumetti Tex contro Mefisto, Mondadori, Milano, 1995 (I ed. 1978);

Antonio Tettamanti, Tex e il fantastico, in Giulio Cesare Cuccolini (a cura), Un editore un’avventura, numero speciale de Il Fumetto, A.N.A.F., Roma, 1984;

Anonimo, Il fantastico in Tex, in Fumo di China n. 5 (32) speciale 40 anni di Tex, Alessandro Distribuzioni, Bologna, luglio 1984;

Silvia Tomasi, Tex: è vero ma non ci credo, in Roberto Barbolini e Silvia Tomasi (a cura), Paper hell – Carte infernali, Transeuropa, Ancona – Bologna, 1991;

Daniele Bevilacqua, Le incursioni nel fantastico di un western ortodosso, in P. Iozzino e D. Bevilacqua, Tex Horror… cit.

2 Intervista pubblicata sul volume a cura di Raffaele De Falco e Pino di Genua Tex. Tra la leggenda e il mito, Ed. Tornado Press, Marano di Napoli (NA), 1994. Citazione ripresa da D. Bevilacqua, Le incursioni… cit.

3 Lo conferma Sergio Bonelli allorché, parlando delle storie fantastiche di Tex, dichiara che “i lettori ne restavano immancabilmente conquistati.” in Sergio Bonelli Tex Willer, o l’arte della fuga, presentazione al volume a fumetti Tex e i figli della notte, Oscar Mondadori, Milano, 1997.

4 Ma vedi su questo punto le convincenti considerazioni di Daniele Bevilacqua nel suo articolo Le incursioni… op. cit. in particolare pp. 11-12.

5 S. Tomasi, Tex, è vero… cit.

6 Roger Caillois, Dalla fiaba alla fantascienza, Theoria, Roma – Napoli, 1991, p. 19.

7 R. Caillois, Dalla fiaba… cit., p. 21. Per una analisi critica della concezione di Caillois che ne rileva i limiti e che, ampliando il significato del termine “fantastico” e stabilendo un legame indissolubile tra lo stesso ed il Mito, la supera, pur senza contraddirla totalmente, vedi: Alex Voglino Neosimbolismo. Elementi per una esegesi della letteratura fantastica, in AA.VV. Dal mito alla fantasia – Atti del I Convegno Nazionale di Narrativa Fantasy e dell’Immaginario – Chieti 20-21 giugno 1981, Solfanelli Editore, Chieti,1983, in particolare pp. 10-12. Su posizione analoga, ma che limita la critica a Caillois a un piano sostanzialmente terminologico, Gianfranco de Turris, Il genio dell’incubo, in Abstracta, n. 1, Stile Regina Editrice, Roma, gennaio 1986.

8 G. de Turris, Il genio… cit.

9 S. Tomasi, Tex, è vero… cit.

10 S. Tomasi, Tex, è vero… cit.

11 Ermanno Detti, Tex, filosofia e religione, in P. Iozzino e D. Bevilacqua (a c.), Tex horror… cit.

12 Piero Di Castro, Tex, T. – Rex, Text, Tex Libris e altre evocazioni magiche, in Mauro Paganelli e Sergio Valzania (a cura) Gianluigi Bonelli – Aurelio Galleppini, Editori del Grifo, Montepulciano (SI), 1982.

13 P. Di Castro, Tex… cit.

14 Pasquale Iozzino, Tex, l’intrepido, in P. Iozzino e D. Bevilacqua (a c.) Tex horror… cit.

15 S. Tomasi, Tex, è vero… cit.

16 E. Detti, Tex, filosofia… cit.

17 R. Caillois, Dalla fiaba… cit., pp. 21-22.

18 Gianluca Casseri, Postille al ritorno di Mefisto, nel periodico La Soglia n. 4, aprile 2003. L’articolo critica pesantemente la storia. Per altre forti critiche vedi Franco Spiritelli, Il triste ritorno di Mefisto, nel periodico Fumo di China n. 107, marzo 2003.

19 Questa regola sarà infranta nell’ultima storia che oppone Tex a Yama. Il fatto che ciò avvenga quando ci troviamo già in piena decadenza narrativa, non ne costituisce una contraddizione, ma anzi una conferma.

20 P. e C. Kolosimo, Introduzione… cit., p.10.

21 Gianni Canova, Tex Willer, un milanese nel Far-West, citazione ripresa da S. Tomasi, Tex, è vero… cit.

22 Il concetto di deus otiosus è stato espresso dallo storico delle religioni Mircea Eliade in varie opere. Tra le altre vedi: Mircea Eliade, Mito e realtà, Borla, Torino-Leumann, 1966, pp. 124-129. Vedi anche Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, Torino, 1999, pp. 45 e segg.



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Adriano Romualdi alle radici dell'Europa - di Gianluca Casseri

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Adriano Romualdi alle radici dell'Europa - di Gianluca Casseri
Filosofia
Scritto da Gianluca Casseri


Settanta anni or sono nasceva Adriano Romualdi. Quando morì nel 1973 per un incidente stradale, nonostante la giovane età lasciò una cospicua mole di scritti che spaziano da Platone a Nietzsche, da Evola alla Destra tedesca, dagli Indoeuropei alla seconda guerra mondiale. Dotato di notevole preparazione e lucidità, fino ad oggi nessuno è stato in grado di sostituirlo come studioso e teorico all’interno del neofascismo italiano. Comunque, il fatto che non sia più qui, non è una scusa per ignorare la via che indicò quattro decenni or sono, giacché quella stessa via possiamo sempre percorrerla noi. Così Adriano Romualdi, pur risultando morto all’anagrafe, continuerà a vivere.

Ad agevolarci il compito c’è il fatto indiscutibile che le sue idee siano valide ancora oggi, come mi propongo di dimostrare con questo scritto. Qualche anno fa, potemmo gustarci l’acceso dibattito sulle “radici dell’Europa” che opponeva quelli che le cercavano nel cristianesimo a chi invece le identificava nel razionalismo illuminista, riconoscendo questi ultimi qualche debito nei confronti dei filosofi greci. Tra tutti, nessuno ammetteva la possibilità che un’ulteriore punto di vista potesse entrare nel dibattito, avanzando la scandalosa proposta che le radici dell’Europa affondano in un terreno diverso tanto dal cristianesimo quanto dalla filosofia razionalista. Non c’è quindi da meravigliarsi se un testo che effettivamente illustrava una terza posizione sia rimasto pressoché ignorato. Mi riferisco al saggio di Adriano Romualdi Sul problema d’una Tradizione Europea, pubblicato nel 1973.

Come chiarisce il titolo, l’obiettivo dell’autore era di individuare un complesso di valori tradizionali che appartenessero ai popoli del nostro continente. In effetti, allorché Romualdi denuncia “la confusa accettazione di tutti i contenuti storici che, nel corso dei secoli, han riempito lo spazio europeo”, sembra prevedere i termini della controversia a cui accennavo, e, come avvertisse che non sarebbe stato presente, ribatte in anticipo alle posizioni che vi si sarebbero delineate, respingendole una ad una. Così lo studioso nota che il pensiero razionalista dei philosophes “occupa appena due o tre secoli della millenaria storia europea”, e non rappresenta che “un aspetto particolare della aspirazione alla chiarezza insita nella vocazione apollinea” dei popoli europei.

A chi poi sostiene “l’equazione cristianesimo-civiltà europea”, rammenta che “il cristianesimo è alcunché d’importato e, sebbene copra gli ultimi mille anni d’una tradizione europea, ne lascia fuori uno dei momenti più tipici […] il mondo classico.” Ma anche “una troppo stretta equazione Europa-classicità” ci porterebbe fuori strada, se intendessimo la classicità “in un senso del tutto esteriore, umanistico e razionalistico.” Ridimensionate quelle che allora come oggi erano e sono considerate le radici dell’Europa, Romualdi inizia a scavare nella nostra cultura per portare alla luce ciò che per lui costituisce “il senso d’una «tradizione europea»”. È chiaro che la concezione della storia seguita dallo studioso non è quella che scopre un continuo progresso materiale dell’uomo, un avanzare della civiltà destinata all’immancabile trionfo sulla barbarie. Per lui la storia è invece costituita dall’incontro e dallo scontro tra diverse visioni del mondo, di cui sono portatori gruppi etnici diversi. Quindi il carattere di un popolo non dipende tanto dal fatto che irrighi i campi o che si limiti a condurre il bestiame al pascolo, che costruisca città o che vaghi nella steppa, giacché non sono le condizioni materiali di vita a influire sullo spirito degli uomini, bensì i miti e i simboli in cui si riconoscono.

Così, allorché i popoli di razza nordica calano sulle sponde del mediterraneo travolgendo le civiltà matriarcali “è significativo che questa irruzione s’accompagni alla comparsa di simboli solari. Nasce la svastica […] nascono la croce raggiata, il cerchio riquadrato, il disco puntato e quello radiante”. Il Romualdi storico ha occhio per “il principio paterno che urta contro la «civiltà della Madre»; la virilità olimpica contro il mito taurino e materno della fecondità; l’ethos delle «società degli uomini» contro la promiscuità entusiastica dell’antico matriarcato.” Il rifiuto di una concezione della storia vista come continuo progresso materiale non è il solo punto su cui lo studioso avversa la vulgata corrente. Egli denuncia anche “la caducità di certe contrapposizioni Oriente-Occidente” là dove l’Occidente dovrebbe essere rappresentato dal Cristianesimo e l’Oriente dalle religioni dell’India.

Nella spiritualità primordiale dell’India vedica, Romualdi riscontra “il concetto centrale della religiosità indoeuropea e della razza bianca: quello dell’Ordine […] inteso come lògos universale e collaborazione di tutte le forze umane con tutte le forze divine”. Tale Ordine, “essenza dell’universo indoeuropeo, è nel mondo e fuori del mondo. È la scaturigine da cui sgorgano il kòsmos visibile e quello invisibile”; per il suo mantenimento “collaborano sia lo spirito dell’uomo, sia più alte potenze. L’intelligenza umana non è contraddetta, ma completata, dalla presenza di una intelligenza della natura e dell’universo. Di qui l’imperativo che spinge questa razionalità umana a farsi azione, unificando nella sua lotta i motivi dell’ordine umano e di quello divino. L’Ordine – la misura delle cose – va strappato ogni giorno alle forze elementari del caos e della notte.” Una spiritualità affine a quella degli Aryas conquistatori dell’India, Romualdi la riscontra nei Dori reggitori della polis spartana, nonché nella Roma fondatrice di un Imperium universale, massima manifestazione storica dello spirito solare e virile dei popoli europei. “Ma la tradizione europea si eclissa con l’affermarsi del cristianesimo. La teoria d’una diretta continuità della romanità nel cristianesimo è un abbaglio”.

Sarà con i Germani, organizzatori di “una nuova ecumene europea”, che si avrà “il riaffacciarsi d’una antica visione dell’interiorità della stirpe nordico-europea”, sfociante nel medioevo ghibellino di Federico di Svevia e nella mistica germanica di Meister Eckhart. Di fronte a queste ultime manifestazioni, lo studioso riconosce che “l’innesto della religiosità cristiana nella sostanza spirituale europea è un fatto innegabile”, ma, negando che la Cristianità sia fondamento della “civiltà europea”, la vede “come un momento – sia pure importante – d’una storia assai più lunga”, e quindi il suo ruolo appartiene al passato. Voltando pagina “il mondo della tecnica conquista il suo spazio.” Nella scienza moderna Romualdi scorge “una ignoranza d’ogni altra prospettiva, ma anche uno spirito di razionalità e di padronanza che s’inquadra nel contesto d’una tradizione europea.” Così scienza e tecnica presentano “una aderenza allo stile interiore dell’uomo bianco che non si può disconoscere”, e l’operosità del tecnico è “l’ultima, tardiva incarnazione della spiritualità europea”.

Lo studioso è convinto che l’uomo europeo “non può cessar di ascoltare il suo interiore comando che è quello di creare e di sostenere l’ordine. Midgard – il paese di mezzo, il paese dell’uomo – va comunque difeso contro Utgard, contro le forze del caos urgenti dal «paese esterno».” Riflettendo sul miserevole stato in cui versa l’Europa nel momento in cui scrive – e oggi non è certo migliorato – Romualdi, pur senza farsi illusioni, afferma che “il risanamento della nostra civiltà è un nostro compito interno.” Se la battaglia è disperata non per questo dobbiamo abbandonare il campo: le forze del caos non cantino vittoria, “perché il centro vada completamente perduto, e la luce spenta, occorre che l’immagine dell’homo europaeus sia prima estinta”. Ma per esser certi che le radici dalle quale assorbire la forza per combattere siano le nostre, dobbiamo trovare una forma spirituale “che non rappresenti un qualunque sincretistico pasticcio ma che riscopra il fondo della spiritualità propria dell’uomo bianco”.

Lo studioso non teme di prospettare una via, per quanto aspra: “Una moderna spiritualità europea non potrà non configurarsi come essenzialmente attiva in un mondo in cui il tema centrale è quello del padroneggiamento delle forze elementari. L’invasione dell’elementare – tecniche, distanze, eccitazioni – sembra essere la caratteristica della nostra epoca. Esso richiede una capacità di disciplina e di semplificazione aliena da ogni sbavatura spiritualistica.” Questo stile, “presagio d’un nuovo classicismo”, Romualdi lo riscontra nei Fascismi europei, che “tentaron di fondere la chiarità delle origini con la nuova chiarità irradiantesi dalla tensione atletica e dal dominio della materia.” E lo studioso, chiedendosi se “questa esperienza è tutta dietro le nostre spalle”, conviene che “difficilmente potremmo articolare la tematica d’una nuova spiritualità europea prescindendo da quei tentativi di fondere chiarità antica e audacia moderna.” Il viaggio di Romualdi è terminato. Partito da un pensiero rilucente, come il sole primordiale che lo vide nascere nella patria hyperborea, è giunto ad auspicare la riscoperta di quello stesso pensiero, per riallacciarsi a una Tradizione veramente europea che veda lo spirito dominare la materia utilizzandone le forze. Se la modernità vorrebbe oscurare la verità che sta alle origini per impedire un ritorno ad essa, la proposta di Romualdi si propone come l’ultima speranza per un’Europa che privata delle sue autentiche radici ha perduto la propria strada. In questo non c’è niente di strano: chi non sa da dove viene, neppure può sapere dove va.

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