Comunismo - Scintilla Rossa

LA FILOSOFIA MARXISTA-LENINISTA, A. Sceptulin

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view post Posted on 21/12/2011, 01:01
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A. Sceptulin


LA FILOSOFIA
MARXISTA-LENINISTA


TRATTI ESSENZIALI DEL COMUNISMO SCIENTIFICO
Capitolo I
LA FILOSOFIA E IL SUO RUOLO NELLA SOCIETÀ
Prima di esporre la filosofia del marxismo-leninismo, dobbiamo chiarire che cosa rappresenti la filosofia in generale, in che cosa essa si differenzi dalle altre forme della coscienza sociale, quali funzioni essa sia chiamata ad assolvere.
1. LA FILOSOFIA COME CONCEZIONE DEL MONDO
1. Che cos’è una concezione del mondo
La filosofia rappresenta l’insieme delle idee sul mondo. Ma ciò dicendo, noi non ne esprimiamo ancora i tratti distintivi. Infatti, nella società esistono molte altre concezioni oltre a quelle filosofiche. In che cosa si distinguono, dunque, le concezioni filosofiche da quelle non filosofiche e, in particolare, da quelle delle scienze naturali?
Il contenuto delle scienze naturali e sociali concrete riflette le leggi oggettive di questi o quei campi della realtà, di questi o quei processi. Per esempio, la fisica ha per oggetto i fenomeni connessi con lo spostamento dei corpi nello spazio, col movimento delle molecole, delle particelle «elementari», ecc.; la biologia studia i fenomeni della natura vivente; le scienze economiche si occupano dei rapporti che sorgono tra gli uomini nel processo di produzione, di distribuzione e di consumo dei beni materiali; la pedagogia si occupa dell’educazione e dell’istruzione degli uomini, ecc. La filosofia, invece, non si occupa di un campo particolare della realtà né di un settore particolare del mondo, essa studia il mondo nel suo insieme, tutti i fenomeni che vi si verificano.
La filosofia, dunque, ha il compito di elaborare un sistema di idee sul mondo nel suo insieme, di fornire un’interpretazione unica di tutti i processi che avvengono nel mondo, di essere, cioè, una concezione del mondo.
2. Il quesito supremo della filosofia. Materialismo e idealismo
La filosofia studia il rapporto tra la materia e la coscienza, tra la natura e lo spirito, stabilisce quale di essi è il primo dato e quale è il secondo dato derivato. Quello del rapporto tra la materia e la coscienza è il quesito supremo della filosofia. Il modo in cui tale questione viene risolta, predetermina questa o quella visione di tutti gli altri problemi filosofici.
Nulla di simile accade nelle altre scienze. L’analisi del nesso tra materia e coscienza non rientra nei loro compiti. Esse esaminano il loro oggetto dal solo punto di vista dello studio delle proprietà oggettive dei fenomeni. Anche quelle scienze che hanno per oggetto i fenomeni psichici, studiano questi ultimi senza contrapporre il materiale all’ideale.
I filosofi si dividono in due grandi campi materialisti e idealisti - a seconda di come risolvono il problema del rapporto tra materia e coscienza.
I materialisti affermano la priorità della materia rispetto alla coscienza, essi ritengono che la prima sia alla base di tutto ciò che esiste. La coscienza, invece, è il secondo dato e si presenta come una proprietà della materia, proprietà che si manifesta in determinate condizioni. Fanno parte, ad esempio, del campo materialistico: il filosofo greco Democrito, il quale riteneva che il mondo fosse costituito dagli atomi; il filosofo olandese del XVII secolo Spinoza, il quale considerava il pensiero una proprietà inalienabile (attributo) della materia; il filosofo francese del XVIII secolo Diderot, il quale sosteneva che la natura esistesse indipendentemente dalla coscienza, ecc.
A differenza dei materialisti, gli idealisti affermano la priorità dello spirito: la coscienza, il pensiero, le idee. Secondo loro, la materia è un prodotto dello spirito, della coscienza e si presenta come una forma di esistenza di quest’ultima.
Pur concordando tra di loro nel porre alla base del mondo il principio spirituale, gli idealisti divergono nell’interpretazione di questo principio. Alcuni di loro sostengono che il principio spirituale che condiziona tutti i fenomeni che avvengono nel mondo, esista nella forma di coscienza umana, di sensazioni, di percezioni, di rappresentazioni, in una parola, nella forma di attività umana soggettiva. Questi sono gli idealisti soggettivi. Altri si immaginano tale principio spirituale nella forma di coscienza cosiddetta assoluta, di spirito, di idea pura, ecc. Questi sono gli idealisti oggettivi. Rappresentante dell’idealismo soggettivo è, per esempio, J. Fichte, filosofo tedesco del XVIII secolo, il quale proclamò la realtà che circonda l’uomo conseguenza dell’attività del soggetto, dell’autocoscienza di un «Io». Come rappresentante dell’idealismo oggettivo possiamo indicare il filosofo greco Platone. Nel pensiero di Platone il mondo reale è costituito da essenze ideali mentre le cose sensibili sono delle loro copie imperfette, che sorgono in seguito alla fusione di questa o quella idea con la materia informe che è, propriamente parlando, il non essere.
3. Il dualismo filosofico
La dottrina dei materialisti, che interpretano tutti i fenomeni del mondo partendo dalla materia, e la dottrina degli idealisti, che fanno derivare tutto quello che esiste dall’attività spirituale, dalla coscienza, sono dottrine monistiche (dal greco mónos, «unico»), perché esse si fondano su un unico principio determinante.
Però, vi sono filosofi che pongono alla base del mondo non uno ma due princìpi: il materiale e l’ideale. Secondo loro, questi due princìpi esistono in modo del tutto autonomo, l’uno indipendentemente dall’altro. Uno di essi determina il sorgere delle cose materiali del mondo fisico; dall’altro, invece, deriva il mondo spirituale. Tale dottrina si chiama dualistica (dal latino duo, «due»).
Un rappresentante della dottrina dualistica è Descartes, filosofo francese del XVII secolo. Secondo Descartes alla base della realtà vi sono due sostanze: la corporea, il cui attributo è l’estensione, e la spirituale, il cui attributo è il pensiero. Queste sostanze, che esistono in modo indipendente l’una dall’altra, si uniscono nell’uomo e si presentano in esso nella forma di anima e corpo. Ma anche nell’uomo esse, pur esistendo insieme l’una accanto all’altra, rimangono, secondo Descartes, assolutamente indipendenti, stanno alla pari.
Ponendo alla base dei loro sistemi due princìpi determinanti, i dualisti pretendono ad una propria linea autonoma in filosofia, distinta da quella del materialismo e da quella dell’idealismo. Tuttavia, essi non riescono a portare fino in fondo questa autonomia. Infatti, nell’analizzare i problemi concreti essi si vedono costretti a porsi ora sulle posizioni del materialismo, ora su quelle dell’idealismo. il loro sistema filosofico risulta di conseguenza incoerente, contraddittorio, esso riunisce in sé meccanicamente tesi e princìpi incompatibili tra di loro.
4. Le ricerche di una terza via in filosofia
Tentativi di porsi al di sopra del materialismo e dell’idealismo, di trovare una terza linea in filosofia, vengono compiuti anche da altri filosofi che si rivelano poi, in fin dei conti, degli idealisti.
Tali tentativi sono particolarmente caratteristici del periodo del capitalismo maturo, quando la borghesia vittoriosa cominciò a comprendere che la concezione materialistica del mondo rappresentava per essa un pericolo, a causa della possibilità, insita in tale dottrina, di conclusioni ateistiche e rivoluzionarie volte a mutare lo stato reale delle cose.
L’aspirazione a trovare una terza linea in filosofia è, propria, in particolare, alla dottrina del fisico e filosofo austriaco Ernst Mach (fine del XIX - inizio del XX sec.). Mach sottopone a critica sia il sistema filosofico materialistico che quello idealistico sostenendo che sia l’uno che l’altro sono unilaterali. Alla base del mondo, dichiara Mach, non è né la materia né la coscienza, ma i cosiddetti «elementi neutrali del mondo», che possono presentarsi sia come materiali che come spirituali. Quando questi elementi entrano in contatto fra di loro formano il materiale, ossia il mondo fisico; quando, invece, essi entrano in contatto con il sistema nervoso dell’uomo formano l’ideale, ossia il mondo psichico. Secondo Mach il mondo fisico e il mondo psichico sono in interconnessione organica tra di loro e ciò consente di costruire il mondo fisico con i fenomeni psichici ma esclude la possibilità di costruire il mondo psichico con i fenomeni fisici.
In realtà, da tutti questi ragionamenti non risulta nessuna terza linea in filosofia. Infatti, se partendo dagli «elementi neutrali» siamo giunti ad affermare che è possibile creare il mondo fisico dallo psichico e che è impossibile il sorgere di fenomeni psichici sulla base del fisico, tale affermazione è perfettamente aderente ai postulati dell’idealismo poiché nel dato caso il momento determinante è lo psichico, la coscienza.
In modo analogo tenta di trovare una terza linea in filosofia il noto esistenzialista Karl Jaspers. Egli ritiene come Mach che alla base della realtà non è né la materia né la coscienza ma una terza sostanza che include sia l’una che l’altra. Questa terza sostanza è per Jaspers «il trascendente» che si manifesta o come pura «esistenza», o come «sovrannaturale», o come «coscienza», o come «mondo», ecc. Ma se «il trascendente» è in grado di manifestarsi sia come mondo che come ragione, sia come naturale che come sovrannaturale, esso non si distingue affatto dal dio che i teologi pongono quale principio primigenio di tutto quello che esiste e la filosofia di Jaspers non si distingue in nulla dalla filosofia dell’idealismo oggettivo che riconosce apertamente la coscienza come artefice di tutto quello che esiste.
Oltre ai filosofi che tentano di porsi al di sopra del materialismo e dell’idealismo escogitando qualcosa di diverso dalla materia e dalla coscienza, vi sono anche autori e persino intere scuole che vogliono raggiungere lo stesso scopo ignorando il quesito supremo della filosofia che essi definiscono uno pseudo problema privo di ogni senso. Fautori di questo punto di vista sono i positivisti moderni (R. Carnap, B. Russell ed altri).
Secondo i positivisti, la filosofia non può risolvere il problema della priorità della materia o della coscienza e perciò non deve occuparsene. Suo compito fondamentale è l’analisi logica dei dati scientifici, dell’aspetto semantico delle parole e delle proposizioni. In realtà, senza risolvere il problema di che cosa sia il primo dato la materia o la coscienza - è impossibile fornire una valida analisi dei dati scientifici, dell’aspetto semantico delle parole e delle proposizioni, poiché tale analisi presuppone che si sia chiarito prima di tutto se i dati scientifici sono il risultato del riflesso dei rispettivi lati e nessi della realtà, oppure il risultato dell’attività creativa della coscienza stessa, del pensiero. I positivisti sono inclini ad accettare questa seconda ipotesi. Essi fanno derivare il contenuto dei dati sensibili, il significato delle parole e delle proposizioni non dal mondo esterno, ma dall’attività creativa della coscienza, del pensiero e con ciò, lo vogliano essi o no, si pongono sul terreno dell’idealismo.
In tal modo, le ricerche di una terza via in filosofia non possono che condurre all’idealismo.
5. Le radici sociali e gnoseologiche dell’idealismo
Le cause che determinano la comparsa di concezioni idealistiche sulla realtà che ci circonda sono molteplici. Alcune di esse affondano le loro radici nella struttura economica della società, nella condizione sociale delle classi e nelle loro esigenze; altre, invece, vanno ricercate nella sfera della conoscenza, dell’attività conoscitiva degli uomini.
Le radici sociali dell’idealismo sono quei fattori della vita sociale degli uomini che favoriscono il sorgere e il diffondersi di concezioni idealistiche sulla realtà che circonda l’uomo. A tali fattori si riferiscono prima di tutto la separazione del lavoro intellettuale da quello fisico e il sorgere di una specie di opposizione tra di loro. «Una volta che le idee dominanti scrissero K. Marx e F. Engels - siano state separate dagli individui dominanti e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è facilissimo astrarre da queste varie idee “l’idea”, ecc., come ciò che domina nella storia, e concepire così tutte queste singole idee e concetti come “autodeterminazioni” del concetto che si sviluppa nella storia»1.
Tra le radici sociali dell’idealismo figura anche l’interesse delle classi sfruttatrici ad una soluzione in senso idealistico della questione fondamentale della filosofia e alla diffusione di concezioni idealistiche, le quali, fornendo una giustificazione teorica della religione, favoriscono l’asservimento spirituale dei lavoratori, distolgono questi ultimi dalla lotta rivoluzionaria per cambiare lo stato di cose esistente.
Le radici gnoseologiche dell’idealismo sono cause che si trovano nella sfera della conoscenza.
La conoscenza è il processo, complesso e contraddittorio, del riflesso della realtà nella coscienza dell’uomo. Se questo o quel momento della conoscenza viene esagerato, viene privato dei legami con gli altri lati e momenti del processo conoscitivo e considerato avulso dalla materia, trasformandolo in qualcosa di assoluto, si cadrà inevitabilmente nell’idealismo. Le radici gnoseologiche dell’idealismo sono, dunque, l’assolutizzazione di questo o quell’aspetto, di questa o quella peculiarità del processo della conoscenza, che porta ad una visione unilaterale del processo stesso e quindi alla sua deformazione. Lenin scriveva: «Il carattere rettilineo e unilaterale, l’irrigidimento e l’ossificazione, il soggettivismo e la cecità soggettiva: voilà le radici gnoseologiche dell’idealismo»2.
Tratto caratteristico delle sensazioni e delle percezioni di queste forme della conoscenza sensibile è che esse dipendono dall’uomo, dal suo sistema nervoso, dal suo stato psichico, dalla sua esperienza individuale, ecc. Però, se noi esageriamo questo rapporto di dipendenza, se dimentichiamo che le sensazioni e le percezioni dipendono non solo dall’uomo ma anche dall’oggetto che agisce sui suoi organi dei sensi, che esse riflettono questi o quei lati di questo oggetto, finiremo inevitabilmente nel soggettivismo ammettendo che il contenuto delle sensazioni e delle percezioni è determinato dal soggetto (dall’uomo), dalle sue emozioni e, poi, anche nell’idealismo, riconoscendo che le sensazioni e le percezioni sono la base di tutto ciò che esiste. È proprio in tale forma che propagandavano l’idealismo Berkeley, Mach, Avenarius ed altri.
Inoltre, venendo a conoscere la realtà che li circonda, gli uomini mettono in luce le proprietà comuni delle cose e dei fenomeni con i quali essi hanno a che fare nella loro attività pratica. Sulla base di ciò in essi si formano dapprima le immagini generali e poi i concetti di tali proprietà. Le immagini e i concetti così formatisi si trasmettono di generazione in generazione, mentre le cose riflesse in tali concetti cambiano ininterrottamente. Si crea così l’impressione che i concetti siano qualcosa di stabile, di immutabile, di eterno, mentre le cose qualcosa di mutevole, di transitorio, di temporaneo. Il concetto di «uomo», ad esempio, è sorto nella remota antichità e il processo della sua formazione si è perduto nei tempi. Può sembrare, perciò, che esso esista eternamente. I singoli uomini, invece, non sono eterni. Essi nascono e muoiono. E se si pone esageratamente l’accento sulla relativa stabilità dei concetti, se li si priva del legame con le cose del mondo esterno, per riflettere le quali essi sono sorti, e li si trasforma in qualcosa di autonomo che sta all’origine delle cose, allora si finisce inevitabilmente nell’idealismo.
2. LA FUNZIONE METODOLOGICA DELLA FILOSOFIA
In quanto concezione del mondo, la filosofia ha il compito di fornire un’interpretazione unica e coerente dei fenomeni che avvengono nel mondo e di aiutare in tal modo l’uomo ad orientarsi nella sua vita, nella sua attività quotidiana. Il ruolo della filosofia nella società non si riduce, però, solo a questo. Essa deve assolvere anche una funzione metodologica, deve elaborare un metodo generale della conoscenza che è un insieme di princìpi o postulati interdipendenti, formulati sulla base delle leggi generali scoperte nella realtà e nel processo della conoscenza e dedotti dalla storia dello sviluppo della coscienza sociale.
Nella storia della filosofia sono noti due metodi filosofici di conoscenza diametralmente opposti: il metodo metafisico e quello dialettico.
Il metodo metafisico si formò nell’ambito delle scienze naturali nei secoli XVI-XVII. In quella epoca la scienza della natura, in considerazione delle esigenze della produzione in via di sviluppo, si poneva lo scopo di studiare singoli lati e proprietà del mondo, le forme concrete dell’essere. Per conoscere questi particolari «essa li staccava dal loro contesto naturale o storico e li esaminava ciascuno per sé, nella sua natura, nelle sue cause, nei suoi effetti particolari»3. Ciò generò la tendenza a concepire le cose e i fenomeni della natura al di fuori della loro interconnessione e interdipendenza, al di fuori del loro movimento e del loro sviluppo e successivamente portò anche al sorgere del metodo generale metafisico della conoscenza. Secondo tale metodo le cose e i fenomeni della natura sono concepiti nel loro isolamento, al di fuori del loro vasto contesto complessivo, sono privi di contraddizioni e di sviluppo, eternamente nel medesimo stato qualitativo, sono, cioè, immutabili
Attualmente tratto particolarmente caratteristico della metafisica è quello di assolutizzare singoli lati e forme del movimento della materia, di ridurre il superiore all’inferiore.
Nella misura in cui le scienze naturali cominciarono a passare dallo studio delle cose e delle loro proprietà allo studio dei processi che si svolgono in esse, cominciarono ad elaborarsi i princìpi del metodo dialettico della conoscenza. Tale metodo parte dalla considerazione che nella realtà tutti i fenomeni sono in interconnessione e interdipendenza organica, che tutti i fenomeni sono internamente contraddittori e, in seguito della lotta degli opposti ad essi propri, cambiano continuamente passando ad uno stato qualitativo superiore.
Il metodo dialettico della conoscenza è derivato dalle leggi universali della realtà e della conoscenza. Perciò esso è l’unico metodo conseguentemente scientifico (filosofico), metodo che aiuta gli scienziati nella loro attività conoscitiva.
3. LA FILOSOFIA E L’ATTIVITÀ PRATICA DEGLI UOMINI
Studiando le leggi universali della realtà e della conoscenza e elaborando sulla loro base una concezione del mondo e un metodo generale della conoscenza, la filosofia esercita un influsso sostanziale sulla vita umana. Il comportamento degli uomini, i princìpi ai quali essi si ispirano nella loro attività pratica, dipendono in misura notevole dalle loro concezioni generali, dalle idee filosofiche fatte proprie dalla loro coscienza.
Per esempio, gli uomini che sono sotto l’influsso della concezione idealistica del mondo molto spesso, nella loro vita privata, attribuiscono grande importanza a dio o ad altre forze soprannaturali. Essi fanno affidamento più sul proprio destino che sulla conoscenza delle leggi che regolano i mutamenti della realtà che li circonda. Gli uomini che hanno una concezione marxista del mondo nella loro attività si basano, invece, sulla conoscenza delle leggi oggettive della realtà. il loro scopo fondamentale consiste non nell’adattarsi alle condizioni di vita esistenti ma nel perfezionarle e nel cambiarle costantemente.
Inoltre, il legame della filosofia, in particolare del materialismo dialettico, con la prassi si realizza anche per un’altra via: traducendo in atto la funzione metodologica del materialismo dialettico. Il materialismo dialettico, sulla base dello studio delle leggi universali della realtà, formula determinati princìpi o norme che è indispensabile osservare nell’attività pratica, nella soluzione di questo o quel compito, elabora, in altre parole, un metodo d’azione, un metodo di trasformazione rivoluzionaria della realtà. Perciò, per i sovietici che costruiscono una società nuova, la società comunista, e realizzano con ciò un’opera di portata storica, è estremamente necessario impadronirsi della filosofia marxista. Tale dottrina li aiuterà ad orientarsi meglio nella soluzione dei problemi che sorgono nella pratica, a trovare per la loro soluzione le vie che maggiormente rispondono alle condizioni concrete.
4. LA DEFINIZIONE DELL’OGGETTO DELLA FILOSOFIA
Dopo l’esame dei tratti specifici della filosofia e delle funzioni che essa adempie si può dare una definizione del suo oggetto.
La filosofia rappresenta una concezione del mondo e un metodo di conoscenza, elaborati sulla base di una determinata soluzione del problema del rapporto tra la materia e la coscienza.
Tale definizione è applicatile a qualsiasi filosofia, a qualsiasi concezione filosofica: materialistica e idealistica, dialettica e metafisica. Noi però non ci occuperemo dell’oggetto di studio di tutte le correnti filosofiche. Nostro compito è mettere in luce soltanto il contenuto della filosofia marxista-leninista.
La filosofia marxista-leninista è una scienza che studia le leggi oggettive dell’interconnessione della materia e della coscienza e le leggi universali della natura, della società, del pensiero ed elabora una concezione del mondo e un metodo di conoscenza e di trasformazione della realtà.
5. LA FILOSOFIA E LE SCIENZE CONCRETE
Qual è il rapporto tra la filosofia e le scienze concrete? Alcuni autori presentano la filosofia come «scienza delle scienze» che deve raggruppare tutte le scienze in un tutt’uno e includerle in questa forma nel suo contenuto, indicando a ciascuna di esse il posto che le spetta e i princìpi che ne determinano il contenuto e l’indirizzo di sviluppo. Tale concezione era caratteristica del periodo premarxista di sviluppo della filosofia. Ma anche dopo il sorgere del materialismo dialettico, alcuni autori borghesi si attengono al dato punto di vista.
I positivisti sostengono su tale questione una concezione diametralmente opposta. Essi affermano che le scienze concrete non hanno bisogno della filosofia, che possono benissimo farne a meno. Non solo, ma i positivisti dichiarano che bisogna distruggere la filosofia perché essa è soltanto dannosa e ostacola lo sviluppo della conoscenza scientifica, nella realtà non v’è nulla che corrisponda ai suoi princìpi, non indaga né può indagare - nulla, non ha né può avere - un metodo scientifico di conoscenza, ecc.
Orbene, se queste concezioni possono essere riferite in una qualche misura alla filosofia idealistica, la quale all’indagine della realtà oggettiva sostituisce la costruzione di questi o quei princìpi derivati dal pensiero puro, esse sono del tutto estranee al materialismo dialettico. Il materialismo dialettico ha un campo d’indagine proprio solo ad esso, ha un suo metodo scientifico di conoscenza.
A differenza delle scienze concrete che studiano le leggi proprie a questo o quel campo della realtà, il materialismo dialettico studia le leggi universali che si manifestano in tutti i campi del mondo oggettivo, in tutti i fenomeni. Però le leggi universali si manifestano non in modo separato dalle leggi particolari, non parallelamente ad esse, ma tramite di esse, sotto forma di determinati lati di queste ultime. Perciò, per scoprire questa o quella legge filosofica, bisogna rivolgersi alle scienze concrete, analizzare le leggi specifiche, da esse scoperte, individuare in esse ciò che si ripete in tutti i campi della realtà, ciò che è universale. Per questo la filosofia è organicamente legata alle scienze concrete, ai dati scientifici da esse ottenuti, attinge il suo contenuto da questi dati e può svilupparsi con successo solo sulla base della loro generalizzazione.
A loro volta, le scienze concrete sono anch’esse legate indissolubilmente alla filosofia, ai risultati delle sue ricerche. La filosofia, infatti, studiando le leggi universali della realtà e le leggi oggettive dell’interconnessione tra la materia e la coscienza, elabora su questa base la teoria della conoscenza e la logica le leggi e le forme del pensiero - e, insieme ad esse, anche il metodo generale di conoscenza. Le scienze concrete non possono esistere e svilupparsi con successo senza utilizzare le forme logiche e le leggi del pensiero. Esse non possono fare a meno neanche del metodo generale di conoscenza. Ma esse non possono elaborare da sé tutto ciò, in quanto non studiano le leggi universali della realtà, le quali presiedono al processo del pensiero e sulla base delle quali si formulano le leggi della logica e i princìpi del metodo dialettico di conoscenza.
Quindi, il materialismo dialettico e le scienze concrete, pur avendo i propri campi specifici d’indagine, sono in interconnessione e interdipendenza organica tra di loro e non possono svilupparsi con successo se separate tra di loro.
6. IL CARATTERE DI PARTE DELLA FILOSOFIA
In una società divisa in classi la filosofia ha sempre carattere di parte. Elaborando un sistema di concezioni sul mondo nel suo insieme, sulla realtà, essa al tempo stesso esprime e difende gli interessi di queste o quelle classi, di questi o quei gruppi sociali. Attraverso le concezioni filosofiche le classi e i gruppi sociali si rendono sul piano teorico coscienti della loro posizione nella società, del loro rapporto con la realtà che li circonda, con i processi che vi si svolgono. Essendo la base della concezione del mondo di questa o quella classe, la filosofia forma il modo di pensare e d’agire di questa classe, le sue esigenze e i suoi ideali. «La filosofia contemporanea scrisse Lenin - ha un carattere di parte, come l’aveva la filosofia di duemila anni fa. In sostanza, i partiti in lotta sono il materialismo e l’idealismo, anche se si nascondono dietro nuove etichette escogitate da pedanti e da ciarlatani, o dietro una stupida indipendenza delle parti» 4.
Il materialismo, di regola, è legato alle classi progressiste interessate al progresso storico, mentre l’idealismo è legato alle classi reazionarie che difendono lo stato di cose esistente. Esprimendo gli interessi degli strati progressisti della società il materialismo si appoggia alla scienza, si avvale dei suoi dati; l’idealismo, invece, è legato di regola alla religione, si appoggia ai suoi dogmi e ne motiva la necessità. Sottolineando il carattere di parte della filosofia borghese e il suo legame con la teologia, Lenin scriveva: «Neppure una parola di nemmeno uno di questi professori (borghesi N.d.A.) capaci di produrre le opere più preziose in campi particolari della chimica, della storia, della fisica - può essere creduta quando si passa alla filosofia. Perché? Per la stessa ragione per la quale neppure una parola di nemmeno uno dei professori di economia politica capaci di produrre le opere più preziose nel campo delle indagini particolari condotte sui fatti - può essere creduta quando si passa alla teoria generale dell’economia politica. Poiché quest’ultima, nella società contemporanea, è una scienza di parte, come la gnoseologia»5.


1 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, vol. V. Roma, Editori Riuniti, p. 47.
2 V. I. Lenin, Opere complete, vol. 38. Roma, Editori Riuniti, p. 366.
3 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 20.
4 V. I. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 352.
5 Ibidem, pp. 336-337.


Capitolo II
LA LOTTA TRA IL MATERIALISMO E L’IDEALISMO NELLA FILOSOFIA PREMARXISTA
1. IL SORGERE DELLA FILOSOFIA
La filosofia come sistema di idee sul mondo, come concezione del mondo degli uomini non è esistita sempre. Essa è sorta soltanto ad un determinato stadio di sviluppo della società. Perché la filosofia potesse apparire, erano necessari un notevole livello di sviluppo del pensiero e condizioni sociali favorevoli. Nei periodi iniziali di esistenza e di sviluppo della società le forze produttive erano ad un livello molto basso e l’uomo dipendeva in tutto e per tutto dalla natura, era in balìa delle sue forze spontanee. Naturalmente, siccome non conosceva le cause effettive che provocavano il sorgere di questi o quei fenomeni, egli era portato a conferire anima a questi ultimi, a ritenere che essi fossero determinati, generati da forze o esseri soprannaturali. Nasce così la credenza nell’esistenza degli dei e, insieme ad essa, la religione, le concezioni religiose.
La forma prima, iniziale di una visione globale del mondo fu, quindi, una concezione religiosa del mondo, generata dall’impotenza dell’uomo primitivo nella lotta contro la natura, dalla paura per le misteriose forze spontanee che influivano sulla sua attività vitale.
Con la divisione della società in classi in schiavi e proprietari di schiavi - le idee religiose cominciarono ad essere condizionate, ad essere generate anche da un’altra causa, e precisamente, dalla dipendenza dell’uomo dalle forze spontanee sociali, le quali apportavano agli uomini calamità non minori di quelle provocate dalla natura. Nella società schiavistica la religione diviene, inoltre, un’arma spirituale nelle mani dei padroni di schiavi per giustificare e sancire lo sfruttamento degli schiavi. Con il sorgere delle classi fa la sua apparizione anche la lotta di classe, la quale trova inevitabilmente il suo riflesso nella vita spirituale degli uomini, nella lotta tra le diverse concezioni del mondo che riflettono la diversa posizione delle classi e degli altri gruppi sociali. Nella società schiavistica, in relazione al fatto che il lavoro intellettuale, separatosi dal lavoro fisico, divenne monopolio dei proprietari di schiavi, la lotta ideologica tra le diverse concezioni del mondo si svolgeva soprattutto tra i vari gruppi di proprietari di schiavi che occupavano una diversa posizione in seno alla società, e in particolare, tra gli strati avanzati artigiani e mercantili - della classe dei proprietari di schiavi e i gruppi conservatori dell’aristocrazia gentilizia. I primi tendevano a sviluppare ulteriormente le forze produttive, il commercio, lottavano per le forme democratiche di Stato schiavistico. Gli strati aristocratici, invece, ostacolavano tale processo. La lotta dei gruppi sociali progressisti contro l’aristocrazia reazionaria determinò il sorgere e lo sviluppo della concezione materialistica del mondo, la quale fu contrapposta alle concezioni religiose dell’aristocrazia schiavistica.
I rappresentanti della parte reazionaria dei proprietari di schiavi, lottando contro il materialismo, cominciarono ad elaborare concezioni idealistiche (con le quali motivavano la religione) e a contrapporle all’interpretazione materialistica dei processi che si svolgono nel mondo. Così appare l’idealismo come reazione alla nascita della concezione materialistica del mondo. Una volta sorti, l’idealismo e il materialismo cominciarono a condurre una lotta costante tra di loro, lotta che non è mai cessata. Tutta la successiva storia dello sviluppo della filosofia non rappresenta altro che la lotta tra questi due indirizzi in filosofia: il materialismo e l’idealismo.
2. LA LOTTA TRA IL MATERIALISMO E L’IDEALISMO NELLA SOCIETÀ SCHIAVISTICA
La dottrina materialistica sul mondo affonda le sue radici nella remota antichità. Essa appare in Egitto e in Babilonia tra la fine del terzo e l’inizio del secondo millennio prima dell’èra moderna. Già in quell’epoca si incontrano ragionamenti secondo cui l’acqua è la causa del mondo, che dall’acqua hanno origine tutte le cose, tutti gli esseri viventi.
Ma la dottrina materialistica diviene un sistema di idee più o meno organico soltanto nel primo millennio precedente l’èra moderna. È proprio in questa forma che l’incontriamo in quell’epoca in India e in Cina. Così, ad esempio, nei secoli VIII-VII prima della nostra èra troviamo in India la corrente filosofica dei Lokoyata (letteralmente: concezioni di uomini che riconoscono soltanto il mondo sensibile - loka) che si presenta come un sistema di concezioni materialistiche completamente formato. Fondatore della scuola dei Lokoyata fu Brihaspati.
I seguaci della scuola dei Lokoyata sottoponevano ad acuta critica le dottrine religiose che in quella epoca dominavano in India e che erano esposte nei Veda, i libri sacri del brahmanesimo. Essi condannavano decisamente «tutte le forme di magia e di superstizione» e proclamavano invenzione dei sacerdoti i dogmi sull’immortalità dell’anima, le loro asserzioni che dopo la morte l’anima dell’uomo continuerebbe a vivere nel mondo trascendentale. Secondo la loro dottrina, non vi è e non può esservi nessun’altra vita all’infuori di quella terrena e perciò l’anima dell’uomo muore insieme al suo corpo.
Pressappoco nella stessa epoca sorse una concezione materialistica del mondo anche in Cina. In Cina nei secoli IX-VII prima dell’èra moderna era diffusa una dottrina che era diretta contro la religione e che affermava che il mondo è eterno ed è costituito dal fuoco, dall’acqua, dal legno, dalla terra e dal metallo. Tutte le cose, dicevano i primi materialisti cinesi, non sono altro che le combinazioni dei suddetti cinque elementi.
La concezione materialistica del mondo ottenne ulteriore sviluppo nella filosofia del taoismo, apparsa nel VI secolo prima dell’èra moderna, di cui è considerato fondatore Láo Tsze. Secondo il taoismo il mondo è eterno, è in stato di continuo movimento e cambiamento. Tutto ciò che esiste, il movimento stesso sono governati, secondo i taoisti, dal Tao, una legge di eterna armonia («Tao», in cinese, «via», «legge»; di qui il nome della dottrina).
Le correnti materialistiche, sorte in India e in Cina nel primo millennio, lottarono nei successivi secoli prima contro le concezioni religiose e poi contro l’idealismo, base teorica della religione; nel corso di questa lotta esse andavano sviluppandosi e arricchendosi.
A cominciare dal VI secolo prima dell’èra moderna, il pensiero filosofico riceve impetuoso sviluppo nella Grecia antica. Qui la concezione materialistica del mondo pure sorse nella lotta contro la religione riflettendo gli interessi degli strati progressisti della classe dei proprietari di schiavi. I fondatori della filosofia materialistica greca furono i rappresentanti della cosiddetta scuola ionica, sorta a Mileto: Talete (ca. 624-547 a. C.), Anassimandro (ca. 610-546 a. C.), Anassimene (ca. 585-525 a. C.).
Secondo la dottrina di Talete, la causa prima di tutto ciò che esiste è l’acqua. Tutto deriva dall’acqua e tutto si trasforma in ultima istanza in acqua.
Anassimandro pose come principio di tutte le cose 1’«apeiron»: l’infinito o l’indeterminato che genera cose e fenomeni mediante movimento e emanando opposti come 1 «umido» e il «secco», il «freddo» e il «caldo». Cose e mondi interi che sorgono e esistono per un determinato periodo di tempo, in forza delle stesse cause (movimento e emanazione degli opposti) si distruggono, scompaiono e si trasformano di nuovo in apeiron. In tal modo si assiste nel mondo, secondo Anassimandro, ad un eterno movimento circolatorio nel corso del quale l’uno sorge dall’apeiron, l’altro scompare trasformandosi in apeiron. Con la sua posizione materialistica Anassimandro, come vediamo, fa un tentativo di presentare il mondo in modo dialettico, in movimento, come un mondo in cui il processo di sdoppiamento dell’uno (apeiron) in opposti (emanazione degli opposti) esercita un ruolo determinato.
Un analogo punto di vista sulla natura delle cose sensibili fu sviluppato anche da Anassimene. Secondo lui, l’elemento primordiale delle cose è l’aria, il cui movimento determina il sorgere e lo scomparire delle cose. Essendo in costante movimento, l’aria ora si condensa, ora si rarefà, diventando così ora l’uno, ora l’altro. Ad esempio, rarefacendosi l’aria diventa fuoco, condensandosi diventa vento, condensandosi ancora di più diventa nuvola. Diventando ancor più densa si trasforma in terra e infine in roccia. Tutte le altre cose, compreso dio, sono sorte da questi sopraelencati stati di materia.
Ai primi materialisti greci che esprimevano e difendevano gli interessi degli strati progressisti della classe dei proprietari di schiavi, i gruppi reazionari, aristocratici contrapposero prima i dogmi religiosi sull’origine e l’essenza del mondo e poi una filosofia idealistica elaborata dai loro rappresentanti.
La prima forma dell’idealismo nella Grecia antica fu il pitagorismo, fondato dal filosofo e matematico Pitagora (ca. 580-500 a. C.). Secondo la dottrina dei pitagorici gli elementi fondamentali costitutivi delle cose sono i rapporti quantitativi, i numeri che determinano l’essenza, la natura delle cose. È sempre da essi che dipende anche tutto l’Universo. Secondo i pitagorici l’Universo non è che l’armonia dei numeri.
Sviluppando la loro dottrina i pitagorici sottoponevano a critica la filosofia materialistica della scuola ionica, ma il materialismo acquistava sempre maggiore popolarità e si propagava rapidamente.
Un notevole contributo allo sviluppo della teoria materialistica del mondo fu dato dal filosofo della Grecia antica Eraclito di Efeso (ca. 530-470 a. C.). Secondo Eraclito il principio del mondo è il fuoco che condiziona il sorgere e lo scomparire delle cose. Tutto deriva dal fuoco, diceva Eraclito, e tutto si trasforma in ultima istanza in fuoco. Secondo Eraclito il fuoco è simile all’oro, il quale si scambia con tutto e con il quale si scambia tutto. Il mondo, secondo Eraclito, non è stato creato da nessuno, ma esiste eternamente e non dipende da nessuna forza soprannaturale. Eraclito scriveva che il mondo, l’uno del tutto, non è stato fatto da nessuno degli dei o degli uomini, ma è stato, è e sarà un fuoco eternamente vivo che si accende e si spegne secondo misura.
Ponendo il fuoco come il principio materiale dell’Universo, Eraclito sottolineava continuamente l’idea dell’incessante movimento e mutamento del mondo, della contraddittorietà come fonte del movimento, della possibilità del trapasso degli opposti gli uni negli altri. Egli formulò così una serie di princìpi dialettici che riflettono in un modo o nell’altro il vero stato delle cose anche se non poggiano su dati scientifici. Eraclito affermava: «Non è possibile discendere due volte nello stesso fiume» (discendendovi per la seconda volta immancabilmente l’acqua non sarà quella di prima); «in noi sono un tutt’uno ciò che è vivo e ciò che è morto, ciò che è sveglio e ciò che dorme, ciò che è giovane e ciò che è vecchio. Il fatto è che questo, una volta mutato, è quello e viceversa quello, una volta mutato, è questo»; «il freddo diventa più caldo, il caldo diventa più freddo, l’umido diventa secco, il secco diventa umido».
L’ulteriore sviluppo della linea materialistica della filosofia greca antica è legato alla dottrina di Democrito (V secolo a. C.) il quale formulò la teoria atomistica della struttura della materia. Secondo questa teoria gli elementi primordiali del mondo sono gli atomi, la cui quantità è infinita, e il vuoto in cui essi si muovono. Muovendosi in questo spazio vuoto, gli atomi si incontrano e formano questi o quei corpi. Tutto ciò che esiste è formato dagli atomi. Persino l’anima dell’uomo è una combinazione di determinati atomi. Democrito rivolse la sua dottrina contro i pitagorici i quali affermavano che l’anima è immortale. Secondo Democrito l’anima perisce insieme all’organismo. La morte dell’organismo significa disintegrazione degli atomi che lo compongono, ma ciò significa che gli atomi che compongono l’anima pure si disintegrano.
Successivamente la teoria atomistica fu sviluppata dal filosofo greco Epicuro (IV-III secolo a. C.) e dal filosofo romano Tito Lucrezio Caro (1 secolo a. C.).
Contro la teoria atomistica di Democrito e le concezioni materialistiche degli altri filosofi, in particolare di Eraclito, intervenne il filosofo-idealista greco Platone (427-347 a. C.) che esprimeva gli interessi dell’aristocrazia schiavistica reazionaria.
La dottrina platonica pone un netto dualismo tra il mondo reale composto dalle idee universali («essenze ideali») e il mondo non reale che è costituito dalle cose sensibili e che non è altro che un riflesso, un’ombra del mondo reale (mondo delle idee). Per illustrare il rapporto tra il mondo delle cose sensibili (mondo non reale) e il mondo delle idee (mondo reale), Platone riporta il seguente esempio: immaginiamoci un uomo rinchiuso in una caverna e incatenato ad un palo in modo da volgere sempre la schiena all’entrata da dove arriva nella caverna la luce. Non può perciò vedere quello che avviene al di fuori. Ed ecco al passare davanti alla caverna di persone appariranno sulla parete opposta all’ingresso le ombre delle persone che passano e degli oggetti che portano. L’uomo nella grotta vedrà queste ombre e le prenderà per un mondo reale, anche se esse non sono che un calco imperfetto di questo mondo reale. Sono analoghi calchi o, più esattamente, ombre del mondo delle idee anche le cose sensibili, il mondo sensibile. E noi, dice Platone, ci troviamo in una situazione analoga a quella del prigioniero legato nella caverna, prendiamo per reale questo mondo delle cose, anche se quest’ultimo rappresenta solo le ombre del mondo reale, e precisamente del mondo delle idee nascosto al nostro sguardo.
Il mondo delle idee, secondo la dottrina di Platone, è riunito in un tutt’uno dall’idea del «bene supremo» ed esiste in eterno; mentre le cose, i fenomeni sono transitori, temporanei. Essi sorgono dall’essere informe, indefinito (materia) come risultato della fusione con essi di questa o quella idea e scompaiono subito non appena l’idea abbandona la cosa che ha creato. Dalla dottrina di Platone risulta che le cose e i fenomeni derivano dalle idee che in ultima istanza risalgono a dio.
Profonde critiche alla dottrina platonica delle idee furono mosse da Aristotele, la cui dottrina rappresenta il coronamento dello sviluppo della filosofia greca antica. Nella sua filosofia Aristotele (384-322 a. C.) generalizzò e rielaborò in maniera creativa tutto quanto era stato creato dai precedenti pensatori. Le sue opere abbracciano tutti i lati della realtà: la natura, la società umana e il sapere. Criticando le concezioni filosofiche di Platone, in particolare la sua tesi sulle idee come primo dato rispetto alle cose sensibili, sulla loro esistenza autonoma, Aristotele dimostrò che non esiste alcuna idea universale al di fuori delle cose e indipendentemente da esse. Tutto ciò che è reale si manifesta soltanto attraverso le cose. Per quanto riguarda le idee universali, esse sorgono nella coscienza dell’uomo nel processo della conoscenza, nella misura in cui l’uomo incontra quello che si ripete e ne diventa conscio.
Nelle sue concezioni filosofiche Aristotele oscilla fra il materialismo e l’idealismo.
Secondo Aristotele, alla base di tutte le cose è la materia prima. Essa è priva di forma, indeterminata, cioè si presenta solo come possibilità dell’essere. Questa possibilità si trasforma in cosa sensibile reale solo quando la materia si fonde con questa o quella forma (usando la terminologia di Aristotele), che per l’appunto le conferisce determinatezza.
Anche se la concezione del mondo di Aristotele è in sostanza materialistica, essa presenta seri difetti. In primo luogo, Aristotele stacca la materia prima dal movimento, essa rappresenta, secondo lui, una massa indeterminata, amorfa, in cui il movimento è apportato dal di fuori dalla forma. In secondo luogo, l’elemento attivo che provoca il mutamento della materia, il passaggio di essa dallo stato indeterminato allo stato determinato e poi da uno stato all’altro, cioè la forma, prende inizio in ultima analisi da dio come primo motore. Tutto ciò mostra l’incoerenza della dottrina di Aristotele. Oltre agli elementi di dialettica e alle tendenze materialistiche sono propri alle sue concezioni anche elementi di metafisica e tendenze idealistiche.
Dopo Aristotele subentra nella filosofia greca un periodo di decadenza dovuta alla crisi dello Stato schiavistico. Appare la tendenza del passaggio dal materialismo all’idealismo e al misticismo. Il processo di rinascita e di diffusione delle concezioni idealistiche si intensificò particolarmente nel periodo di decomposizione della società schiavistica romana. In quel periodo esse collimano direttamente con la religione, in particolare con il cristianesimo sorgente, il quale diventa nell’epoca del feudalesimo europeo l’ideologia dominante.
3. LA LOTTA DEL MATERIALISMO E DELL’IDEALISMO NELLA FILOSOFIA MEDIEVALE
Il Medioevo, di cui era caratteristico il dominio illimitato dell’ideologia ecclesiastica in tutte le sfere della vita spirituale della società, lasciò un’impronta anche sullo sviluppo del pensiero filosofico. La filosofia era oggettivamente e ufficialmente al servizio della teologia. Era chiamata a giustificare, ad argomentare i dogmi religiosi, a dimostrarne l’attendibilità e l’incrollabilità. Perciò tutti i problemi filosofici assumevano involontariamente una sfumatura religiosa.
Nella filosofia medievale si prestava attenzione particolarmente grande al problema del rapporto tra i concetti generali, i cosiddetti universali, e le cose del mondo sensibile. Durante tutto il Medioevo si svolse intorno a questo problema una disputa accanita. In quell’epoca la soluzione della questione fondamentale della filosofia e la lotta fra il materialismo e l’idealismo erano organicamente legati alla soluzione della questione del rapporto fra il particolare e l’universale, fra le idee universali e le singole cose.
Gli idealisti affermavano che l’universale esiste indipendentemente dalle singole cose e prima delle cose, esso è legato a dio. Non solo, ma dio stesso è l’essenza universale di tutto quello che esiste. Per quanto riguarda le singole cose, esse sono state create in ultima analisi da dio. I fautori del dato punto di vista erano chiamati realisti in quanto ammettevano e motivavano l’esistenza reale dei concetti universali.
Gli esponenti della tendenza materialistica sostenevano l’opposto. Essi dichiaravano che l’universale non può esistere realmente e tanto meno prima del particolare. Esistono realmente solo le cose singolari. Mentre l’universale è, secondo loro, solo un segno che non riflette nulla, e perciò è assente nella realtà. I sostenitori di questo punto di vista erano chiamati nominalisti, poiché negavano l’esistenza reale dell’universale e affermavano che esso non sarebbe che un nome.
Può servire come esempio della concezione idealistica il dottrina del filosofo medievale Anselmo d’Aosta, arcivescovo di Canterbury (1033-1109). Secondo lui, esiste un dio eterno, unico, immutabile, che si presenta in sé e per sé come essenza universale. Tutto quello che esiste al di fuori di dio ha la sua origine in dio. Il principio divino è eterno e immutabile. Le cose devono la loro origine all’opera creatrice di dio. All’atto della creazione dio prima concepisce mentalmente queste o quelle cose e i suoi pensieri sono i prototipi in base ai quali si creano in seguito le cose. Dio si presenta qui come artista che crea le proprie opere secondo i suoi intenti. L’essere ideale delle cose nell’intelletto divino è eterno mentre l’essere reale (essere al di fuori di dio) ha un carattere temporaneo, passeggero. Partendo dal suo sistema dell’essere, Anselmo d’Aosta affermava che le idee universali devono esistere prima delle cose singolari. Le cose materiali singolari sono il secondo dato, poiché esse traggono la loro origine dalle idee e in ultima istanza da dio.
Contro questo punto di vista si schierò decisamente il filosofo-nominalista medievale Roscellino (1050 ca. - 1112 ca.). Secondo la sua dottrina l’universale non solo non precede le cose sensibili, non solo non le determina, ma non esiste in generale. Le idee universali secondo Roscellino non sono altro che le parole, i nomi che l’uomo dà alle cose singolari. Esistono realmente solo le singole cose.
Negando l’esistenza dell’universale, delle idee universali, Roscellino cercò di confutare la dottrina della chiesa sulla natura di dio come un’unica sostanza in tre persone uguali e distinte. Secondo lui non è possibile che esistano e dio e tre persone tramite le quali esso si manifesterebbe: il padre, il figlio e lo spirito santo. Se esistono queste tre persone, devono esserci allora tre sostanze divine e non una sola. Queste affermazioni di Roscellino suscitarono una tempesta di indignazione da parte della chiesa e furono condannate come contrarie alla dottrina ecclesiastica.
Tommaso d’Aquino, teologo e filosofo italiano (1225-1274), fece un tentativo di superare le estreme prese di posizione dei nominalisti e dei realisti sulla questione del rapporto fra il particolare e l’universale.
Tommaso d’Aquino considerava la causa prima di tutto quello che esiste dio, il quale è un essere spirituale assoluto e perfetto. Dio contiene in sé nella forma di idee universali tutto quello che vi è al mondo. Ad immagine di queste idee egli creò le cose materiali. In tal modo, Tommaso è d’accordo con i realisti che le idee universali si trovano prima delle singole cose nella mente divina. Ma al tempo stesso egli tentava di giustificare i nominalisti affermando che le idee universali presenti non nella mente divina ma in quella umana non possono esistere prima delle cose, non possono generarle, ma vengono create dall’uomo stesso nel processo di conoscenza del mondo esterno.
Tommaso d’Aquino tentò di argomentare teoricamente il ruolo ausiliario della filosofia rispetto alla teologia (dottrina della divinità). Secondo il suo parere la filosofia assolve la stessa missione della teologia, cioè dà un fondamento ai dogmi ecclesiastici ma seguendo una via diversa. La teologia fa derivare questi dogmi direttamente da dio, la filosofia li fa derivare dalle opere divine (cose materiali).
Ai nostri giorni in molti paesi occidentali la dottrina di Tommaso d’Aquino rinasce e trova diffusione particolarmente vasta nella forma del neotomismo. Il suo compito fondamentale consiste nel conciliare la filosofia e le scienze concrete con la religione, con la teologia, nel porle al servizio di quest’ultima.
4. IL MATERIALISMO DEL XVII-XVIII SECOLO E LA SUA LOTTA CONTRO LA RELIGIONE E L’IDEALISMO
Al Medioevo, epoca contrassegnata dal dominio incontrastato della scolastica sterile che gravitava esclusivamente intorno ai dogmi ecclesiastici, si sostituì una nuova epoca, quella del Rinascimento. Con la nascita e con l’affermarsi dei rapporti di produzione capitalistici si intensificò la produzione, sorsero e cominciarono a svilupparsi l’industria, il commercio. Per ciò era necessario conoscere meglio le leggi in base alle quali si sviluppano e funzionano i fenomeni del mondo esterno. Sorge la necessità di studiare la natura, di conoscerla. L’intelletto umano comincia a rivolgere la sua attenzione alla natura, all’attività materiale degli uomini. Questa tendenza non poteva non ripercuotersi sulla filosofia, sul suo sviluppo. La filosofia viene proclamata scienza chiamata a stabilire le verità che aiutano nella vita pratica e orientano l’attività per la produzione dei valori materiali.
Le tesi generali sostenute dalla filosofia medievale e il metodo da essa seguito vengono proclamati falsi, poiché inducono in errore gli uomini. Vengono proposti nuovi metodi d’indagine, nuovi metodi di conoscenza della verità. Precursore di tale indirizzo in filosofia è considerato Francesco Bacone (1561-1625).
Bacone sottopose ad aspra critica prima di tutto la filosofia idealistica, dall’antichità al Medioevo. Egli la criticò in due direzioni. In primo luogo, egli rimproverava agli idealisti di aver confuso il divino e l’umano sino al punto di fondare le loro dottrine filosofiche esclusivamente sui libri della sacra scrittura. Secondo la sua dottrina nelle loro ricerche le scienze e la filosofia devono farsi guidare da un determinato metodo e poggiare sulla pratica mentre la teologia poggia solo sulla fede. Di qui la conclusione: la teologia e la filosofia non devono essere considerate un tutt’uno, esse non devono ingerirsi negli affari l’una dell’altra.
In secondo luogo, egli criticava gli idealisti, particolarmente gli scolastici, per il carattere speculativo dei loro ragionamenti, per la vacuità, la futilità delle loro tesi, per la sterilità delle loro dottrine.
Presentando l’esperienza come base sulla quale bisogna appoggiarsi nel processo della conoscenza Bacone si poneva il compito di liberare gli uomini e la loro coscienza da ogni sorta di pregiudizi che rappresentano un notevole ostacolo alla conoscenza della verità, fanno deviare l’uomo dal giusto cammino, lo disorientano.
Alla base di tutte le cose sono secondo Bacone le «nature» più elementari determinate dalle forme. Il numero delle forme è limitato, ma unendosi fra di loro nelle combinazioni più svariate esse formano tutta la molteplicità dei fenomeni esistenti nel mondo. Il mondo materiale secondo la dottrina di Bacone non ha né principio né fine, esso é esistito e esisterà in eterno. «“... Dal nulla egli scrive - non sorge nulla” e “Nulla si distrugge”. Tutta la quantità di materia o la sua somma rimane costante, non aumenta e non diminuisce»1.
Bacone dichiarava il movimento una delle proprietà fondamentali della materia eternamente esistente anche se lo limitava alle sole 19 forme, il che rappresentava indubbiamente un lato debole della sua dottrina.
La metafisicità è propria anche al metodo di conoscenza di Bacone. Secondo lui nel processo della conoscenza é necessario scomporre l’oggetto in singoli lati, qualità (nature), e ciascuna tale qualità a sua volta in qualità (nature) ancor più semplici. È necessario proseguire così fino ad individuare le nature più elementari. Dopo di ciò dobbiamo scoprire le leggi o le forme che determinano l’essenza di queste nature più elementari e stabilire come queste nature si combinano per dar vita a questa o quella cosa. Come risultato noi, secondo Bacone, verremo a conoscere qualsiasi cosa del mondo che ci circonda.
Bacone non comprendeva che le cose non rappresentano una combinazione meccanica di qualità costanti ma un tutt’uno organico, dove le qualità, i lati sono in interconnessione tra di loro e trapassano gli uni negli altri. Perciò una cosa non può essere conosciuta riunendo meccanicamente i dati sui suoi singoli aspetti.
Nonostante una serie di insufficienze proprie alla dottrina di Bacone, essa fu un notevole passo in avanti nello sviluppo del pensiero filosofico segnando il sorgere di una nuova forma di materialismo filosofico.
La dottrina materialistica di Bacone ottenne ulteriore sviluppo nelle concezioni del filosofo borghese inglese Thomas Hobbes (1588-1679). Hobbes, secondo le parole di Marx, fu il sistematizzatore della dottrina di Bacone. Egli conferì alle concezioni di Bacone una sfumatura di meccanicismo nettamente espressa. Nel suo pensiero la natura (materia) perse il carattere poliqualitativo che le attribuiva Bacone; essa rappresenta secondo Hobbes l’insieme dei corpi che possiedono solo due proprietà fondamentali: l’estensione e la figura. Qualcosa di analogo avvenne anche con il movimento. Hobbes ridusse tutta la molteplicità delle sue forme ad una sola: quella meccanica. Egli interpretava il movimento solo come spostamento dei corpi nello spazio.
Hobbes concepiva il processo della conoscenza come l’addizione e la sottrazione dei pensieri. L’unico metodo scientifico di conoscenza può essere, secondo la sua dottrina, solo il metodo matematico basato su operazioni come l’addizione e la sottrazione.
Elaborando la sua dottrina materialistica del mondo Hobbes conduceva una lotta contro la religione e traeva dalla propria dottrina conclusioni ateistiche. Egli riteneva che la religione deve la sua origine all’ignoranza degli uomini, alla loro paura dell’inscrutabile domani. Essa non ha nulla in comune con la scienza, ma nonostante ciò, secondo Hobbes, è necessaria in quanto aiuta a mantenere gli uomini nei limiti dell’ordine.
Similmente a Bacone e Hobbes in Inghilterra, in Francia la necessità di nuovi metodi di conoscenza fu sostenuta da Rene Descartes (Cartesio) (1596-1650). Egli dipinse un quadro del tutto materialistico del mondo. La natura è costituita, secondo la sua dottrina, dalle minuscole particelle materiali che si distinguono fra di loro per grandezza, forma e senso di moto. Tutta la necessaria molteplicità dei corpi è sorta secondo Descartes senza l’intervento di dio, per via naturale, dai tre tipi diversi di elementi primari che costituivano in un primo tempo l’Universo infinito: elementi simili al fuoco, all’aria e alla terra. Tutti questi elementi erano in movimento e rappresentavano dei vortici. Nel corso del movimento a vortice del primo tipo di elementi sorsero il sole e le stelle; nel corso di un analogo movimento del secondo tipo di elementi sorse il cielo; il movimento del terzo tipo di elementi generò la Terra e gli altri pianeti.
Questa dottrina ingenua, ma per natura materialistica, sull’origine del sistema solare era diretta contro i dogmi della religione sulla creazione del mondo ad opera di dio in sei giorni, perciò in quella epoca era una dottrina progressista.
Elaborando le proprie concezioni sul mondo Descartes, in contrappeso alla scolastica medievale, cercava di poggiare sulla scienza. Ma in quell’epoca ottennero notevole sviluppo solo la meccanica e la matematica. Tutto ciò lasciò inevitabilmente un’impronta sulla dottrina di Descartes condizionandone per molti versi il carattere meccanicistico. Descartes, come Hobbes, privò la materia della sua molteplicità qualitativa e la ridusse, in sostanza, alla sola quantità. Egli non vedeva, in particolare, la differenza qualitativa fra gli organismi viventi e le cose della natura inanimata. Egli concepiva gli animali come macchine semplici. Una macchina, ma più complessa, era secondo lui anche l’uomo. Descartes, come Hobbes, riduceva tutta la molteplicità delle forme di movimento della materia ad una sola forma: lo spostamento dei corpi nello spazio.
Descartes non era un materialista coerente. La sua posizione materialistica si manifestava solo quando si trattava di questi o quei fenomeni della natura. Ma quando si accingeva ad esaminare i princìpi fondamentali dell’essere e della conoscenza lui tradiva il materialismo, poiché risolveva i problemi filosofici partendo dal riconoscimento di dio, dell’anima come l’unico fondamento dell’essere. Egli, ad esempio, affermava che dio, la sua «onnipotenza creò la materia insieme al movimento e alla quiete», che nel mondo vi sono due sostanze indipendenti: la spirituale e la materiale. Tutto ciò conferì alle concezioni filosofiche di Descartes un carattere dualistico a differenza di Bacone e Hobbes le cui concezioni erano monistiche.
A differenza dei materialisti inglesi del XVII secolo, i quali nell’elaborare la teoria e il metodo di conoscenza partivano dall’esperienza, dai dati sensibili, Descartes in tutte queste questioni partiva dalla ragione pura ritenendo che l’esperienza non esercita un ruolo sostanziale nel processo della conoscenza, che nella sfera della conoscenza bisogna poggiare solo sulla ragione, partire dai suoi princìpi, dalle idee che sono innate.
Alcune insufficienze della dottrina filosofica di Descartes, in particolare il suo dualismo, sono superate dal filosofo-materialista olandese Benedetto Spinoza (1632-1677). Secondo la dottrina di Spinoza il mondo per sua natura è unico e questa natura è la sostanza. Per quanto riguarda il pensiero, esso non è che un attributo (proprietà essenziale) della materia parallelamente agli altri suoi attributi, in particolare, l’estensione. La natura esiste in eterno, non è stata mai creata da nessuno e racchiude in se stessa la causa della sua esistenza eterna e infinita. Essendo eterna, la natura (Sostanza) si manifesta attraverso i suoi modi infiniti. Uno di questi modi è anche il movimento che, a differenza degli altri modi, non è finito ma infinito, cioè è caratteristico di tutti gli stati della sostanza (natura).
Proclamando il mondo causa di se stesso, Spinoza elimina così dio come artefice dell’Universo, lo dissolve nella natura.
La causa dell’apparizione della religione erano secondo Spinoza l’ignoranza degli uomini, la loro paura del futuro ignoto. La religione, egli scrisse, non rappresenta «nulla, all’infuori delle fantasie e del delirio di un’anima oppressa e timida»2.
La teoria sviluppata da Spinoza, così come anche le dottrine materialistiche dei suoi predecessori, presenta una serie di insufficienze caratteristiche del materialismo metafisico. Spinoza riduceva tutte le forme di movimento ad una sola: allo spostamento dei corpi nello spazio e persino considerava il movimento non un attributo della materia ma solo una proprietà dei suoi stati finiti. Inoltre, egli non fu in grado di risolvere in modo soddisfacente la questione del rapporto fra la conoscenza sensibile e razionale, non comprendeva l’importanza dell’esperienza, della pratica. Infine, egli era ilozoista: considerava la coscienza una proprietà universale della natura, cioè riconosceva la presenza della coscienza non solo nell’uomo ma anche negli animali e persino nelle cose della natura inanimata.
Le teorie materialistiche da noi esaminate esprimevano gli interessi della classe della borghesia, storicamente progressista nel XVII secolo. Il materialismo nel XVII secolo era una concezione del mondo della borghesia impegnata nella lotta contro il feudalesimo per il dominio politico nella società. Ma non appena la borghesia salì al potere e instaurò la propria dittatura, essa incominciò ad allontanarsi dal materialismo e a volgersi all’idealismo, base «teorica» della religione. Quest’ultima serve ora alla borghesia come uno dei mezzi per la repressione spirituale dei lavoratori, per giustificare e motivare il proprio dominio.
La conquista del potere da parte della borghesia in Inghilterra avvenne alla fine del XVII secolo. Perciò non è casuale che all’inizio del XVIII secolo in Inghilterra cominciassero ad apparire dei sistemi idealistici che erano diretti contro il materialismo e che difendevano la religione. Fra di essi la filosofia dell’idealismo soggettivo del vescovo inglese George Berkeley (1684-1753).
Secondo la dottrina di Berkeley, l’uomo ha a che fare solo con cose e fenomeni singolari da lui percepiti come varie combinazioni di sensazioni di ogni genere: forma, colore, gusto, odore, ecc. Se noi, ragiona Berkeley, rigettiamo queste sensazioni, scomparirà insieme ad esse anche l’oggetto. Quindi, egli conclude, esistono realmente solo le sensazioni. All’infuori di esse, in più di esse, dietro di esse non vi è e non può esservi nulla. Egli scrive: «lo vedo questa ciliegia, io la tocco, io la assaggio; ed io sono convinto che nulla non si può vederlo, sentirlo, assaggiarlo; quindi, essa è reale. Elimina la sensazione dì morbidezza, di umidità, di rossore e di acerbità e tu distruggerai la ciliegia. Poiché essa non è un essere distinto dalle sensazioni, la ciliegia io affermo - non è altro che una combinazione di impressioni sensibili o di idee percepite con vari sensi; queste idee sono unite in una cosa (o hanno un nome loro dato) dalla mente...»3. E se è così, se esistono solo le cose singolari che sono dei complessi di sensazioni dell’uomo, allora la materia, continua a ragionare Berkeley, è semplicemente un’invenzione dei materialisti. In realtà essa non esiste. Secondo Berkeley, essa è stata inventata dai materialisti per poter costruire dei sistemi ateistici di ogni genere nella loro lotta contro la religione. E se la materia non esiste, se essa è una parola vuota, una semplice invenzione, allora risulta confutato anche il materialismo stesso, poiché nella sua dottrina la materia occupa il posto principale, è il principio di partenza.
Così Berkeley tentò di confutare il materialismo e di dar vita ad un sistema idealistico del mondo partendo solo dalle sensazioni.
Ma se esistono solo le sensazioni dell’uomo e se tutto ciò che lo circonda rappresenta questi o quei complessi di sensazioni, allora anche gli altri uomini devono apparire non come esseri reali ma come semplici complessi di sensazioni e allora con la morte del soggetto deve scomparire tutto il mondo. Ma nessuno degli uomini di buon senso dubita dell’esistenza reale degli uomini che lo circondano, del fatto che il mondo non scompare con la morte di un singolo uomo. Questi ragionamenti di Berkeley non sono forse in contrasto con l’elementare buon senso al quale egli tentava di appellarsi? Se Berkeley fosse stato coerente nei suoi ragionamenti, egli avrebbe dovuto giungere a questa conclusione e accorgersi della contraddizione; ma egli viene meno al principio da lui stesso enunciato e dichiara che se non vi è l’uomo che percepisce questa o quella cosa, essa non scompare, poiché è percepita costantemente da dio. E in generale tutte le sensazioni che sorgono negli uomini sono provocate da dio, dal suo influsso sull’anima dell’uomo. In tal modo Berkeley passa dalle posizioni dell’idealismo soggettivo sulle posizioni dell’idealismo oggettivo e difende apertamente la religione, l’esistenza di dio che è per lui, come per i suoi predecessori, gli idealisti medievali, l’artefice di tutto ciò che esiste.
I tentativi di Berkeley e degli altri idealisti di intralciare lo sviluppo e la diffusione delle concezioni materialistiche non ebbero alcun serio successo. Il materialismo continuava a svilupparsi e la sua lotta contro l’idealismo e la religione acquistava un carattere sempre più intenso. Questa lotta era particolarmente acuta in Francia, dove il materialismo rappresentava ancora un’arma spirituale nelle mani degli ideologi della borghesia rivoluzionaria nella lotta contro i rapporti feudali e la Chiesa.
I materialisti francesi criticavano la religione e il clero più aspramente e più conseguentemente dei loro predecessori. Le loro brillanti opere ateistiche non hanno perso il loro valore anche ai nostri giorni.
I rappresentanti del materialismo francese sono: Holbach, Diderot, Helvétius, Lamettrie, ed altri.
Le concezioni materialistiche dei materialisti francesi rappresentano l’ulteriore sviluppo del materialismo meccanicistico del XVII secolo elaborato da Bacone, Hobbes, Descartes, Locke e da altri filosofi.
I materialisti francesi risolvevano in modo più coerente e più profondo il problema fondamentale della filosofia. Essi seppero superare le deviazioni teologiche proprie in questo o quel grado ai loro predecessori; in particolare, nei loro sistemi non vi era posto per dio non solo in qualità di artefice (che desse sia pure il primo impulso) ma anche in qualità di semplice osservatore. Essi dichiaravano in maniera chiara e precisa che la natura esiste oggettivamente, in eterno e non ha assolutamente bisogno di dio. La natura secondo la dottrina dei materialisti francesi rappresenta un insieme di combinazioni di ogni genere di minuscole particelle di materia: atomi o molecole cui sono propri l’estensione, il peso, la figura, il movimento e altre caratteristiche.
Era più coerente rispetto ai materialisti del XVII secolo la soluzione che i materialisti francesi davano al problema del rapporto tra materia e movimento. Anche se essi concepivano il movimento prevalentemente come spostamento dei corpi nello spazio, lo consideravano ciò nondimeno come un attributo della materia il quale deriva dalla sua natura intrinseca. Ad esempio, Holbach scriveva: «... la materia agisce con le sue proprie forze e non ha bisogno dì alcun impulso esterno per essere messa in moto...»4. «... Senza movimento noi non possiamo concepire la natura...»5.
Affermando giustamente che il movimento si riferisce alla natura intrinseca della materia i materialisti francesi non giunsero però alla scoperta della fonte del movimento, della sua causa. Essi non vedevano pure il carattere pluriqualitativo delle varie forme di movimento, non riconoscevano lo sviluppo della natura come movimento dall’inferiore al superiore, negavano i salti, ecc.
Nel campo della teoria della conoscenza i materialisti francesi si schierarono decisamente contro la teoria delle idee o dei princìpi innati formulata da Descartes. Essi ritenevano che tutte le idee, tutte le rappresentazioni degli uomini derivano dall’esperienza, si formano nel processo di conoscenza. In netta antitesi con la dottrina di Spinoza, essi ponevano in primo piano la conoscenza sensibile, le sensazioni da essi considerate l’unica fonte delle nostre conoscenze. Supponendo in modo giusto che le sensazioni fossero l’unica fonte delle nostre conoscenze sul mondo esterno, i materialisti francesi sottovalutavano il ruolo del pensiero anche se lo consideravano necessario per la conoscenza della verità. Insomma, i materialisti francesi non seppero ancora superare l’unilateralità nella comprensione del rapporto fra la conoscenza sensibile e il pensiero, propria ai loro predecessori.
Apportarono un determinato contributo allo sviluppo dell’indirizzo materialistico nella filosofia del XVIII secolo anche i pensatori russi, in particolare Mikhail Lomonosov (1711-1765) e Aleksandr Radistcev (1749-1802).
Lomonosov risolveva in senso materialistico il problema fondamentale della filosofia ritenendo che per la loro natura tutti i corpi e fenomeni sono materiali. La materia è costituita dagli atomi che, unendosi, formano le molecole («corpuscoli») e queste ultime compongono tutti i «corpi sensibili». Lomonosov argomentò per primo con criteri derivanti dalle scienze naturali l’eternità e l’indistruttibilità della materia e del movimento scoprendo il principio di conservazione della materia e del movimento, la cui essenza fu da lui formulata nel seguente modo: «... tutti i mutamenti che si producono nella natura, avvengono nella seguente maniera: quanto si aggiunge ad una sostanza, tanto si toglie ad un’altra... Questa legge della natura è talmente universale che si estende anche alle regole del movimento»6.
Lomonosov sottolineava che la materia e il movimento sono inseparabili, che la materia è in eterno movimento. Riducendo, come tutti gli altri esponenti del materialismo meccanicistico, il movimento allo spostamento dei corpi nello spazio, egli suddivideva il movimento in due tipi: quello esterno, quando un corpo cambia la sua posizione rispetto ad un altro, e quello interno, quando cambiano la loro posizione le particelle che compongono questo o quel corpo.
Lomonosov riteneva che le qualità possibili della materia sono infinite.
Secondo Lomonosov il mondo è conoscibile, mentre la conoscenza stessa avviene mediante percezione diretta delle cose e dei fenomeni da parte degli organi dei sensi e mediante ulteriore elaborazione dei dati sensibili nel corso della riflessione teorica. Lomonosov attribuiva un ruolo ugualmente importante sia all’esperienza che al pensiero teorico, supponendo che fosse possibile conoscere la verità solo alla condizione di una stretta interconnessione sia dell’una che dell’altro. Egli scrisse: «Quello di stabilire una teoria, partendo dalle osservazioni, di correggere le osservazioni tramite la teoria, è il migliore metodo per stabilire la verità»7.
Un altro importantissimo merito delle concezioni materialistiche di Lomonosov consiste nel collegare sempre strettamente le tesi filosofiche con i dati delle scienze naturali e con lo studio dei campi concreti della natura.
La linea materialistica sostenuta in filosofia da Lomonosov fu proseguita alla fine del XVIII secolo in Russia da Radistcev. Seguendo Lomonosov egli sosteneva la materialità del mondo, intendendo per materia l’insieme di tutte le sostanze. Parallelamente ad una serie di altre proprietà, in particolare l’estensione, Radistcev metteva in risalto il movimento della materia eternamente esistente come uno dei suoi attributi inalienabili. È vero però che in questa questione Radistcev non andò più avanti dei suoi contemporanei, i materialisti francesi.
Come Lomonosov egli credeva nella conoscibilità del mondo, vedeva la fonte del sapere nell’esperienza sensibile ma, al tempo stesso, attribuiva grande importanza all’attività mentale volta a conoscere la realtà, ritenendo che la vera conoscenza potesse essere conseguita solo con l’intervento congiunto dei sensi e del pensiero.
Radistcev, rivoluzionario proveniente dalla nobiltà, interveniva decisamente contro gli ordinamenti feudali e l’autocrazia, propugnava l’idea della liberazione rivoluzionaria dei contadini dalla servitù della gleba.
Concludendo l’esame delle concezioni materialistiche dei pensatori dei secoli XVII-XVIII, non è difficile costatare che a tutti essi sono propri in questo o quel grado la metafisica, cioè la negazione dello sviluppo, delle differenze qualitative, della contraddittorietà nella natura, ecc.; il meccanicismo, cioè la riduzione di tutta la molteplicità delle forme di movimento alla sola forma meccanica (spostamento dei corpi nello spazio), la spiegazione di tutta la molteplicità delle differenze qualitative partendo dalle leggi della meccanica. Tutto ciò era indubbiamente condizionato dal livello di sviluppo raggiunto in quell’epoca dalle scienze naturali: erano sviluppate in grado più o meno soddisfacente solo tali scienze come l’astronomia e la fisica (quest’ultima prevalentemente nella parte riguardante la meccanica).
5. LA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA ALLA FINE DEL XVIII SECOLO E NELLA PRIMA METÀ DEL XIX SECOLO
A differenza dell’Inghilterra, della Francia e degli altri paesi dove le rivoluzioni borghesi avevano distrutto o avevano minato in notevole misura i rapporti feudali e avevano sgombrato la strada allo sviluppo del capitalismo, in Germania nel periodo in esame dominavano ancora gli ordinamenti feudali. In quell’epoca la Germania era un paese arretrato diviso in numerosissimi principati. La borghesia non si era ancora costituita in classe, era economicamente debole, non era autonoma sul piano politico. Non essendo capace di agire da sola nella lotta per il potere, essa temeva la rivoluzione e scendeva volentieri ad ogni sorta di compromessi con i signori feudali.
Tale situazione della borghesia tedesca non poteva non ripercuotersi sulle concezioni filosofiche che venivano elaborate e diffuse dai suoi ideologi. Nei sistemi filosofici apparsi in quel periodo si metteva l’accento principale non sulla soluzione dei problemi politici (in questo campo la borghesia dava prova di palese impotenza e incapacità) ma sull’analisi di ogni sorta di problemi astratti. È vero, questi sistemi filosofici subivano un determinato influsso, da una parte, della rivoluzione borghese francese e, dall’altra, delle conquiste delle scienze naturali. A causa di ciò si faceva strada attraverso i sistemi astratti, artificiali e contraddittori degli idealisti tedeschi una dialettica viva e feconda. Proprio questo fu il merito principale della filosofia idealistica classica tedesca.
Il capostipite della filosofia classica tedesca è Immanuel Kant (1724-1804). All’inizio della sua attività filosofica Kant si dedicò allo studio dei problemi delle scienze naturali e cercò di risolverli da posizioni materialistiche. Risale a questo periodo, ad esempio, l’elaborazione da parte di lui di un’ipotesi sull’origine del sistema solare secondo cui il sistema solare sarebbe sorto da una nebulosità gassosa sulla base delle proprie forze naturali interne.
Questa ipotesi di Kant ebbe un importante ruolo nella lotta contro il modo di pensare metafisico che dominava incontrastato in quell’epoca. Essa, secondo un’espressione di Engels, aperse la prima breccia nell’edificio della metafisica.
Ma nei successivi anni, quando Kant cominciò ad occuparsi dei problemi strettamente filosofici, in particolare della teoria della conoscenza, egli passò dal materialismo spontaneo all’idealismo da lui applicato però in modo incoerente. L’essenza della dottrina filosofica di Kant consiste in quanto segue.
Kant riconosce l’esistenza oggettiva della materia, ma ne considera inconoscibile l’essenza, la cosiddetta cosa in sé. Secondo Kant, parallelamente alla materia (realtà oggettiva) esiste il mondo dei fenomeni da lui chiamato natura: è quel mondo che noi percepiamo, in cui viviamo e agiamo. Il mondo dei fenomeni o la natura non possiede un’esistenza autonoma, indipendente dalla coscienza umana ma sorge in seguito all’azione della «cosa in sé» sugli organi dei sensi e non è altro che l’insieme delle rappresentazioni umane. «... Tutti i corpi insieme allo spazio in cui si trovano devono essere riconosciuti scrive Kant - solo come semplici rappresentazioni in noi stessi e non esistono da nessuna parte, solo e esclusivamente nei nostri pensieri»8.
Il mondo dei fenomeni creato dall’uomo non rassomiglia assolutamente secondo la dottrina di Kant - al mondo delle «cose in sé». Ma l’uomo ha a che fare solo con il mondo dei fenomeni. E se è così, il mondo delle «cose in sé» gli è assolutamente inaccessibile. L’uomo non sa e non può sapere nulla di questo mondo, esso è inconoscibile. Secondo Kant tutto quello che sa l’uomo si riferisce solo al mondo dei fenomeni, cioè alle sue proprie rappresentazioni.
Il mondo dei fenomeni secondo Kant è disordinato, è caotico, è privo di leggi, di necessità, esso esiste persino al di fuori dello spazio e del tempo. E solo l’uomo nel processo della conoscenza apporta in questo caos un determinato ordine: colloca tutti i fenomeni nello spazio e nel tempo, comunica ad essi la necessità, le leggi, i nessi causa-effetto. Risulta che l’uomo crea sia il mondo dei fenomeni (in quanto esso, secondo Kant, non è null’altro che l’insieme delle sensazioni e rappresentazioni umane), sia le leggi che agiscono in questo mondo. Ci troviamo di fronte ad una soluzione palesemente idealistica del rapporto fra la coscienza umana e la natura. Ma Kant non è coerente al riguardo. Riconoscendo l’esistenza della realtà oggettiva, indipendente dalla coscienza («cose in sé») Kant tenta così di unire in un solo sistema i princìpi materialistici e idealistici, cerca di conciliare il materialismo con l’idealismo. Proprio questa peculiarità della filosofia di Kant fu rilevata a suo tempo da Lenin. «La principale caratteristica della filosofia di Kant egli scriveva - è la conciliazione del materialismo con l’idealismo, un compromesso fra l’uno e l’altro una combinazione in un unico sistema delle due tendenze differenti e opposte della filosofia. Quando ammette che alle nostre rappresentazioni corrisponde qualcosa fuori di noi, una certa cosa in sé, Kant è un materialista. Quando dichiara questa cosa in sé inconoscibile, trascendente nell’al di là - Kant si comporta da idealista»9.
Nella dottrina filosofica dualistica di Kant le tendenze materialistica e idealistica non possono però essere messe su un piano di parità: la tendenza che predomina è quella idealistica. Perciò non è casuale che tutta la dottrina di Kant risulti subordinata ad uno scopo assai limitato e reazionario, quello di giustificare e di motivare la religione. Proprio per questo, come dichiara lo stesso Kant, egli doveva limitare la sfera della conoscenza.
Infatti, secondo Kant, come abbiamo visto, l’uomo ha a che fare solo con il mondo dei fenomeni e non è in grado di penetrare nel mondo delle «cose in sé». Ma nel mondo delle «cose in sé», secondo Kant, si trovano dio, l’anima, la libera volontà, ecc. E perciò la scienza non è in grado e non ha diritto di giudicare di dio, dell’anima, ecc. (ad esempio, di dimostrare l’inesistenza di dio o la mortalità dell’anima, ecc.), poiché tutto ciò non le è accessibile. L’unica istanza che, secondo Kant, può penetrare nel mondo delle «cose in sé», è in grado di staccarsi dal mondo dei fenomeni e di gettare uno sguardo al mondo dell’al di là, è la religione che collega l’uomo con dio, che gli concede nel mondo dell’al di là la libera volontà affrancandolo da ogni sorta di gravami che lo opprimono e perseguitano nel mondo sensibile.
La filosofia idealistica ricevette ulteriore sviluppo nel sistema di Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), il massimo filosofo-idealista tedesco, artefice della dialettica idealistica.
All’origine di tutto ciò che esiste, è, secondo Hegel, il pensiero puro o l’«idea assoluta». In un primo tempo essa rappresenta l’«essere puro», cioè è priva di qualsiasi contenuto ed equivale al «nulla». Ma ecco che l’«essere puro», e il «nulla» entrano in lotta fra di loro e generano il nuovo concetto: «divenire». Il «divenire» porta al sorgere del concetto: «esserci», ecc. In forza della contraddittorietà propria all’idea assoluta, essa si sviluppa continuamente e genera sempre nuovi concetti, sempre più ricchi di contenuto. E di questo passo fino a quando l’idea assoluta non si esaurirà, fino a quando non dispiegherà tutto il suo contenuto. Dopo aver dispiegato e dopo aver espresso tutta la ricchezza del suo contenuto per mezzo di concetti, l’idea genera la natura, si avvolge in un involucro materiale e comincia ad esistere nella forma di cose e fenomeni materiali, cioè nella forma della natura.
Qui l’idea si presenta prima nella forma di fenomeni meccanici, poi nella forma di composti chimici e, infine, genera la vita, poi l’uomo e la società umana. Con la comparsa dell’uomo l’idea esce dall’involucro materiale che le è «estraneo» e comincia ad esistere nella sua propria forma, cioè nella forma di coscienza, di pensiero degli uomini. Con lo sviluppo della coscienza umana l’idea si libererà sempre più dai ceppi della materia. Infine, nella filosofia hegeliana essa, una volta resasi conscia di tutto il suo precedente cammino, conclude il suo sviluppo e ritorna di nuovo in se stessa, al punto di partenza, ma non già come essere puro ma come essere che ha dispiegato e ha compreso tutta la ricchezza del suo contenuto.
Nella sfera della conoscenza la ricchezza di contenuto dell’idea assoluta o dello spirito assoluto, come Hegel chiamava la sua idea assoluta, in questo stadio finale del suo sviluppo doveva rappresentarla il sistema filosofico hegeliano. Con la sua creazione si conclude il processo della conoscenza, poiché non rimane nulla che non sia conosciuto. La filosofia hegeliana, secondo Hegel, esprime la conoscenza assoluta, una volta per sempre finita, la verità assoluta.
Sul piano pratico lo spirito assoluto doveva esprimerlo la monarchia rappresentativa prussiana che Friedrich Wilhelm III, secondo un’espressione di Engels, aveva promesso con tanta ostinazione, ma invano, ai suoi sudditi.
Da quanto esposto sopra, si vede che la filosofia hegeliana è un lampante esempio di idealismo oggettivo, essa cerca di dimostrare che la coscienza, lo spirito è l’elemento primordiale e che la natura è un elemento derivato. Inoltre, essa è apertamente volta a giustificare e a motivare teoricamente l’eternità dell’esistente stato di cose, della monarchia, della nobiltà, del regime di oppressione delle masse lavoratrici, ecc.
Ma la filosofia hegeliana presenta un altro lato, e precisamente il metodo dialettico, i cui princìpi fondamentali furono esposti da Hegel nel quadro del suo sistema artificiale e assai conservatore.
Elaborando il suo sistema e mostrando come l’idea assoluta generasse il proprio contenuto e poi anche il mondo materiale, la natura e la società, Hegel in primo luogo presentò il mondo come qualcosa sempre in sviluppo; in secondo luogo, approfondì sotto ogni aspetto il contenuto delle leggi fondamentali della dialettica; mostrò come questo sviluppo avvenisse mediante la lotta degli opposti, come nel corso di questo sviluppo si assistesse alla negazione di alcuni concetti da parte di altri concetti e al ripercorrere della tappa passata ad un livello più alto, ecc. ecc.
Hegel indovinò nella dialettica dei concetti, nella loro interconnessione, nei loro trapassi reciproci la vera dialettica, quella delle cose. È vero, Hegel spesso non fu coerente nell’applicare questo o quel principio dialettico, particolarmente quando si trattava di questo o quello stato di cose che lui doveva giustificare in forza della sua appartenenza ad una determinata classe. L’incoerenza della dialettica hegeliana era determinata in notevole misura dal fatto che veniva elaborata nel quadro di un sistema idealistico ed era subordinata alle sue esigenze che erano incompatibili con il rivoluzionarismo della vera dialettica ed entravano in contrasto con questo o quel principio di tale dialettica. E Hegel, per rimaner fedele al proprio sistema, era costretto a tradire il metodo dialettico.
Esaminiamo dunque alcune deviazioni dai princìpi della dialettica condizionate dalla contraddizione tra metodo e sistema nella filosofia di Hegel.
1. Il metodo dialettico parte dal riconoscimento della costanza di movimento e di sviluppo nella natura, nella società e nella sfera del sapere. Il sistema pone però un limite allo sviluppo. Hegel cede al sistema e presenta le cose nel modo come se lo sviluppo cessasse non appena l’idea raggiunge il suo stadio supremo.
2. Il metodo è basato sul riconoscimento dell’universalità delle contraddizioni. Il sistema invece richiede la soluzione delle contraddizioni e contempla la necessità di uno stato ideale, non contraddittorio. Hegel viene a trovarsi dalla parte del sistema e tradisce il suo metodo dichiarando che con l’ingresso dell’idea nella forma suprema della sua esistenza (monarchia rappresentativa prussiana da una parte e sistema filosofico idealistico hegeliano dall’altra) tutte le contraddizioni si risolvono e si raggiunge uno stato assolutamente ideale.
3. Il metodo richiede che il movimento del pensiero corrisponda a quello stato che è caratteristico dei processi reali. Il sistema invece presuppone la costruzione ad arte di nessi, se i nessi e i rapporti effettivi non concordano con questa o quella sua tesi. Hegel anche qui dà la propria preferenza al sistema ed escogita ogni sorta di nessi artificiali invece di concordare la sua dottrina con il vero stato di cose.
4. Il metodo richiede la continua trasformazione della realtà e indica la direzione e il modo in cui essa va attuata, mentre il sistema esige che sia eternato l’esistente stato di cose. Hegel rimane prigioniero del proprio sistema e priva il suo metodo della destinazione pratica applicandolo solo al passato, facendone il metodo di conoscenza di quello che si è già compiuto.
Era possibile superare tutte le indicate deficienze del metodo hegeliano e svilupparlo ulteriormente solo sulla base del materialismo che poggia sulla scienza ed esige che il mondo sia compreso come è, senza alcuna aggiunta estranea. Perciò l’ulteriore sviluppo della filosofia richiedeva oggettivamente il passaggio sulle posizioni del materialismo e una revisione critica sulla base di esso della filosofia idealistica hegeliana.
Questo compito storico fu risolto in parte dal filosofo tedesco del XIX secolo Ludwig Feuerbach (1804-1872). È vero, il suo ruolo consisteva non nell’aver riveduto su base materialistica i princìpi dialettici formulati da Hegel ma nell’esser insorto decisamente contro l’idealismo di Hegel, nell’averlo messo in un canto e nell’aver reintegrato il materialismo nei suoi diritti. Il compito di separare dal ciarpame idealistico dell’hegelismo il nucleo razionale la dialettica - e di svilupparlo ulteriormente su base materialistica fu risolto solo da Marx ed Engels.
Feuerbach mostrò che l’idea assoluta hegeliana non è altro che la ragione umana, staccata dal suo portatore, l’uomo, e trasformata in un essere autonomo che crea da sé il mondo esterno. Feuerbach dichiarò che il ruolo che assolve nella filosofia hegeliana l’idea assoluta, lo assolve nella teologia dio. Perciò essa (idea assoluta) non si distingue in nulla da dio mentre la filosofia hegeliana non è che una varietà della teologia. «Chi non rinuncia alla filosofia di Hegel rilevava Feuerbach - non rinuncia anche alla teologia. La dottrina di Hegel che la natura, la realtà trae la sua origine dall’idea, non è che un’espressione razionale della dottrina teologica secondo cui la natura è stata creata da dio...»10.
Secondo Feuerbach il pensiero non può esistere fuori dell’uomo e indipendentemente da esso, poiché il pensiero è una proprietà del cervello dell’uomo, una sua attività, in cui lo spirituale e il materiale sono in connessione organica tra di loro. Ne consegue che il pensiero, lo spirituale non è l’elemento primordiale, come lo presentava Hegel, ma è un elemento derivato dalla materia, dalla natura.
A differenza di Hegel, il quale fece dello spirito astratto l’oggetto della sua filosofia, Feuerbach pone alla base della sua filosofia l’uomo e la natura. L’uomo è parte della natura, un suo prodotto. Feuerbach fa dell’antropologismo (dal greco «antropos» - «uomo») il principio fondamentale, di partenza per l’elaborazione delle sue concezioni materialistiche. «La nuova filosofia egli scriveva, intendendo la concezione filosofica da lui elaborata - trasforma l’uomo, compresa anche la natura come base dell’uomo, nell’unico oggetto, universale e supremo, della filosofia»11.
Partendo dal suo principio antropologico e sottolineando giustamente (a differenza di Hegel) che l’uomo è parte della natura e che la sua coscienza, il suo pensiero è una proprietà della natura, Feuerbach perdeva però di vista un altro momento e precisamente il fatto che l’uomo, essendo parte della natura, è al tempo stesso un prodotto della vita sociale, che la sua coscienza è determinata non solo dai processi fisiologici che si compiono nell’organismo e in particolare nel cervello, ma anche dai rapporti sociali, nei quali vive e agisce l’uomo, dalle sue condizioni materiali di vita. E se è cosi, allora per quanto Feuerbach possa ribadire l’idea dell’uomo «Vivo», «dotato di sensibilità», che sarebbe organicamente legato alla natura, quest’uomo è un essere astratto, staccato dalle concrete condizioni di vita, privo della sua essenza sociale (umana).
Risolvendo materialisticamente il quesito supremo di tutta la filosofia, il problema se l’elemento primordiale è la coscienza o la materia, Feuerbach risolveva in modo giusto anche il secondo lato di questo quesito. Egli sosteneva l’idea della conoscibilità del mondo e sottoponeva a critica acuta l’agnosticismo kantiano.
Feuerbach riteneva che nel processo della conoscenza il punto di partenza è rappresentato dalle sensazioni che, secondo lui, forniscono all’uomo tutti i dati sulla realtà oggettiva. È importante però anche l’apporto del pensiero. Il pensiero non solo completa i sensi, collegando ciò che gli organi dei sensi percepiscono ciascuno per conto suo, ma è pure presente nella fase di conoscenza sensibile.
Tutto ciò sta a dimostrare che Feuerbach comprendeva l’interconnessione organica della sensazione e del pensiero, del sensibile e del razionale.
Uno dei meriti di Feuerbach è di essersi schierato decisamente contro la religione e di averla criticata in maniera circostanziata. Egli mostrò che dio non rappresenta nulla di soprannaturale ma è stato creato dagli uomini a propria immagine e somiglianza. Secondo Feuerbach gli uomini con il loro pensiero astratto e con la loro immaginazione separarono da sé la propria essenza e cominciarono a percepirla e a rappresentarla nella forma di un essere soprannaturale autonomo - dio.
Mostrando come tutti i tratti con cui viene caratterizzato dio siano umani, appartengano ai singoli uomini o al genere umano nel suo insieme, Feuerbach mette in luce le radici terrene della religione, fa scendere dio dal cielo sulla terra.
Togliendo la maschera di essere soprannaturale a dio, Feuerbach non comprese però l’essenza di classe della religione, non mise in luce le cause sociali che condizionano la fede in dio e nella vita d’oltretomba. Non è perciò casuale che Feuerbach non abbia saputo indicare le vie effettive di lotta contro la religione. Non solo, ma lui persino non avversava ogni religione. Feuerbach si batteva solo contro la religione tradizionale che considerava dio un essere soprannaturale. Ma al tempo stesso lui cercava con tenacia di dimostrare la necessità di una religione nuova, terrena, in cui doveva occupare il posto di dio l’uomo stesso e il principio fondamentale doveva essere l’amore dell’uomo per l’uomo.
Nonostante tutte le deficienze proprie alla filosofia di Feuerbach, un merito indiscutibile di essa è di aver ripristinato i princìpi materialistici (è vero, su una vecchia base, quella metafisica, senza la dialettica, gettata in un angolo insieme all’idealismo hegeliano) e di aver così esercitato un influsso di rilievo sullo sviluppo del pensiero filosofico. Dell’importante ruolo svolto dalla dottrina materialistica di Feuerbach nell’ulteriore sviluppo della filosofia ne è già una prova il fatto che essa è una delle fonti teoriche del marxismo.
6. FILOSOFIA DEI DEMOCRATICI RIVOLUZIONARI RUSSI DEL XIX SECOLO
Come abbiamo già rilevato, Feuerbach reintegrò il materialismo nei suoi diritti, ma il materialismo di Feuerbach fu un materialismo metafisico.
Molte insufficienze del materialismo metafisico furono superate dai democratici rivoluzionari russi che formularono le loro concezioni filosofiche all’inizio degli anni ‘40 del XIX secolo e le svilupparono nei successivi decenni.
In quella epoca nella Russia zarista stava maturando una rivoluzione democratico-borghese e contadina contro la servitù della gleba e lo zarismo. Gli esponenti ideologici di questa rivoluzione in via di preparazione furono per l’appunto i democratici rivoluzionari Vissarion Bielinskij (1811-1848), Alexandr Herzen (1812-1870), Nikolaj Cernyscevskij (1828-1889), Nikolaj Dobroliubov (1836-1861) ed altri.
Una volta compresa la necessità di cambiare gli ordinamenti sociali e il carattere giusto delle rivendicazioni del popolo, in particolare dei contadini, i democratici rivoluzionari russi si schierarono risolutamente dalla parte dei contadini, dei «popolani», e incominciarono ad argomentare nelle loro concezioni filosofiche la necessità di liberazione dei contadini dalla servitù della gleba.
Nell’elaborare le loro concezioni filosofiche, i democratici rivoluzionari russi poggiavano, da una parte, sulla filosofia materialistica dei loro predecessori russi Lomonosov e Radistcev e, dall’altra, sulla dialettica di Hegel e sul materialismo di Feuerbach. Al tempo stesso essi generalizzarono fino ad un certo punto i dati delle scienze naturali della loro epoca.
A differenza di Feuerbach i democratici rivoluzionari russi, criticando Hegel, non rigettarono la sua dialettica, ma cercarono di collegarla con il materialismo, di darne un’interpretazione materialistica.
Fra i primi democratici rivoluzionari russi che sottoposero a critica la filosofia hegeliana fu Herzen. Apprezzando molto la dialettica di Hegel, la quale colse in linee generali le leggi del movimento e dell’evoluzione della natura e del pensiero, Herzen lo criticava per l’astrattezza, per il distacco dalla realtà, dalla vita, per l’idealismo. Hegel, scrisse Herzen, «sacrifica tutto quello che vi è di temporaneo, tutto quello che esiste al pensiero e allo spirito; l’idealismo, nel clima del quale è stato educato, l’idealismo che ha succhiato con il latte rende unilaterale il suo modo di pensare..., e lui cerca di schiacciare con lo spirito, con la logica la natura; qualsiasi suo prodotto lui è pronto a considerarlo uno spettro...»12. «L”’essere puro” è un abisso nel quale sono finite tutte le definizioni dell’essere reale... Ma non bisogna credere che un determinato essere sorga veramente dall’essere puro; è forse dal concetto di genere che sorge l’individuo esistente?»13.
Secondo Herzen, possiede un’esistenza effettiva non l’essere puro ma le cose materiali che compongono nel loro insieme la natura. Però quanto concerne lo spirito, il pensiero, essi, secondo la dottrina di Herzen, sono una conseguenza dello sviluppo della natura, una proprietà degli enti materiali che hanno raggiunto un determinato livello di sviluppo.
Secondo i democratici rivoluzionari russi la realtà possiede un’infinità di varie qualità, essa è in costante movimento e sviluppo. «La vita della natura scrisse Herzen - è uno sviluppo ininterrotto...»14. Un’analoga idea fu espressa anche da Bielinskij. «Non c’è un limite allo sviluppo dell’umanità... l’umanità non si dirà mai fermati, basta, non c’è di dove andare !»15.
Una fonte di sviluppo è secondo i democratici rivoluzionari russi la lotta degli opposti, il trapasso degli opposti degli uni negli altri. È in ciò che risiede, secondo loro, l’essenza della vita e della verità. «Tutto il vivente scrisse Herzen - è vivo e vero solo come il tutto, così come coesistono l’interiore e l’esteriore, l’universale e il singolare. La vita collega questi momenti; la vita è un processo del loro eterno trapasso dell’uno nell’altro»16. «La viva verità scriveva Bielinskij, esprimendo la stessa idea - consiste nell’unità degli opposti»17.
I democratici rivoluzionari russi comprendevano pure che nel processo del movimento e dello sviluppo della natura avviene il trapasso della quantità nella qualità, accompagnato dalla comparsa del nuovo distinto da quello che vi era stato in precedenza. Citando un esempio del manifestarsi di questa legge, Cernyscevskij scrisse in particolare: «... dalla combinazione in certe proporzioni dell’idrogeno e dell’ossigeno sorge l’acqua che possiede una moltitudine di qualità che non si avvertivano né nell’ossigeno né nell’idrogeno»18.
Infine, i democratici rivoluzionari russi, in particolare Cernyscevskij, misero in luce l’azione nella natura e nella società della legge della negazione della negazione, la quale condiziona il continuo cambio, il «rigetto» di alcune forme da parte di altre forme e il ritorno, il ripetersi della tappa percorsa ad un livello più alto.
In tal modo i democratici rivoluzionari russi seppero liberarsi in notevole misura dal meccanicismo e dalla metafisica e compiere un determinato passo in avanti nell’opera di fusione della dialettica con il materialismo, di interpretazione e di argomentazione di essa da posizioni materialistiche.
Un altro merito dei democratici rivoluzionari russi è di aver condotto una lotta decisa contro l’agnosticismo, il quale tendeva ad aprire un abisso insuperabile fra la coscienza e la realtà, negava la possibilità di conoscere la realtà.
Riferendosi alla vita stessa dell’uomo, alla sua prassi, Cernyscevskij confuta l’agnosticismo, dimostra che il mondo è conoscibile, che le nostre percezioni sensibili riflettono in modo giusto la realtà.
I democratici rivoluzionari russi compirono un passo in avanti rispetto a Feuerbach e ai suoi predecessori nel superare il carattere contemplativo delle teorie filosofiche. Essi aspiravano alla trasformazione del mondo. Ad esempio, Herzen, secondo le parole di Lenin, considerava la dialettica come «algebra della rivoluzione».
Per quanto riguarda le concezioni della società, qui i democratici rivoluzionari russi, nonostante queste o quelle prese di posizione materialistiche, furono idealisti come i loro predecessori e i loro contemporanei europeo-occidentali.


1 F. Bacon. Novum organum. Book II. London, n. d., pp. 150, 153, 155, 262.
2 Spinoza, Oeuvres. Paris, 1861, v. II, p. S.
3 George Berkeley, The Works, v. I. London, 1908, p. 383.
4 È H. Holbach, Systènie de la aliire, Preinière Partie. Londres 1793, p. 23.
5 Ibidem, p. 156,
6 M. V. Lomonosov, Opere filosofiche scelte. Mosca, 1950, p. 160.
7 M. V. Lomonosov, Opere, cit., p. 330.
8 Immanuel Kant, Prolegomena, 1888, S. 67.
9 V. 1. Lenin Op. cit., vol. 14, pp. 194-195.
10 Ludwig Feuerbach, Philosophische Kritiken und Grundsiitze (1839-1846). Leipzig, 1969, S. 185.
11 Ibidem, S. 269.
12 A. 1. Herzen, Opere filosofiche scelte, vol. I. Mosca, 1948, p. 120.
13 Ibidem, p. 150.
14 A. 1. Herzen, Opere, cit., vol. I, p. 127.
15 V. G. Bielinskij, Opere filosofiche scelte, vol. II. Mosca, 1948, p. 146.
16 A. I. Herzen, Opere, cit., vol. Il p. 61.
17 V. G. Bielinskij, Opere, cit., vol. I, p. 468.
18 N. G. Cemyscevskij, Opere filosofiche scelte, vol. III. Mosca, 1951, p. 190.


Capitolo III
IL RIVOLGIMENTO IN FILOSOFIA COMPIUTO DAL MARXISMO
1. LE PREMESSE DEL SORGERE DELLA FILOSOFIA MARXISTA
1. Le premesse economico-sociali
La nascita della filosofia marxista è la necessaria conseguenza dello sviluppo della società e della scienza. La filosofia del marxismo esprime gli interessi del proletariato, perciò essa sorge in quello stadio di sviluppo sociale in cui fanno il loro ingresso nell’arena storica i lavoratori come una forza sociale autonoma che lotta per il mutamento delle condizioni di vita.
In un primo tempo la lotta di classe del proletariato si manifestò spontaneamente, nella forma di lotte isolate contro i singoli capitalisti, in seguito essa cominciò ad assumere un carattere sempre più coerente. Nel corso di questa lotta il proletariato si unisce, si organizza, diventa conscio dei propri comuni interessi di classe e già interviene non contro i singoli rappresentanti della borghesia ma contro la borghesia come classe, contro il capitalismo come ordinamento sociale. Le prime massicce lotte di classe degli operai risalgono agli anni ‘40 del XIX secolo. Sono la rivolta degli operai di Lione (1831), i moti rivoluzionari degli operai di Parigi (1832), l’insurrezione dei tessitori della Slesia in Germania (1844), il movimento cartista in Inghilterra (1830 - 1840).
Lo sviluppo della lotta di classe contro la borghesia richiedeva che fossero argomentate teoricamente l’indispensabilità e la possibilità di cambiare l’esistente stato di cose, gli ordinamenti sociali e politici, che facesse la sua apparizione una dottrina in cui fosse precisato quali rapporti e istituti sociali dovevano sostituirsi a quelli esistenti, ecc. È proprio questa necessità storica che è all’origine della filosofia marxista come una particolare concezione del mondo concezione che orienta il proletariato nella lotta per una nuova società e che è nelle sue mani un metodo per la trasformazione rivoluzionaria della realtà circostante.
2. Le premesse sul piano delle scienze naturali
Anche se la necessità per il proletariato di disporre del materialismo dialettico e storico è una premessa del loro sorgere, ciò era ancora lungi dall’essere sufficiente per l’apparizione della filosofia marxista. Le concezioni utopistiche che esistevano prima del marxismo e che motivavano la necessità del passaggio ad una società nuova, ideale, pure sorgevano per venir incontro all’aspirazione delle classi oppresse a veder mutate le loro condizioni di vita ed esse non solo non contribuivano, ma anzi, impedivano il sorgere in seno a queste classi di una giusta comprensione della realtà circostante e la definizione delle vie concrete per cambiarla. La comparsa del materialismo dialettico e storico presupponeva un determinato livello di sviluppo della scienza, poiché la nuova teoria si basava sulle conquiste di quest’ultima.
All’inizio del XIX secolo la scienza raggiunse un tale livello di sviluppo da rendere effettivamente possibile l’elaborazione sul piano teorico dei più importanti princìpi della dialettica, di una concezione dialettico-materialistica scientifica del mondo. È proprio in quell’epoca che si delineò nelle scienze naturali il passaggio dalla descrizione e dalla classificazione dei fenomeni allo studio dei processi che vi avvengono, dalla registrazione delle proprietà che li caratterizzano all’individuazione delle leggi che condizionano i mutamenti di queste proprietà. In quell’epoca ottennero determinato sviluppo scienze come la fisiologia che tratta dei processi degli organismi viventi, l’embriologia che studia l’evoluzione dell’embrione, la geologia che studia le leggi di mutamento della crosta terrestre, ecc. Una serie di scoperte eccezionali testimoniavano del carattere dialettico dei processi della natura. Particolarmente importanti fra di esse: la scoperta della struttura cellulare degli organismi (1838-1839), la formulazione del principio di conservazione e di trasformazione dell’energia (1842-1847) e l’elaborazione da parte di Darwin della teoria dell’evoluzione naturale degli esseri viventi (1859).
La scoperta della cellula come unità strutturale fondamentale dell’organismo metteva in luce l’unità del mondo organico e il manifestarsi in seno ad esso delle leggi universali di sviluppo. La legge della conservazione e della trasformazione dell’energia testimoniava dell’interconnessione delle varie forme di movimento della materia, del loro trapasso l’una nell’altra. La teoria evoluzionistica di Darwin mostrava come queste o quelle specie di organismi animali e vegetali fossero il prodotto di un lungo processo di evoluzione.
In tal modo le conquiste delle scienze naturali all’inizio e particolarmente alla metà del XIX secolo permettevano di formulare e di argomentare i più importanti princìpi della dialettica e di elaborare al tempo stesso in modo coerente una concezione scientifica del mondo che potesse servire al proletariato di strumento per trasformare la realtà circostante.
3. Le premesse teoriche
Condizionata sia dai fattori sociali che dallo sviluppo della scienza della natura la filosofia marxista è inconcepibile in distacco dal retaggio filosofico del passato. Essa è erede e continuatrice delle idee progressiste dei precedenti filosofi. Ciò significa che parallelamente alle premesse sul piano sociale e sul piano delle scienze naturali esistevano anche le premesse teoriche del sorgere della filosofia marxista. Esse erano legate prima di tutto alla filosofia tedesca del XIX secolo, alle concezioni filosofiche di Hegel e Feuerbach.
Hegel formulò i più importanti princìpi della dialettica, elaborò il metodo dialettico di conoscenza. Ma essendo idealista, Hegel presentò la dialettica nella forma di leggi di autoevoluzione dell’idea pura esistente non si sa dove - fuori e prima del mondo materiale. Per quanto concerne l’evoluzione del mondo materiale: la natura e la società, essa, nel pensiero di Hegel, «è soltanto il riflesso del movimento del concetto in se stesso, movimento che si compie dall’eternità, non si sa dove ma ad ogni modo indipendentemente da ogni cervello umano pensante. Era questa inversione ideologica che si doveva eliminare»1.
Feuerbach, nel criticare Hegel, non si accorse del nucleo razionale della filosofia hegeliana, il metodo dialettico scoperto e al tempo stesso mistificato da Hegel. Non si liberò da Hegel, criticandolo, ma «lo gettò in disparte come inservibile»2.
Quello che non aveva saputo fare Feuerbach lo fecero i fondatori del materialismo dialettico e storico. Poggiando sui princìpi materialistici ripristinati da Feuerbach essi sottoposero a profonda critica la filosofia idealistica hegeliana. E nel corso di questa critica misero in luce il principale acquisto della filosofia classica tedesca, la dialettica, la spogliarono del misticismo, degli innumerevoli schemi artificiali e crearono sviluppandola su base materialistica e scientifica il materialismo dialettico e storico: una concezione coerentemente scientifica del mondo e un metodo universale di conoscenza e di trasformazione della realtà.
2. L’ESSENZA DEL RIVOLGIMENTO IN FILOSOFIA COMPIUTO DA MARX E ENGELS
I fondatori di una nuova filosofia conseguentemente scientifica il materialismo dialettico e storico - sono Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895).
In un primo tempo Marx e Engels furono seguaci della filosofia idealistica di Hegel. Ma poi, sotto l’influsso della prassi sociale e, in particolare, della lotta di classe dei lavoratori contro gli sfruttatori che ebbero modo di osservare da vicino (Marx in qualità di redattore della Rheinische Zeitung, Engels in qualità di impiegato di un’azienda di cui era azionista suo padre), cominciarono a liberarsi delle concezioni idealistiche e a passare su posizioni materialistiche. Engels, in particolare, scrisse: «Vivendo a Manchester io avevo per così dire toccato con mano che i fatti economici, che sino allora la storiografia aveva disdegnati o tenuti in nessun conto, sono, per lo meno nel mondo moderno, una forza storica decisiva; che essi formano la base delle origini degli attuali contrasti di classe»3.
La tendenza del passaggio al materialismo appare in Marx con il lavoro: Per la critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (1843). In questo lavoro Marx giunge alla conclusione che la chiave per la comprensione del processo di sviluppo storico dell’umanità va ricercata non nella sfera politica, non nello Stato, come lo presentava Hegel, ma nella «società civile», cioè nei rapporti materiali, economici fra gli uomini.
Questa tendenza si manifesta in modo particolarmente chiaro nella Sacra famiglia, opera scritta da Marx insieme a Engels nel 1845. Qui Marx e Engels sottopongono a critica approfondita l’idealismo hegeliano e le concezioni della sinistra hegeliana. La sinistra hegeliana trattava con disprezzo il popolo, lo considerava una «massa inerte» che non è capace di un’attività creatrice e che è un ostacolo al progresso. Secondo loro la forza creativa decisiva dello sviluppo storico erano le persone d’indole critica. Dimostrando l’inconsistenza di questi ragionamenti della sinistra hegeliana, Marx e Engels formularono l’idea che la forza decisiva dello sviluppo storico sono le masse lavoratrici che creano i beni materiali e assicurano così la possibilità di esistenza e di sviluppo della società. Parlando del proletariato essi ritennero particolarmente necessario sottolineare che esso può e deve liberare se stesso, sopprimendo la proprietà privata dei mezzi di produzione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, da essa condizionato.
Rappresentano l’ulteriore elaborazione dei princìpi fondamentali del materialismo dialettico un’altra opera comune di Marx e Engels: L’ideologia tedesca (scritta nel 1845 - 1846), nonché il lavoro di Marx La miseria della filosofia (1847). Un’esposizione magistrale della concezione del mondo che stavano elaborando Marx e Engels è contenuta nel Manifesto del Partito comunista, da essi redatto per incarico della «Lega dei comunisti» e pubblicato nel 1848. In questa opera, secondo l’espressione di Lenin, sono esposti con chiarezza e espressività geniali un materialismo veramente conseguente, esteso non solo alla natura ma anche al campo della vita sociale, nonché la dialettica, come la più completa e profonda fra le dottrine dell’evoluzione4.
Ma anche dopo il 1848 Marx e Engels continuarono a dedicare grande attenzione ai problemi filosofici della concezione scientifica del mondo e del metodo di conoscenza e di trasformazione della realtà. Al riguardo i lavori più caratteristici sono: Il Capitale, Per la critica dell’economia Politica, scritti da Marx, La dialettica della natura, Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca, scritti da Engels, ecc.
Con l’aver creato il materialismo dialettico e storico Marx e Engels compirono un vero e proprio rivolgimento nella filosofia. La dottrina da essi elaborata si distingue radicalmente da tutta la precedente filosofia.
Infatti, le dottrine materialistiche anteriori al marxismo erano prevalentemente meccanicistiche. E ciò non era casuale. Nel XVIII secolo fra tutte le scienze naturali ottenne il massimo sviluppo la meccanica. La chimica, come scriveva Engels, esisteva soltanto nella sua forma infantile: flogistica. La biologia era ancora in fasce: l’organismo vegetale e animale veniva spiegato con cause puramente meccaniche; in quella tappa di sviluppo della scienza veniva considerato alla luce delle leggi della meccanica anche l’uomo: quest’ultimo veniva presentato come una macchina complessa5. Essendo il ramo più evoluto del sapere la meccanica impresse una propria impronta non solo alle altre scienze ma anche alla filosofia. I filosofi-materialisti di quell’epoca tentavano di spiegare tutto il mondo, tutta la realtà solo sulla base delle leggi della meccanica.
A differenza del materialismo premarxista il materialismo dialettico è libero dal meccanicismo. Spiegando i fenomeni della realtà esso parte non solo dalle leggi della meccanica ma anche da tutta la molteplicità delle leggi, esso ritiene che le leggi della meccanica permettono di comprendere solo la forma meccanica di movimento della materia. Per quanto riguarda le altre forme di movimento della materia, la loro essenza è determinata non dalle leggi della meccanica ma dalle rispettive leggi specifiche, caratteristiche di ciascuna di esse.
Il materialismo anteriore al marxismo era metafisico. Esso era incapace di concepire il mondo come un processo, come una sostanza soggetta ad evoluzione storica. Anche se i filosofi di quell’epoca riconoscevano il movimento nella realtà circostante, essi se lo immaginavano come un movimento che descriveva in eterno un circolo, che tornava a produrre di continuo gli stessi risultati. A differenza di ciò, il materialismo dialettico considera il mondo dal punto di vista del movimento e dell’evoluzione.
Il precedente materialismo non era una dottrina conseguente, compiuta. I suoi rappresentanti spiegavano materialisticamente solo i fenomeni della natura. Essi consideravano invece idealisticamente i fenomeni della vita sociale deducendoli da questo o quel principio spirituale: dalla coscienza politica o giuridica, dall’opinione pubblica, dalla morale, dalla scienza, ecc. I fondatori del materialismo dialettico e storico per la prima volta estesero i princìpi materialistici alla società e giunsero alla conclusione che nella società l’elemento primordiale, determinante sono le condizioni materiali di vita degli uomini mentre i fenomeni spirituali, la coscienza sociale, le varie concezioni, teorie, ecc., derivano dalle condizioni materiali di vita degli uomini, dal loro essere sociale.
Il più importante tratto distintivo dei materialisti premarxisti era la contemplatività, il distacco dall’attività pratica rivoluzionaria degli uomini. Essi soltanto diversamente interpretavano il mondo mentre si trattava di trasformarlo. La filosofia marxista è legata alla pratica, il suo compito è non solo interpretare la realtà ma anche trasformarla. Perciò essa non solo è un metodo di conoscenza ma anche un metodo d’azione, di trasformazione rivoluzionaria della realtà.
Proseguiamo. A differenza delle dottrine filosofiche materialistiche e idealistiche premarxiste che travisavano in un modo o nell’altro il vero stato di cose, il materialismo dialettico e storico, essendo la concezione del mondo del proletariato, poggia interamente sulla realtà, sulle leggi che presiedono al suo funzionamento e sviluppo. Lo spirito di parte della filosofia marxista ne presuppone la scientificità come momento indispensabile.
In un determinato stadio di evoluzione storica gli interessi di qualsiasi classe sfruttatrice entrano inevitabilmente in contrasto con le esigenze del progresso sociale e di conseguenza con l’azione di queste o quelle leggi oggettive. Ciò rende impossibile una coerente motivazione scientifica degli interessi di queste classi e rende necessaria la rinuncia a questi o quei princìpi scientifici che sono in contrasto con questi interessi e l’elaborazione di princìpi che anche non riflettendo il vero stato di cose, l’azione delle leggi oggettive, siano conformi agli interessi della classe, esprimano questi interessi. Gli interessi del proletariato sono invece sempre conformi alle tendenze oggettive dell’evoluzione storica, perciò esso è interessato a conoscere l’effettivo stato di cose, le leggi che presiedono al processo oggettivo di sviluppo. Senza di ciò esso non potrà orientarsi in modo giusto, intervenire attivamente nel processo oggettivo e trasformare in modo coerente il mondo. Quindi, il materialismo dialettico e storico potrà assolvere la sua funzione di concezione del mondo del proletariato e di metodo di trasformazione rivoluzionaria della realtà solo nel caso in cui poggerà sulla conoscenza delle leggi oggettive del movimento e dello sviluppo, nel caso in cui i suoi princìpi saranno scientifici.
Tutto ciò sta a dimostrare che il materialismo dialettico e storico è una filosofia nuova in linea di principio che si distingue sostanzialmente da tutte le precedenti concezioni filosofiche e che il sorgere di essa rappresenta un’autentica rivoluzione in filosofia.
3. LO SVILUPPO DELLA FILOSOFIA MARXISTA DA PARTE DI V. I. LENIN
Essendo una scienza creatrice la filosofia marxista si sviluppa e si perfeziona continuamente. Ogni nuovo notevole passo nello sviluppo della scienza e della pratica sociale si ripercuote immancabilmente sulla filosofia, modifica (arricchisce, precisa, completa) questi o quei suoi princìpi, queste o quelle sue tesi. Dopo la morte di Marx e Engels, apportò un immenso contributo allo sviluppo del materialismo dialettico e storico Vladimir Ilic Lenin (1870-1924).
Lenin elaborò sotto ogni aspetto la dottrina marxista della materia e della coscienza come riflesso della realtà, dimostrò il ruolo determinante della pratica nel processo della conoscenza e mise in luce su questa base il carattere attivo, creativo della coscienza, sottolineando che «la coscienza dell’uomo non solo rispecchia il mondo oggettivo ma altresì lo crea»6. Al tempo stesso egli definì le tappe fondamentali del processo della conoscenza e la dialettica del suo movimento verso la verità.
Elaborando la dialettica come dottrina dello sviluppo Lenin mise in luce l’essenza dell’idea dialettica di sviluppo, come uno sviluppo che sembra ripercorrere le fasi già percorse ma le ripercorre in modo diverso, ad un livello più elevato, come un mutamento rivoluzionario, a salti, della realtà, determinato dalle contraddizioni interne, dagli urti tra le diverse forze e tendenze operanti7.
Interpretando su base scientifica e materialistica la dialettica di Hegel, la sua applicazione e il suo sviluppo da parte di Marx ne Il Capitale, Lenin formulò il principio dell’identità della dialettica, della logica e della teoria della conoscenza. Esaminando alla luce di questo principio i lati e i nessi universali della realtà, le leggi dialettiche universali, egli mostrò che le categorie filosofiche non solo sono le forme di riflesso dei lati e i nessi universali della realtà ma anche i gradini, i punti nodali dello sviluppo della conoscenza e della pratica sociale, mentre le leggi della dialettica non solo rappresentano le leggi universali della realtà ma anche le leggi del pensiero. Essi sono i princìpi metodologici chiamati ad orientare gli uomini nella loro attività pratica e conoscitiva. In altre parole, Lenin, seguendo Marx e Engels, elaborò il materialismo dialettico non solo come una concezione del mondo ma anche come una teoria della conoscenza, come un metodo di conoscenza e di trasformazione pratica della realtà.
L’ulteriore elaborazione da parte di Lenin della dialettica materialistica, il suo studio dei problemi della teoria gnoseologica del materialismo dialettica... hanno un’importanza perenne... Lenin è stato il primo pensatore del nostro secolo che nelle conquiste delle scienze naturali dei suoi tempi abbia visto l’inizio di una grandiosa rivoluzione scientifica; è stato il primo a saper scorgere e sintetizzare filosoficamente il significato rivoluzionario delle ricerche fondamentali dei grandi studiosi di scienze naturali. Egli ha dato una splendida interpretazione filosofica dei nuovi dati scientifici nel periodo di una radicale “rottura dei princìpi” nei settori più importanti delle scienze naturali. L’idea dell’inesauribilità della materia da lui formulata è diventata un principio universale della conoscenza scientifica.
Lenin dedicò un’attenzione eccezionalmente grande all’elaborazione teorica dei problemi del materialismo storico. Egli fornì un’ampia analisi delle leggi riguardanti l’interconnessione dell’essere sociale e della coscienza sociale, dei rapporti materiale e ideologico, dei fattori oggettivo e soggettivo, di ciò che è spontaneo e di ciò che rientra nell’ordine della coscienza. Sottolineando il ruolo determinante delle condizioni materiali di vita degli uomini, dei fattori oggettivi egli mostrò l’immenso ruolo della teoria rivoluzionaria e del partito rivoluzionario che si fa guidare da questa teoria, delle singole personalità nell’opera di trasformazione della vita sociale, nell’opera di sostituzione delle forme sociali storicamente superate con quelle nuove conformi al livello raggiunto nello sviluppo delle forze produttive.
Mettendo in luce l’importanza delle idee rivoluzionarie nella lotta per subordinare il movimento spontaneo delle masse per la trasformazione della società ad un solo scopo, quello del mutamento rivoluzionario degli ordinamenti sociali e politici esistenti, Lenin pose come un importantissimo compito del partito proletario quello di elaborare l’ideologia socialista e di apportarla nella coscienza dei lavoratori, del proletariato.
Analizzando le peculiarità della fase imperialistica del capitalismo Lenin mostrò come questa fase fosse l’ultima, come essa rappresentasse la vigilia della rivoluzione socialista, come da essa si passasse solo al socialismo. Scoprendo la legge dell’ineguaglianza di sviluppo economico e politico dei paesi capitalistici nelle condizioni dell’imperialismo e partendo da essa, Lenin giunse alla conclusione sulla possibilità della vittoria della rivoluzione socialista dapprima in alcuni paesi o persino in un solo paese preso separatamente.
Lenin elaborò inoltre la dottrina marxista del carattere delle forze motrici della rivoluzione democratico-borghese del rapporto fra di essa e la rivoluzione socialista e l’arricchì di nuove importanti deduzioni. Egli dimostrò che l’egemone della rivoluzione democratico-borghese, che si compie nel periodo in cui il capitalismo nei paesi avanzati è entrato nella fase imperialistica, deve essere non la borghesia, ma il proletariato, che nel corso di questa rivoluzione si presentano come alleati del proletariato i contadini, che in seguito alla vittoria di questa rivoluzione deve instaurarsi non la dittatura della borghesia, ma la dittatura del popolo rivoluzionario: degli operai e dei contadini. Questa rivoluzione non si conclude con l’instaurazione della dittatura degli operai e dei contadini, ma incomincia a trasformarsi gradualmente in rivoluzione socialista. Nel corso di quest’ultima il proletariato in alleanza con i contadini poveri e con tutti gli sfruttati trasforma la vita sociale su basi socialiste. Elaborando la teoria della rivoluzione socialista Lenin formulò l’idea della necessità di fondere la lotta di classe del proletariato contro la borghesia, per il socialismo con la lotta di liberazione nazionale dei popoli oppressi per la liquidazione del giogo coloniale.
Lenin argomentò pure la possibilità della via di sviluppo non capitalistico, del passaggio di singoli paesi e popoli al socialismo scavalcando la fase di sviluppo capitalistica. Egli considerava come la premessa più importante di tale passaggio la vittoria della rivoluzione socialista in questi o quei paesi avanzati e il multiforme aiuto di questi paesi ai popoli arretrati.
Nel retaggio teorico di Lenin occupa un importante posto la dottrina della dittatura del proletariato. Sviluppando ulteriormente sulla base della generalizzazione dell’esperienza delle tre rivoluzioni russe l’idea della dittatura del proletariato, avanzata da Marx e Engels, Lenin mostrò la necessità dell’instaurazione della dittatura del proletariato nel periodo di passaggio al socialismo, ne mise in luce l’essenza, le peculiarità come Stato democraticamente nuovo, i compiti, il meccanismo di funzionamento e le vie di sviluppo. Un immenso merito di Lenin è l’aver scoperto i Soviet come forma di dittatura del proletariato nata in Russia per iniziativa delle masse lavoratrici, e l’averne motivato il ruolo nella Grande rivoluzione socialista d’Ottobre.
Dopo la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre l’attenzione di Lenin fu dedicata all’elaborazione dei problemi dell’edificazione del socialismo nel nostro paese e delle prospettive di sviluppo della rivoluzione mondiale. Lenin diede un fondamento scientifico alla possibilità della costruzione di una società socialista nelle condizioni dell’accerchiamento capitalistico, mostrò che il nostro paese dispone di tutto quanto è necessario per edificare il socialismo, definì le vie concrete per la trasformazione su basi socialiste dei vari lati della vita sociale.
Lenin considerava una forma di conversione della grande produzione capitalistica in quella socialista la trasformazione delle aziende capitalistiche in proprietà socialista di tutto il popolo. Per quanto riguarda la trasformazione socialista della piccola produzione mercantile, Lenin raccomandava di utilizzare le varie forme di cooperazione che presuppongono la trasformazione della piccola proprietà privata dei mezzi di produzione in proprietà sociale cooperativa.
Lenin argomentò scientificamente l’idea che la vittoriosa costruzione del socialismo e del comunismo sono possibili solo sotto la direzione di un partito marxista-leninista che poggi nella sua attività sulle masse lavoratrici e ne goda la fiducia. Si tratta di un partito che, forte della conoscenza delle leggi di funzionamento e di sviluppo della società, definisce le vie per la soluzione dei compiti pratici di trasformazione di tutta la vita sociale sulla base dei princìpi socialisti e comunisti.


1 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte. Roma, Editori Riuniti, 1966, p. 1132.
2 ibidem, p. 1131.
3 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., p. 1085.
4 Si veda: V. I. Lenin, op. cit., vol. 21, p. 41.
5 Si veda: Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., pp. 1118 1119.
6 V. I. Lenin, op. cit., vol. 38, p, 197.
7 Si veda: V. I. Lenin, OP. cit., vol. 21, p. 47.


IL MATERIALISMO DIALETTICO
Dato che il problema fondamentale di ogni filosofia è quello del rapporto tra materia e coscienza, incominceremo la nostra esposizione del materialismo dialettico caratterizzando la materia e le fondamentali forme di esistenza di essa, esaminando le leggi del sorgere della coscienza e il suo rapporto con la materia. Approfondiremo così il primo lato del problema fondamentale della filosofia. Successivamente ne analizzeremo il secondo lato, le leggi che presiedono al funzionamento e allo sviluppo della conoscenza come riflesso della realtà nella coscienza degli uomini. Dopo di ciò verranno esaminate le categorie e le leggi della dialettica come forme in cui si riflettono i lati e i nessi generali della realtà oggettiva e della conoscenza. Questa successione nell’esame delle categorie e delle leggi è determinata dall’ordine in cui si svolge il processo della conoscenza delle proprietà delle leggi universali della realtà. In quanto secondo noi il contenuto delle leggi fondamentali della dialettica diventa pienamente chiaro solo se uno ha un’idea precisa di tutta una serie di categorie della dialettica (singolare e universale, causa e effetto, necessario e casuale, legge, essenza e fenomeno), ci siamo visti costretti ad abbandonare una tradizione di solito seguita, quella di esaminare le leggi fondamentali della dialettica prima delle categorie. Nel presente compendio le leggi fondamentali della dialettica vengono esposte dopo le categorie. Una tale disposizione del materiale permette di evitare le ripetizioni e di rendere più precisa e fondata l’esposizione dei problemi, oggetto di esame.
 
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view post Posted on 21/12/2011, 12:07
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Capitolo IV
LA MATERIA E LA COSCIENZA
1. LA CRITICA DELLE CONCEZIONI IDEALISTICHE E METAFISICHE DELLA MATERIA
Gli idealisti di regola negano l’esistenza oggettiva della materia. Alcuni ritengono che essa non esiste in generale, che è stata inventata dai materialisti per dar fondamento alle loro conclusioni ateistiche (Berkeley). Altri la considerano un complesso di sensazioni. Terzi ancora la presentano come risultato dello sviluppo della coscienza, la fanno dipendere, la fanno derivare dalla coscienza (Hegel).
Tutti i materialisti riconoscono l’esistenza reale, oggettiva della materia. Durante tutta la storia della filosofia le idee dei materialisti sulla materia divergevano sostanzialmente. Nella filosofia antica assolvevano la funzione di materia queste o quelle sostanze, questi o quei fenomeni fra i più diffusi, ad esempio, l’acqua (Talete), l’aria (Anassimene), il fuoco (Eraclito). In seguito si cominciò a considerare materia un’infinità di vari elementi immutabili: i cosiddetti «semi di corpi» (Anassagora) o gli atomi (Democrito). I materialisti francesi del XVIII secolo, Feuerbach ed altri, intendevano per materia il complesso degli atomi immutabili che formano tutte le sostanze esistenti nel mondo.
La comprensione della materia come insieme degli atomi o delle sostanze è una comprensione limitata e al tempo stesso erronea. Essa è legata a determinate forme di esistenza della materia, all’assolutizzazione delle proprietà e degli stati che sono loro propri, e perciò non è in grado di abbracciare il totale dei fenomeni che avvengono nel mondo, tutta la molteplicità delle forme dell’essere.
L’insufficienza di tale concetto di materia si manifestò con particolare evidenza nel periodo della crisi sorta nelle scienze naturali alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo. in seguito alla scoperta dell’elettrone e della radioattività. La scoperta dell’elettrone mostrò, in particolare, che l’atomo non è immutabile e eterno come prima si credeva ma racchiude in sé particelle ancor più piccole, gli elettroni. Si chiarì al tempo stesso che la massa dell’elettrone non è immutabile ma dipende dalla velocità del suo movimento: si accresce se aumenta la velocità di movimento, diminuisce se la velocità si riduce. Prima di questa scoperta si credeva che la massa dell’atomo fosse costante. Proprio a ciò si ricollegava l’idea dell’eternità, dell’indistruttibilità dell’atomo e quindi della materia.
Il crollo delle concezioni sull’indivisibilità e sull’eternità degli atomi, sull’immutabilità e sull’indistruttibilità della massa fece dubitare dell’esistenza oggettiva della materia, diede luogo a delle conclusioni sulla sua scomparsa. La logica dei ragionamenti era questa: se l’atomo è divisibile, se esso si scompone in elettroni, la cui massa dipende dal movimento, allora la materia come qualcosa di determinante che è alla base di ogni essere scompare, si trasforma in movimento. Sembrava che tali conclusioni si dovesse trarle anche dalla scoperta della radioattività. La disintegrazione radioattiva dell’uranio, e in seguito anche del radio, fu interpretata come trasformazione della sostanza in movimento, in energia pura. Di ciò ne approfittarono subito gli idealisti. Essi incominciarono ad affermare che le nuovissime conquiste delle scienze naturali confutano il materialismo, mostrano che la materia non esiste, che essa non è che un’invenzione dei materialisti, ecc.
Era necessario generalizzare le date scoperte scientifiche, conciliarle con il materialismo dialettico e sottoporre a critica le concezioni idealistiche che prendevano lo spunto da queste scoperte. Fu Lenin ad assumersi un tale compito.
2. LA DEFINIZIONE LENINISTA DELLA MATERIA
Dopo aver analizzato nel suo libro Materialismo ed empiriocriticismo la suddetta crisi, Lenin mostrò che il suo sorgere era determinato dal fatto che gli studiosi di scienze naturali stavano sulle posizioni del materialismo metafisico e cercavano di spiegare le nuovissime conquiste nel campo della fisica partendo dai princìpi di questo materialismo. Infatti, la comprensione della materia come insieme degli atomi immutabili è caratteristica del materialismo metafisico e non di quello dialettico. Il materialismo dialettico non riduceva mai la materia ai soli atomi, non li considerava e, del resto, non poteva considerarli immutabili e eterni. Secondo il materialismo dialettico nessuna forma concreta dell’essere della materia, si tratti dell’atomo o si tratti della molecola e dell’elettrone, è eterna, immutabile ma è sempre in movimento, subisce continuamente dei mutamenti, e, in determinate condizioni, si converte in altre forme concrete, queste in terze e così via. «Per la filosofia dialettica scrisse Engels - non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire...»1.
Perciò la scoperta di un fenomeno come la disintegrazione dell’atomo nonché di un fenomeno come la trasformazione della sostanza in luce non solo non confuta il materialismo dialettico ma, al contrario, conferma la verità dei suoi princìpi, in particolare della tesi che tutto quanto esiste nel mondo è in continuo movimento, passa da uno stato all’altro.
Che cosa dunque rientra nel concetto di materia secondo il materialismo dialettico? Il concetto di materia secondo il materialismo dialettico è legato a tutto quanto esiste al di fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa, a tutta la realtà oggettiva. Perciò sono materia non solo gli atomi ma anche le particelle «elementari» in cui si decompongono, non solo la sostanza ma anche i raggi di luce che essa emette in determinate condizioni, ecc.
«La materia scrive Lenin, fornendo una definizione dialettico-materialistica di questo concetto - è una categoria filosofica che serve a designare la realtà oggettiva che è data all’uomo dalle sue sensazioni, che è copiata, fotografata, riflessa dalle nostre sensazioni ma esiste indipendentemente da esse»2.
3. L’ENTE MATERIALE.
Il tipo di materia
La materia esiste nella forma di un’infinità di vari corpi legati in un modo o nell’altro fra di essi, nella forma di enti materiali. «Tutta la natura a noi accessibile rilevava Engels - costituisce un sistema, una universale interconnessione di corpi, e intendiamo qui per corpo tutto quel che ha un’esistenza materiale, dalle stelle agli atomi...»3.
Un ente materiale o un corpo è solo parte della materia, perciò esso non possiede tutte le proprietà che caratterizzano la materia, in particolare esso non è eterno e infinito, sorge solo in condizioni rigorosamente determinate, occupa un posto limitato nello spazio, esiste per certo tempo e poi scompare, trasformandosi in altri enti materiali. La materia invece è imperitura, spazialmente illimitata. Ciò dimostra che il concetto di materia è legato solo al mondo nel suo complesso, a tutto l’insieme degli enti materiali che lo formano.
Gli enti materiali si uniscono in questi o quei gruppi, condizionando così determinati livelli o gradi di sviluppo della materia che possiedono una specificità qualitativa. «... Le parti discrete a diversi livelli (... atomi chimici, masse, corpi celesti) sono punti nodali che condizionano i diversi modi di essere qualitativi della materia in generale...»4
Gli enti materiali aventi una natura comune e rappresentanti questo o quel grado di sviluppo della materia dall’inferiore al superiore, costituiscono un tipo di materia. Sono tipi di materia, ad esempio, i campi elettromagnetico e gravitazionale, gli elettroni, i protoni, i neutroni, gli atomi, le molecole, gli organismi viventi, la società umana, ecc.
4. LA MATERIA E IL MATERIALE
Come è stato rilevato sopra, il concetto di «materia», nel senso stretto di questa parola, è applicabile solo al mondo nel suo complesso, a tutto l’insieme degli enti materiali. Per quanto riguarda i singoli enti materiali essi sono ciascuno parte della materia, questo o quell’anello nel suo sviluppo. Essendo determinati anelli della materia unica gli enti materiali presentano un momento comune: tutti essi esistono al di fuori della coscienza e indipendentemente da essa. Per rispecchiare questa comunanza ad essi propria è stato elaborato il concetto di «materiale». È applicabile non solo al mondo nel suo insieme ma anche agli enti materiali che compongono questo insieme, ai tipi di materia, alle proprietà e ai nessi oggettivi che esistono al di fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa. In tale modo, il materiale è tutto quanto si riferisce alla sfera della materia e la distingue dalla coscienza.
5. LA MATERIA COME SOSTANZA
Nel definire la materia la contrapponevamo alla coscienza, ma essa, come è stato fatto notare sopra, si distingue non solo dalla coscienza ma anche dai suoi enti, stati e proprietà concreti. In relazione a ciò la materia, rispetto alle sue manifestazioni concrete, stati e proprietà, si presenta come sostanza. In qualità di sostanza la materia è il fondamento di tutto quanto esiste. I fenomeni che si osservano nel mondo non sono altro che le manifestazioni diverse dell’unica natura materiale, le forme diverse del suo modo d’essere, gli stati diversi, le proprietà diverse. Da questo punto di vista la coscienza, come particolare proprietà della materia, non si contrappone alle altre sue proprietà ma è un momento dello stesso ordine. La causa sia della sua esistenza, che dell’esistenza di qualsiasi altra proprietà, risiede nella materia.
A differenza del materialismo metafisico che vede la sostanzialità della materia nella sua invariabilità il materialismo dialettico ricollega la sostanzialità della materia al suo costante movimento e mutamento. La materia, passando da uno stato qualitativo all’altro, «in tutti i suoi mutamenti rimane eternamente la stessa»5. Ciò si esprime prima di tutto nella costanza della sua quantità. Con tutti i mutamenti essa rimane invariata. Per quel che concerne il lato qualitativo della materia, la sostanzialità si esprime nel fatto che si conservano le sue proprietà essenziali, i suoi attributi. «... Nessuno dei suoi (della materia - N.d.A.) attributi può mai andare perduto...»6. Se esso è scomparso in un luogo, in un ente materiale, comparirà inevitabilmente in un altro luogo, in un altro ente materiale.
Inoltre, la sostanzialità della materia si esprime anche nel fatto che ciascun suo ente è capace in determinate condizioni di trasformarsi in qualsiasi altro ente. Ad esempio, ogni particella «elementare» in determinate condizioni può trasformarsi in altra particella «elementare». Ciò significa che ogni ente materiale racchiude potenzialmente in sé, nella sua natura, tutte le proprietà della materia.
La sostanzialità della materia esprime l’unità materiale del mondo. I fenomeni innumerevoli che costituiscono la realtà, hanno una stessa natura materiale, rappresentano le forme, stati, proprietà diversi della materia.
6. IL MOVIMENTO COME FORMA UNIVERSALE DI ESISTENZA DELLA MATERIA
1. La limitatezza delle concezioni metafisiche del movimento. La comprensione marxista del movimento
La concezione del movimento sorse insieme alla filosofia. All’inizio il movimento veniva concepito come il sorgere dell’uno e la distruzione dell’altro. Una tale concezione del movimento, in particolare, è caratteristica dei primi filosofi greci (Talete, Anassimene, Anassimandro).
Ponendo in primo piano il movimento, il mutamento i primi filosofi greci perdevano però di vista la stabilità. Rivolsero la loro attenzione a ciò altri pensatori, in particolare gli eleati (Senofane, Parmenide, Zenone). A differenza dei primi filosofi essi formularono l’idea della staticità come principio di partenza, attribuendole valore assoluto e giungendo alla negazione del movimento. Empedocle ripristinò la dottrina del movimento e tentò di conciliarla con il concetto di staticità. Secondo lui le quattro «radici» primordiali delle cose (acqua, aria, fuoco e terra) sono eterne e invariabili mentre il movimento non è la distruzione dell’uno e il sorgere dell’altro ma la traslazione delle indicate «radici» immutabili, l’unirsi e il disunirsi di esse.
La dottrina del movimento trova ulteriore sviluppo nella filosofia di Aristotele. Egli ristabilì il punto di vista sul movimento come il sorgere dell’uno e distruzione dell’altro. Ma al tempo stesso Aristotele incluse in forma ritoccata nella sua dottrina del movimento anche le concezioni dei successivi filosofi, in particolare di Empedocle. Secondo Aristotele il movimento non significa solo distruzione e sorgere ma anche crescita, diminuzione, mutamento qualitativo nonché spostamento dei corpi nello spazio.
Nei successivi periodi di sviluppo della filosofia materialistica si delinea, per quel che riguarda la comprensione del movimento, una tendenza a conferire valore assoluto alla forma meccanica di movimento della materia. Nel XVII XVIII secolo questa tendenza diventa dominante. In quell’epoca il movimento è concepito come spostamento dei corpi nello spazio. Una tale concezione del movimento era propria, in particolare, a Descartes e Holbach. «Il movimento scrisse quest’ultimo - è uno sforzo, mediante il quale un corpo cambia o tende a cambiare la sua posizione»7.
La concezione secondo cui il movimento è null’altro che lo spostamento dei corpi nello spazio è una concezione limitata. Essa non abbraccia tutta la molteplicità dei mutamenti propri alla materia. Non sono un semplice spostamento, ad esempio, i mutamenti che si producono nel nucleo atomico, nell’organismo vivente, nella società, ecc.
Una definizione coerentemente scientifica del movimento fu data per la prima volta dai fondatori del materialismo dialettico, in particolare da Engels, il quale scrisse: «Movimento, per quel che concerne la materia, è modificazione in generale»8 . Esso «comprende in sé tutti i mutamenti e i processi che hanno luogo nell’universo, dal semplice spostamento fino al pensiero»9.
Quindi, il movimento è un concetto filosofico che significa qualsiasi mutamento che avviene nella realtà oggettiva.
2. Le forme fondamentali di movimento della materia
Esiste un’infinità di forme diverse di movimento della materia, fra cui si distinguono quelle fondamentali. Esse sono: la forma fisica di movimento della materia, che comprende il movimento delle particelle elementari e dei campi, il movimento internucleare e il movimento delle molecole; quella chimica che riguarda il movimento degli atomi; quella biologica legata al funzionamento e allo sviluppo degli organismi viventi; quella sociale che abbraccia i mutamenti che avvengono nella società e, infine, quella meccanica che rappresenta lo spostamento dei corpi nello spazio.
Le forme fondamentali di movimento della materia sono in interconnessione e interdipendenza rigorosamente determinata fra di loro. Alcune forme di movimento sono una premessa del sorgere di altre forme. Ad esempio, il movimento delle particelle «elementari» è una premessa del sorgere degli atomi e del loro movimento. Quest’ultimo è la base per il sorgere delle molecole e del loro movimento. E ciò, a sua volta, porta in determinate condizioni al sorgere della vita e insieme ad essa anche della forma organica di movimento della materia, il che crea le premesse del sorgere della forma sociale di movimento della materia.
Tutte le fondamentali forme di movimento rappresentano i gradini di sviluppo della materia, sono legate ai rispettivi tipi di essa e stanno le une alle altre come inferiori e superiori. Una forma inferiore è presente come calco in una forma più alta, ad esempio, la forma fisica di movimento, trasformata, è contenuta nella forma chimica di movimento, quella chimica in quella biologica, quella biologica in quella sociale. Anche se è presente in una forma più alta, la forma inferiore non vi esercita un ruolo determinante ma occupa una posizione subalterna. La forma superiore di movimento esercitando il ruolo decisivo determina l’essenza dei fenomeni che rappresentano una data forma di movimento della materia.
3. Il nesso organico del movimento con la materia
Il movimento è un attributo della materia, una sua proprietà essenziale. Esso é indissolubilmente legato alla materia. Non vi è stata, non vi è e non può esservi materia senza movimento, così come movimento senza materia.
Del legame indissolubile fra la materia e il movimento ne testimonia la legge della corrispondenza della massa e dell’energia. Secondo questa legge ad ogni determinata quantità di massa corrisponde una quantità rigorosamente determinata di energia. Ad ogni cambiamento della massa si accompagna un rispettivo cambiamento dell’energia, e, al contrario, ogni cambiamento dell’energia provoca un cambiamento della massa.
Alcuni filosofi e fisici borghesi non riconoscono il nesso organico tra movimento e materia, cercano di dimostrare la possibilità di ridurre la materia al movimento e su questa base proclamano l’energia elemento primordiale, determinante e considerano la materia una delle forme di energia. A conferma di questo loro punto di vista essi si riferiscono ai casi di trasformazione della sostanza in luce, in particolare dell’elettrone e del positrone in due o tre fotoni, considerandoli casi di trasformazione della materia in energia pura.
«La materia scrive, ad esempio, lo scienziato americano R. Marshall - è una delle forme di energia. In certe condizioni è possibile la trasformazione della materia in energia pura e dell’energia pura in materia»10.
I fautori del suddetto punto di vista partono dalla concezione metafisica della materia come sostanza e travisano così il vero stato dì cose. La trasformazione degli elettroni e dei positroni in fotoni particelle di energia luminosa rappresenta non la trasformazione della materia in energia (movimento puro), ma la trasformazione di un tipo di materia in un altro, poiché la materia è tutta la realtà oggettiva. Si riferiscono ad essa non solo la sostanza, ma anche la luce e un’infinità di altre forme, note e ancora ignote, dell’essere.
Essendo una realtà oggettiva che esiste al di fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa, la materia non può scomparire né interamente né parzialmente, non può trasformarsi in qualcosa di immateriale. Essa esiste eternamente, passando senza fine da uno stato qualitativo o da un tipo all’altro. Le cose stanno analogamente anche per quanto riguarda il movimento. Trovandosi in connessione organica con la materia esso non può scomparire o trasformarsi in qualcosa di diverso, qualcosa che non è movimento, la sua quantità rimane sempre la stessa. Sottolineando l’eternità della materia e del movimento e la loro connessione organica Engels scriveva: «Materia senza movimento è altrettanto impensabile quanto movimento senza materia. Il movimento è perciò altrettanto increabile ed indistruttibile quanto lo è la materia stessa ...». E proseguendo: «... La quantità di movimento presente nel mondo è sempre la stessa»11.
4. Il movimento e la quiete
La tesi che la materia è organicamente connessa con il movimento, che quest’ultimo è il suo modo di essere può dar luogo all’idea che nel mondo non vi è nulla di statico, di costante. Una tale idea fu espressa, in particolare, dal filosofo greco Cratilo. Però la realtà è ben diversa. Oltre al movimento è propria alla materia anche la staticità, la quiete.
A differenza del movimento che esprime il continuo mutamento, la quiete esprime la staticità, l’immutabilità. Essendo opposta al movimento la quiete non è però isolata dal movimento, ma è organicamente connessa con quest’ultimo, ne è un momento, un caso particolare. La quiete rappresenta un sistema relativamente statico di movimento: il movimento in equilibrio. Ad esempio, il sistema solare, considerato un ente materiale in quiete, non è altro che un movimento dei pianeti che lo compongono, movimento che ripete, dei cicli rigorosamente determinati, cioè un movimento in equilibrio. Qualsiasi corpo è un sistema relativamente statico di movimento, ad esempio un ente materiale della natura inanimata, l’organismo vivente, la società umana. Liquidate i mutamenti caratteristici di questi corpi ed essi scompariranno come dati enti materiali relativamente statici (in stato di quiete).
Oltre al movimento in equilibrio ogni ente materiale include in sé un’infinità di altri mutamenti che fino ad un certo punto rientrano nel dato sistema relativamente statico di movimento, non violano l’equilibrio degli elementi che lo formano. Ma una volta raggiunto un determinato livello, questi mutamenti distruggono il dato sistema relativamente statico di movimento e portano alla creazione di un nuovo sistema statico, il quale, a sua volta, dopo essere esistito per un determinato periodo di tempo, pure si distrugge in seguito ai mutamenti prodottisi in esso e pone inizio al sorgere di altri sistemi relativamente statici (in stato di quiete), e questi al sorgere di terzi, e così senza fine. E se daremo uno sguardo a questo processo eterno di passaggio della materia dagli uni sistemi statici agli altri, non è difficile vedere che il movimento è assoluto. Esso esiste sempre: e nel momento del sorgere di un sistema relativamente statico (poiché il sorgere di questo o quel nuovo sistema avviene in seguito al mutamento dei precedenti sistemi), e attraverso di esso (in quanto rappresenta un movimento in equilibrio), e nel quadro di esso, e nel momento della sua distruzione e del sorgere di un nuovo sistema relativamente statico. Per quanto concerne la quiete, essa è relativa, sorge con il sorgere di questo o quel sistema relativamente statico e scompare quando questo sistema si distrugge, sorge di nuovo e, dopo essere esistita per un determinato periodo di tempo, scompare, e così senza fine.
5. Il movimento e Io sviluppo
Abbiamo rilevato che la materia è in continuo movimento e mutamento, passa sempre dagli uni stati statici agli altri, distrugge questi o quegli enti materiali e ne crea altri. Ma quale è la tendenza di questi mutamenti, che cosa sorge per sostituirsi agli enti materiali in via di distruzione?
Alcuni filosofi ritengono che il movimento della materia avviene descrivendo un circolo, che esso ripete sempre i medesimi cicli. Altri affermano che nel corso dei continui mutamenti della materia si assiste al movimento dal superiore all’inferiore, cioè al regresso. Terzi invece proclamano come movimento dall’inferiore al superiore tutti i mutamenti che si osservano nel mondo.
In realtà si assiste a tutti questi tre momenti. Ciò che predomina però è il movimento dall’inferiore al superiore.
Il movimento dall’inferiore al superiore, dal semplice al compresso si chiama sviluppo.
Possono servire come esempi di sviluppo: la formazione degli atomi sulla base delle particelle «elementari», delle molecole sulla base degli atomi; il sorgere degli organismi viventi sulla base delle sostanze inanimate; la trasformazione degli organismi più semplici, privi di struttura cellulare, in organismi unicellulari e in seguito in quelli pluricellulari; il passaggio dagli organismi capaci di riflettere l’ambiente circostante solo nella forma di eccitabilità agli organismi dotati di sensibilità e di psiche; la trasformazione di un’orda di scimmie in società umana; il passaggio della società dalla comunità primitiva alla schiavitù, al feudalesimo, al capitalismo e, infine, al socialismo, ecc.
Nell’affermare che lo sviluppo è la tendenza che domina nel mondo, non si può pensare che ogni forma concreta del modo d’essere della materia sia in stato di sviluppo. Oltre agli enti materiali che cambiano passando dall’inferiore al superiore, vi sono anche enti materiali il cui movimento descrive un circolo o che subiscono dei mutamenti regressivi. Il ruolo determinante dello sviluppo, il suo carattere universale si esprime non nel fatto che tutti gli enti materiali si sviluppano immancabilmente ma nel fatto che essi sono capaci di diventare più complessi, di passare dall’inferiore al superiore. Essendo propria a tutta la materia, ad ogni ente materiale, questa capacità, come qualsiasi altra, si manifesta solo in presenza delle rispettive condizioni. Là dove si presentano tali condizioni, si assiste immancabilmente al passaggio dall’inferiore al superiore, dal semplice al complesso; là dove sono assenti tali condizioni, hanno luogo o un movimento circolare o dei mutamenti regressivi. Ma quegli enti materiali che sono coinvolti in un movimento circolare o subiscono dei mutamenti regressivi non perdono la capacità di passare dall’inferiore al superiore. Questa capacità permane in essi nonostante tutti i loro mutamenti, nonostante tutte le loro trasformazioni e si fa sentire subito non appena incominciano a sorgere condizioni favorevoli al suo manifestarsi.
7. LO SPAZIO E IL TEMPO
1. Il concetto di spazio e di tempo
Si è già rilevato che ogni singolo ente materiale è parte della materia. Essendo uno dei suoi anelli innumerevoli esso occupa un determinato posto, ha un’estensione ed è in rapporto con gli altri enti materiali che lo circondano.
L’estensione degli enti materiali e il rapporto di ciascuno di essi con gli altri enti materiali che lo circondano si chiama spazio.
Inoltre, come si è già detto, ogni ente materiale non è eterno, esso sorge in seguito al mutamento di questi o quei precedenti enti materiali, attraversa gli stadi di sviluppo e poi scompare, trasformandosi in altri enti materiali.
La durata dell’esistenza degli enti materiali e il rapporto di ciascuno di essi con i precedenti e successivi enti materiali si chiama tempo.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche dello spazio e del tempo
Gli idealisti di regola negano l’oggettività dello spazio e del tempo, la loro indipendenza dalla coscienza. Ad esempio, secondo Berkeley, «ogni luogo o estensione esistono solo nello spirito», così come il tempo, che è, secondo lui, la successione delle idee nella nostra coscienza. Anche Kant nega l’esistenza oggettiva dello spazio e del tempo. Secondo lui essi non rappresentano caratteristiche delle cose ma sono una forma di intuizione.
Negano l’esistenza dello spazio e del tempo nel microcosmo anche molti odierni scienziati-naturalisti e filosofi borghesi. Un tale punto di vista è sostenuto, in particolare, da Jeans Eddington, ed altri. Eddington scrive che per gli stati caratterizzati dai ridotti numeri quantici, «lo spazio e il tempo non esistono, per lo meno non ho alcun motivo di supporli come esistenti»12.
Alcuni filosofi, anche se riconoscono l’esistenza dello spazio e del tempo, negano il loro nesso con la materia, li considerano forme dell’essere del tutto autonome, indipendenti da essa. Una tale concezione dello spazio e del tempo sorse nell’antichità. In particolare, fu formulata dai pitagorici. Secondo loro, lo spazio è un immenso recipiente che è riempito di varie cose e numeri e che non dipende assolutamente dalle cose che vi entrano e può esistere senza di essi. Democrito concepiva lo spazio come vuoto. Per Aristotele lo spazio era un luogo occupato a turno da cose diverse.
L’idea dell’indipendenza dello spazio e del tempo dalla materia fu sviluppata in forma classica nella dottrina di Newton. Secondo Newton lo spazio è assoluto. Esso è eterno, invariabile e immobile, non dipende dalle cose. Le cose invece dipendono dallo spazio, esistono in esso, si muovono rispetto ad esso. Nel pensiero di Newton «si comporta» analogamente anche il tempo. Esso è pure assoluto, esiste di per se stesso indipendentemente dai singoli avvenimenti, fluisce in modo uniforme, in modo sempre uguale.
Un tentativo di superare il distacco metafisico dello spazio dalla materia fu compiuto da Descartes, il quale, proclamando l’estensione come la proprietà più importante e unica della materia, in sostanza identificò lo spazio e la materia. Un ulteriore passo in questa direzione fu fatto da Spinoza che considerava lo spazio attributo della materia. Anche Locke considerava lo spazio in rapporto alla materia. Secondo Locke lo spazio si presentava come grandezza dei corpi.
Anche se collegavano lo spazio con la materia i filosofi premarxisti non giunsero però alla comprensione della dipendenza delle caratteristiche spaziali dalla natura degli enti materiali. Non solo, ma essi ritenevano che lo spazio di tutti i corpi fosse uguale, possedesse le medesime proprietà.
3. Le caratteristiche fondamentali dello spazio e del tempo
Per la prima volta una soluzione coerentemente scientifica è stata data a questo problema dal materialismo dialettico. Secondo il materialismo dialettico lo spazio e il tempo sono le necessarie proprietà oggettive di qualsiasi ente materiale, le forme oggettivamente reali di esistenza della materia. L’estensione e la durata sono caratteristiche non solo delle stelle, dei pianeti, delle cose, in una parola, dei macrocorpi ma anche dei microcorpi, cioè delle particelle «elementari». «Nell’universo scrisse Lenin - non esiste altro che materia in movimento e questa materia in movimento non può muoversi altrimenti che nello spazio e nel tempo»13.
Lo spazio e il tempo non solo sono connessi alla materia, ma anche dipendono da essa, sono condizionati dalla natura degli enti materiali, dalla forma di movimento propria a questi ultimi. Questo assunto del materialismo dialettico è confermato con tutta evidenza dai dati della scienza moderna, secondo cui le caratteristiche spaziali e temporali dipendono dal movimento e dalla distribuzione delle masse gravitanti. Quanto maggiori sono le forze di gravitazione, tanto più incurvato è lo spazio e tanto più lentamente scorre il tempo. Inoltre, come mostra la teoria della relatività, in un sistema in moto, rispetto ad un sistema in stato di quiete, i rapporti spaziali si spostano, il corpo risulta schiacciato nel senso del movimento e il fluire del tempo si rallenta.
Un’importantissima caratteristica dello spazio è la tridimensionalità. Esso ha le tre dimensioni: lunghezza, larghezza, altezza che possono essere rappresentate con tre linee reciprocamente perpendicolari. Muovendocisi parallelamente ad esse, si può determinare spazialmente qualsiasi corpo.
È vero, in questi ultimi tempi sono apparse varie teorie fisiche dello spazio a quattro o più dimensioni. Quando gli scienziati parlano del mondo quadridimensionale, delle sue quattro dimensioni, essi intendono per quarta dimensione il tempo. Perciò i ragionamenti sulla quadridimensionalità non contraddicono la realtà, ma essi non confutano neppure la tesi sulla tridimensionalità dello spazio, al contrario, partono interamente da essa. Le cose stanno analogamente anche per quanto riguarda la pluridimensionalità dello spazio. Parlando di pluridimensionalità i fisici o i matematici intendono non la definizione delle caratteristiche spaziali di qualsiasi corpo, o più precisamente, non solo questo ma anche la misurazione delle proprietà più disparate del corpo (ente materiale), e di queste proprietà esso ne possiede un’infinità. Quindi, può esservi anche un’infinità di misurazioni. Ma ciò sta forse a provare l’erroneità della dottrina della tridimensionalità dello spazio? S’intende di no. Ciò sta a provare che i concetti di «spazio quadridimensionale», di «spazio pluridimensionale» si adoperano non nel loro vero senso, non per esprimere le peculiarità dello spazio ma per caratterizzare i lati e gli stati più diversi di un ente materiale.
Se lo spazio ha tre dimensioni il tempo ne ha una sola. Esso fluisce sempre in un solo senso, in avanti. Il presente diventa passato, il futuro diventa presente. È impossibile cambiare questo senso del fluire del tempo, il tempo è irreversibile.
Un’altra importantissima caratteristica dello spazio e del tempo è che sono infiniti. A prima vista può sembrare che lo spazio e il tempo siano finiti, poiché esistono nella forma di proprietà e di nessi degli enti materiali finiti. Ma ciò è lungi dal corrispondere alla realtà. Esistendo attraverso le cose finite, lo spazio e il tempo sono infiniti. Il fatto è che ogni cosa è connessa con un’infinità di altre cose. I suoi rapporti spaziali passano nei rapporti spaziali delle altre cose che la circondano e i rapporti spaziali di queste ultime nei rapporti spaziali delle cose che le circondano, e via di seguito, senza fine. Sorgendo in tal modo dai soli enti finiti, lo spazio si dispiega nell’infinità.
Le cose stanno allo stesso modo anche per quanto riguarda il tempo. L’esistenza di ogni singola cosa ha il principio e la fine. Ma essa è stata preceduta da un’infinità di altre cose e dopo di essa sorgeranno nuove cose, a queste ultime verranno a sostituirsi altre cose, e così senza fine. Il processo di sostituzione degli uni enti materiali o degli uni stati finiti con gli altri non è mai incominciato e non terminerà mai. Il tempo durerà senza fine.
A questo punto bisogna far notare che non tutte le correnti filosofiche riconoscono l’infinità dello spazio e del tempo. I teologi di regola collegano la questione della finità del mondo materiale nel tempo con la volontà divina, gli idealisti la collegano con l’attività creatrice della coscienza, la quale, esistendo fuori dello spazio e del tempo, genera cose sensibili spazialmente circoscritte e finite nel tempo.
Vari odierni scienziati e filosofi borghesi argomentano la limitatezza del mondo nello spazio riferendosi alla teoria della relatività. Secondo quest’ultima, la densità osservabile della sostanza e le forze di gravitazione che le corrispondono, devono condizionare l’esistenza della materia nella forma di una sfera chiusa. Questa conclusione deriva dalle equazioni della teoria generale della relatività, la quale presuppone che nello spazio la materia sia distribuita uniformemente. Gli ultimi dati dell’astronomia dimostrano però che la materia è distribuita nello spazio in modo estremamente ineguale.
Vi sono anche dei tentativi di utilizzare, per argomentare la limitatezza del mondo nello spazio e nel tempo, un fenomeno come lo «spostamento verso il rosso». È noto che nel percepire la luce che proviene dalle stelle, si osserva lo spostamento del loro spettro verso il rosso. Questo fatto dimostra che l’Universo si espande, che le galassie si allontanano le une dalle altre con una velocità di 120.000-170.000 chilometri al secondo. Tenendo conto della velocità, con la quale le galassie si allontanano le une dalle altre, si può stabilire quando questa sostanza che si allontana in varie direzioni costituiva un tutt’uno. Ciò ha portato alla comparsa di teorie secondo cui l’Universo trae la sua origine dall’atomo-padre, creato da dio, che esso è limitato nello spazio, ecc.
Questi ragionamenti hanno per base la supposizione che tutte le leggi osservabili in una parte dell’Universo debbano essere osservate anche nelle altre sue parti. In realtà, le leggi che agiscono in un dato momento in questo o quel campo della realtà sono lungi dal manifestarsi tutte negli altri suoi campi. Solo le leggi universali, oggetto di studio della filosofia, si manifestano ovunque. Per quanto riguarda le altre leggi, esse, manifestandosi in un dato momento in una regione o in una parte dell’Universo, non si manifestano in un’altra. Perciò dal fatto dell’espansione della data parte, da noi osservata, dell’Universo non deriva affatto che attualmente anche le altre sue parti si espandano obbligatoriamente. Esse possono espandersi, ma possono anche restringersi. Ed è più probabile che i processi di espansione e di restringimento siano propri in uguale misura a tutto l’Universo, che in una sua parte prevale fino ad un certo momento una tendenza e in un’altra parte, un’altra tendenza. Poi esse cambiano di posto.
8. IL RIFLESSO COME PROPRIETÀ UNIVERSALE DELLA MATERIA
Abbiamo già rilevato che la materia esiste attraverso gli enti materiali, spazialmente e temporalmente finiti, che non semplicemente esistono, ma agiscono gli uni sugli altri. Interagendo, essi apportano i rispettivi mutamenti gli uni negli altri. Questi mutamenti sono determinati, da una parte, dalla natura dell’ente materiale, nel quale sorgono, e, dall’altra, dalle peculiarità del corpo che agisce su di esso. Le peculiarità dell’agente lasciano un’impronta su questi mutamenti e vi si esprimono in un modo o nell’altro. È in ciò che consiste l’essenza di una proprietà come il riflesso, proprietà caratteristica di tutti gli enti materiali.
Il riflesso come proprietà universale della materia rappresenta in tal modo la capacità di un ente materiale di riprodurre nei mutamenti di queste o quelle sue proprietà, di questi e quei suoi stati le peculiarità degli altri corpi che agiscono su di esso.
Esempi di riflesso fra i più semplici sono la deformazione di questo o quel corpo in seguito all’azione esercitata su di esso da un altro corpo, il riscaldamento del conduttore in seguito all’azione della corrente elettrica che lo attraversa, l’aumento del volume di un corpo come risultato del riscaldamento, ecc.
Qualsiasi ente materiale sul quale agiscono altre cose si comporta non passivamente, ma attivamente. Esso esercita un influsso inverso su queste cose, provocandovi dei mutamenti che riproducono in questa o quella forma le sue peculiarità. Perciò ciascuno degli enti materiali interagenti ad un tempo riflette e viene riflesso. Esso riproduce in questa o quella forma le peculiarità delle cose che agiscono su di esso e a sua volta si vede riprodotto nei rispettivi mutamenti di queste cose.
Ciò attesta che la proprietà di riflettere è universale, ciò dimostra che essa è inerente a tutti gli enti materiali.
9. LO SVILUPPO DELLE FORME DI RIFLESSO
La forma di riproduzione negli enti materiali delle peculiarità dei corpi che agiscono su di essi dipende dalla loro natura. Perciò gli enti materiali qualitativamente diversi riflettono in forma diversa uno stesso stimolo esterno. Il cambiamento delle forme di riflesso è particolarmente evidente con il passaggio della materia da un grado qualitativo di sviluppo all’altro.
Nella natura inanimata il riflesso si presenta come un rispettivo mutamento delle proprietà fisiche o come reazioni chimiche che riproducono in questa o quella forma le peculiarità dei corpi o dei fenomeni interagenti. Negli organismi vegetali e animali più elementari esso si manifesta nella forma dell’irritabilità: una reazione allo stimolo esterno, dove si osserva una determinata azione predisposta14 a un determinato momento di selettività. Ad esempio, la pianta reagisce ai raggi luminosi cambiando la posizione delle foglie, orientandole in modo che risultino perpendicolari ai raggi. Una tale posizione delle foglie assicura l’assorbimento di una maggiore quantità di energia solare, necessaria per il funzionamento e sviluppo della pianta.
Con la comparsa di organismi viventi più complessi e perfetti, in particolare degli organismi dotati di un sistema nervoso, il riflesso diventa più perfetto. Ora esso si presenta nella forma dell’eccitabilità. Peculiarità di questa forma di riflesso è che qui comincia ad assolvere funzioni di riflessione un organo speciale: il sistema nervoso. Esso esercita il controllo sull’interazione dell’organismo e dell’ambiente esterno. Alcuni tessuti o alcune cellule di questo sistema percepiscono gli stimoli esterni, mentre gli altri trasmettono l’eccitamento alle rispettive parti dell’organismo e assicurano così la necessaria risposta funzionale da parte di queste ultime.
Apparso per la prima volta nella forma di fibre e cellule nervose, sparpagliate per tutto il corpo dell’animale, il sistema nervoso subisce, nel corso dell’ulteriore evoluzione dell’organismo, dei mutamenti sostanziali. Le cellule nervose si congiungono e formano i gangli nervosi collegati fra di loro. In seguito, come risultato dell’anastomosi dei gangli nervosi, sorgono i centri speciali: il cervello e il midollo spinale, si forma il sistema nervoso centrale. Con la comparsa di quest’ultimo nelle reazioni dell’organismo agli stimoli esterni intervengono dei mutamenti sostanziali. Se prima gli organismi viventi reagivano solo agli eccitanti che erano legati in un modo o nell’altro alla loro attività vitale, ora, con la comparsa del sistema nervoso centrale, essi cominciano a reagire anche a quegli eccitanti che non hanno di per se stessi alcun valore per l’organismo ma sono legati ai fenomeni di importanza vitale. In altre parole, se prima l’interazione tra l’organismo e l’ambiente esterno avveniva sulla base dei riflessi incondizionati, ora si sono aggiunti a questi ultimi i riflessi condizionati. Essi permettono all’organismo di riflettere il legame tra i fenomeni più disparati non aventi per esso alcuna importanza vitale, da una parte, e i fenomeni che hanno tale importanza, dall’altra. Grazie a ciò gli animali hanno ottenuto la possibilità di reagire prontamente alle mutate condizioni di vita e di adattarsi rapidamente ad esse.
La forma di riflesso della realtà legata al sorgere dei riflessi condizionati si distingue sostanzialmente dalle precedenti forme, in particolare dall’irritabilità e dall’eccitabilità. Se queste ultime rappresentavano le forme biologiche di riflesso, la prima rappresenta la forma psichica di riflesso della realtà.
10. LE PECULIARITÀ DELLA FORMA PSICHICA DI RIFLESSO
La psiche come particolare forma di riflesso della realtà è sorta insieme al sistema nervoso centrale, insieme alla capacità, determinata da quest’ultimo, di acquisizione dei riflessi condizionati. Con la comparsa della psiche appare il riflesso della realtà per mezzo di segnali, di immagini. Lo psichico si presenta nella forma di immagini dei fenomeni che agiscono sull’organismo, immagini che sorgono nel cervello in seguito all’acquisizione di questo o quel riflesso condizionato. Un tratto specifico del riflesso condizionato è il riflesso di tali fenomeni esterni che di per se stessi non hanno alcun valore per l’organismo, ma risultano legati a questi o quei fenomeni che hanno per esso una ben precisa importanza vitale. Con il sorgere del riflesso condizionato questi fenomeni segnalano altri fenomeni legati all’attività vitale dell’organismo, importanti in senso biologico per esso, rappresentano per così dire questi ultimi. La loro azione sull’organismo equivale all’azione di quei fenomeni importanti in senso biologico di cui sono i segnali. Con questa azione sorgono, sulla base delle connessioni temporanee che si formano nel cervello, le immagini dei rispettivi fenomeni importanti per l’organismo in senso biologico.
Ad esempio, un campanello di per se stesso non significa nulla per il cane. Esso non reagisce a questo suono. Ma se a quest’ultimo sarà abbinata la presentazione del cibo, il cane comincerà a reagire al suono di un campanello come reagisce in generale alla vista del cibo. In particolare, si avrà da parte del cane una reazione salivare. Tramite un nesso temporaneo sorto nel suo cervello fra due fonti di eccitazione: il suono di un campanello e il cibo, il cane rifletterà la dipendenza stabilitasi fra questi ultimi: suono di un campanello è un segnale che preannuncia l’apparizione del cibo. Proprio in relazione a ciò il cane reagisce al suono con la salivazione.
In tal modo, il riflesso condizionato presuppone lo stabilirsi all’atto della percezione di questo o quel segnale di una connessione con un fenomeno importante in senso biologico. Presentandosi come un lato o un momento necessario dei riflessi condizionati che rappresentano i fenomeni fisiologici, il fatto psichico, in tal modo, è organicamente legato al fatto fisiologico, sorge ed esiste sulla base di esso. Il riflesso condizionato è il risultato dell’attività fisiologica del cervello in risposta alle stimolazioni esterne sull’organismo. Sorgendo sulla base di determinate connessioni fisiologiche nel cervello, dipende da essi.
11. LA COSCIENZA COME FORMA SUPERIORE DI RIFLESSO PSICHICO DELLA REALTÀ
1. Il sorgere della coscienza
Apparsa in una determinata fase di sviluppo degli organismi viventi e, in particolare, del loro sistema nervoso, la forma psichica di riflesso della realtà non rimane immutabile, ma si perfeziona, si evolve e in determinate condizioni si converte in una forma di riflesso, qualitativamente nuova: la coscienza.
La condizione con la quale la psiche degli animali si trasforma in coscienza è il lavoro. Esso trae la sua origine dall’attività basata sui riflessi degli animali, sull’utilizzazione degli oggetti della natura per conseguire un determinato risultato, legato al soddisfacimento di questo o quel bisogno dell’organismo. Come suppongono gli scienziati, singoli esemplari di scimmie antropomorfe, nel compiere queste o quelle azioni volte a soddisfarne i bisogni, si misero ad adoperare oggetti della natura, ad esempio un bastone per abbacchiare i frutti, una pietra per difendersi dai nemici, ecc. All’inizio queste azioni erano sporadiche. Ma in quanto di regola sortivano un effetto positivo, contribuivano a soddisfare questo o quel bisogno, cominciò a sorgere sulla base di esse un riflesso condizionato e parallelamente anche l’abitudine di adoperare all’occorrenza questi o quegli oggetti della natura in qualità di «strumenti». Quest’abitudine apportò dei mutamenti sostanziali nel comportamento di questi animali. Il loro rapporto con l’ambiente circostante era ora mediato dagli oggetti della natura. Infatti, prima la loro reazione alla realtà che li circondava non era mediata, ora essi agivano su di essa, adoperando come «strumenti» oggetti della natura. Un tale complicarsi del rapporto dell’organismo con l’ambiente esterno influì positivamente sullo sviluppo del sistema nervoso e, in particolare, del cervello. Esso cominciò a sviluppare sempre nuovi nessi al suo servizio, ad assolvere sempre più complesse funzioni e quindi ad evolversi e a perfezionarsi. Ma ciò, a sua volta, esercitava un influsso benefico sull’«attività strumentale» dell’animale. Essa si rendeva più complessa, si sviluppava. In un determinato stadio di sviluppo di questa attività gli animali, in caso di assenza del necessario «strumento» per compiere questa o quella operazione, cercano di adattare a questo scopo un qualche altro oggetto. Appare la tendenza a creare il necessario «strumento» mediante una rispettiva lavorazione di questi o quegli oggetti. L’affermarsi di una tale tendenza fra gli antenati animali dell’uomo condizionò la graduale trasformazione dell’attività basata sui riflessi in attività consapevole, volta a modificare la realtà circostante con l’ausilio di strumenti appositamente creati.
La data attività diventa la necessaria forma di rapporto fra gli esseri, che escono dallo stato animale, e la realtà circostante. Essa pone questi esseri in determinati rapporti che non dipendono dalla loro volontà e li raggruppa così in un tutt’uno organico: la società. Affinché questa potesse sorgere, funzionare e svilupparsi normalmente, era necessario un certo coordinamento delle azioni degli individui che la formavano. Ma ciò presupponeva la necessità di chiarire gli scopi, i compiti comuni, di distribuire le funzioni nel processo della loro realizzazione, presupponeva, inoltre, uno scambio di pensieri fra gli individui che agivano in comune. «Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi»15. Il bisogno condizionò il sorgere del mezzo necessario per soddisfarlo. Tale mezzo divenne per l’appunto il linguaggio. La coscienza ottenne così una forma materiale di esistenza, corrispondente alla sua natura sociale. Essendo un sistema di segni che assicura la conservazione, la rielaborazione e la trasmissione delle informazioni, il linguaggio è un mezzo di espressione dei pensieri e dei rapporti fra gli uomini.
Gli uomini in divenire cominciarono a designare i singoli fenomeni, le loro proprietà, le proprie azioni con i rispettivi suoni o segni e con l’ausilio di essi trasmettevano i loro pensieri gli uni agli altri. Le denominazioni da essi date a questi o quei fenomeni assolvevano la funzione di succedanei di questi ultimi. L’uomo reagiva ad essi così come ai fenomeni da loro designati. Le parole diventano i segnali dei fenomeni da esse definiti. Impiegandole, gli uomini riflettono la realtà che li circonda, si scambiano le informazioni ottenute e le utilizzano nella loro vita e attività quotidiana.
Il riflesso della realtà attraverso un sistema di parole è una forma di riflesso specificamente umana. Gli animali riflettono la realtà circostante tramite i segnali della stessa realtà, rappresentati, come abbiamo già rilevato, da fenomeni e proprietà che non hanno importanza immediata per l’attività vitale dell’organismo, ma che sono in determinato rapporto con altri fenomeni o proprietà importanti in senso biologico. Il dato sistema dei segnali, comune all’animale e all’uomo, è stato chiamato da I. P. Pavlov primo sistema di segnalazione. Il sistema di segnalazione specificamente umano il sistema delle parole che assolvono il ruolo di segnali di questi o quei fenomeni della realtà stessa - è stato da lui chiamato secondo sistema di segnalazione.
La nascita del linguaggio apportò dei mutamenti sostanziali nell’attività basata sui riflessi dell’uomo. Il linguaggio strappò l’uomo alla dipendenza dalla situazione concreta, dipendenza che era di impedimento alla sua attività, creò le condizioni necessarie per le generalizzazioni, per i rapporti con gli altri uomini e contribuì così immensamente alla formazione e allo sviluppo della coscienza degli uomini.
2. L’essenza della coscienza
Essendo legata al lavoro e alla società sorta sulla base di esso, la coscienza è un lato necessario della forma sociale di movimento della materia, anche se esiste attraverso la coscienza dei singoli individui che compongono la società. Ogni individuo, attraverso il linguaggio, attraverso i mezzi di lavoro e i metodi d’azione, assimila l’esperienza già accumulata dalla società e trasmette alla società la propria esperienza individuale, traducendola in valori spirituali e materiali, prodotto della sua attività creatrice.
Sorta come un lato necessario della vita sociale che si forma sulla base del lavoro, la coscienza si manifestò prima di tutto nel fatto che l’antenato dell’uomo si rese conscio del proprio essere, della propria esistenza, si separò dal mondo esterno, assunse un determinato atteggiamento verso di esso. L’animale non si distingue dal mondo esterno. Esso si fonde interamente con le funzioni vitali del proprio organismo. Il selvaggio, acquistando la coscienza, si accorge per la prima volta del fatto che egli esiste, che si trovano intorno a lui gli oggetti con cui è in rapporto e che sono in rapporto fra di loro. Prendendo coscienza dei propri istinti e delle proprie abitudini, comincia gradualmente a comprendere che cosa avviene intorno. La coscienza è in tal modo la comprensione di ciò che avviene nel mondo circostante. Ma la comprensione di ciò che avviene non è altro che la conoscenza.
Il mondo esterno è presente nella coscienza nella forma di immagini che sorgono nel cervello dell’uomo in seguito ai suoi rapporti con questo mondo. L’insieme di queste immagini che riflettono la realtà è per l’appunto la conoscenza dell’uomo. È utilizzando queste immagini, i dati ivi contenuti su queste o quelle proprietà, su questi o quei nessi degli oggetti e dei fenomeni del mondo esterno, che l’uomo arriva a comprendere ciò che avviene intorno a lui.
La comprensione di ciò che avviene è una premessa indispensabile dell’orientamento dell’uomo nel mondo. Poggiando sulla giusta percezione della realtà, sulla conoscenza di questi o quei suoi lati e nessi necessari, l’uomo è come se desse uno sguardo al futuro, riproducendo nella forma di immagini ideali quello che non vi è ancora ma che deve accadere in seguito a questa o quella azione sulla realtà.
Sulla base di questo riflesso anticipante la realtà l’uomo si pone determinati scopi e subordina ad essi il suo comportamento, le sue azioni. Il porre degli scopi rappresenta, in tal modo, un’importantissima funzione della coscienza. Questa funzione distingue il comportamento dell’uomo da quello dell’animale, distingue l’attività ragionevole dell’uomo dalle azioni istintive degli animali. «Il ragno scrive Marx - compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era presente idealmente»16.
Il riflesso anticipante la realtà è alla base non solo degli scopi che si pongono gli uomini ma è anche alla base dell’attività creatrice, trasformatrice della coscienza, ciò che rappresenta il lato più importante della sua essenza. Sorta sotto il diretto influsso del lavoro che presuppone la trasformazione del mondo in conformità ai bisogni dell’uomo, la coscienza, sulla base delle conoscenze di cui questi dispone, crea del nuovo che non esisteva prima. Questo nuovo, essendo espresso in un sistema di immagini ideali, diventa un piano concreto che traduce in realtà questa o quella possibilità della materia. Essendo un riflesso del mondo, la coscienza ha in tal modo un carattere creativo, influisce attivamente sul mondo circostante e lo trasforma in conformità alle esigenze della società.
Quindi, la coscienza rappresenta il riflesso della realtà nel cervello dell’uomo, cui si accompagna la comprensione di ciò che avviene nel mondo esterno, nonché la definizione dei fini, processo basato su questa comprensione, e l’attività riflessiva che assicura un rispettivo orientamento nel mondo circostante e una modificazione creativa di esso nell’interesse della società.
3. Sul rapporto fra coscienza e materia
Come deriva da quanto esposto sopra, la coscienza è il secondo dato rispetto alla materia. Ciò si esprime prima di tutto nel fatto che essa esiste non sempre e non ovunque, ma appare solo in un particolare stadio di sviluppo della materia, solo presso gli enti materiali altamente organizzati. Facendo la sua apparizione in una determinata tappa di sviluppo della materia, essa è necessariamente legata ad essa e non può esistere senza di essa. La materia invece non dipende dalla coscienza, essa è esistita prima del suo sorgere.
Inoltre, la coscienza è il secondo dato anche per il fatto che essa rappresenta un riflesso del mondo esterno, un calco delle cose oggettivamente esistenti, delle loro proprietà e dei loro nessi. Essendo un riflesso di questi o quegli oggetti del mondo esterno, essa non può esistere indipendentemente da essi, poiché il riflesso non può esistere indipendentemente da ciò che viene riflesso, mentre ciò che viene riflesso esiste indipendentemente dal riflesso.
4. L’elemento materiale e l’elemento ideale
Quando noi esaminiamo la coscienza in rapporto al cervello, mettiamo in luce il fatto che essa come un peculiare fenomeno psichico sorge nel cervello ed è il risultato di determinati processi fisiologici che si svolgono in esso. Ma quando noi la esaminiamo in rapporto al mondo esterno, alla realtà in essa riflessa, ne mettiamo in luce l’idealità.
L’idealità della coscienza si esprime nel fatto che le immagini che la compongono non possiedono né le proprietà degli oggetti della realtà in essa riflessi né le proprietà dei processi fisiologici nervosi, sulla base dei quali sono sorte queste immagini. In esse non esiste nemmeno un grano della sostanza, caratteristica della realtà riflessa e del cervello. Esse sono prive di peso, di caratteristiche spaziali e di altre proprietà fisiche.
Essendo distinto dall’elemento materiale, l’elemento ideale è organicamente legato ad esso. Esso sorge e esiste solo nell’elemento materiale: nel cervello dell’uomo. È il risultato dell’azione dei fenomeni materiali sugli organi di senso. Il suo contenuto è determinato da questi fenomeni e ne rappresenta un riflesso. Sottolineando il nesso organico fra l’elemento ideale e l’elemento materiale e la dipendenza del primo dal secondo, Marx scriveva: «... l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini»17.
5. Sulla soggettività della coscienza
Come è stato fatto notare sopra, la comparsa della coscienza presuppone che l’uomo si distingua esso stesso dalla realtà che lo circonda, comprenda quello che vi avviene, ne sappia tener conto nelle sue azioni. Tutto ciò fa dell’uomo un soggetto, cioè un essere che possiede la capacità di comprendere quello che avviene nella realtà circostante, si pone determinati scopi e compie le rispettive azioni per il loro raggiungimento. Per sua natura il soggetto è attivo. L’autonomia relativa del soggetto è il risultato della sua azione sulla realtà circostante allo scopo di conoscerla e di trasformarla. A differenza del soggetto, l’oggetto è quella realtà che viene conosciuta e trasformata dal soggetto.
Tenendo presente che l’uomo sorge ed esiste come membro di una determinata collettività di individui che si trovano nella necessaria interconnessione e interdipendenza tra di loro, cioè come membro della società, dobbiamo considerare la società soggetto universale. Proprio essa viene a conoscere e trasforma il mondo esterno. Per quel che riguarda il singolo individuo, esso si presenta come soggetto solo nella misura in cui esprime in sé l’essenza sociale.
Il soggetto possiede un proprio particolare mondo interno che rappresenta un riflesso ideale del mondo esterno, della realtà oggettiva. Questo mondo spirituale interiore del soggetto costituisce la sfera del soggettivo. Il soggettivo è in tal modo tutto quello che si riferisce al mondo spirituale dell’uomo (della società), tutto quello che rientra nella sfera della coscienza, tutto quello di cui il soggetto prende coscienza.
Quale mondo spirituale del soggetto, il soggettivo dipende dal soggetto, dalle sue peculiarità, dai suoi tratti specifici, dal suo stato. Ma non tutto nel mondo spirituale del soggetto dipende da esso stesso. Il mondo soggettivo dell’uomo presenta tali lati che sono condizionati dalla realtà oggettiva e non dipendono dal soggetto, cioè dall’uomo e dall’umanità. Questi lati rappresentano l’oggettivo nel soggettivo, sono una particolare forma di esistenza del mondo esterno nel mondo interno del soggetto. Ciò significa che la coscienza, essendo un riflesso oggettivo, consapevole della realtà, rappresenta l’unità del soggettivo e dell’oggettivo. Essa presenta lati che, riflettendo questi o quei aspetti dell’oggetto, non dipendono dal soggetto e quelli che dipendono dal soggetto, dallo stato del suo sistema nervoso, dall’esperienza individuale, dalla condizione sociale, dalle condizioni di vita, ecc.
Un’importantissima forma di espressione della soggettività della coscienza è la sua attività che si manifesta nelle azioni conformi allo scopo del soggetto. Prima di agire, il soggetto si pone un determinato scopo, definisce le vie e i mezzi per il suo raggiungimento, prende la decisione di compiere le rispettive azioni, ecc. Insomma, tutte le sue azioni passano attraverso la sfera della coscienza, sono una manifestazione della sua volontà.
L’attività della coscienza, essendo una forma di riflesso della soggettività, non solo non esclude l’oggettività del suo contenuto, ma l’accentua. Compiendo queste o quelle azioni conformi allo scopo, il soggetto interviene nei processi oggettivi, li modifica corrispondentemente e in tal modo il soggettivo, contenuto nella coscienza, si trasforma in oggettivo che esiste fuori della coscienza e indipendentemente da essa.


1 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., p. 1107.
2 V. I. Lenin, op cit., vol. 14, p. 126.
3 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 365.
4 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 571.
5 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 336.
6 Ibidem.
7 P. H. Holbach, op. cit., p. 13.
8 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 529.
9 Ibidem, p. 364.
10 Roy K. Marshall, The Nature of Things. N. Y., 1951, p. 47.
11 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., VOI. XXV, pp. 57-58.
12 A. S. Eddington, The Nature of the Physical World. Cambr., 1931, p. 198.
13 V. I. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 171.
14 Si veda: Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cít., vol. XXV, p. 466.
15 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 461.
16 Karl Marx, Il Capitale. Roma, Edizioni Rinascita, I (I), p. 196.
17 Karl Marx, Il Capitale, cit., p. 28.


Capitolo V
LA CONOSCENZA
1. L’ESSENZA DELLA CONOSCENZA
La conoscenza è un riflesso della realtà nella coscienza dell’uomo, una riproduzione consapevole nella forma di immagini ideali dell’oggetto d’indagine, delle sue proprietà e dei suoi nessi.
I rappresentanti della filosofia idealistica si schierano contro la tesi sulla conoscenza come riflesso della realtà. Così, gli idealisti soggettivi riducono la conoscenza all’accertamento dell’interconnessione tra le sensazioni e le rappresentazioni, da essi considerate base di ogni essere. Mentre gli idealisti oggettivi presentano la conoscenza come autoevoluzione dell’idea (della ragione), processo che non ha alcun rapporto con il mondo materiale. «... Noi scriveva, ad esempio, Leibniz - otteniamo i nostri pensieri dalla nostra propria essenza senza alcun influsso diretto delle altre cose sull’anima»1.
Anche se i fautori della data concezione riconoscono la conoscibilità del mondo, essi, staccando la conoscenza dalla realtà, dai mutamenti pratici che vi avvengono, ostacolano di fatto il raggiungimento della vera conoscenza.
A differenza dei filosofi che ammettono la conoscibilità del mondo ma deformano l’essenza della conoscenza, gli agnostici (dal greco ágnostos, «inconoscibile») negano in generale la possibilità di conoscere la realtà circostante. I rappresentanti dell’agnosticismo sono Kant, Hume ed altri. Hume, ad esempio, ragionava così: al nostro intelletto non può essere mai accessibile nulla, all’infuori delle immagini o delle impressioni. Da dove prendiamo queste immagini, noi non lo sappiamo. Forse sono il risultato dell’azione degli oggetti sui nostri organi di senso, forse «derivano dall’energia dell’intelletto stesso», ma forse sono il risultato dell’azione di uno spirito invisibile e ignoto o di qualsiasi altra causa. Tutto ciò, egli prosegue, dovrebbe dircelo l’esperienza, ma essa tace su questo punto e non può non tacere, poiché l’intelletto, avendo a che fare solo con le impressioni, non è in grado di confrontare le impressioni e l’oggetto. Ogni esperienza nel dato caso si ridurrà alle impressioni e al rapporto tra le impressioni.
Il riferimento di Hume all’esperienza che testimonierebbe dell’impossibilità di conoscere la realtà oggettiva, è assolutamente privo di fondamento. L’esperienza, a considerarla materialisticamente come attività pratica degli uomini, dimostra proprio il contrario. Essa mostra che l’uomo è in grado di conoscere il mondo circostante, che la conoscenza è un riflesso nella coscienza della realtà oggettiva nella forma di immagini ideali.
Dicendo che la conoscenza è un processo di riflesso della realtà nella coscienza dell’uomo, bisogna sottolineare che questo riflesso non è passivo, meccanico, ma è un’intensa attività creatrice. Il soggetto riflette non tutto quello che si trova nel suo campo visivo, ma quello che è necessario per la sua attività vitale, è legato in un modo o nell’altro ai suoi bisogni e può essere utilizzato per soddisfarli.
Realizzando il processo della conoscenza, gli uomini si pongono questi o quegli scopi che determinano la cerchia degli oggetti prescelti per essere indagati, l’indirizzo dello sviluppo del sapere, le forme in cui avviene questo processo, ecc. A sua volta il contenuto di questi scopi è determinato dal livello di sviluppo della società, in particolare dal livello di sviluppo delle forze produttive e dai rapporti di produzione degli uomini, nonché dal livello di sviluppo del sapere stesso. Ad esempio, oggi l’uomo si pone, in particolare, scopi come quelli di conoscere le leggi dell’interazione delle particelle «elementari» che costituiscono il nucleo atomico, la struttura delle molecole che condizionano i processi vitali nell’organismo, il meccanismo di accumulazione e di trasmissione delle informazioni. In un passato non tanto lontano i suoi scopi nella sfera delle scienze naturali erano ben più modesti: accertare le proprietà chimiche e fisiche delle sostanze (che si manifestano nel processo della loro interazione), descrivere e classificare gli organismi viventi.
2. LA PRATICA COME FONDAMENTO DELLA CONOSCENZA
Il carattere attivo della conoscenza è condizionato non solo dal fatto che essa persegue sempre scopi ben precisi, ma anche dal fatto che il processo della conoscenza avviene nel corso della trasformazione ad opera dell’uomo della realtà, nel corso dell’influsso pratico sul mondo. Nel conoscere la realtà circostante, l’uomo non può e non deve rimanere semplice osservatore, contemplatore passivo di quello che vi avviene. Se l’uomo si limiterà solo ad osservare, a contemplare l’oggetto d’indagine, potrà conoscerne solo alcune proprietà, per giunta esteriori, proprietà che non basteranno per farsi un’idea precisa dell’essenza di questo oggetto. Per scoprire l’essenza dell’oggetto, è necessario agire su di esso, porlo in rapporti distinti da quelli in cui si trova allo stato naturale. Modificando lo stato naturale dell’oggetto d’indagine, l’uomo penetra passo per passo nei suoi segreti, mette in luce la sua essenza, esprimendola per mezzo di queste o quelle immagini ideali. La modificazione pratica della realtà è in tal modo la necessaria condizione per conoscerla. La conoscenza può progredire solo sulla base della pratica. La pratica ha al riguardo un ruolo determinante.
Essendo alla base della conoscenza, essendo la necessaria condizione perché l’intelletto umano possa penetrare l’essenza delle cose e dei fenomeni del mondo esterno, la pratica è lo scopo finale della conoscenza, ne è la forza motrice. Infatti, affinché la produzione possa funzionare e svilupparsi, occorre conoscere i necessari lati e nessi di quei campi della realtà che vengono abbracciati dall’attività pratica degli uomini e che vengono trasformati nell’interesse della società. Ma le cognizioni si acquistano nel processo della conoscenza della realtà, processo di cui si occupa soprattutto la scienza. La missione principale della scienza consiste nell’assicurare alla società, e in particolare alla produzione, le cognizioni necessarie per il loro funzionamento e sviluppo. La pratica sociale pone alla scienza determinati compiti, risolvendo i quali la scienza penetra sempre più profondamente nel mondo dei fenomeni, apre sempre nuove proprietà e nessi, progredendo così continuamente. «Quando la società scrisse Engels - ha dei bisogni tecnici, questo è per la scienza un aiuto più grande di dieci università»2.
Che lo sviluppo del sapere dipende dalla pratica, dai problemi che essa pone, lo mostra chiaramente la storia dell’evoluzione della scienza. Ad esempio, tali rami del sapere scientifico come la meccanica, l’idrostatica, l’idrodinamica ottennero notevole sviluppo in quella epoca in cui la pratica pose di fronte alla scienza il problema dei metodi meccanici di allontanamento dell’acqua dalle miniere e di sollevamento dei pesi. inoltre, la scienza dei fenomeni elettrici fece notevoli passi in avanti solo dopo che era stata scoperta la possibilità di utilizzarli. Analogamente stavano le cose anche per quanto riguarda lo studio dei processi nucleari. L’impetuoso sviluppo di questo ramo dello scibile è stato una conseguenza della scoperta delle vie per l’utilizzazione pratica dell’energia atomica.
Quindi la pratica esercita un influsso determinante sulla conoscenza, è alla base del suo sviluppo.
Alcuni filosofi premarxisti, e in particolare Hegel, pure ammettevano il ruolo determinante della pratica nel processo della conoscenza. Il processo della conoscenza, secondo Hegel, avviene solo attraverso l’attività creatrice. Ma presso Hegel la pratica si presenta solo come l’attività riflessiva, creatrice dell’idea, che edifica nel corso dello sviluppo della ragione autocosciente i singoli concetti e dopo di essi il mondo sensibile.
Ma in realtà la pratica rappresenta l’attività materiale degli uomini, volta a modificare, a trasformare la realtà circostante. Si riferisce ad essa prima di tutto l’attività produttiva, legata alla modificazione delle cose della natura al fine di renderli adatti al soddisfacimento di questi o quei bisogni della società. L’uomo modifica però non solo la natura, ma anche la vita sociale, i rapporti fra gli uomini, le varie istituzioni sociali, ecc. Perciò si riferisce alla pratica anche l’attività sociale degli uomini, in particolare la lotta di classe che porta in ultima istanza alla modificazione dei rapporti di produzione e insieme ad essi anche di tutta la vita sociale degli uomini.
3. IL CAMMINO DIALETTICO DELLA CONOSCENZA
Realizzandosi sulla base della pratica, la conoscenza muove continuamente dalla vivente intuizione al pensiero astratto e da questo alla pratica come criterio della verità delle conoscenze ottenute3.
1. La vivente intuizione
La vivente intuizione è un riflesso sensibile della realtà. Essa avviene attraverso la percezione immediata delle cose e dei fenomeni del mondo esterno per mezzo degli organi dei sensi dell’uomo. A differenza dell’intuizione passiva, la vivente intuizione presuppone un’azione attiva sull’oggetto di conoscenza, una sua modificazione conformemente allo scopo e sorge nel corso di questa azione.
La vivente intuizione è legata a tali forme di riflesso della realtà come la sensazione e la percezione.
La sensazione è un’immagine concreta dell’oggetto che agisce direttamente sugli organi dei sensi. In seguito all’azione dell’oggetto su questo o quell’organo dei sensi si irritano determinate cellule nervose. Questa irritazione viene trasmessa tramite i nervi afferenti alla corteccia degli emisferi cerebrali e ne eccita questo o quel settore. La fonte di eccitazione sorta nella corteccia condiziona la presa di coscienza dell’azione indicata e il riflesso di questa o quella proprietà dell’oggetto agente nella forma di una rispettiva immagine concreta: il colore, l’odore, il suono, il sapore, una determinata forma, la morbidezza, la ruvidezza, ecc. La sensazione è in tal modo «il risultato dell’azione della materia sui nostri organi dei sensi»4, «la trasformazione dell’energia dello stimolo esterno in un fatto della coscienza»5.
Questa o quella sensazione non riflette tutto l’oggetto, ma solo alcuni suoi lati e proprietà. Ma in quanto l’oggetto di regola agisce sugli organi dei sensi con molti suoi lati, sorge non una ma una moltitudine di sensazioni diverse, organicamente collegate, le quali forniscono nel loro insieme un’immagine più o meno integra dell’oggetto agente. Questa immagine integra è la percezione. La percezione, in tal modo, è un’immagine integra che sorge nel cervello dell’uomo in seguito all’azione di questo o quell’oggetto sugli organi dei sensi.
Cessata l’azione dell’oggetto, la percezione scompare, ma i nessi nervosi temporanei, sulla base dei quali è sorta, non scompaiono subito, ma continuano ad esistere per certo tempo. Come risultato l’uomo può in seguito riprodurre nella sua coscienza l’immagine dell’oggetto che in precedenza aveva agito sui suoi organi dei sensi. L’immagine dell’oggetto che in precedenza aveva agito sugli organi dei sensi, riprodotta nella coscienza, si chiama rappresentazione.
Per il suo contenuto la rappresentazione è meno ricca e meno nitida della percezione, riproduce solo parte delle proprietà dell’oggetto che ha agito sugli organi dei sensi. Ma essa presenta una serie di vantaggi, rispetto alla percezione. A differenza della percezione che, essendo sempre legata a questo o quell’oggetto concreto, frena l’attività conoscitiva della coscienza, limitandola al quadro ristretto di un dato caso concreto, la rappresentazione non presuppone un tale legame immediato con l’oggetto, permette di realizzare la conoscenza di quest’ultimo in sua assenza ed estende così le possibilità dell’attività conoscitiva della coscienza. Inoltre, essendo l’immagine di un oggetto o fenomeno concreto, la percezione è sempre individuale, singolare. Mentre la rappresentazione può essere anche un’immagine generale, può fissare solo quello che si ripete in una serie di oggetti e fenomeni simili. Ad esempio, parallelamente alla rappresentazione di un albero o di un uomo concreto, possiamo avere una rappresentazione dell’albero in generale, dell’uomo in generale. Di conseguenza, a differenza della percezione che lascia la coscienza prigioniera del singolare, dell’individuale, la rappresentazione la fa uscire dai limiti del singolare, le permette di individuare il generale e di tenerlo presente nelle rispettive azioni mentali.
Il riflesso della realtà attraverso le rappresentazioni esce dai limiti della vivente intuizione che ha a che fare solo con le sensazioni e le percezioni. Il riflesso della realtà oggettiva attraverso le sensazioni, le percezioni e le rappresentazioni si suole chiamarlo conoscenza sensibile. In tal modo, la vivente intuizione non è identica alla conoscenza sensibile, essa è qualcosa di più ristretto, rispetto a quest’ultima.
Dopo aver esaminato le forme fondamentali di conoscenza sensibile possiamo definirne le peculiarità. Il più importante tratto distintivo della conoscenza sensibile è che essa collega noi direttamente con il mondo esterno. Le sensazioni e le percezioni sono una conseguenza dell’azione diretta degli oggetti del mondo esterno sugli organi dei sensi. Inoltre, la conoscenza sensibile è concreta. Qui il mondo è riflesso in immagini concrete. Infine, la conoscenza sensibile riflette solo ciò che è alla superficie dei fenomeni, i lati esterni degli oggetti, che di regola sono mutevoli, casuali. Ma l’uomo lo interessano i lati e nessi stabili, necessari, le leggi del funzionamento e sviluppo degli enti materiali, poiché la sua attività pratica è basata su ciò che si ripete inevitabilmente in queste e quelle condizioni, su quello che è necessario. Ma il necessario, le leggi non si prestano alla percezione immediata, costituiscono l’interno dei fenomeni. Tutto ciò testimonia della limitatezza della conoscenza sensibile e della necessità di passare a forme nuove, più perfette, capaci di riflettere l’interno, il necessario, le leggi che si manifestano nella realtà circostante. Queste nuove forme di conoscenza della realtà sono le forme di pensiero astratto.
2. Il pensiero astratto
Prima di esaminare le peculiarità del pensiero astratto, dobbiamo stabilire che cosa è il pensiero in generale, che cosa esso rappresenta come particolare fenomeno sociale.
Pensare vuol dire distinguere nella coscienza questi o quei lati o proprietà dell’oggetto d’indagine e collegarli in combinazioni particolari al fine di conseguire un nuovo dato della conoscenza.
Da esempio elementare di operazione mentale può servire la soluzione di un problema matematico. Ammettiamo che dobbiamo stabilire quante calzature devono essere prodotte il prossimo anno in un paese, se è noto che la sua popolazione è di 200 milioni di persone e ogni persona consuma nel corso dell’anno in media 3 paia di calzature. Inoltre, si sa che il tasso medio annuo d’incremento della popolazione è di 15 persone per 1.000 abitanti. Risolvendo il dato problema, discerniamo determinati dati di fatto, li poniamo in una determinata connessione (rapporto) tra di loro e arriviamo così ad una nuova conoscenza. Così, rivolgiamo la nostra attenzione al numero totale degli abitanti che conta attualmente il paese (200 milioni), poi al tasso medio annuo d’incremento della popolazione, colleghiamo questi due fatti e otteniamo i dati sul numero degli abitanti che conterà il paese nel prossimo anno (203 milioni). Questa nuova conoscenza noi la colleghiamo con il fabbisogno annuo in calzature per abitante (che ci è noto) e otteniamo una cifra che indica il fabbisogno totale in calzature della popolazione nel prossimo anno. Così, discernendo i singoli dati di fatto e collegandoli in queste o quelle combinazioni per ottenere le informazioni che ci mancano, noi pensiamo e nel corso di questa attività mentale risolviamo il nostro problema.
La facoltà di pensare è sorta insieme alla coscienza sulla base dell’attività lavorativa degli uomini. In un primo tempo, nelle fasi iniziali di sviluppo della società umana, essa aveva una forma oggettivata. Compiendo queste o quelle operazioni mentali, gli uomini in quella epoca distinguevano e collegavano in nuove combinazioni le immagini concrete: le sensazioni, le percezioni, le rappresentazioni che sorgevano in essi nel corso della modificazione pratica della realtà circostante, nonché gli oggetti stessi e i fenomeni stessi che toccava loro di incontrare nella vita quotidiana. In seguito, man mano che si sviluppava la produzione, l’uomo incominciava a far astrazione dai dati concreti, sensibili, a distinguere il generale nel singolare e a creare su questa base prima le rappresentazioni generali e in seguito i concetti, immagini ideali prive di perspicuità e riflettenti le proprietà e i nessi sostanziali generali degli oggetti e dei fenomeni della realtà circostante.
Con il sorgere dei concetti fa la sua apparizione il Pensiero astratto. È la facoltà di discernere e di collegare i concetti allo scopo di acquisire nuove conoscenze.
Il concetto è una forma qualitativamente nuova di riflesso della realtà, la quale si distingue sostanzialmente dalle sopraesaminate forme di conoscenza sensibile. A differenza di queste ultime, il concetto è privo di perspicuità. Non si può, ad esempio, presentare in vesti concrete l’elemento chimico, la valenza, il patriottismo, il coraggio, la democrazia, ecc. Tutte queste immagini ideali sono dei pensieri che esprimono una rispettiva comprensione di questo o quello stato di cose. Inoltre, se le immagini sensibili la sensazione, la percezione, la rappresentazione - riflettono le proprietà e i nessi esterni degli oggetti e dei fenomeni della realtà, il concetto rispecchia le proprietà e i nessi interni, essenziali, quello che è proprio per natura alle cose.
Nel processo dell’attività riflessiva i concetti, entrando in interconnessione e interdipendenza fra di loro, creano altre forme di riflesso della realtà, in particolare il giudizio e la deduzione.
Il giudizio è la più semplice forma del pensiero, la quale rispecchia attraverso una determinata interconnessione dei concetti o delle rappresentazioni la presenza o l’assenza dei nessi tra gli oggetti e le loro proprietà. Sono, ad esempio, giudizi i seguenti pensieri: «l’uomo è un essere sociale», «il capitalismo genera la disoccupazione», «nella società capitalistica il proletario non è proprietario dei mezzi di produzione». Il primo pensiero fissa il nesso fra l’uomo e la società; il secondo il nesso fra il capitalismo, da una parte, e la disoccupazione, dall’altra; il terzo esprime l’assenza del nesso fra il proletariato e la proprietà dei mezzi di produzione nella società capitalistica.
La deduzione è una forma del pensiero, la quale rappresenta una tale connessione tra i giudizi che permette di formulare un nuovo giudizio, contenente una nuova idea. Può servire da esempio di deduzione il seguente ragionamento: «Tutti i cittadini di un paese socialista hanno il diritto al lavoro e al riposo. Carlo è cittadino di un paese socialista. Carlo ha il diritto al lavoro e al riposo». Qui i primi due giudizi sono tra di loro in una tale connessione che permette di esprimere un nuovo giudizio che racchiude in sé una nuova idea.
Collegando i rispettivi concetti in giudizi, e i giudizi in deduzioni, l’uomo pensa e nel corso di questa attività mentale riproduce nella coscienza, nella forma di un sistema di immagini ideali, i necessari lati e nessi della realtà, l’essenza dell’oggetto d’indagine. La capacità di penetrare l’essenza della sfera indagata della realtà, l’individuazione dei necessari lati e nessi interni, ad essa propri, rappresentano la caratteristica più importante del pensiero astratto che lo distingue dalla conoscenza sensibile.
Un altro tratto distintivo del pensiero astratto è il carattere mediato del riflesso. Operando con concetti, giudizi e deduzioni, il pensiero astratto non è legato direttamente all’oggetto d’indagine, esso ha a che fare con i dati sensibili su questo oggetto, ottenuti nel processo della conoscenza sensibile. Proprio questi dati sensibili assolvono il ruolo di istanza mediatrice che separa il pensiero astratto dalla realtà e al tempo stesso lo collega con esso.
3. L’interconnessione del sensibile e del razionale nella conoscenza
Abbiamo visto che l’uomo viene a conoscere il mondo circostante per mezzo della vivente intuizione e del pensiero astratto. Ma quale è la parte di ciascuno di questi modi di conoscere la realtà oggettiva? I sensualisti ritenevano che nel processo della conoscenza il momento determinante è l’esperienza sensibile. Mentre il pensiero astratto, dal loro punto di vista, assolve solo un ruolo collaterale, praticamente non aggiunge nulla a quello che è stato ottenuto nel processo della conoscenza sensibile. «Nell’intelletto umano affermavano i sensualisti - non vi è nulla che non sia già presente nei dati sensibili». I nazionalisti affermavano l’opposto. Secondo loro, è determinante il pensiero astratto, la ragione, e non i sensi. I sensi, essi dichiaravano, deformano la realtà, ci traggono in errore, per ciò non si può partire da essi nel processo della conoscenza della verità. L’unico arbitro imparziale è la ragione, solo essa può portare alla verità.
Ma come si risolve in realtà il problema: quale dei suddetti cammini della conoscenza è determinante? Né la conoscenza sensibile né il pensiero astratto sono in grado, separatamente, in distacco l’una dall’altro, di assicurare la vera conoscenza dell’essenza dell’oggetto d’indagine. La conoscenza sensibile si limita a fissare ciò che è alla superficie dei fenomeni e non è in grado di penetrarne l’essenza. Il pensiero astratto può penetrare l’essenza, ma esso non dispone dei necessari dati sull’oggetto d’indagine, poggiando sui quali si potrebbe riprodurne nella coscienza l’essenza. Questi dati gli fornisce la conoscenza sensibile. Perciò è evidente che non si può contrapporre la conoscenza sensibile al pensiero astratto e viceversa. L’essenza può essere conosciuta solo con gli sforzi congiunti dell’una e dell’altro.
L’interconnessione del sensibile e del razionale nella conoscenza si esprime non solo nel fatto che essi completano e suppongono l’uno l’altro, ma anche nel fatto che essi si compenetrano reciprocamente. Della vivente intuizione ne è caratteristica anche l’attività mentale, nel processo della quale si adoperano le immagini concrete, in particolare le rappresentazioni.
Percependo queste o quelle proprietà dell’oggetto d’indagine, l’uomo le considera alla luce dei concetti disponibili e ne prende così coscienza. Ma la derivazione del particolare dal generale e la formulazione su questa base di un giudizio contenente una nuova conoscenza, non è altro che la deduzione, una delle forme del pensare. Inoltre, fissando le proprietà accertate dell’oggetto, l’uomo lo confronta con gli altri oggetti che gli sono noti, e ne stabilisce la somiglianza o la differenza. E anche ciò avviene nella forma di deduzione.
In tal modo, la conoscenza sensibile che rispecchia l’oggetto d’indagine nella forma di sensazioni, percezioni e rappresentazioni, è organicamente legata al pensiero, include in sé quest’ultimo come uno dei momenti necessari.
Non è assolutamente esente da immagini concrete anche il pensiero astratto. Operando con i concetti astratti, esso deve avere nel suo campo visivo quell’oggetto concreto, la cui essenza è chiamato a scoprire e ad esprimere nella forma di concetti astratti.
Quindi la conoscenza sensibile e il pensiero astratto sono in interconnessione e interdipendenza organica tra di loro, e nel processo del loro funzionamento e sviluppo si compenetrano reciprocamente e passano l’una nell’altro.
4. La conoscenza empirica e teorica
Nell’esaminare il processo della conoscenza alla luce della compenetrazione reciproca del sensibile e del razionale, della vivente intuizione e del pensiero astratto si rende necessario distinguere i livelli empirico e teorico della conoscenza.
La conoscenza empirica è caratterizzata dal fatto che essa ha a che fare con il fenomeno, con quello che è alla superficie dell’oggetto, cioè con i suoi lati e nessi esterni. Qui prevalgono le forme sensibili di riflesso della realtà: le sensazioni, le percezioni, le rappresentazioni. I concetti, i giudizi e le deduzioni al dato livello della conoscenza sono strettamente legati ai dati sensibili, alla loro elaborazione mentale: la fissazione, l’analisi, il raggruppamento, l’individuazione delle proprietà generali e particolari degli oggetti d’indagine.
La conoscenza empirica descrive il comportamento dell’oggetto d’indagine, fissa i mutamenti che avvengono in esso e trae dai dati che vengono accumulati le rispettive conclusioni generali. È vero, queste conclusioni sono di scarso valore per la scienza e la pratica, in quanto non fanno che costatare quello che è, quello che si osserva nel corso degli esperimenti, ma non possono spiegarne il perché, non possono stabilire se ciò si presenta necessariamente nelle date condizioni. Ciò può essere stabilito solo dalla conoscenza teorica.
Sviluppandosi sulla base della conoscenza empirica, la conoscenza teorica non si limita a contemplare solo la superficie dei fenomeni, ma penetra la loro natura, mette in luce le cause che li condizionano. Poggiando sui dati empirici, essa mira a scoprire i necessari lati e nessi dell’oggetto d’indagine, le leggi del suo funzionamento e sviluppo e a spiegare, partendo da essi, i fenomeni osservati. Il compito della conoscenza teorica consiste, in tal modo, nel «ricondurre il movimento apparente, puramente fenomenico, al movimento reale interno...»6.
La conoscenza teorica opera con i concetti, i giudizi e le deduzioni e attraverso la loro interconnessione riproduce nella coscienza l’essenza dell’oggetto d’indagine.
5. La pratica come criterio della verità
I vari filosofi spiegano in modo diverso la questione del criterio della verità. Alcuni proclamano criterio della verità la chiarezza del pensiero (Descartes), altri la sensibilità, la percezione immediata di questo o quello stato di cose (Feuerbach), terzi il valore universale (machista Bogdanov), quarti l’utilità (Dewey), ecc. Ma tutti questi fattori non possono farci uscire dai limiti della nostra opinione soggettiva e perciò non sono capaci di distinguere la verità dall’errore. Infatti, la chiarezza del pensiero, ad esempio, testimonia della comprensione di un dato stato di cose da parte del soggetto, ma non della corrispondenza di questo stato di cose alla realtà. Si può sbagliare anche in buona fede. La percezione immediata di questo o quel fenomeno pure può essere ingannevole, deformata. Ad esempio, a grande distanza un oggetto ci pare più piccolo di quanto lo sia effettivamente, ma in realtà esso è sempre lo stesso. Inoltre, il fatto che questa o quella tesi è considerata vera da molte persone, pure non ne esclude l’erroneità, poiché possono sbagliarsi molti. Ad esempio, molti credono nell’esistenza dei diavoli, dell’inferno, del paradiso, ecc. Si avranno i medesimi risultati se utilizzeremo come mezzo per la verifica della verità momenti come l’utilità o la fede. Per queste o quelle persone può rivelarsi utile anche una tesi falsa. Ad esempio, è utile alla borghesia l’idea che lo Stato capitalistico esprime gli interessi di tutte le classi. Ma ciò non corrisponde alla realtà, poiché lo Stato borghese esprime gli interessi degli sfruttatori, in particolare della borghesia, ed è volto contro i lavoratori.
Ma come in tale caso controllare la verità di questa o quella enunciazione? La verità delle nostre conoscenze deve essere controllata con la pratica. Solo la pratica può decidere definitivamente che cosa è vero e che cosa è falso.
L’idea della pratica come criterio della verità è stata per la prima volta avanzata e conseguentemente sviluppata dal marxismo. Marx scriveva: «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere... del suo pensiero»7.
Infatti, per provare la verità di questa o quella enunciazione, è necessario, appogiandosi su di essa, effettuare queste o quelle azioni pratiche. E se si ottengono i risultati attesi, la tesi enunciata è vera, ma se i risultati saranno diversi, essa è falsa. Ad esempio, dobbiamo provare la verità della tesi che il calore può trasformarsi in moto meccanico. Per farlo, costruiamo una macchina a vapore, fondata sul principio della conversione dell’energia termica in quella meccanica. Il lavoro della macchina mostrerà che la data affermazione è vera, corrisponde al reale stato di cose.
6. La verità oggettiva. L’interconnessione dell’assoluto e del relativo nella verità
Abbiamo già rilevato che le conoscenze ottenute nel processo della conoscenza empirica e teorica diventano vere solo se trovano conferma nell’attività pratica. Ma che cosa sono le conoscenze vere? In che cosa si distinguono dalle conoscenze non vere?
La conoscenza vera è una conoscenza che corrisponde alla realtà, riflette il reale stato di cose.
Essendo conforme alla realtà, la vera conoscenza «è indipendente sia dall’uomo che dal genere umano»8. Gli uomini non possono arbitrariamente, a proprio avviso, modificare il contenuto delle tesi vere. Ad esempio, la tesi che l’energia elettrica può trasformarsi in calore e in moto meccanico, e questi ultimi in elettricità, essendo una tesi Vera che riflette la realtà, non può essere modificata dagli uomini, essi non sono in grado di farlo.
Perciò si può dare la seguente definizione della verità oggettiva. La verità oggettiva è un tale contenuto delle nostre conoscenze che riflette il reale stato di cose e perciò non dipende né dall’uomo né dal genere umano.
Ma dando una tale definizione, non affermiamo forse noi stessi, dopo i metafisici, che la verità in generale non può mutare, che essa è eterna? No, non lo affermiamo.
Anche se gli uomini non possono modificare arbitrariamente il contenuto della verità, esso si modifica inevitabilmente nel corso dello sviluppo della conoscenza sociale e della pratica. Ciò è determinato prima di tutto dal fatto che il processo della conoscenza non segna il passo, ma si sviluppa continuamente sulla base della pratica sociale. Nel corso della conoscenza gli uomini penetrano sempre più profondamente nella realtà circostante, ne scoprono sempre nuovi lati e nessi e così precisano, completano, arricchiscono le proprie conoscenze, le rendono più conformi all’esistente stato di cose.
Ad esempio, il fisico tedesco Julius Plücker, facendo passare la corrente elettrica attraverso un tubo a gas rarefatto, scoprì nel 1858 i cosiddetti raggi catodici. Più tardi, nel 1869, Johann Hittorf stabilì che questi raggi si diffondono rettilineamente, deviano sotto l’azione di un campo magnetico, vengono assorbiti dai solidi, ecc. In seguito, nel 1879, il fisico inglese William Crookes espresse l’idea che i raggi catodici rappresentano un flusso di minuscole particelle che escono dal catodo e si muovono ad immensa velocità. Queste particelle, secondo Crookes, sono cariche di elettricità negativa e fanno parte di tutti gli atomi. Una conferma sperimentale dell’idea di Crookes fu data da John Thompson nel 1897. Queste particelle furono chiamate elettroni su proposta del fisico canadese Johnstone Stoney.
L’esempio da noi riferito mostra come nel processo di sviluppo del sapere le nostre cognizioni sull’elettrone andassero continuamente modificandosi, diventando più precise e più complete. La data circostanza dimostra in modo abbastanza convincente che la verità oggettiva è relativa, che il suo contenuto dipende in un modo o nell’altro dal livello di sviluppo della conoscenza sociale e della pratica.
La verità oggettiva non può rimanere immutabile anche per il fatto che la realtà, da essa riflessa, non sta ferma, ma è in continuo mutamento e sviluppo. Ma se l’oggetto di riflesso muta, passa da uno stato qualitativo all’altro, se scompaiono alcune sue proprietà e nessi e ne sorgono altri, allora anche le nostre conoscenze su di esso non possono rimanere immutabili. Per essere vere, esse devono inevitabilmente essere modificate, devono essere completate, rese conformi alla realtà mutata. Ad esempio, le nostre conoscenze sul proletariato della Russia non potevano rimanere immutate dopo che esso aveva compiuto la rivoluzione socialista, aveva instaurato nel paese la propria dittatura e costruito il socialismo. Perché corrispondano alla realtà, dobbiamo completarle di nuovi dati che caratterizzino la condizione sociale della classe operaia, il suo posto e il suo ruolo nella società socialista.
Poi, la verità oggettiva è tale solo entro limiti determinati, a condizioni rigorosamente determinate. Se si esce da questi limiti, se mutano le condizioni, la conoscenza vera si trasforma in conoscenza non vera. Ad esempio, la tesi sulla possibilità di compiere la rivoluzione socialista per via pacifica è vera non sempre e non per tutti i paesi, ma solo per quei paesi in cui sono sorte le rispettive condizioni, in particolare per i paesi dove il proletariato ha effettivamente la possibilità di attrarre dalla propria parte la maggioranza della popolazione, di vincere alle elezioni politiche, di formare un proprio governo e di procedere per via pacifica se la borghesia non opporrà la resistenza armata alla trasformazione in senso socialista dei rapporti sociali. Ciò mostra che la verità è sempre concreta.
Quindi, la verità oggettiva è relativa, essa muta inevitabilmente in seguito allo sviluppo della conoscenza sociale, in seguito al mutare della realtà riflessa e delle sue condizioni di esistenza.
Ma se la verità non è immutabile, eterna, ma muta inevitabilmente, dipende dal livello di sviluppo della conoscenza sociale, ciò non esclude forse la sua oggettività, la sua indipendenza dall’uomo e dal genere umano? No, non lo esclude. Al contrario, il suddetto mutare della verità è una delle condizioni per assicurarne l’oggettività, in quanto contribuisce a rendere le nostre conoscenze più rispondenti al vero stato di cose.
Un esempio del come il mutare della verità contribuisca ad accrescerne l’oggettività è lo sviluppo delle nostre conoscenze sulla radiazione termica. Già nella più remota antichità gli uomini costatarono che la fiamma emette raggi termici. In un primo tempo si pensava che la radiazione termica fosse dovuta solo ai processi di combustione, ma poi fu scoperto che possiedono tale proprietà anche i corpi roventi e alla fine del XVII si venne a sapere che la possiedono anche i corpi non arroventato ma riscaldati. Nel XVIII secolo gli scienziati (Pierre Prevost, 1791) giunsero alla conclusione che la radiazione termica è caratteristica di tutti i corpi indipendentemente dalla loro temperatura. Sempre nel XVIII secolo fu stabilito (Johann Heinrich Lambert, 1779) che la diffusione e la riflessione dei raggi termici avviene analogamente alla diffusione e alla riflessione dei raggi luminosi, che la quantità di raggi termici emessi da un corpo è proporzionale all’aumento della sua temperatura (John Leslie). Fu poi osservato che i corpi che emettono una forte quantità di calore, possiedono una maggiore capacità di assorbimento di esso e viceversa. Infine, nel 1800, fu stabilito (Frederik William Herschel) che nelle regioni diverse dello spettro il calore non si distribuisce in modo uniforme, che l’effetto termico è particolarmente notevole in quella regione dello spettro che corrisponde al color rosso e diminuisce in direzione del color violetto. Noi vediamo come le nostre conoscenze sulla radiazione termica siano andate modificandosi con lo sviluppo della conoscenza sociale. Ma esse sono forse diventate meno oggettive a causa di tutto ciò? Hanno cessato forse di essere attendibili, in particolare, i dati degli antichi, secondo cui la fiamma emette raggi termici? No di certo. Il mutare delle nostre conoscenze sulla radiazione termica le rendeva sempre più vere, sempre più oggettive, di modo che esse rispecchiavano con più precisione il vero stato di cose.
Infine, se le nostre cognizioni sono sempre relative, mutano inevitabilmente nel processo di sviluppo della conoscenza sociale e della pratica, ciò non dimostra forse l’assenza di verità assoluta, non ne rende forse impossibile l’esistenza? Proprio una tale conclusione traggono dalla relatività, dalla mutabilità delle nostre conoscenze i relativisti. Per il materialismo dialettico la relatività delle nostre conoscenze non testimonia dell’assenza di verità assoluta, poiché esso vede nel relativo un elemento dell’assoluto. Secondo il materialismo dialettico, la verità oggettiva è ad un tempo relativa e assoluta. In quanto riflette in modo giusto questi o quei lati e nessi della realtà, essa è assoluta, e in quanto questo riflesso non è sempre completo, non abbraccia e non può abbracciare tutto il contenuto dell’oggetto (che è inesauribile), essa è relativa.
Quindi, anche se le nostre conoscenze sono sempre relative, ciò non significa affatto che esse non possano pretendere all’oggettività, e in pari tempo, all’assolutezza. L’esistenza della verità assoluta è necessariamente legata all’oggettività della nostra conoscenza. Lenin scrisse: «Ammettere la verità oggettiva, e cioè la verità indipendente dall’uomo e dal genere umano, vuol dire ammettere, in un modo o nell’altro, la verità assoluta»9.
La verità assoluta esiste attraverso le verità relative, attraverso quei lati, momenti delle verità relative che riflettono il reale stato di cose. Ma man mano che progrediscono il sapere e la prassi sociale, la quantità di questi momenti e lati si accresce sempre di più. Al tempo stesso la verità assoluta come la somma in continuo aumento delle verità relative diventa sempre più completa. Ma essa non potrà mai raggiungere la compiutezza definitiva, in quanto il mondo in tutta la sua molteplicità è infinito e perciò non può mai essere esaurito fino in fondo. Alla catena rappresentata dalla verità assoluta andranno aggiungendosi sempre nuovi anelli rappresentati da altrettante nuove verità relative, facendoci avvicinare al riflesso sempre più completo e in questo senso assoluto della realtà, non permettendo però mai di esaurirla fino in fondo.
4. LE FORME E I METODI DI CONOSCENZA SCIENTIFICA
Venendo a conoscere la realtà circostante, l’uomo elabora e utilizza le rispettive forme e i rispettivi metodi di riflesso della realtà operando con vari tipi di giudizi, deduzioni e concetti, si fa guidare dalle norme o dai princìpi dell’attività conoscitiva. Le forme e i metodi di conoscenza, adoperati dall’uomo, riflettono i lati e nessi della realtà e le leggi di sviluppo della conoscenza sociale e della pratica.
Il metodo di conoscenza rappresenta l’insieme dei criteri o dei princìpi che deve rispettare l’uomo indagando questo o quel campo della realtà. Questi princìpi si formulano in base a questi o quei lati e nessi universali della realtà, in base alle leggi che presiedono al funzionamento e allo sviluppo della conoscenza.
Una parte dei suddetti princìpi è applicabile in tutti gli stadi di sviluppo della conoscenza, in tutti i settori di ricerca scientifica, l’altra parte in questo o quello stadio di conoscenza, in questo o quel settore della scienza. In relazione a ciò si distinguono i metodi generali di conoscenza scientifica e i metodi e procedimenti particolari di ricerca scientifica. Esaminiamo dunque alcuni dei metodi e procedimenti generali, utilizzati nel processo della conoscenza scientifica.
1. L’osservazione
L’osservazione è una percezione premeditata e conforme allo scopo dei fenomeni riguardanti l’oggetto d’indagine. Essa presuppone la formulazione a priori dello scopo, la definizione dei metodi di raggiungimento di esso, un piano di controllo sul comportamento dell’oggetto, l’impiego degli strumenti che estendono le possibilità di percezione e di fissazione di queste o quelle proprietà dell’oggetto. Il successo dell’osservazione e i suoi risultati dipendono pure da quanto l’osservatore sia competente nel dato campo dei fenomeni, dalla sua preparazione e abilità.
2. L’esperimento
L’esperimento è un procedimento di ricerca scientifica che presuppone una rispettiva modificazione dell’oggetto o la riproduzione di esso in condizioni appositamente create.
A differenza dell’osservazione, dove il soggetto non si intromette nel fenomeno indagato ma si limita a fissarne lo stato naturale, l’esperimento presuppone un intervento attivo del soggetto nella sfera indagata, l’alterazione dello stato naturale delle cose, non solo, ma l’oggetto viene posto in condizioni diverse specialmente previste. Il ricercatore costringe così l’oggetto a reagire alle nuove condizioni e a manifestare nuove proprietà, non osservabili allo stato naturale. Poi, modificando queste condizioni, egli stabilisce come e in quale direzione mutano queste e le altre proprietà dell’oggetto e raccoglie in tal modo un ricco materiale che caratterizza il comportamento dell’oggetto in una situazione diversa.
Effettuando questo o quell’esperimento, il ricercatore parte dai dati disponibili sul dato ordine di fenomeni, ne tiene conto nello scegliere il metodo e le vie concrete per realizzare l’esperimento. Inoltre, egli parte da determinate supposizioni che devono essere confermate o confutate dall’esperimento. In altre parole, anche se l’esperimento è chiamato a fornire nuovi dati concreti sull’oggetto d’indagine, esso è legato non solo alle forme sensibili di conoscenza, ma anche al pensiero astratto.
3. La comparazione
La comparazione è un metodo di accertamento della somiglianza e della differenza tra il fenomeno, oggetto di indagine, e altri fenomeni. La comparazione è un metodo indispensabile di ricerca scientifica, largamente applicato nei più diversi stadi di sviluppo della conoscenza. Senza di esso è inconcepibile la conoscenza scientifica.
Infatti, la scienza ha lo scopo di individuare ciò che è comune ai fenomeni, ciò che si ripete in essi, e di metterne in luce l’essenza. Comparando l’oggetto d’indagine e altri oggetti, confrontando i dati ottenuti in un momento e in condizioni determinate con i dati ottenuti in un altro momento e in condizioni diverse, noi ne stabiliamo così le caratteristiche comuni. La comparazione aiuta ad accertare quello che si ripete nei fenomeni e a trarre sulla base di ciò queste o quelle conclusioni generali riguardanti l’oggetto d’indagine.
4. L’ipotesi
L’ipotesi è una delle più importanti forme del pensare che collegano la conoscenza teorica con quella empirica e che assicurano il passaggio dal riflesso dei momenti esteriori al riflesso dei momenti interiori.
L’ipotesi è una supposizione, basata sui dati accertati, intorno alla causa che condiziona questi o quei fenomeni.
Un’ipotesi si costruisce nel seguente modo. Dapprima si studiano minuziosamente i fenomeni che si riferiscono all’oggetto d’indagine. Mediante osservazioni e esperimenti si raccolgono dati concernenti le proprietà dell’oggetto, accessibili alla percezione, i suoi mutamenti e i suoi nessi con i fenomeni che lo circondano. Sulla base di un’analisi di questi dati si formula una proposizione circa la causa eventuale della comparsa delle proprietà osservabili, proposizione la cui verità è supposta in vista di conseguenze che se ne possono trarre e che la verificano o no in determinate condizioni. Se questa o quella conseguenza supposta non si verifica, l’ipotesi è considerata erronea. Ma se tutte le conseguenze si verificano, l’ipotesi è considerata scientificamente fondata e in seguito, man mano che viene ulteriormente dimostrata e confermata dall’esperienza, si trasforma in una teoria scientifica, in una conoscenza attendibile.
Il processo di costruzione di un’ipotesi e di trasformazione di essa in una conoscenza attendibile può essere seguìto su un esempio come la spiegazione dell’aumento della radioattività di una sostanza esposta all’azione dei neutroni in presenza di sostanze leggere.
Nel corso dei loro esperimenti Bruno Pontecorvo e Edoardo Amaldi constatarono che la quantità di radioattività, acquistata da una sostanza in seguito all’irradiazione, dipende dagli oggetti situati accanto. Ad esempio, in caso di irradiazione di un cilindretto d’argento in una cassa di piombo, la sua radioattività era modesta, ma se esso veniva esposto all’azione dei raggi su un supporto di legno, essa cresceva considerevolmente. Analizzando le circostanze in cui si osserva il dato fenomeno, Fermi fece una supposizione circa la causa dell’aumento della radioattività nei casi in cui si trovano accanto alla sostanza irradiata dei corpi leggeri. L’essenza di questa supposizione stava in quanto segue.
Penetrando in una sostanza e scontrandosi con questo o quel nucleo, il neutrone perde parte della sua energia. La quantità di energia che esso perde in ogni caso concreto, dipende dal peso del nucleo con cui si scontra. Se esso urta contro un nucleo pesante, ad esempio contro un nucleo di un atomo di piombo, rimbalzerà quasi con la stessa velocità, cioè perderà pochissima energia. Se esso urterà contro un nucleo leggero, in particolare contro un nucleo di un atomo di idrogeno, allora, trasmettendogli parte della propria energia, rimbalzerà con una velocità minore. In tal modo, quanto più leggero è il nucleo, tanto maggiore è la quantità di energia che perderà il neutrone urtando contro di esso. Ma il cambiamento della velocità del neutrone ne aumenta le probabilità di essere catturato dal nucleo degli atomi della sostanza che attraversa, poiché, muovendosi più lentamente, esso interagisce più a lungo con i nuclei che incontra sul suo cammino. Perciò, quando si trova accanto alla sostanza irradiata un corpo leggero, ad esempio il legno che contiene una forte quantità di idrogeno, i neutroni, penetrando in esso, rallentano il loro moto e in tale stato vengono più spesso catturati dai nuclei, il che provoca un aumento della radioattività.
Nel supporre la causa dell’aumento della radioattività di una sostanza esposta all’azione dei neutroni, Fermi ne trasse la seguente conclusione: la radioattività delle sostanze irradiate dai neutroni deve aumentare in presenza di qualsiasi sostanza leggera.
Per controllare la giustezza di questa conclusione, Fermi decise di irradiare l’argento in un ambiente di paraffina (come si sa, la paraffina contiene un numero di atomi di idrogeno notevolmente più grande che il legno che aumenta la radioattività in presenza dell’argento). L’argento irradiato in un ambiente di paraffina acquistava una radioattività maggiore di quella registrata in caso di irradiazione di esso su un supporto di legno.
Questo fatto dimostrava quanto fosse giusta la supposizione di Fermi.
L’ipotesi assolve un ruolo eccezionalmente importante nello sviluppo del sapere scientifico. E ciò non è casuale, poiché essa rappresenta una forma di passaggio dalla descrizione alla spiegazione dell’oggetto d’indagine, dalla fissazione delle sue manifestazioni esterne alla riproduzione delle cause interne che le generano.
5. L’analogia
Un’altra forma del pensare, la quale permette di realizzare il passaggio dalla conoscenza empirica a quella teorica, è l’analogia.
L’analogia è un procedimento mentale, nel corso del quale si trae dalla constatazione di un rapporto di somiglianza per queste o quelle proprietà tra due oggetti una conclusione sulla loro somiglianza anche per quel che riguarda le loro altre proprietà.
L’analogia come forma del pensare si applica di solito quando ci si trova di fronte ad un fenomeno più o meno studiato che somiglia ad un altro fenomeno non ancora indagato. Tenendo conto di questa somiglianza, si può supporre che il fenomeno non esplorato ubbidisca alle leggi proprie al primo fenomeno. A fondamento di una tale supposizione è il fatto che tra le proprietà e i rapporti che caratterizzano due oggetti, vi è una certa interconnessione e interdipendenza e perciò alcune proprietà e rapporti comuni ad entrambi portano a presupporne altri.
La conclusione per analogia ha un ruolo sostanziale nello sviluppo della scienza. Molte importantissime scoperte scientifiche furono fatte estendendo le leggi proprie ad un ordine di fenomeni ai fenomeni di un altro ordine. Così, il fisico olandese Christian Huygens trasse una conclusione sulla natura ondulatoria della luce in base alla somiglianza tra quest’ultima, per tutta una serie di proprietà, e un fenomeno come il suono. Krónig, confrontando il movimento delle molecole di gas con il movimento delle palle elastiche e costatando alcuni tratti comuni di questo processo, calcolò la pressione del gas. La somiglianza che si ha tra il movimento di un liquido lungo un tubo e quello degli elettroni lungo un conduttore servì di base all’elaborazione della teoria della corrente elettrica. Infine, la scoperta di una certa somiglianza tra i processi di riflesso dell’organismo vivente e alcuni processi fisici ha contribuito alla creazione dei rispettivi congegni cibernetici.
6. La modellazione
Una stretta connessione tra la conoscenza empirica e quella teorica e il passaggio dalla prima alla seconda sono resi possibili anche grazie ad un procedimento di ricerca scientifica come la modellazione.
La modellazione rappresenta la riproduzione di determinate Proprietà e nessi dell’oggetto d’indagine in un altro oggetto appositamente creato, cioè nel modello, al fine di studiarli più a fondo.
Può servire da esempio di modello la carta geografica che riproduce determinate caratteristiche della superficie del globo terrestre. Sono modelli le macchine cibernetiche che imitano le proprietà del cervello umano, le formule strutturali che riproducono le proprietà e i nessi della molecola di questa o quella sostanza, dell’atomo, ecc.
La modellazione presenta una notevole somiglianza con il metodo di analogia. Qui, sulla base della scoperta di queste o quelle proprietà di un oggetto del modello - si trae la conclusione che le possiede anche un altro oggetto, quello indagato.
Pregio della modellazione è che essa permette di accertare queste o quelle proprietà dell’oggetto d’indagine, di presentarle in forma pura e di studiarle in assenza dell’originale. Ciò è di eccezionale importanza nei casi in cui l’accesso all’oggetto e l’azione su di esso sono resi difficili da queste o quelle circostanze o sono impossibili in generale.
Si distinguono i modelli materiali e ideali (logici). I modelli materiali sono oggetti appositamente creati o prescelti dall’uomo, che riproducono fisicamente queste o quelle proprietà, nessi o processi che sono caratteristici dell’oggetto d’indagine. I modelli materiali esistono realmente, funzionano e si sviluppano in base a determinate leggi oggettive che esistono fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa. È un modello materiale quello di una casa, di un ponte, di una diga, ecc.
I modelli ideali rappresentano costruzioni mentali, immagini, schemi teorici che riproducono in forma ideale le proprietà e i nessi dell’oggetto d’indagine. Questi modelli vengono fissati con l’ausilio di determinati segni, disegni e di altri mezzi materiali. A differenza di quelli materiali, i modelli ideali non riproducono lo stato fisico e le proprietà dell’oggetto d’indagine, ma solo le copiano, le riflettono nelle rispettive costruzioni mentali.
Il ruolo della modellazione nella conoscenza e nella pratica si è accresciuto particolarmente in questi ultimi tempi in seguito allo sviluppo della cibernetica e della logica matematica.
7. L’induzione e la deduzione
Al livello empirico di sviluppo della conoscenza si fa largo uso di una forma del pensare come l’induzione.
L’induzione è un Processo mentale, nel corso del quale, sulla base della conoscenza di una serie di casi particolari, si trae una conclusione generale riguardante tutti i fenomeni di un dato ordine.
La conoscenza ottenuta per via induttiva è di regola probabilistica, problematica, in quanto qui la conclusione generale si trae dal fatto della ripetibilità semplice di questa o quella proprietà in tutti i fenomeni indagati. La presenza di questa o quella proprietà nei casi esaminati non dimostra affatto che essa si ripeterà necessariamente anche negli altri fenomeni non ancora studiati. Si, può ripetersi, ma può anche non ripetersi. Si ripeterà immancabilmente, se è conforme alla natura dei fenomeni del dato ordine, ma può anche non ripetersi, se non è collegata con la natura di essi ed è condizionata da circostanze esterne. Ma l’induzione non può stabilire, se questa proprietà è un momento necessario o casuale; ci vogliono a questo scopo altri metodi di conoscenza scientifica, in particolare la deduzione, metodo che ha già attinenza con la conoscenza teorica.
La deduzione è un processo mentale, nel corso del quale si formula logicamente una nuova idea in base a questi o quegli enunciati che si presentano come regola comune a tutti i fenomeni del dato ordine. Può servire da esempio di deduzione la seguente conclusione: «Lo Stato è uno strumento della classe che domina nella società per reprimere i suoi avversari di classe. Nella società capitalistica la classe dominante è la borghesia. Quindi, nella società capitalistica lo Stato è uno strumento nelle mani della borghesia per reprimere i suoi avversari di classe».
È importante il ruolo della deduzione nell’argomentazione scientifica dei princìpi che riflettono i lati e nessi degli oggetti indagati, inaccessibili alla percezione immediata.
Anche se l’induzione e la deduzione sono due forme a sé stanti del pensare, esse sono organicamente connesse, presuppongono l’una l’altra e all’infuori di questa unità non sono in grado di assicurare lo sviluppo del processo conoscitivo. Generalizzando i dati empirici che si vanno accumulando, l’induzione prepara il terreno per formulare supposizioni intorno alla causa dei fenomeni indagati, intorno all’esistenza o meno di questo o quel nesso necessario, intorno alle vie da seguire per verificare se siano giuste o meno queste supposizioni. Mentre la deduzione, dando un fondamento teorico alle conclusioni per induzione, toglie loro il carattere problematico e le trasforma in una vera conoscenza. «Induzione e deduzione scrisse Engels - sono necessariamente implicate l’una nell’altra proprio come sintesi e analisi. Invece di innalzare in cielo, unilateralmente, l’una a danno dell’altra, bisogna cercare di usare ciascuna di esse al posto che le è proprio e ciò si può fare solo una volta che si abbia ben presente la loro reciproca applicazione, il loro mutuo completarsi»10.
8. Il metodo di passaggio dall’astratto al concreto
L’astratto è un riflesso unilaterale dell’oggetto d’indagine nella coscienza umana. Il concreto è una visione d’insieme dell’oggetto (1) nella forma di un sistema di concetti astratti o (2) in forma sensibile concreta. Il concreto nella prima accezione riproduce l’oggetto come l’unità dei suoi lati interiori, necessari, ne esprime l’essenza; il concreto nella seconda accezione ne riproduce i lati esteriori ed è una rappresentazione superficiale del tutto.
Il passaggio dall’astratto al concreto è la più importante forma di conoscenza teorica, capace di riprodurre nella coscienza per mezzo di concetti astratti l’essenza dell’oggetto d’indagine.
Questo metodo fu elaborato per la prima volta da Hegel, il quale lo applicò costruendo il suo sistema filosofico. Però in Hegel il metodo di passaggio dall’astratto al concreto non ottenne argomentazione scientifica, in quanto esprimeva il cammino del pensiero puro che esisteva non si sa dove prima della natura e dell’uomo, cioè era per natura un metodo per eccellenza idealistico. Su base materialistica e scientifica questo metodo fu elaborato da Marx ne Il Capitale. Secondo questo metodo, la conoscenza deve cominciare non dal tutto concreto, ma dall’astratto, da un’analisi dei concetti che riflettono questi o quei singoli lati e nessi dell’oggetto. Ma non ogni semplice concetto astratto può costituire il punto di partenza nello studio del tutto. Può servire da punto di partenza solo un tale concetto astratto che riflette il lato o nesso fondamentale del tutto, oggetto d’indagine. Il lato (nesso) determinante esercita un diretto influsso su tutti gli altri lati del tutto. Perciò, prendendo per punto di partenza il lato determinante e esaminandolo nel suo sviluppo, potremo spiegare la comparsa e le peculiarità degli altri lati del tutto, potremo derivarli dai mutamenti del lato (nesso) determinante. Seguendo passo per passo questi mutamenti e spiegando i lati, l’uno dopo l’altro, del tutto indagato, riprodurremo nella coscienza nella forma di un sistema di concetti la necessaria interconnessione e interdipendenza di tutti questi lati e arriveremo così alla conoscenza concreta dell’essenza dell’oggetto d’indagine.
Può servire da esempio di processo conoscitivo mediante il passaggio dall’astratto al concreto l’indagine di Marx ne Il Capitale sulla formazione economico-sociale capitalistica. Marx prese come lato determinante di partenza la merce e spiegò alla luce del mutamento e dello sviluppo dei rapporti mercantili il sorgere di tutti gli altri lati e nessi della formazione capitalistica e riprodusse nella coscienza, nella forma di un sistema di concetti astratti che riflettono questi lati e nessi, l’essenza della società capitalistica.
Il metodo di passaggio dall’astratto al concreto è applicabile solo in quello stadio di sviluppo del sapere in cui il tutto, oggetto d’indagine, è stato più o meno studiato, in cui sono stati accertati e espressi per mezzo di questi o quei concetti astratti i suoi lati e nessi generali. Ma ciò è possibile solo se la conoscenza muove dai dati sensibili concreti per arrivare all’astratto, perciò questa forma di conoscenza deve precedere il movimento dall’astratto al concreto.
9. Lo storico e il logico nella conoscenza
Il concetto di «storico» designa la realtà oggettiva in movimento e sviluppo. Il concetto di «logico» designa la necessaria connessione dei pensieri che riflettono nella coscienza dell’uomo la realtà circostante.
Lo storico, rispetto al logico, è il primo dato. Il logico è un riflesso dello storico. Essendo un riflesso dello storico, il logico può corrispondere allo storico, ma può anche non corrispondere allo storico. Esso corrisponde allo storico solo quando nell’interconnessione dei pensieri si riproduce l’effettivo processo storico. E non corrisponde se nell’interconnessione dei pensieri non si riflette la storia dell’oggetto, ad esempio se il corso dei pensieri è invertito rispetto al come è andato sviluppandosi il processo storico.
Parlando della corrispondenza del logico allo storico, non dobbiamo pensare che questa corrispondenza sia completa. Il logico non coincide in tutto con lo storico. «La storia procede spesso a salti e a zigzag...»11. Il logico non deve e non può riprodurre tutti questi zigzag della storia. Esso ha lo scopo di riflettere solo i necessari mutamenti, la necessaria tendenza del passaggio dagli uni stati qualitativi agli altri.
La corrispondenza del logico allo storico è un necessario momento del metodo dialettico di conoscenza, in particolare del metodo di passaggio dall’astratto al concreto. Come si è già rilevato, secondo il metodo di passaggio dall’astratto al concreto, l’indagine parte da un lato o rapporto determinante. Nel corso dell’indagine si accertano i mutamenti del dato lato o rapporto e si spiegano sulla base di ciò la formazione e il mutamento degli altri lati del tutto. Nel corso del movimento del pensiero qui si riproducono i nessi e i rapporti che riflettono in un modo o nell’altro l’effettivo processo di formazione dell’essenza dell’oggetto indagato. Come risultato, lo sviluppo logico del pensiero corrisponde alla storia dello sviluppo dell’oggetto. È vero, questa corrispondenza riguarda solo i necessari nessi. Il logico in tal modo riproduce lo storico in una forma esente da momenti casuali. Sottolineando la coincidenza del logico e dello storico nel corso del passaggio dall’astratto al concreto, Engels scriveva: «Nel modo come incomincia la storia, così deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà altro che il riflesso in forma astratta e teoricamente conseguente del corso della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo leggi che il corso stesso della storia fornisce...»12.
10. L’analisi e la sintesi
Nel processo della conoscenza della realtà circostante, l’uomo distingue sempre mentalmente questi o quei lati dell’oggetto d’indagine e li raggruppa in nuove combinazioni per ottenere così una nuova conoscenza. Il procedimento mentale con cui si risolve l’oggetto indagato nelle sue singole parti (proprietà) è l’analisi, mentre l’unificazione mentale in un tutt’uno delle parti (proprietà) individuate è la sintesi.
Nel corso dello sviluppo del sapere, del suo passaggio da un gradino all’altro cambiano le forme e i metodi di indagine scientifica. Ciò riguarda sia l’analisi che la sintesi. Essi non rimangono sempre gli stessi, ma mutano con lo sviluppo della conoscenza.
Nei primi stadi, quelli iniziali, di sviluppo del sapere si compie la cosiddetta analisi e sintesi diretta. Una peculiarità caratteristica del dato tipo di analisi e sintesi è che qui si assiste ad una risoluzione diretta, puramente meccanicistica, del tutto indagato nei suoi singoli lati, nelle sue singole parti e ad un diretto raggruppamento meccanicistico dei lati, delle parti risolte in queste o quelle combinazioni. L’analisi avviene indipendentemente dalla sintesi, la sintesi indipendentemente dall’analisi. Esse non sono organicamente legate. Una tale analisi e sintesi assicura la prima conoscenza dell’oggetto. Essa non può dare di più.
Con il passaggio del sapere dalla fissazione delle proprietà e dei nessi osservabili alla superficie dei fenomeni, all’individuazione delle cause che li condizionano, appare un nuovo tipo di analisi e sintesi: l’analisi e sintesi a posteriori.
Un’analisi dei genere presuppone non una scomposizione meccanicistica del tutto nelle sue parti componenti, ma una scomposizione tale da esprimere la divisione di un dato fenomeno in causa e in effetto. Una sintesi del genere rappresenta non una composizione meccanicistica delle parti risolte in questa o quella combinazione, ma una composizione che rispecchia il nesso di causa e effetto. Il nesso di causa e effetto si presenta qui come perno intorno al quale ruota l’attività analitica e sintetica del pensiero, perno che orienta e coordina questa attività.
Il dato tipo di analisi e sintesi porta alla spiegazione dei singoli lati del tutto indagato, alla scoperta della loro natura, delle loro cause. Ma esso non è capace di riprodurre tutti i lati e nessi dell’oggetto d’indagine nella loro interdipendenza naturale, cioè di riprodurre nella coscienza la sua essenza. Nello stadio di conoscenza dell’essenza si rende necessario un nuovo tipo di analisi e sintesi. Questo nuovo tipo di analisi e sintesi si chiama progressivo o sistematico-strutturale.
Peculiarità dell’analisi e sintesi sistematico-strutturale è che il processo di scomposizione del tutto nelle sue parti e di unificazione delle parti in un tutt’uno corrisponde alla scomposizione effettiva di questo o quell’ente materiale nei singoli fenomeni, nei lati e nelle proprietà qualitativamente determinati e all’effettiva interconnessione naturale di questi lati e proprietà. Qui l’analisi e la sintesi sono nell’unità organica tra di loro, si compiono in uno stesso tempo. Il procedimento analitico rappresenta qui ad un tempo anche il procedimento sintetico. Ad esempio, la derivazione dallo sviluppo dei rapporti mercantili di tali fenomeni della società borghese come il denaro, il plusvalore, la forza-lavoro, il capitale, ecc. rappresenta non solo un’analisi, ma anche una sintesi, non solo la scomposizione dell’oggetto analizzato nelle sue singole manifestazioni, ma anche la riproduzione di tutto il sistema dei nessi che sorgono fra questi fenomeni.
Può servire da esempio di applicazione nel processo della conoscenza scientifica dei sopraesaminati tipi di analisi e sintesi l’indagine di Lenin sulla fase imperialistica del capitalismo. Nel corso di questa indagine Lenin sottopose ad analisi i materiali disponibili sull’imperialismo, scoprendo i momenti che lo distinguevano dalla fase premonopolistica. Tali tratti caratteristici erano: la concentrazione del capitale e la nascita dei monopoli, il mutamento del ruolo delle banche, la comparsa del capitale finanziario, l’esportazione del capitale, la spartizione del mondo fra gli Stati capitalistici. Nel dato stadio di indagine Lenin componeva i tratti caratteristici dell’imperialismo in un tutt’uno non ancora in quella successione che riflettesse la loro necessaria interdipendenza naturale, ma in quella in cui venivano esaminati nella letteratura economica da lui analizzata. Nel dato caso Lenin ricorreva all’analisi e sintesi diretta.
Nel corso dell’ulteriore indagine, cercando di scoprire la causa di questa o quella proprietà della fase imperialistica di sviluppo, di definirne la natura, egli applicò l’analisi e sintesi a posteriori. Mediante una tale analisi e sintesi Lenin, ad esempio, stabilì che il monopolio è il risultato della concentrazione eccessiva della produzione.
Dopo aver chiarito i tratti specifici dell’imperialismo, Lenin scoprì il momento principale che ne condizionava tutte le altre peculiarità: la comparsa e il dominio dei monopoli. È quel fondamento il cui sviluppo fu all’origine della fase imperialistica del capitalismo, ed è, secondo l’espressione di Lenin, legge universale e fondamentale del dato stadio di sviluppo del capitalismo13.
Prendendo per punto di partenza il monopolio e esaminandone lo sviluppo, Lenin riprodusse per mezzo di un sistema di concetti economici l’essenza dell’imperialismo. Egli rilevò che la comparsa del monopolio nella produzione porta alla liquidazione del dominio del sistema di libera concorrenza e assicura la possibilità di fare un calcolo approssimativo della produzione, della capacità del mercato, delle fonti di materie prime e di spartirle tra le unioni monopolistiche. La comparsa del monopolio nel settore bancario trasforma le banche da modeste mediatrici in potenti centri monopolistici che dispongono «di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali...»14. Ciò ha per conseguenza la fusione delle banche e dell’industria e la nascita del capitale finanziario, il dominio dell’oligarchia finanziaria, la formazione di determinate eccedenze di capitale in alcuni paesi che ne condizionano l’esportazione negli altri paesi. Quest’ultima circostanza porta in ultima analisi alla spartizione del mondo fra i maggiori paesi capitalistici.
Derivando dal monopolio le peculiarità della fase imperialistica di sviluppo del capitalismo, Lenin individuava determinati lati del tutto indagato nella loro necessaria interconnessione e interdipendenza per mettere in luce l’essenza effettiva dell’imperialismo. Qui ogni movimento del pensiero è ad un tempo analitico e sintetico: la scomposizione del tutto nei suoi singoli elementi e la composizione degli elementi individuati in un tutt’uno organico. Tutto ciò mostra che nel dato stadio di indagine Lenin si servì dell’analisi e sintesi sistematico-strutturale.
Si vede da questo esempio che ciascuno degli indicati tipi di analisi e sintesi è legato ad un determinato grado di sviluppo del sapere e ha una propria particolare sfera di applicazione.


1 G. W. v. Leibniz, Neuen Abhandlzíngen iiber den meiischlichen Verstand. Berlin, 1874, S. 429.
2 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., p. 1252.
3 Si veda: V. I. Lenin, op. cit., vol. .38, pp. 157-158.
4 V. I. Lenin, op. cit. vol. 14, p. 54.
5 Ibidem. p. 48,
6 Karl Marx, Il Capitale, cit., III (I), p. 377.
7 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. V, p. 3.
8 V. 1. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 119.
9 V. I. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 129.
10 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 511
11 Carlo Marx, Scritti scelti in due volumi, vol. I. Mosca, Edizioni in lingue estere, 1943, p. 351.
12 Ibidem.
13 Si veda: V. I. Lenin, op. cit., vol. 22, p. 202.
14 Ibidem, p. 211.
 
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view post Posted on 21/12/2011, 15:49
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Capitolo VI
LE CATEGORIE DELLA DIALETTICA MATERIALISTICA
1. IL CONCETTO DI CATEGORIA
Nel processo della conoscenza della realtà oggettiva si formano nella mente degli uomini determinati concetti, tramite i quali essi esprimono e fissano le proprietà e i nessi degli oggetti e dei fenomeni del mondo esterno, concetti che sono le immagini ideali di questi oggetti e fenomeni. I concetti che riflettono i lati e nessi più essenziali di questo o quell'ordine di fenomeni si chiamano categorie. Ogni scienza ha le proprie categorie. Sono ritenute categorie dell'economia politica i concetti di merce, denaro, valore, plusvalore, forza-lavoro, profitto, ecc.; le categorie della biologia sono concetti come l'organismo, l'ambiente, l'assimilazione, la dissimilazione, l'ereditarietà, il genere, la specie, ecc.; le categorie della giurisprudenza sono il diritto, la norma giuridica, la legge, il rapporto giuridico, la trasgressione della legge, ecc. Ha le proprie categorie anche la filosofia. A differenza delle categorie delle scienze particolari, le categorie filosofiche esprimono non semplicemente le proprietà e i nessi più essenziali, ma le proprietà e i nessi universali, cioè tali proprietà e nessi che sono comuni a tutti i fenomeni della realtà e della conoscenza. Le categorie filosofiche sono concetti universali, applicabili a qualsiasi campo della realtà. Del loro novero fanno parte, ad esempio, concetti come il singolare e il generale, la quantità e la qualità, la causa e l'effetto, il contenuto e la forma, la necessità e la casualità, la contraddizione, ecc.
Nel corso del processo storico della conoscenza le categorie non sono apparse tutte insieme e contemporaneamente. Ciascuna di esse è legata ad uno stadio rigorosamente determinato di sviluppo del sapere. Fissando i lati e i nessi universali, scoperti in un dato stadio di sviluppo, le categorie esprimono le peculiarità di questo stadio e sono una specie di punti d'appoggio di un processo che vede l'uomo elevarsi al di sopra della natura. In altre parole, le categorie, riflettendo i lati e nessi universali del mondo esterno, sono al tempo stesso i gradini di sviluppo del sapere, sono i momenti che fissano il passaggio della conoscenza da uno stadio di sviluppo all'altro. «Dinanzi all'uomo scrisse Lenin si pone una rete di fenomeni della natura. L'uomo istintivo, il selvaggio, non emerge dalla natura. L'uomo consapevole emerge da essa, le categorie sono i gradi di questo emergere, cioè della conoscenza del mondo...»1.
Ma, oltre a ciò, le categorie della dialettica sono anche le forme del pensiero. Attraverso di esse si prende coscienza di questo o quel materiale concreto, ottenuto nel processo di ricerca scientifica e di modificazione pratica della realtà. Nel corso dell'elaborazione mentale dei dati scientifici, si mettono in luce le caratteristiche più essenziali dell'oggetto. Ad esempio, considerando questi dati alla luce delle categorie di generale e di particolare, noi evidenziamo l'identità e la differenza tra l'oggetto d'indagine e le altre cose; considerandoli alla luce delle categorie di causalità e di necessità, mettiamo in luce il rapporto causale di questo oggetto e i suoi lati e nessi necessari e casuali; analizzandoli dal punto di vista delle categorie di qualità e di quantità, chiariamo le caratteristiche qualitative e quantitative e in determinate condizioni l'interconessione fra di esse, ecc.
In quanto le categorie riflettono e fissano i lati e nessi universali della realtà, le forme universali dell'essere, esse rientrano nel contenuto della dialettica; in quanto sono al tempo stesso i punti di riferimento, i gradi di conoscenza, esse rientrano nella teoria della conoscenza; poi, in quanto sono le forme del pensiero, esse sono oggetto d'indagine della logica dialettica.
2. L'INTERCONNESSIONE DELLE CATEGORIE
Secondo la dottrina del materialismo dialettico, gli enti materiali (cose, oggetti) sono in interconnessione e interdipendenza universale tra di loro. Interagendo continuamente fra di loro, essi si compenetrano reciprocamente e in determinate condizioni passano gli uni negli altri. Perciò anche i concetti tramite i quali l'uomo viene a conoscere il mondo circostante devono inevitabilmente trovarsi in interconnessione naturale tra di loro. Deve essere propria ad essi una duttilità fino al punto di rendere possibile il passaggio degli uni negli altri. Senza di ciò essi non sono in grado di riflettere l'effettivo stato delle cose. Perciò dobbiamo considerare le categorie non isolatamente, non l'una accanto all'altra, ma nella loro interconnessione e interdipendenza naturale, come gli anelli necessari di un unico sistema, logicamente armonioso, in cui spetti ad ogni categoria un posto rigorosamente determinato.
Il problema delle categorie fu fatto segno ad indagine approfondita nella filosofia di Hegel. A differenza dei precedenti filosofi, Hegel pose le categorie su un fondamento storico, presentandole nel loro movimento e sviluppo, nella loro interconnessione e interdipendenza dialettica. È vero, Hegel fece tutto ciò sul terreno dell'idealismo: l'evoluzione del pensiero puro, dell'idea che esisteva non si sa dove al di fuori dell'uomo e dal mondo materiale e indipendentemente da essi. L'erroneità del principio di partenza nell'elaborare un sistema di categorie non poteva non riflettersi sulla soluzione del dato problema. L'approccio idealistico di Hegel alle categorie fu all'origine di numerosissime costruzioni artificiali hegeliane che deformavano l'effettivo stato delle cose. Ma ciò nonostante, Hegel riuscì a riflettere nel suo sistema di categorie tutta una serie di importanti leggi e nessi universali, l'essenza della dialettica reale.
Il problema dell'interconnessione delle categorie fu risolto in modo coerentemente materialistico e scientifico solo dalla filosofia marxista. In applicazione all'economia politica, esso fu elaborato da Marx ne Il Capitale, in applicazione alla filosofia, da Lenin nei Quaderni filosofici.
Lenin considera le categorie forme universali di riflesso della realtà e gradini di sviluppo della conoscenza e della prassi sociale. Egli fa derivare la loro interconnessione dalle leggi dell'essere e della conoscenza. Secondo Lenin il rapporto fra di esse, riflettendo il rapporto tra i lati e nessi universali della realtà, esprime il necessario movimento della conoscenza dai gradi inferiori a quelli superiori.
L'apparizione di ogni nuova categoria è necessariamente condizionata dal corso stesso dello sviluppo del sapere. Essa appare perché la conoscenza, penetrando sempre più profondamente nel mondo dei fenomeni, scopre nuovi lati e nessi universali che non possono essere rispecchiati dalle categorie già esistenti e che richiedono, per essere espressi e fissati, nuove categorie. Una volta apparsa, ogni nuova categoria entra nei rapporti necessari con le categorie già esistenti e in tal modo viene ad occupare nella sfera del sapere un proprio posto particolare, condizionato dal processo in atto della conoscenza. Disponendo le categorie in quell'ordine di successione in cui sono apparse nel processo di sviluppo della conoscenza e della prassi sociale, si può stabilire il necessario rapporto fra di esse, la loro interconnessione.
Esaminiamo dunque qui in linee generali l'ordine di successione in cui l'uomo prende coscienza dei lati e nessi universali della realtà circostante, e, quindi, il movimento della conoscenza da una categoria all'altra.
A differenza dell'animale, l'uomo, una volta acquistata la coscienza, incomincia a separare se stesso dall'ambiente circostante, a rendersi conscio del suo essere particolare, distinto dall'essere del mondo esterno. Rendendosi conscio del proprio essere e dell'essere del mondo esterno, l'uomo si rende conscio anche sia della propria individualità che dell'individualità delle cose del mondo esterno. Per esprimere questa individualità dell'essere si è formato nella mente degli uomini il concetto di singolo, di oggetto e fenomeno singolo.
Parallelamente alla presa di coscienza della propria individualità, di una certa indipendenza, l'uomo prende coscienza anche del suo legame con il mondo esterno, del legame esistente tra gli oggetti del mondo esterno. Esso, come essere vivente, deve mangiare, bere, disporre di un'abitazione, difendersi dai nemici, ecc. Il soddisfacimento di questi bisogni, come pure di tutti gli altri bisogni dell'uomo ne presuppone un legame organico con il mondo esterno, l'utilizzazione di determinati oggetti della natura.
Ma l'interconnessione degli oggetti ne presuppone l'interazione, e parallelamente a ciò un determinato mutamento, cioè il movimento. In quanto il momento di interconnessione è organicamente fuso con il momento di movimento, l'uomo, prendendo coscienza dell'interconnessione degli oggetti, deve inevitabilmente prendere coscienza anche del fatto che questi oggetti mutano, cioè sono in movimento.
Parallelamente al passaggio della conoscenza dal singolo all'interconnessione, all'interazione, al movimento dei singoli corpi, si prendeva coscienza anche degli altri lati e nessi universali della realtà, in particolare del singolare e del generale.
Ogni singolo oggetto, nel quale si imbatteva per la prima volta l'uomo nella sua attività pratica, inizialmente veniva da lui percepito come unico del genere, cioè come singolare. Se questo o quell'oggetto scoperto si rivelava capace di soddisfare direttamente o indirettamente questo o quel bisogno degli uomini, se ne rimaneva un ricordo. E man mano che si scoprivano altri oggetti che soddisfacevano lo stesso bisogno, si compiva il passaggio (sia nella pratica che nella coscienza) da un solo oggetto a più oggetti, al «più». Con la messa a confronto di questi oggetti se ne stabiliva, sia nella pratica che nella coscienza, l'identità (somiglianza), e sulla base dì questa identità si formavano delle rappresentazioni generali e in seguito dei concetti generali.
In questa fase di sviluppo si prende coscienza della qualità e della quantità. Quando l'uomo percepiva un singolo oggetto come oggetto singolare, unico del genere, e voleva chiarire che cosa esso fosse in realtà, lui lo rifletteva dal punto di vista della qualità. In quanto l'oggetto è percepito qui come tale e a sé stante, al di fuori del rapporto con gli altri oggetti, la sua caratteristica quantitativa è indistinta e in sostanza si fonde con quella qualitativa. Ma man mano che la conoscenza passa da un solo oggetto a più oggetti e si stabilisce mediante comparazione la somiglianza (identità) e la differenza tra di loro, incomincia ad emergere la caratteristica quantitativa. Ogni proprietà dell'oggetto è come se si sdoppiasse, parallelamente a quello che essa è essa rivela la sua grandezza, il grado del suo manifestarsi e del suo diffondersi, insomma la sua quantità.
In un primo tempo le caratteristiche qualitative e quantitative che vengono accertate non rivelano l'interdipendenza fra di loro. Sembra che esse si comportino neutralmente le une nei confronti delle altre, ma approfondendo ulteriormente la conoscenza dei fenomeni gli uomini si convincevano che le singole caratteristiche qualitative sono legate tra di loro così come sono legate fra di loro anche le singole caratteristiche quantitative. Al tempo stesso essi scoprivano anche la connessione organica fra la qualità e la quantità. Essi constatavano che ad una determinata quantità corrisponde solo una qualità rigorosamente determinata e, al contrario, ad una determinata qualità corrisponde una quantità rigorosamente determinata.
Una volta venuti a conoscere l'interconnessione delle categorie di qualità e di quantità, gli uomini incominciano a comprendere che i mutamenti di un fenomeno comportano determinati mutamenti in un altro fenomeno. Ma ciò che genera altro, ne condiziona il sorgere, è causa, mentre ciò che sorge, che è condizionato, è effetto. La conoscenza da parte degli uomini dei lati qualitativi e quantitativi delle cose li porta così a prendere coscienza di un momento come la causalità, e, parallelamente a ciò, alla necessità di definire le categorie di causa e di effetto.
Studiando i nessi di causa e effetto, gli uomini constatano che la causa e l'effetto sono legate tra di loro in un modo che se appare la causa, sopraggiunge inevitabilmente anche l'effetto, e se manca la causa, manca anche l'effetto. In altre parole, gli uomini scoprono che la connessione tra la causa e l'effetto ha il carattere di necessità. La necessità inizialmente viene percepita come una proprietà del nesso di causa e effetto. Però nel corso dell'ulteriore sviluppo del sapere si precisa e sì allarga il contenuto del concetto di necessario. Ora sono considerati necessari non solo i nessi di causa ma anche tutti i nessi che si manifestano immancabilmente in determinate condizioni, e non solo i nessi, ma anche i lati, le proprietà necessariamente inerenti agli enti materiali, oggetto d'indagine.
I necessari nessi, messi in luce nel corso dello sviluppo del sapere, spesso acquistano nella scienza la forma di leggi, cioè si prende coscienza di essi tramite la categoria di legge, la quale significa e riflette i necessari nessi e rapporti generali e stabili.
Parallelamente al movimento della conoscenza dalla causalità alla necessità e alla legge avviene anche il passaggio alle categorie di «contenuto» e di «forma». Ciò è condizionato dal fatto che il processo della conoscenza non si limita a scoprire questo o quel nesso di causa e effetto, ma passa, sotto l'influsso della pratica che richiede una conoscenza sempre più completa degli oggetti del mondo esterno, da un nesso di causa e effetto all'altro, dalla spiegazione di una proprietà del dato ente materiale alla spiegazione di un'altra. Perciò si avverte il bisogno di una nuova categoria, e proprio della categoria di contenuto, la quale disegna l'insieme di tutte le interazioni e dei mutamenti da esse provocati in un dato ente materiale. Ma venendo a conoscere le interazioni e i mutamenti che queste provocano nell'ente materiale, scopriamo e riproduciamo nella coscienza, passo per passo, prima i princìpi esterni e poi quelli interni, in base ai quali gli elementi del contenuto formano un tutt'uno, una struttura relativamente stabile, nell'ambito della quale si realizzano tutte le interazioni e tutti i mutamenti propri ad un dato ente materiale, cioè la forma.
La separazione nel processo della conoscenza del necessario dal casuale e la presa di coscienza delle leggi che si manifestano nel tutto indagato, non significano ancora sufficiente conoscenza di esso, poiché ciò riguarda solo i suoi singoli lati e nessi. E per quanto grande possa essere il numero dei già accertati e già spiegati lati e nessi dell'oggetto d'indagine, essi (questi lati e nessi) nel loro insieme non garantiscono una conoscenza veramente completa di questo oggetto, in quanto non sono altro che una somma meccanica dei singoli lati, mentre l'ente materiale non è un semplice aggregato di queste o quelle proprietà, non è una somma di esse, ma è un tutt'uno organico, rappresenta l'unità dialettica di esse. Perciò si rende necessario unire i nessi in un tutt'uno, derivarli da un unico principio.
Riprodurre tutti i lati necessari, tutte le leggi dell'ente materiale, oggetto d'indagine, nella loro naturale interconnessione e interdipendenza significa conoscerne l'essenza.
Il movimento verso l'essenza incomincia mettendo in luce il fondamento, cioè i lati e i rapporti fondamentali (determinanti). I lati e i rapporti fondamentali determinano la formazione, il funzionamento, le direttrici di mutamento e di sviluppo di tutti gli altri lati del rispettivo ente materiale. Perciò, partendo da questi lati e rapporti, potremo riprodurre, passo per passo, nella nostra coscienza l'interconnessione esistente anche tra gli altri lati, saremo in grado di definire il posto, il ruolo e il significato di ciascuno di essi.
È vero, per arrivare a ciò, i lati (rapporti) fondamentali, e insieme ad essi anche il fenomeno stesso, devono essere considerati nella loro genesi, nel loro sviluppo. E ciò presuppone la necessità di individuare la fonte di sviluppo, la forza motrice che determina il passaggio del dato ente materiale da uno stadio di sviluppo all'altro. Fonte di sviluppo sono la contraddizione, l'unità e la «lotta» dei lati, delle tendenze opposte.
Scoprendo le contraddizioni proprie al fondamento e studiando il loro sviluppo, i mutamenti, da esse provocati, degli altri lati dell'oggetto d'indagine, verremo immancabilmente a constatare che lo sviluppo avviene attraverso la negazione di alcuni stati qualitativi da parte di altri stati qualitativi, attraverso la ritenzione di tutto quanto vi è di positivo negli stati che vengono negati e la ripetizione del passato su un fondamento nuovo, più idoneo.
In tal modo l'essenza di questi o quei fenomeni può essere conosciuta definendone il fondamento, scoprendo in esso i lati opposti, mettendo in luce la lotta tra di essi e lo sviluppo, condizionato da questa lotta, dell'ordine indagato di fenomeni attraverso la negazione di alcuni stati qualitativi da parte di altri stati qualitativi.
Un esempio lampante del come il sapere progredisce passando da una categoria all'altra è lo sviluppo delle conoscenze scientifiche. In quanto le categorie sono i necessari gradini di sviluppo della conoscenza sociale, il movimento da una categoria all'altra deve inevitabilmente manifestarsi in qualsiasi ramo dello scibile.
3. L'INTERCONNESSIONE DEI FENOMENI DELLA REALTÀ
1. Il concetto di nesso e di rapporto
Il nesso rappresenta un rapporto fra i fenomeni o i lati di uno stesso fenomeno. Ma non ogni rapporto è nesso. Si chiama nesso solo un tale rapporto che presuppone la dipendenza dei mutamenti di un fenomeno o di un lato dai mutamenti degli altri. Ad esempio, la coscienza sociale degli uomini dipende dalle loro condizioni materiali di vita. I mutamenti nelle condizioni materiali di vita degli uomini provocano inevitabilmente i rispettivi mutamenti nella loro coscienza. Sono in determinata connessione gli organismi viventi e l'ambiente da essi abitato. I mutamenti nell'ambiente si ripercuotono in un modo o nell'altro sugli organismi viventi. A loro volta i mutamenti nel mondo animale e vegetale determinano i rispettivi mutamenti dell'ambiente.
Oltre al momento di connessione, il rapporto può racchiudere in sé anche il momento di disconnessione (disassociazione) tra fenomeni o lati di uno stesso fenomeno, quando i mutamenti di uno di essi non comportano un mutamento degli altri. Così, si presentano disassociati la copertina del libro e il suo contenuto. Un mutamento nella copertina del libro non intacca il suo contenuto e viceversa, un mutamento nel contenuto del libro non comporta la necessità di mutare la copertina.
Rappresentando tipi diversi di rapporto, momenti come la connessione e la disconnessione non esistono separatamente l'uno dall'altro, ma l'uno accanto all'altro, nell'unità. Là dove vi è un momento di connessione, vi è anche un momento di disconnessione e, al contrario, là dove vi è un momento di disconnessione è presente questo o quel momento di connessione. Ogni ente materiale (fenomeno, proprietà), possedendo un determinato grado di indipendenza e una particolare autonomia qualitativa, esiste separatamente dagli altri enti materiali (fenomeni, proprietà), ma è al tempo stesso legato ad essi. Esso dipende da loro per alcuni versi e non dipende per altri versi. In esso avvengono dei mutamenti che provocano questi o quei mutamenti negli altri enti materiali (fenomeni, lati) e dei mutamenti che non si ripercuotono su questi ultimi.
Ad esempio, la produzione sociale è collegata con l'ambiente geografico; il suo stato, le sue direttrici di sviluppo dipendono dalla presenza o dall'assenza di terre fertili, di minerali utili, di risorse idriche, dal clima, ecc.; questi o quei mutamenti dei sopraelencati fattori condizionano i rispettivi mutamenti nella produzione. Ma al tempo stesso la produzione è autonoma rispetto all'ambiente geografico: essa muta non in base alle leggi di quest'ultimo ma in base alle proprie leggi. Il suo carattere, la sua forma dipendono dal livello di sviluppo delle forze produttive e non dai mutamenti dell'ambiente.
Un altro esempio. L'organismo animale o quello vegetale è legato all'ambiente e al tempo stesso presenta dei momenti di indipendenza da esso. Alcuni mutamenti dell'ambiente, in particolare i mutamenti di quei lati dell'ambiente che sono legati all'attività vitale dell'organismo, provocano in esso i rispettivi mutamenti, mentre gli altri mutamenti non hanno alcun seguito.
Quindi, i momenti di connessione e i momenti di disconnessione esistono nell'unità. È vero, essi non sempre si manifestano in grado uguale. In alcuni casi (rapporti) si pone in primo piano il momento di connessione, in altri il momento di disconnessione. Ciò è per l'appunto alla base dell'uso di distinguere nella sfera della pratica e nella sfera del sapere i fenomeni legati o meno tra di loro. In realtà, però, tutti i fenomeni sono ad un tempo legati l'uno all'altro e separati l'uno dall'altro.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche dell'interconnessione
Determinate idee intorno all'esistenza separata, isolata dei fenomeni e intorno alla loro interconnessione sorsero insieme alle teorie filosofiche. Così, presso i primi filosofi greci l'interconnessione è il principio di partenza per spiegare i fenomeni. Nel porre come elemento fondamentale della natura una sostanza o un fenomeno (acqua, aria, fuoco), i filosofi greci affermavano che tutti i fenomeni dovevano la loro origine ai mutamenti di questa sostanza (fenomeno), e che essi, rappresentando gli stati diversi della medesima natura, sono organicamente legati tra di loro, trapassano gli uni negli altri e nel principio delle cose.
L'idea dell'interconnessione universale dei fenomeni della realtà fu espressa in modo particolarmente netto da Eraclito, per il quale il principio primigenio era il fuoco, fondamento di ogni connessione e di ogni momento di disconnessione. «Tutto egli scriveva sarà giudicato e divorato dal fuoco che viene» 2.
Nelle dottrine dei primi filosofi greci l'interconnessione veniva concepita come trapasso dei fenomeni gli uni negli altri. Ma in seguito questo punto di vista cede il posto ad un altro, secondo cui l'interconnessione non rappresenta che l'unione e la disunione meccanica degli stessi elementi sempre immutabili. Questa posizione fu sostenuta in particolare da Empedocle e Anassagora. La limitatezza di questo punto di vista fu superata da Aristotele. Per lui l'interconnessione è l'interdipendenza delle cose. «Ogni relativo egli scrive ha un suo correlativo...»3. Aristotele per primo proclamò categoria il concetto di «rapporto», conferendogli così il carattere di universalità.
La categoria di «rapporto» fu ulteriormente elaborata da Kant. Egli mostrò che il rapporto racchiude in sé sia il momento di connessione che il momento di disconnessione. Considerando il problema alla luce del rapporto fra i concetti nel giudizio, egli rilevò che essi qui sono ad un tempo connessi e separati tra di loro e che qualsiasi giudizio ad un tempo fissa la presenza e l'assenza di un nesso. Ad esempio, nel giudizio: «il lupo è animale», osserva Kant, è espresso sia l'idea che il lupo è legato agli animali, sia l'idea che esso è diviso da tutti gli altri animali, all'infuori dei suoi simili, cioè dei lupi. Ma sostenendo il giusto punto di vista, Kant compie al tempo stesso un passo indietro. Egli nega l'interconnessione dei fenomeni nella realtà oggettiva. Secondo Kant, questa connessione è apportata nel mondo dei fenomeni dal soggetto pensante. Contro di ciò prese posizione Hegel. Secondo il suo parere, l'interconnessione, i rapporti sono propri per natura alle cose. È per tramite dei rapporti che le cose manifestano la loro essenza. «Tutto ciò che esiste osserva Hegel è in rapporto e questo rapporto è la verità di ogni esistenza»4. Ma, nel formulare questa idea, Hegel era lungi dal mettersi sulle posizioni del materialismo. Egli riteneva che i rapporti sono per natura ideali, sono i momenti o i gradini di sviluppo dell'idea assoluta che esisteva fuori e prima del mondo materiale, delle cose sensibili.
Oltre alla concezione dialettica dei rapporti, la storia della filosofia registra una concezione metafisica, i cui sostenitori attribuivano valore assoluto ad un momento come la disconnessione, la disassociazione e negavano in un modo o nell'altro l'interconnessione dei fenomeni della realtà.
La data concezione veniva elaborata in questa o quella forma da Bacone e Locke. Tra i filosofi borghesi contemporanei sostengono questa concezione i fautori della teoria pluralistica, secondo cui ogni oggetto rappresenta qualcosa di chiuso in se stesso e quindi non vi è e non può esservi alcuna connessione fra di essi.
3. Il carattere universale dell'interconnessione dei fenomeni della realtà
A differenza dei metafisici che negano l'interconnessione dei fenomeni della realtà e degli idealisti che derivano questa connessione dalla coscienza, il materialismo dialettico ritiene che l'interconnessione è una forma universale dell'essere, propria a tutti i fenomeni della realtà. Tutto ciò che esiste nel mondo rappresenta gli anelli della materia unica, «una totalità di corpi connessi tra di loro»5.
Ad esempio, la Terra è in determinata connessione con il Sole e con gli altri pianeti del sistema solare. Il Sole è un anello della Galassia, la quale comprende una moltitudine di stelle, connesse tra di loro. La Galassia stessa è parte integrante di un sistema ancor più grandioso, e nel quadro di questo sistema è connessa con tutta una serie di altre formazioni stellari, ecc. Analogamente stanno le cose anche per quel che concerne la struttura della materia. Ogni corpo celeste rappresenta un insieme di varie sostanze, connesse tra di loro in un modo o nell'altro, ogni sostanza è un insieme di molecole in connessione tra di loro, ogni molecola è un insieme di atomi pure connessi tra di loro, l'atomo è un insieme di particelle «elementari», reciprocamente connesse. I corpi celesti sono connessi tramite i campi gravitazionali. La connessione delle sostanze che formano questo o quel corpo, nonché la connessione degli atomi all'interno della molecola e dell'involucro elettronico con il nucleo atomico si manifestano attraverso i campi gravitazionali e elettromagnetici.
Sono connessi fra di loro in modo determinato la natura viva e inanimata, il mondo animale e quello vegetale, la natura e la società, i vari lati della vita sociale, i fenomeni della coscienza e della conoscenza.
Insomma, nella realtà tutto è reciprocamente connesso, «Ogni cosa (fenomeno, processo, ecc.) è connessa con ogni altra»6.
4. IL SINGOLARE, IL PARTICOLARE E IL GENERALE
1. Il concetto di singolare e di generale
Ogni fenomeno è connesso in un modo o nell'altro con un'infinità di altri fenomeni, i quali, in seguito all'interazione con esso, vi apportano i rispettivi mutamenti. Ogni fenomeno ha i propri mutamenti, poiché ciascuno di essi ha un proprio particolare ambiente, distinto per questi o quei versi dagli altri, una propria particolare serie di fenomeni precedenti (una propria particolare storia), distinta per questi o quei versi dalle altre. L'irripetibilità dei mutamenti, propri in ogni dato momento ad ogni singolo fenomeno, condiziona l'irrepetibilità dei tratti, delle caratteristiche di quest'ultimo. Ma tutto ciò che è irripetibile nel fenomeno, tutto ciò che è proprio solo ad esso è assente negli altri fenomeni, costituisce il singolare.
Possono essere un esempio del singolare le linee papillari dei polpastrelli, i disegni da queste formate variano per ogni individuo. Non per caso i giuristi stabiliscono in base alle impronte digitali l'identità degli individui coinvolti in questo o quel delitto. Il singolare per ogni nazione è l'irrepetibile nella sua cultura, nella psiche, nella lingua, nelle tradizioni, nei costumi, ecc.
Possedendo i tratti (proprietà, lati) irrepetibili, ogni singolo fenomeno è parte della materia unica, è un anello nella catena infinita del suo sviluppo. Ma se è così, allora ogni fenomeno deve possedere, parallelamente all'irrepetibile, anche quello che si ripete, che è proprio non solo ad esso, ma anche ad altri fenomeni. Quello che si ripete nei fenomeni, quello che è proprio non ad un fenomeno ma a molti fenomeni, è il generale.
Ad esempio, il generale per questo o quell'uomo è che la sua essenza è condizionata dai rapporti di produzione, che lui è un essere ragionevole, che la sua coscienza ne riflette l'essere sociale, ecc., poiché tutto ciò è proprio non solo a lui, ma anche agli altri uomini. Il generale per questa o quella nazione è che ha un territorio unico, una lingua unica, ecc. Ciò è caratteristico non di questa o quella nazione, ma di tutte le nazioni.
2. La critica delle concezioni metafisiche e idealistiche del singolare e del generale
Nella storia della filosofia si sono delineate nettamente due tendenze per quanto riguarda la soluzione del problema dell'interconnessione del singolare e del generale, quella realistica e quella nominalistica.
I realisti affermano che il generale esiste indipendentemente dal singolare. Il singolare dipende nella sua esistenza dal generale, è originato da esso, è qualcosa di secondario, di temporaneo, di passeggero. Risolve in modo analogo la questione dell'interconnessione del singolare e del generale il filosofo borghese contemporaneo A. N. Whitehead. Egli dichiara le essenze ideali generali come enti eterni che esistono non si sa dove, fuor dello spazio e del tempo. Secondo la sua dottrina, le cose singole appaiono solo come risultato del trapasso nel mondo spazio temporale delle rispettive essenze ideali e scompaiono, non appena queste essenze abbandonano il mondo sensibile e fanno ritorno al mondo trascendentale, ideale.
I nominalisti ritengono che il generale non esiste realmente, nella realtà oggettiva. Solo il singolare possiede un'esistenza reale. Il generale esiste, invece, solo nella mente degli uomini, nella coscienza. Esso non è che un nome, la denominazione di una serie di oggetti singoli.
Nella filosofia borghese moderna il punto di vista nominalistico è sviluppato da filosofi come Stuart Chase, Cassius J. Keyser, ed altri.
Chase, ad esempio, dichiara il concetto generale simbolo, cui in realtà non corrisponde nulla. «Noi egli scrive confondiamo continuamente l'etichetta con l'oggetto non verbale e attribuiamo così effettiva validità alla parola come a qualcosa di vivo»7. Questa circostanza, ragiona Chase, fa sì che gli uomini considerano realmente esistenti concetti generali astratti come la libertà, la giustizia, la democrazia, il capitalismo, mentre nel mondo circostante non vi è e non può esservi nulla di analogo a queste essenze, poiché esistono realmente solo gli oggetti e fenomeni singoli8.
Nella storia della filosofia vi sono stati dei tentativi di superare l'unilateralità della soluzione realistica e nominalistica del problema dell'interconnessione del singolare e del generale. Nel Medioevo tali sforzi furono compiuti da Duns Scoto, e in epoca più vicina da Bacone, Locke, Feuerbach e da altri. Però anche questi filosofi non riuscirono a fornire una soluzione conseguentemente scientifica del dato problema. Secondo le loro concezioni, solo il singolare possiede un'esistenza effettiva, mentre il generale esiste solo come un lato, un momento del singolare.
3. L'interconnessione del singolare e del generale
Il materialismo dialettico ha completamente superato le deficienze proprie alle teorie nominalistiche e realistiche per quanto riguarda la soluzione di questa questione. Secondo il materialismo dialettico, né il generale né il singolare sono momenti a sé stanti. Esistono indipendentemente gli uni dagli altri solo i singoli oggetti, fenomeni, processi che rappresentano l'unità del singolare e del generale, di quello che si ripete e di quello che non si ripete. Il generale e il singolare, invece, esistono solo nei singoli oggetti e fenomeni nella forma di lati, momenti di questi ultimi. L'interconnessione del singolare (oggetto, processo) e del generale si manifesta come l'interconnessione del tutto e della parte, dove il tutto è rappresentato dal singolare e la parte dal generale. Di qui «ogni generale abbraccia solo approssimativamente tutti gli oggetti singolari», «ogni singolare entra in modo incompleto nel generale»9, poiché parallelamente alle caratteristiche generali i singoli oggetti possiedono anche le proprie caratteristiche singolari, possiedono, parallelamente alle proprietà che si ripetono, proprietà che non si ripetono.
Proseguiamo. Ogni singolo oggetto, come si è già detto, non è eterno, esso sorge, esiste per certo tempo e poi si trasforma in un altro singolo oggetto, questo si trasforma in un terzo e così senza fine. Ad esempio, ogni elemento chimico in determinate condizioni può trasformarsi in un altro elemento chimico, ogni particella «elementare» in un'altra particella «elementare», una sostanza in campo, un campo in sostanza, ecc. Da ciò deriva che «ogni singolare è collegato da migliaia di trapassi ai singolari (cose, fenomeni, processi) di un'altra specie», che esso «non esiste altrimenti se non nella connessione che lo congiunge con il generale»10. Dato che in determinate condizioni è capace di trasformarsi in un altro singolare, esso possiede potenzialmente (nella propria natura) le proprietà di tutti questi altri singolari (enti materiali, fenomeni, processi) e, in tal modo, può essere considerato come identico ad essi, cioè come il generale.
Esistendo nei singoli oggetti (processi, fenomeni), il singolare e il generale sono organicamente connessi fra di loro e in determinate condizioni trapassano l'uno nell'altro: il singolare diventa generale e il generale diventa singolare.
Tutto ciò non è difficile constatarlo, analizzando il processo del sorgere e della scomparsa di queste o quelle proprietà degli enti materiali della natura viva. Ad esempio, diffondendosi, gli organismi vengono a trovarsi in condizioni ambientali diverse, acquistano questi o quei segni di adattamento che in seguito all'influsso di queste o quelle condizioni si trasformano in segni generali che caratterizzano prima una sottospecie, e poi la specie nel suo insieme. E se prenderemo gli individui di una stessa specie, provenienti da varie località, che si distinguono o per determinate caratteristiche dell'ambiente o per il grado in cui si manifestano queste caratteristiche, potremo scoprire tutti i gradini di trasformazione di questo o quel segno, cioè i gradini di trapasso del singolare nel generale e, al contrario, del generale nel singolare.
4. Il generale e il particolare
Per individuare il singolare, è necessario confrontare l'oggetto di indagine con tutti gli altri oggetti. Ma praticamente non è possibile fare ciò. Per questo in pratica confrontano di solito questo o quell'oggetto solo con determinati oggetti. In relazione a ciò si rende necessario contrapporre il generale non al singolare ma al particolare.
Infatti, confrontando un oggetto con altri oggetti, noi ne stabiliamo la somiglianza e la diversità. Ma ciò che distingue gli oggetti confrontati, costituisce in essi il particolare, mentre ciò che indica la loro somiglianza, costituisce il generale.
Comparando il singolare e il particolare, non è difficile rilevare che il singolare si presenta sempre come particolare. Essendo l'insieme delle caratteristiche proprie solo al dato oggetto, esso distinguerà sempre questo oggetto dagli altri oggetti.
Se il singolare si presenta sempre come particolare, il generale non sta sempre in rapporto uguale al particolare. In alcuni casi esso si presenta come particolare, in altri casi nelle vesti di se stesso. Quando esso indica ciò che distingue il dato oggetto dagli altri oggetti con cui lo confrontiamo, si presenta come particolare, ma se esso indica la somiglianza degli oggetti comparati tra di loro, si presenta come generale. Ad esempio, il fatto che nella Repubblica Democratica del Vietnam l'industria capitalistica privata (aziende della borghesia nazionale) è stata gradualmente trasformata mediante la creazione delle aziende miste statali capitalistiche, è un momento generale, poiché ciò ha luogo anche in altri paesi, in particolare nella RDT. Ma questo fatto si presenta nelle vesti di particolare se confronteremo la RDV non con la RDT ma con l'Unione Sovietica. Poi, il fatto che nella RDV la dittatura del proletariato ha la forma di democrazia popolare, è pure un momento generale, in quanto tale forma di dittatura del proletariato esiste anche in altri paesi socialisti, ad esempio in Bulgaria, Romania, ecc. Ma sempre questo sarà un momento particolare se confronteremo la RDV non con la Bulgaria, la Romania, ma con l'URSS, dove la dittatura del proletariato ha la forma di repubblica dei Soviet.
Ma ogni generale può presentarsi nelle vesti di se stesso e nelle vesti di particolare? No. Vi è un generale che non può presentarsi come particolare. È l'universale. In quanto è proprio a tutti gli oggetti e fenomeni della realtà, non si può distinguere in base ad esso un oggetto o un fenomeno dagli altri. Esso indicherà sempre la somiglianza, l'identità degli oggetti comparati. Ad esempio, tali caratteristiche di una cosa come le sue proprietà necessarie e casuali, il contenuto e la forma, il singolare e il generale, ecc. non possono presentarsi come particolare. Essi non offrono la possibilità di distinguere la data cosa dalle altre cose poiché tutte le cose possiedono queste caratteristiche.
Quindi, il singolare si presenta sempre come particolare, il generale a seconda delle circostanze. Se esso indica la diversità dei fenomeni comparati, si presenta come particolare, ma se ne indica la somiglianza, si presenta nelle vesti di se stesso, cioè come generale. L'universale invece non può presentarsi come particolare, sempre e in tutti i casi esso indica solo la somiglianza, l'identità dei fenomeni comparati.
La giusta utilizzazione delle leggi dell'interconnessione del generale e del particolare è di eccezionale importanza nella sfera delle trasformazioni sociali, in particolare nell'opera di costruzione del socialismo. «I comunisti nella loro lotta rilevava in relazione a ciò L. I. Brezhnev nel Rapporto d'attività del PCUS si fondano sulle leggi generali dello sviluppo della rivoluzione e della costruzione del socialismo e del comunismo... La profonda comprensione e l'utilizzazione di queste leggi generali, servendosi nel contempo di un metodo creativo e tenendo conto delle concrete condizioni in ogni paese, sono state e restano peculiarità irrinunciabili dei marxisti leninisti»11.
5. LA CAUSA E L'EFFETTO
1. Il concetto di causa e di effetto
A differenza del materialismo meccanicistico che cercava la causa dei mutamenti di un fenomeno fuori di esso, in un altro fenomeno, il materialismo dialettico ritiene che la causa dei mutamenti e dello sviluppo di un fenomeno è racchiusa prima di tutto in esso stesso e si riduce all'interazione dei lati e degli elementi che lo formano. «... L'azione mutua scriveva Engels è la vera causa finalis delle cose»12.
Ad esempio, causa del sorgere, dell'esistenza e dello sviluppo dello Stato è l'interazione (lotta) delle classi antagonistiche, causa della rivoluzione sociale è l'interazione tra le forze produttive andate avanti nel loro sviluppo, da una parte, e i rapporti di produzione invecchiati, dall'altra. Causa della corrosione dei metalli è l'interazione chimica dei metalli, da una parte, e dei gas che si trovano in aria, nonché dell'acqua e delle sostanze in essa dissolte, dall'altra.
Quindi, la causa è l'interazione di fenomeni o lati di uno stesso fenomeno, la quale condiziona i rispettivi mutamenti, mentre l'effetto sono i mutamenti che sorgono nei fenomeni o nei lati di un fenomeno in seguito alla loro interazione.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche della causalità
Un'idea della causa appare nella fase iniziale di sviluppo della filosofia. Ma presso i filosofi antichi essa è ancora assai nebulosa e indefinita. Il concetto di causa non è ancora distinto dal concetto di causa prima, dalla materia, che è a fondamento delle cose e dei fenomeni esistenti. Così, nella filosofia greca antica essa si presentava ancora nella forma dell'acqua (Tales), dell'aria (Anassimene), del fuoco (Eraclito). Poi si presentava nella forma degli atomi eterni, immutabili, che si distinguono l'uno dall'altro per la forma, la posizione e l'ordine e che formano, urtandosi, i vari corpi. In seguito cominciano ad essere considerati causa tutti i fattori che condizionano il sorgere delle cose singole. Nel pensiero di Platone, del novero di questi fattori fanno parte: la materia informe, una determinata idea, il rapporto matematico e l'idea del «bene supremo»; quest'ultima è, secondo lui, il principio motore. Presso Aristotele, il sorgere di una cosa si spiega con quattro cause: materiale, efficiente, formale e finale.
La concezione aristotelica della causalità rimase per molto tempo immutata. La filosofia medievale non aggiunse nulla a ciò che aveva fatto Aristotele nell'elaborare le date categorie. Utilizzando la sua dottrina delle cause formale e finale, questa filosofia era interamente dedicata all'argomentazione dell'esistenza di dio e della creazione ad opera di esso del mondo sensibile.
Un certo passo nella conoscenza della causalità fu compiuto da F. Bacone. Anche se lui riconosce le suddette quattro cause di Aristotele, attribuisce però importanza decisiva solo a quella formale, la quale, secondo lui, si trova non fuori della cosa, come riteneva Aristotele, ma è racchiusa in essa stessa. La causa formale rappresenta la legge dell'esistenza di ogni cosa. A differenza di Bacone, Hobbes respinge le cause formale e finale e considera realmente esistenti solo due: efficiente e materiale. Egli intende per causa efficiente («perfetta») l'aggregato delle proprietà del corpo attivo che provoca i rispettivi mutamenti nel corpo passivo; per causa materiale, l'aggregato delle proprietà del corpo passivo. Se Bacone, definendo la causa, pone l'accento sull'appartenenza di essa alla sfera dell'interiore, alla natura della cosa, Hobbes pone la causa nella sfera dell'esteriore, la collega con gli accidenti: proprietà mutevoli, non sostanziali, e, in sostanza, riduce il rapporto causale all'azione di un corpo sull'altro.
Spinoza già vede la limitatezza di una tale interpretazione della causalità e compie un tentativo di superarla. Egli pone la questione della necessità di ricercare la causa dell'esistenza e dello sviluppo delle cose in esse stesse e in relazione a ciò formula il concetto di causa sui (causa di sé). È vero, la causa della propria esistenza, secondo Spinoza, può racchiuderla in sé solo il mondo nel suo insieme, la natura assoluta infinita. Per quanto riguarda le cose finite, le cause della loro esistenza sono contenute non in esse stesse, ma fuori, nelle altre cose finite.
Quella che la natura racchiude in sé la causa della propria esistenza e non ha assolutamente bisogno di una forza estranea, situata fuori di essa, fu un'idea assai progressiva ed ebbe un importante ruolo nella lotta contro l'idealismo e la religione, ma quest'idea non era sufficiente per superare la concezione metafisica della causalità, la quale riduceva il rapporto causale all'azione di un corpo sull'altro. Perciò non è casuale che la causa sui di Spinoza non intaccasse in alcun modo il concetto di causa che esisteva in quell'epoca. Sia nelle scienze naturali che nella filosofia, si continuava a considerare causa l'azione di una forza esterna su questa o quella cosa. Una tale definizione della causa la troviamo, in particolare, nelle opere di Newton, dei materialisti francesi del XVIII° secolo e di altri autori.
Il ridurre la causa del sorgere e dello sviluppo di una cosa all'azione di un'altra cosa determina tutta una serie di difficoltà nella sfera del sapere. Infatti, la conoscenza di una cosa presuppone la necessità di conoscerne la causa. Ma se la causa della data cosa è racchiusa in un'altra cosa, per conoscere la prima dobbiamo conoscere un'altra cosa, quella che è causa della prima. Ma la conoscenza di questa seconda cosa presuppone la necessità di accertarne la causa, e quest'ultima è racchiusa in una terza cosa, quindi dobbiamo prima conoscere la terza cosa, ma ciò non è possibile senza metterne in luce la causa, e così senza fine. In tal modo, la conoscenza di ogni data cosa presuppone necessariamente la conoscenza di un'infinità di altre cose, il che, s'intende, è irrealizzabile. Già Spinoza constatò la data circostanza e trasse da essa la conclusione sull'impossibilità di una conoscenza adeguata delle cose singole.
È vero, i filosofi e i naturalisti del XVIII secolo che sostenevano il suddetto principio metafisico della causalità non si accorgevano della contraddizione che ne derivava inevitabilmente. Applicando questo metodo, essi non solo non dubitavano della possibilità di conoscere la cosa indagata, ma lo ritenevano sufficiente per conoscere a fondo tutto l'Universo, per spiegare qualsiasi fenomeno del passato, per predire qualsiasi futuro avvenimento. In quell'epoca il livello di sviluppo della fisica permetteva, una volta conosciute la forza che agiva su un corpo, le coordinate e la velocità del suo moto in un dato momento, di definirne le coordinate e la velocità del moto in qualsiasi futuro momento. Ma se la suddetta comprensione del rapporto causale è accettabile in questo o quel grado per la spiegazione dei fenomeni del semplice moto meccanico, dove i mutamenti dello stato di un sistema isolato non implicano questi o quei mutamenti della sua qualità, essa è assolutamente inaccettabile per i fenomeni riguardanti altre forme, più complesse, di movimento, fenomeni alla cui origine sono questi o quei fattori qualitativi, condizionati non tanto dall'azione delle forze esterne, quanto dalle interazioni interne dell'oggetto.
Fu Hegel a richiamare per primo l'attenzione sulla limitatezza e la contraddittorietà della concezione metafisica della causalità. Mostrando come l'approccio metafisico al problema della causalità rinvii inevitabilmente al cattivo infinito (cioè, la ripetizione meccanica sempre delle stesse proprietà senza qualsiasi progresso nel loro sviluppo), Hegel respinge la suddetta concezione del rapporto causale e propone una nuova soluzione del problema. Secondo lui, la causa e l'effetto sono in interazione dialettica tra di loro. Essendo una sostanza attiva, la causa agisce su una sostanza passiva e provoca in essa dei mutamenti che ne fanno l'effetto. Ma reagisce in certo modo anche l'effetto, e in tal modo si trasforma da sostanza passiva in sostanza attiva e si presenta ora, rispetto alla prima sostanza, come causa.
Così, grazie all'interazione, la causa e l'effetto trapassano l'una nell'altro, cambiano di posto e si presentano ad un tempo, l'una rispetto all'altro, sia come causa, sia come effetto. Prendendo per punto di partenza l'azione mutua della causa e dell'effetto, Hegel fu fra i primi a scoprire la loro interconnessione dialettica.
La comprensione meccanicistica della causalità e gli errori a ciò dovuti, si osservano finora tra i filosofi e gli scienziati borghesi. Alcuni fisici contemporanei tentano di spiegare, partendo dalla concezione meccanicistica della causalità, questi o quei momenti del comportamento delle particelle «elementari». Come risultato essi giungono alla conclusione che il principio della causalità non può essere applicato ai fenomeni del mondo microscopico. Ad esempio, un tale punto di vista è sostenuto dal fisico americano P. W. Bridgman. La legge della causa e dell'effetto, egli scrive, non agisce nel mondo delle particelle minutissime. I dati ragionamenti si basano sul fatto che nella meccanica quantistica non è possibile definire simultaneamente la posizione e la velocità di una particella, prevederne l'ulteriore comportamento. Ma la possibilità di predire con precisione il comportamento di un oggetto e il principio della causalità sono lungi dall'essere una stessa cosa. Il principio della causalità presuppone il riconoscimento del condizionamento causale di qualsiasi fenomeno. La previsione del comportamento di un oggetto è, invece, il risultato della conoscenza del rapporto causale, di una fissazione abbastanza precisa dello stato iniziale del dato oggetto e del carattere della sua interazione con l'ambiente. Ma, nell'attuale tappa del suo sviluppo, la meccanica quantistica non è in grado di assicurare né l'uno né l'altro. Perciò essa esprime il condizionamento causale nel mondo microscopico nella forma di probabilità.
Ma ciò non significa affatto che non vi sia il condizionamento causale nel mondo microscopico. Esso esiste, ma non si manifesta qui in quella stessa forma in cui si manifesta nel moto meccanico. Bisogna rilevare che il condizionamento causale nelle varie sfere della realtà si manifesta in modo diverso. Così, ad esempio, della materia viva è caratteristica una forma del manifestarsi, della vita sociale un'altra, dell'attività conoscitiva una terza. La concezione meccanicistica del rapporto causale non tiene conto di questa molteplicità ed è legata solo ad una forma del suo manifestarsi, quella meccanica, e perciò non è adatta ad esprimere il condizionamento causale dei fenomeni delle altre forme del movimento.
3. L'interconnessione della causa e dell'effetto
A differenza del materialismo metafisico che nega il trapasso della causa nell'effetto e viceversa, il materialismo dialettico ritiene che la causa e l'effetto possono cambiare di posto. Ciò che in un determinato momento o per un determinato verso si presenta come effetto, in un altro momento o per un altro verso si presenta come causa, e viceversa. Ad esempio, la lotta tra le classi antagonistiche è causa del sorgere dello Stato. Ma una volta sorto, lo Stato incomincia ad influire esso stesso sulla lotta di classe. Esso difende alcune classi e reprime le altre e apporta così dei mutamenti in questa lotta. Riguardo a questi mutamenti esso si presenta già come causa e i mutamenti stessi, rispetto ad esso, come effetto.
Uno stesso effetto può essere determinato da varie cause. Ad esempio, possono contribuire all'aumento della produttività del lavoro fattori come il perfezionamento dei mezzi di lavoro, l'elevamento della qualifica degli operai, i mutamenti nella sfera dell'organizzazione del lavoro, ecc.
Ogni effetto di regola è chiamato alla vita non da una causa ma dall'azione congiunta di numerosissime cause. Ciò si spiega con il fatto che ogni interazione non è isolata dalle altre interazioni, ma è organicamente collegata con esse, influisce su di esse e ne subisce l'influsso. Come risultato di tutto ciò, il fenomeno deve la sua origine non ad un'interazione, ma a molte interazioni, è l'effetto dell'azione di numerose cause.
Anche se ogni fenomeno deve la sua origine a più cause, il ruolo di queste ultime non è uguale. Alcune cause si presentano come le necessarie, senza di esse il fenomeno non potrebbe sorgere. Le altre, anche se hanno rapporto con il sorgere del fenomeno, hanno un ruolo secondario: l'effetto potrebbe prodursi anche in loro assenza.
Le cause, senza le quali l'effetto non può prodursi, si chiamano fondamentali. Quelle la cui assenza non esclude il sorgere dell'effetto, si chiamano cause non fondamentali.
Ad esempio, la causa fondamentale delle crisi economiche, proprie alla società capitalistica, è la contraddizione fra il carattere sociale della produzione e la forma privata di appropriazione, senza la quale non può sorgere una crisi economica. Possono presentarsi come cause non fondamentali fenomeni come la svalutazione della moneta, il fallimento di questa o quella azienda o banca, la minore domanda di queste o quelle merci, ecc. Una crisi economica può scoppiare anche in assenza di ciascuno di questi fenomeni.
Oltre alle cause fondamentali e secondarie, si fa distinzione tra le cause interne ed esterne. La causa interna è l'interazione dei lati di una stessa cosa la quale provoca determinati mutamenti, la causa esterna è l'interazione fra cose, la quale condiziona questi o quei mutamenti in esse. Ad esempio, l'interazione degli uomini nel processo della produzione dei beni materiali è causa interna dello sviluppo della produzione, mentre l'influsso dell'ambiente geografico sullo sviluppo della produzione è causa esterna.
Nel sorgere e nello sviluppo di un ente materiale il ruolo determinante spetta alle cause interne. Le cause esterne esercitano un influsso sullo sviluppo di una cosa solo rifrangendosi attraverso il prisma delle cause interne.


6. LA NECESSITÀ E LA CASUALITÀ
1. Il concetto di necessità e di casualità
Il concetto di necessità si forma sulla base dell'ulteriore approfondimento della nozione di causalità, in particolare sulla base della comprensione del carattere necessitante del rapporto causale. Non per caso vari filosofi e studiosi di scienze naturali identificano la necessità con la causalità. Ma la causalità e la necessità sono concetti diversi. Infatti, il concetto di «causalità» rispecchia il condizionamento di alcune forme dell'essere da parte di altre forme, il rapporto genetico fra di esse. Mentre il concetto di necessità riflette l'inevitabilità del sorgere in determinate condizioni di questi o quei nessi, di queste o quelle proprietà.
Si chiamano necessari quelle proprietà e quei nessi che racchiudono in sé la causa della propria esistenza, che sono condizionati dalla natura interna degli elementi che formano il dato fenomeno, mentre quelle proprietà e quei nessi che sono l'effetto di cause esterne si chiamano casuali. I necessari lati e nessi in determinate condizioni si manifestano inevitabilmente, mentre le proprietà e i nessi casuali non sono obbligatori, essi possono manifestarsi ma possono anche non manifestarsi.
Ad esempio, l'incontro del capitalista con l'operaio sul mercato del lavoro è necessario. Ciò è condizionato dalla natura di classe sia dell'uno che dell'altro, dalla loro condizione sociale. L'operaio non può esistere senza vendere la sua forza lavoro, senza farsi assumere dal capitalista. Il capitalista pure non può esistere senza assumere gli operai, senza sfruttarli.
Se l'assunzione degli operai da parte dei capitalisti è necessaria, la trasformazione, ad esempio, di un operaio in capitalista è un fenomeno casuale, in quanto non deriva dall'essenza dell'operaio salariato ma è condizionata da un concorso di circostanze esterne. Infatti, dalla natura sociale degli operai non deriva che essi devono trasformarsi in capitalisti. Al contrario, questa natura postula che gli operai sempre devono rimanere operai. E se a qualcuno di essi è capitato di diventare capitalista, ciò è stato condizionato da un concorso casuale di circostanze.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche della necessità e della casualità
Gli idealisti soggettivi non riconoscono l'esistenza oggettiva della necessità. Secondo loro, la necessità è una caratteristica della coscienza, del pensiero.
L'assenza della necessità nella natura cercò di dimostrarla, ad esempio, Kant, secondo il quale la necessità è una forma dell'attività riflessiva ed è apportata nella natura, nel mondo dall'uomo. Per Mach la necessità è un nesso logico. Secondo l'opinione del filosofo e matematico inglese K. Pearson, la necessità esiste solo nel mondo dei concetti. Il filosofo borghese tedesco Jacobi deriva la necessità dalla connessione logica dei concetti. L'essenza dei suoi ragionamenti è questa: i sistemi esistenti nel mondo esterno e gli elementi che li formano sono in stato di repulsione reciproca. Essi sono privi di qualsiasi momento di identità che possa unirli, sono privi della necessaria interconnessione. Quest'ultima esiste nell'identità del sistema dei concetti, tramite il quale cerchiamo di riflettere questo o quel sistema del mondo. In sostanza, nei suoi ragionamenti sulla necessità Jacobi fa proprio il punto di vista kantiano.
Alcuni filosofi dichiarano la necessità postulato convenzionale, accettato dagli uomini come punto di partenza per rendere comoda la spiegazione del mondo. In natura a questo postulato, essi affermano, non corrisponde nulla, la natura non è affatto obbligata a comportarsi così come ci fa comodo.
Se ai princípi basilari da cui si lascia guidare l'uomo nel processo della conoscenza non corrispondesse nulla nella realtà, l'uomo non potrebbe spiegare e, tanto meno, modificare nessun fenomeno. Ma l'attività pratica dimostra che le rappresentazioni dell'uomo sulla necessità di questi o quei nessi delle cose rispecchiano esattamente la situazione reale, e perciò sono assunti come punto di partenza nel conoscere e nel trasformare la realtà.
A differenza degli idealisti, i materialisti riconoscono l'esistenza oggettiva della necessità, considerandola una delle proprietà universali degli enti materiali e dei loro nessi. Per quel che riguarda la necessità logica, essa, secondo i materialisti, è un calco, una copia, insomma, un riflesso dei rispettivi lati e nessi del mondo esterno.
Ammettendo l'esistenza oggettiva della necessità, non tutti i materialisti riconoscono il carattere oggettivo della casualità. Alcuni di essi ritengono che essa sia stata inventata dagli uomini per nascondere la loro ignoranza in questi o quei problemi. Quando un individuo, essi dicono, non conosce la causa di un fenomeno, non può spiegarlo, esso lo dichiara casuale. Un tale punto di vista sulla casualità fu sostenuto da Democrito, Spinoza, Holbach, ed altri. Ma anche ai nostri tempi alcuni filosofi sostengono una concezione analoga. In quanto noi, essi affermano, non possiamo prevedere l'avvento di questo o quel fenomeno, siamo portati a considerarlo casuale. Per coloro che saprebbero tutto, il caso come un che di imprevisto non esisterebbe. Nel quadro della nostra conoscenza umana la categoria di «casualità» è, secondo questi filosofi, un'espressione breve, sminuita della limitatezza di principio della spiegazione dei fenomeni.
La negazione del carattere oggettivo della casualità di regola si ricollega con l'universalità del rapporto causale, con il carattere necessitante di questo rapporto. Se ogni fenomeno così ragionano i fautori del soprammenzionato punto di vista ha la propria causa che lo chiama necessariamente alla vita, allora tutti i fenomeni esistenti nel mondo sono necessari. Non vi sono e non possono esservi i fenomeni casuali.
Quella dell'universalità del condizionamento causale dei fenomeni e del carattere necessitante del rapporto causale è un'idea giusta. Ma da ciò non deriva affatto che tutti i fenomeni esistenti nel mondo siano necessari, che non vi siano i fenomeni casuali. È vero, ogni fenomeno è collegato con la causa che lo genera, ma non è ciò che lo rende necessario. Le messi rovinate dalla grandine sono il risultato necessario dell'azione del ghiaccio sulle piante, ma questo fenomeno non è ritenuto necessario. Non è necessaria la morte dell'uomo investito da un automezzo, anche se essa è il risultato inevitabile di una determinata forza d'urto, da lui subìta nell'incidente. La necessità di un fenomeno è condizionata non dal carattere necessitante del rapporto causale, non dal fatto che esso deriva necessariamente dalla sua causa, ma dalla necessità della causa stessa.
Il fatto è che le cause possono essere necessarie e casuali. Causa dei fenomeni, come è stato notato sopra, è l'interazione dei fenomeni o degli elementi che formano uno stesso fenomeno. Ma i fenomeni o gli elementi possono incontrarsi ed entrare in interazione in forza della loro natura interna, come è, ad esempio, il caso dell'incontro dei proletari e della borghesia sul mercato del lavoro, o possono incontrarsi ed entrare in interazione casualmente, in forza di un concorso fortuito di queste o quelle circostanze. Tali sono, in particolare, la grandine o l'investimento di un uomo da parte di un automezzo. Dalla natura interna della pianta non deriva affatto che essa debba subire nel periodo della florescenza o della maturazione l'azione del ghiaccio, così come non deriva affatto dalla natura dell'uomo che lui debba essere investito da un'autovettura. Sia l'uno che l'altro sono condizionati da una concatenazione di circostanze esterne.
Quindi, il carattere necessitante del rapporto di causa ed effetto non esclude l'esistenza oggettiva della casualità. Quest'ultima pure è una forma universale dell'essere come la necessità.
3. L'interconnessione del necessario e del casuale
Quali forme universali dell'essere, la necessità e la casualità esistono non separatamente l'una dall'altra ma in connessione organica, sono i momenti, i lati di una stessa cosa. Ogni fenomeno rappresenta l'unità del necessario e del casuale. Ad esempio, il rapporto degli atomi di potassio e di cloro nella molecola di sale di cucina (1:1) è necessario, poiché è determinato dalla natura interna della sostanza in parola. Ma che il dato atomo concreto di potassio è entrato in interazione proprio con il dato atomo di cloro per formare proprio la data molecola, ciò è un fatto casuale, condizionato da fattori esterni. Un altro esempio: lo sviluppo della pianta da un seme capitato in un terreno fertile è necessario, ma che il seme è capitato proprio nel dato terreno, ciò è un fatto casuale. Saranno casuali anche momenti come le specie di insetti che minacceranno la pianta, il numero di questi insetti, tipi di piante che cresceranno accanto, ecc.
Essendo in connessione organica con la necessità, la casualità è una forma del manifestarsi e del completamento di quest'ultima. La necessità si fa strada attraverso un groviglio di deviazioni casuali, le quali, esprimendola come tendenza, apportano in un dato processo, fenomeno numerosissimi nuovi momenti, non derivanti dalla necessità ma condizionati da circostanze esterne. Ad esempio, un tale necessario nesso come la dipendenza del prezzo della merce dal valore, cioè dalla quantità di lavoro socialmente necessario spesa per produrla, si manifesta nelle operazioni di scambio solo come tendenza, attraverso le deviazioni costanti in un senso o nell'altro. E queste deviazioni, essendo una forma del manifestarsi della dipendenza del prezzo della merce dal suo valore, completano il dato necessario nesso, in particolare esse esprimono anche la dipendenza del prezzo della merce dal rapporto domanda offerta sul mercato, cioè dalle concrete condizioni in cui avviene la compravendita delle merci.
Nel processo del movimento e dello sviluppo di un fenomeno il casuale può trasformarsi nel necessario e il necessario può diventare casuale. Ad esempio, nelle condizioni della società primitiva dominava l'economia naturale. Ogni comunità produceva essa stessa i mezzi di sussistenza che venivano distribuiti in base al principio egualitario ai membri della comunità. Tutto ciò era una conseguenza inevitabile del basso livello di sviluppo delle forze produttive il quale escludeva la possibilità di produrre beni materiali in eccedenza, in una quantità maggiore di quella necessaria per appagare i bisogni immediati dei produttori. Nelle date condizioni lo scambio di un prodotto con un altro era un fenomeno eccezionalmente raro, era un momento casuale, era condizionato non dalla natura interna dell'ordinamento sociale che esisteva in quella epoca ma da circostanze esterne. Ma in seguito, con lo sviluppo delle forze produttive, appare la possibilità di produrre un po' in più del fabbisogno dei produttori immediati. Al tempo stesso si estendeva lo scambio di un prodotto con un altro e con la comparsa della proprietà privata dei mezzi di produzione questo scambio si trasformava in un necessario momento del nuovo ordinamento economico, sorto sulla base della disgregazione della società primitiva. Per quel che riguarda l'economia naturale, essa si estingue definitivamente in una determinata tappa storica e diventa casuale. Così nel processo dello sviluppo il casuale si trasforma nel necessario e il necessario nel casuale.
7. LA LEGGE
1. Il concetto di legge
Come è stato fatto notare nel precedente paragrafo, la necessità esiste nella forma di proprietà e di nessi dei fenomeni. Determinati necessari nessi o rapporti si chiamano leggi. La legge è, in tal modo, ciò che si manifesta inevitabilmente in queste o quelle condizioni. Ad esempio, la legge del valore, la quale esprime il condizionamento del prezzo della merce dalla quantità di lavoro socialmente necessario spesa per produrla, si manifesta inevitabilmente dove ha luogo la produzione mercantile. Un altro esempio: la legge delle proporzioni costanti nota nella chimica, legge secondo cui ogni sostanza ha una composizione qualitativa e quantitativa rigorosamente determinata e costante, si manifesta necessariamente in ogni sostanza, poiché i rapporti da essa espressi sono condizionati dalla natura degli atomi che formano le molecole delle rispettive sostanze.
Dicendo che la legge rappresenta un necessario nesso, noi non mettiamo ancora in luce tutta la sua specificità. Il fatto è che non tutti i necessari nessi sono leggi. Ad esempio, i singolari (individuali) necessari nessi non possono presentarsi come legge. È legge solo un nesso necessario generale, cioè un nesso proprio a molti fenomeni.
Ad esempio, la legge del dimezzamento, secondo cui in un periodo di tempo, determinato per ogni sostanza, si disgrega metà della sostanza quale che sia la quantità in cui è stata presa, si manifesta non in questo o quel processo radioattivo ma in tutti i processi del genere, è propria a tutte le sostanze radioattive, vale a dire è un nesso generale. Ciò riguarda qualsiasi legge della natura, della società e del pensiero umano.
Essendo un nesso generale, un nesso che si ripete, la legge è al tempo stesso un nesso stabile. Esso esiste per tutto il periodo di esistenza di una data forma di movimento della materia (o per tutta la durata di una determinata tappa del suo sviluppo) o del pensiero e esiste fino a quando esistono i fenomeni che rappresentano la data forma di movimento o di pensiero. Ad esempio, la legge del condizionamento della coscienza degli uomini da parte del loro essere sociale sorse insieme alla nascita della società umana ed esisterà fino a quando esisterà questa società. O un altro esempio: la legge del valore cominciò a funzionare già all'epoca della disgregazione della società primitiva, funzionò nelle società schiavistica e feudale, funziona nella società capitalistica e continua a funzionare nelle condizioni del socialismo. La data legge scomparirà solo in seguito alla costruzione del comunismo, quando non vi sarà assolutamente alcun bisogno della produzione mercantile.
Quindi, la legge è un nesso necessario, generale, stabile tra i fenomeni o tra i loro lati.
2. Le Leggi dinamiche e statistiche
Rappresentando i necessari nessi (rapporti), le leggi si manifestano in un gran numero di fenomeni. Ma la forma in cui si manifestano non è uguale. Alcune leggi si manifestano in ogni fenomeno o ente materiale che rappresenta questa o quella forma di movimento, questa o quella sfera della realtà, le altre solo in una massa di fenomeni. Le prime leggi si suole chiamarle leggi dinamiche, le seconde, leggi statistiche.
Un esempio delle leggi dinamiche è la legge di Ohm, secondo cui la resistenza elettrica di un conduttore dipende dalla sua composizione, dalla sezione trasversale e dalla lunghezza. La legge abbraccia una moltitudine di conduttori diversi e si manifesta in ogni conduttore che fa parte di questa moltitudine. Un altro esempio: il nesso scoperto da Faraday fra la sostanza che si sprigiona agli elettrodi e la corrente che attraversa la soluzione elettrolitica, nesso che esprime la dipendenza proporzionale della massa di sostanza, sprigionatasi agli elettrodi, dalla quantità di corrente, passata per la soluzione elettrolitica. Questa legge è caratteristica di tutti i casi di passaggio della corrente elettrica attraverso le soluzioni e si manifesta in ciascuno di essi.
Ha un carattere statistico, ad esempio, la legge di Boyle e Mariotte: a temperatura costante la pressione di un gas è inversamente proporzionale al volume di esso. La data legge si manifesta solo in una massa di molecole caoticamente spostantesi, che costituiscono questo o quel volume di gas. Una singola molecola non obbedisce a questa legge. Urtando e rimbalzando contro le altre molecole del gas, una molecola cambia ogni volta la direzione del suo moto e la sua velocità. Come risultato di tutto ciò la forza con cui ogni volta urta contro le pareti del recipiente questa o quella molecola, è casuale, essa dipende da un'infinità di circostanze. Ma attraverso tutta questa massa di mutamenti delle velocità di moto e, rispettivamente, delle forze d'urto contro le pareti del recipiente delle varie molecole che costituiscono un dato volume di gas, si fa strada una determinata legge e precisamente: la pressione di un gas è inversamente proporzionale al suo volume.
Sono statistiche le leggi della meccanica quantistica, riguardanti il moto delle microparticelle. Esse non sono in grado di definire i moti di ogni singola particella, ma definiscono il moto di questo o quel gruppo di essi.
Un particolare tratto distintivo delle leggi dinamiche è che esse permettono di predire con sufficiente precisione l'avvento di un rispettivo fenomeno, un mutamento delle sue proprietà e dei suoi stati. Ad esempio, partendo dalla legge della dipendenza proporzionale della sostanza che si sprigiona agli elettrodi dalla quantità di corrente elettrica passata attraverso l'elettrolita, si può prevedere con precisione quale quantità di sostanza si sprigionerà in questo o quel caso concreto.
A differenza delle leggi dinamiche, le leggi statistiche non permettono di predire con precisione l'avvento e il non avvento di questo o quel fenomeno concreto, il senso e il carattere del mutamento di queste o quelle caratteristiche del dato fenomeno. Le leggi statistiche permettono solo di stabilire il grado di probabilità del sorgere o del mutamento di un rispettivo fenomeno.
3. Le leggi generali e particolari
Anche se tutte le leggi sono nessi (rapporti) generali, la cerchia di fenomeni in cui si manifestano, non è però uguale. Alcune di esse abbracciano una maggiore cerchia di cose, le altre una minore.
Le leggi che si manifestano in una maggiore cerchia di fenomeni si presentano rispetto alle leggi che si manifestano in una cerchia minore come leggi generali, mentre le seconde si presentano come leggi particolari, specifiche.
Ad esempio, la legge della corrispondenza dei rapporti di produzione al livello di sviluppo delle forze produttive è, rispetto alla legge del profitto medio, una legge generale, poiché si manifesta in tutte le formazioni economico sociali. Mentre la legge del profitto medio si presenta, rispetto ad essa, come legge particolare, poiché agisce solo in seno alla società borghese.
Il concetto di legge generale e, rispettivamente, di legge particolare è relativo. Una stessa legge in rapporti diversi può presentarsi sia come legge generale che come legge particolare. Rispetto ad una legge che abbraccia una maggiore cerchia di fenomeni, essa si presenterà come legge particolare, rispetto ad una legge che abbraccia una minore cerchia di fenomeni, essa si presenterà come legge generale. Ad esempio, la legge del valore è, rispetto alla legge della corrispondenza dei rapporti di produzione al livello di sviluppo delle forze produttive, una legge particolare, in quanto non si manifesta in tutte le società, come la prima, ma solo là dove esiste la produzione mercantile. Ma rispetto alla legge del plusvalore essa si presenta come legge generale, poiché quest'ultima si manifesta in una minore cerchia di fenomeni: l'azione della legge del plusvalore è propria solo alla produzione mercantile capitalistica.
Oltre alle leggi che a seconda dei rapporti concreti possono presentarsi sia come leggi generali che come leggi particolari, esistono anche tali leggi che sono proprie a tutte le sfere della realtà. Queste leggi si chiamano universali. Rispetto ad esse, tutte le altre leggi si presentano come leggi particolari, in quanto sono legate solo a queste o quelle sfere della realtà. Tali leggi formano l'oggetto della filosofia, mentre le leggi riguardanti questa o quella forma di movimento della materia sono l'oggetto di indagine delle scienze particolari.
4. L'interconnessione delle leggi generali e particolari
Come agiscono dunque le leggi generali e particolari? Le leggi generali possono agire per conto proprio e attraverso le leggi particolari. Le leggi generali si manifestano tramite le leggi particolari, quando sia le une che le altre riguardano uno stesso nesso (rapporto). Quando una legge generale e una legge particolare riguardano nessi (rapporti) diversi, esse esistono e agiscono l'una accanto all'altra.
Ad esempio, la legge chimica generale delle proporzioni costanti e le leggi particolari che indicano quali elementi chimici e in quale rapporto formano questi o quei composti, riguardano uno stesso momento: la combinazione in cui si uniscono gli elementi chimici. Non è casuale perciò che nei dati esempi una legge generale si manifesti attraverso le leggi particolari, specifiche.
Il quadro è ben diverso se prenderemo il rapporto tra la legge della corrispondenza dei rapporti di produzione al livello di sviluppo delle forze produttive (legge generale) e la legge economica fondamentale del socialismo, il cui contenuto è il massimo soddisfacimento delle esigenze materiali e culturali degli uomini mediante lo sviluppo della produzione socialista sulla base di una tecnica altamente avanzata (legge particolare). La prima caratterizza il nesso tra il livello di sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione, la seconda tra l'incessante incremento della produzione e le esigenze degli uomini. Il contenuto della prima legge mostra la necessità di modificare i rapporti di produzione, man mano che si sviluppano le forze produttive, mentre il contenuto della seconda indica lo scopo della produzione e i mezzi per raggiungerlo. Dato che riguardano nessi e rapporti diversi, le date leggi non possono in alcun modo manifestarsi l'una attraverso l'altra, ma agiscono indipendentemente, l'una accanto all'altra. Ma anche se esistono indipendentemente l'una dall'altra, non sono isolate tra di loro, ma organicamente connesse. Questa interdipendenza differisce però radicalmente dal manifestarsi di alcune leggi tramite altre leggi.
L'esistenza indipendente delle leggi generali è una conseguenza inevitabile dello sviluppo della realtà. Infatti, il passaggio da un fenomeno all'altro nel processo dello sviluppo presuppone, da una parte, la ritenzione di quanto vi era di positivo nelle precedenti fasi e, dall'altra, la comparsa di nuove proprietà, di nuovi nessi. Ad esempio, con il passaggio dall'atomo alla molecola si eredita un gran numero di proprietà e nessi, caratteristici dell'atomo. L'atomo in forma ricalcata è contenuto nella molecola. Ma oltre a ciò la molecola acquista una serie di nuove proprietà, condizionate dal nuovo tipo di interazioni, e precisamente dall'interazione degli atomi tra di loro. La ritenzione di quanto vi era di positivo nelle precedenti fasi e il sorgere di nuove proprietà e nessi sono facilmente osservabili nello sviluppo della materia vivente, nonché della società umana.
Conservarsi in un nuovo fenomeno che rappresenta un più alto grado di sviluppo di queste o quelle proprietà, di questi o quei nessi, caratteristici dei fenomeni dei gradini già percorsi, condiziona il permanere in questo nuovo fenomeno delle vecchie leggi. A sua volta il sorgere di nuove proprietà, di nuovi nessi determina il sorgere di nuove leggi che si presentano come leggi particolari rispetto a quelle vecchie, trapassate nei nuovi fenomeni insieme ai nessi rimasti intatti. Esse agiscono solo nei fenomeni che rappresentano un nuovo grado di sviluppo. Mentre le vecchie leggi, manifestandosi in questi fenomeni, si manifestano anche nei fenomeni che rappresentano i gradi inferiori di sviluppo. Quali leggi particolari, specifiche, proprie solo al nuovo grado di sviluppo, queste leggi non possono essere una forma del manifestarsi delle vecchie leggi, in quanto esse si riferiscono ad interazioni diverse ed esprimono rapporti diversi. Ad esempio, le leggi caratteristiche della molecola riguardano l'interazione degli atomi, mentre le vecchie leggi riguardano le interazioni delle particelle «elementari» che costituiscono gli atomi.
Abbiamo qui esaminato il rapporto tra le leggi generali e specifiche, studiate dalle scienze particolari. Ma come stanno le cose per quanto concerne l'interconnessione delle leggi della dialettica e delle leggi delle scienze particolari? Le leggi della dialettica esprimono i nessi e rapporti universali della realtà.
Questi nessi e rapporti non esistono di per sè stessi ma solo attraverso i nessi e rapporti concreti che costituiscono il contenuto delle rispettive leggi concrete (generali e specifiche), oggetto d'indagine delle scienze particolari. Questi nessi e rapporti universali sono determinati momenti, lati che si ripetono del contenuto di tutti gli analoghi nessi e rapporti concreti. In forza di ciò le leggi della dialettica non possono agire in forma pura, esse esistono e si manifestano solo attraverso le altre leggi generali e specifiche, oggetto d'indagine delle scienze particolari.
8. IL CONTENUTO E LA FORMA
1. Il concetto di contenuto e di forma
Il «contenuto» come categoria della dialettica materialistica significa l'insieme di tutte le interazioni, nonché dei mutamenti da esse condizionati, propri ad un dato fenomeno. Ad esempio, il contenuto di questa o quella società è costituito da tutte le interazioni tra gli uomini che la formano, in particolare, dalle interazioni che sorgono nel processo della produzione dei beni materiali, della loro distribuzione e del loro consumo, dalle interazioni tra i partiti, tra lo Stato e i cittadini, ecc.
Parlando del contenuto di questo o quel fenomeno, bisogna sottolineare che si riferiscono ad esso sia le interazioni interne che quelle esterne, sia le interazioni le quali si hanno tra gli elementi che costituiscono il dato fenomeno che le interazioni tra il dato fenomeno e gli altri fenomeni che lo circondano. Ad esempio, rientrano nel contenuto di questo o quell'organismo vivente non solo i processi che si svolgono all'interno dell'organismo ma anche tutte le sue azioni che rappresentano una determinata reazione all'influsso dei rispettivi fattori dell'ambiente.
Le interazioni e i mutamenti propri a questo o quel fenomeno non avvengono caoticamente ma in determinati limi¬ti che conferiscono loro una certa stabilità, una certa caratte¬ristica qualitativa. Essi avvengono nell'ambito di un deter¬minato sistema, relativamente stabile, di rapporti, presentano una determinata struttura. Il sistema relativamente stabile di rapporti tra i momenti del contenuto, la sua struttura, costi¬tuiscono la forma del fenomeno. Ad esempio, la forma di un organismo vivente è la sua morfologia, la struttura del corpo; la forma di un modo di produzione è il sistema relativamente stabile di rapporti sociali tra gli uomini che si stabiliscono nel processo della produzione dei beni materiali.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche del contenuto e della forma
Quale struttura del contenuto, la forma è indissolubilmente collegata con esso, non può esistere senza di esso. Vi sono stati però nella storia della filosofia dei tentativi di argomentare l'esistenza della forma fuori del contenuto e indipendentemente da esso. In particolare, Aristotele partiva dalla possibilità di un'esistenza separata del contenuto e della forma. Secondo lui, è solo in condizioni rigorosamente determinate che essi si fondono, dando vita a questa o quella cosa concreta. Riconoscono l'esistenza autonoma della forma, esistenza separata dalla materia molti filosofi e naturalisti borghesi contemporanei. Ad esempio, il noto fisico E. Schrödinger dichiara le particelle «elementari» forme pure, prive di qualsiasi contenuto materiale. «...Quando noi egli scrive arriviamo alle particelle primarie che costituiscono la materia, risulta che esse non rappresentano nulla che possa riferirsi alla materia. Esse sono e così è stato sempre una forma pura, non rappresentano nulla all'infuori della forma...»13.
Ma se le particelle «elementari» non rappresentano nulla che possa riferirsi alla materia, se non sono altro che forme costruite dagli uomini «in base alle note leggi matematiche e geometriche» (e nella realtà oggettiva tutto è composto, in ultima analisi, di particelle «elementari»), allora la materia come realtà oggettiva scompare, rimangono solo le forme pure, ideali, cioè la coscienza.
Il carattere idealistico dei ragionamenti da noi esaminati è evidente. In realtà non vi è e non può esservi forma pura, forma isolata dalla materia. Ogni forma è la struttura di questo o quell'ente materiale, di questa o quella cosa, di questo o quel fenomeno. Per quanto riguarda le forme ideali create dagli uomini nel processo dello sviluppo della coscienza sociale, anch'esse non sono forme pure, ma racchiudono in sé un contenuto che rispecchia i lati e i nessi del mondo esterno.

3. L'interconnessione del contenuto e della forma
Come si è già rilevato, il contenuto e la forma sono in interconnessione organica, in unità dialettica, ma nell'ambito di questa unità la loro funzione non è uguale. Determinante è il contenuto, mentre la forma sorge sotto un diretto influsso di esso.
Sorgendo sotto un diretto influsso del contenuto, la forma non è passiva ma esercita a sua volta un influsso sul contenuto. Questo influsso è di due tipi: la forma o contribuisce allo sviluppo del contenuto o lo frena. Nel primo caso essa corrisponde al contenuto, nel secondo no.
Perché dunque la forma corrisponde in alcuni casi al contenuto, in altri no? Il fatto è che per natura la forma è stabile, mentre il contenuto è fluido, mutevole, rappresenta l'insieme dei processi propri al fenomeno. Nel periodo iniziale della sua esistenza la forma corrisponde al contenuto che l'ha chiamata alla vita, apre ampi orizzonti al suo sviluppo. Il contenuto si sviluppa rapidamente e impetuosamente. Ma col tempo il contenuto raggiunge un livello con cui i limiti del dato sistema di rapporti diventano stretti. La forma incomincia ad intralciare lo sviluppo del contenuto. La forma non corrisponde più al contenuto. In seguito questa non corrispondenza si accentua sempre più e porta presto o tardi alla rottura della vecchia forma un sistema relativamente stabile di rapporti e alla formazione di un nuovo sistema di rapporti, cioè di una nuova forma, la quale in un primo tempo corrisponde al contenuto che l'ha chiamata alla vita ma poi pure invecchia e viene sostituita con una nuova forma, e così senza fine.
Il processo di demolizione della vecchia forma e di nascita di una nuova forma è un processo di radicale trasformazione qualitativa del contenuto. Nel corso di esso alcune interazioni, processi si estinguono, ne sorgono altri, se ne modificano terzi.
Ad esempio, durante il passaggio da un modo di produzione all'altro in seguito alla soluzione della contraddizione tra le progredite forze produttive (contenuto) e gli invecchiati rapporti di produzione (forma), cambia non solo la forma (rapporti di produzione tra gli uomini) ma anche il contenuto (forze produttive). Così, nel processo del passaggio dalla produzione artigiana alla manifattura capitalistica, parallelamente alla trasformazione dei rapporti di produzione, si ebbero i mutamenti sostanziali nella sfera delle forze produttive, mutamenti che condizionarono la comparsa di una forza assolutamente nuova, legata ad una distribuzione diversa degli uomini nel processo della produzione, ad un'organizzazione diversa del lavoro. Le forze produttive mutano anche nel corso della trasformazione dei rapporti di produzione capitalistici in quelli socialisti: esse subiscono un rimodernamento sostanziale. In relazione al fatto che lo scopo della produzione non è più il profitto ma il massimo soddisfacimento delle esigenze degli uomini, cambia inevitabilmente l'indirizzo di attività di tutta una serie di aziende, si stabilisce un rapporto diverso fra i singoli rami della produzione, se ne creano nuovi, ecc.
Quindi, il processo di trasformazione della vecchia forma che non corrisponde più al contenuto è al tempo stesso un processo di trasformazione radicale di questo contenuto. Esprimendo la data legge, Lenin scriveva: «... la lotta del contenuto con la forma e viceversa. Rigetto della forma, rielaborazione del contenuto»14.
4. La parte e il tutto, l'elemento e la struttura
Quando esaminiamo un fenomeno dal punto di vista del suo contenuto, esso ci si presenta come un tutto, come l'aggregato di tutti gli elementi, lati che lo costituiscono, e delle interazioni fra di essi. È proprio in questo quadro sommario che il contenuto si rapporta alla forma. Ma la caratteristica sommaria del contenuto, man mano che si approfondisce la conoscenza del dato oggetto, diventa insufficiente, si rende necessario uno studio più minuzioso dei singoli momenti del contenuto, dei suoi singoli elementi, processi, rapporti costitutivi. Il contenuto viene scomposto nelle sue singole parti, un'analisi delle quali porta alla necessità di stabilire le leggi di interazione tra di loro e con il tutto. Le categorie di «tutto» e di «parte» rispecchiano le leggi di interazione tra le singole parti e il tutto nel quale rientrano, mentre le categorie di «elemento» e di «struttura» rispecchiano le leggi di interazione delle parti tra di loro nel quadro del tutto.
La Parte è un oggetto (processo, fenomeno, rapporto) formativo di un altro oggetto (processo, fenomeno, rapporto) e che si presenta come un momento del suo contenuto. Il Tutto è un oggetto (processo, fenomeno, rapporto) che racchiude in sé come componenti altri oggetti (processi, fenomeni, rapporti), organicamente connessi tra di loro, ed è dotato di proprietà che non si riducono alle proprietà delle parti che lo formano.
Ogni oggetto rappresenta un tutto composto di determinate parti. Ad esempio, una molecola di acqua come un tutto è formata da un atomo di ossigeno e da due atomi di idrogeno. Ogni atomo che forma una molecola di acqua, essendo parte del tutto, non si perde in questo tutto, non si fonde con la sua qualità, ma conserva la propria determinatezza qualitativa, possiede una certa autonomia, il che gli permette di occupare nel tutto un posto rigorosamente determinato e di assolvere una funzione rigorosamente determinata. In tal modo, la molecola rappresenta un tutto che può essere risolto nelle sue singole parti, aventi ciascuna un proprio contenuto specifico. Ma il loro contenuto è condizionato non solo dalla loro natura specifica ma anche dalla natura generale del tutto. Perciò esse, nella loro funzione specifica, non si presentano come a se stanti, ma come parti del tutto. D'altro canto, la natura generale di un tutto (nel nostro caso, della molecola) dipende dalla natura specifica delle parti che lo compongono, in particolare degli atomi.
L'interconnessione del tutto e della parte, la quale si esprime nel fatto che la qualità del primo dipende dalla natura specifica delle parti che lo costituiscono e le qualità di queste ultime dalla natura specifica del tutto, è la conseguenza di una determinata interconnessione delle parti in seno al tutto, interconnessione che forma la struttura del tutto. È proprio l'interconnessione di questi o quegli elementi che condiziona il sorgere di un tutto e la loro trasformazione in parti costitutive di quest'ultimo. Senza la struttura un tutto non è possibile. Essa è la condizione principale dell'esistenza di un tutto.
Il concetto di «struttura» si riferisce al modo di combinazione e di interconnessione degli elementi di un tutto. Il concetto di «elementi» si riferisce alle parti costitutive di un tutto, le quali sono in determinata interconnessione e interdipendenza tra di loro.
I concetti di «elemento» e di «parte» non sono identici. Gli elementi manifestano il loro contenuto specifico in rapporto alla struttura, in rapporto ad un determinato sistema di connessione tra di loro. Possedendo una certa autonomia, una particolare caratteristica qualitativa, gli elementi si distinguono sostanzialmente dalla connessione in cui si trovano tra di loro. Il contenuto specifico delle parti si manifesta invece non alla luce della connessione che esiste tra di loro ma alla luce del rapporto con il tutto, perciò esse non possono essere contrapposte ai nessi che costituiscono la struttura del tutto, poiché questi ultimi sono essi stessi parti del tutto. Di qui deriva che il concetto di «parte» è più ampio del concetto di «elemento». Sono parti di un tutto non solo gli elementi che sono in determinata interconnessione tra di loro, ma anche le interconnessioni stesse fra gli elementi, cioè la struttura.
Dicendo che la struttura rappresenta il modo in cui si connettono o si combinano gli elementi nel quadro di un tutto, noi in sostanza identifichiamo il concetto di «struttura» con il concetto di «forma», ma ciò è inevitabile, poiché il primo concetto è sorto sulla base dell'ulteriore sviluppo del secondo e non è altro che una concretizzazione di esso. Ma al tempo stesso il concetto di «struttura» esprime non solo le leggi dell'interconnessione del contenuto e della forma, quando è considerato in rapporto alla categoria di «contenuto», ma anche le leggi dell'interconnessione degli elementi del contenuto tra di loro, quando è considerato in rapporto al concetto di «elemento». Questa ultima interconnessione è caratterizzata, in particolare, dal fatto che ogni elemento, essendo qualitativamente determinato e possedendo una certa autonomia nel quadro di un tutto, dipende fondamentalmente dagli altri elementi che costituiscono il dato tutto, dal carattere del rapporto con essi. Questi nessi determinano in certo grado il suo posto, il suo ruolo e il suo significato nel tutto, le sue caratteristiche qualitative e quantitative. D'altro canto, la connessione stessa tra gli elementi dipende dalla loro natura, dalle loro caratteristiche qualitative e quantitative.
Ad esempio, i rapporti che si stabiliscono fra i coniugi, nonché fra i genitori e i figli in seno alla famiglia, dipendono fondamentalmente dalle caratteristiche qualitative degli individui che entrano in questi rapporti. D'altro canto, le caratteristiche qualitative di questi individui dipendono per molti aspetti dai rapporti esistenti in famiglia. La loro formazione, la direzione in cui mutano sono determinati in notevole misura dai suddetti rapporti.
Quindi, le proprietà degli elementi dipendono dalla struttura del tutto che essi formano, mentre la struttura di questo tutto dipende dagli elementi che lo compongono, dalla loro natura e dalla loro quantità. In altre parole, gli elementi in cui si scompone questo o quell'oggetto e la struttura propria al dato oggetto il modo di connessione degli elementi sono tra di loro nella necessaria interdipendenza, nella necessaria unità dialettica.
9. L'ESSENZA E IL FENOMENO
1. Il concetto di essenza e di fenomeno
Come si è fatto notare nel precedente paragrafo, il contenuto include in sé tutto l'insieme delle interazioni e dei mutamenti, propri alla data cosa, la forma comprende tutto l'insieme dei nessi e rapporti stabili che costituiscono la struttura della data cosa. Una parte delle interazioni e dei mutamenti che formano il contenuto è necessaria, l'altra parte è casuale. Quanto detto sopra vale anche per la forma. Alcuni nessi e rapporti che la costituiscono rappresentano il necessario, gli altri il casuale. Il necessario nel contenuto e nella forma costituisce l'essenza della cosa, il casuale costituisce il fenomeno.
Ma non dobbiamo pensare che l'essenza sia rappresentata dall'insieme meccanico dei necessari lati e nessi. L'essenza è un tale insieme dei necessari lati e nessi di una cosa in cui essi sono in interdipendenza naturale, in unità dialettica tra di loro.
Quindi, l'essenza è l'insieme di tutti i necessari lati e nessi di una cosa, presi nella loro interdipendenza naturale; il fenomeno è il manifestarsi in superficie di questi lati e nessi attraverso tutta la massa delle deviazioni casuali.
Ad esempio, l'essenza di questa o quella società è l'insieme di tutti i necessari lati e nessi, propri ad essa, insieme che include in sé tutte le leggi che presiedono al suo funzionamento e al suo sviluppo. Si riferisce ai fenomeni il manifestarsi di tutti questi lati e nessi (leggi) attraverso le interazioni degli uomini nella loro vita quotidiana, attraverso l'attività delle istituzioni e organizzazioni sociali, ecc. L'essenza della molecola di questo o quel composto chimico è rappresentata dagli atomi che la costituiscono, dalle leggi di interazione tra di essi. Mentre l'insieme delle proprietà, attraverso le quali si manifestano in superficie le leggi dell'interconnessione e dell'interdipendenza di questi atomi, costituisce il fenomeno.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche dell'essenza e del fenomeno
Gli idealisti o negano in generale l'esistenza reale dell'essenza o ne negano la materialità. Non riconosceva l'esistenza dell'essenza, ad esempio, Berkeley. Ciò è caratteristico anche delle concezioni di Mach e Avenarius. Negano l'esistenza reale dell'essenza anche alcuni filosofi borghesi contemporanei, in particolare B. Russell, F. Schiller, ed altri.
Russell, ad esempio, così ragiona intorno alla questione se l'uomo ha o no l'essenza. Che cosa rappresenta il signor Smith?, egli si domanda e risponde: Quando noi lo guardiamo, vediamo dei colori, quando l'ascoltiamo, sentiamo dei suoni e supponiamo che lui, come noi, abbia dei pensieri e dei sentimenti. Ma che cosa è il signor Smith a considerarlo isolatamente da questi fenomeni? Semplicemente un gancetto immaginato, al quale, come si presuppone, siano appesi dei fenomeni. Di fatto i fenomeni non hanno bisogno di questo gancetto.
Un analogo punto di vista è sostenuto anche da Schiller. Egli basa la sua dimostrazione dell'assenza dell'essenza nei fenomeni del mondo esterno sulla interpretazione diversa da parte degli uomini dell'essenza di questo o quell'oggetto. Per la religione, scrive Schiller, l'essenza dell'uomo è racchiusa nella sua anima, il medico la vede nel corpo, la lavandaia vede l'essenza dell'uomo nel fatto che lui porta gli indumenti, per taluni essa si esprime nel fatto che l'uomo può guadagnare denaro. Che cosa è dunque l'essenza effettiva dell'uomo?, si chiede Schiller e risponde: Essa semplicemente non esiste. Gli uomini la creano a loro arbitrio .
Gli uomini effettivamente possono immaginarsi in modo diverso l'essenza di questa o quella cosa. Ma da ciò non deriva affatto che essa non esista. Ciò sta a dimostrare solo che gli uomini, interpretando l'essenza di questa o quella cosa, partono da lati e nessi diversi (e ogni cosa di questi lati e nessi ne possiede un'infinità), attribuiscono loro valore assoluto e deformano così il vero stato di cose, mentre l'essenza come l'insieme dei necessari lati e nessi, propri alla data cosa, esiste indipendentemente dal fatto se è giusto o no il giudizio su di essa, se essa è colta in tutti i suoi aspetti o se è rappresentata da un solo lato.
Vari idealisti, ad esempio, Platone, Hegel, Santayana, Whitehead, ammettono l'esistenza reale delle essenze, ma le considerano istanze ideali. Da Platone e Santayana queste essenze costituiscono un particolare mondo che è la vera realtà: la forma d'essere suprema. Nel pensiero di Hegel l'essenza è il concetto di questo o quell'oggetto, concetto, che si conserva nel corso di tutti i suoi mutamenti.
Il materialismo dialettico ritiene che le essenze espresse in forma ideale esistono non nella realtà circostante, non nel mondo esterno, ma nella coscienza. Perciò esse non solo non rappresentano un modo d'essere superiore rispetto al mondo esterno ma sono subordinate a questo mondo, dipendono da esso, poiché il contenuto è attinto da questo mondo, è un calco, una copia di questi o quei lati o nessi della realtà oggettiva.
3. L'interconnessione dell'essenza e del fenomeno
Secondo il materialismo dialettico, l'essenza delle cose materiali è materiale, rappresenta l'insieme dei necessari lati e nessi, propri ad esse, ed esiste indipendentemente dalla coscienza umana. Essa è organicamente connessa al fenomeno, rivela il suo contenuto solo in esso e attraverso di esso. Il fenomeno a sua volta pure è collegato indissolubilmente con l'essenza, non può esistere senza di essa. «... L'essenza scriveva Lenin, sottolineando il nesso indissolubile tra l'essenza e il fenomeno appare. L'apparenza è essenziale»15.
Il fenomeno, rappresentando la forma in cui si manifesta l'essenza, si distingue da essa: l'essenza vi si esprime in forma travisata. Ad esempio nella società capitalistica i fenomeni dimostrano che la sorte degli uomini, la loro condizione economica dipendono dai rapporti tra le cose, dal gioco dei prezzi delle merci che prendono parte alle operazioni di scambio sul mercato. In realtà tutto ciò dipende dai rapporti che si stabiliscono tra gli uomini nel processo della produzione, della distribuzione e del consumo dei beni materiali.
Esprimendo l'essenza, il fenomeno apporta in ciò che deriva dall'essenza nuovi momenti, momenti condizionati non dall'essenza, ma dalle circostanze esterne in cui esiste la data cosa, dall'interazione della data cosa con le condizioni che la circondano. Perciò il fenomeno è sempre più ricco dell'essenza. Ciò non è difficile vedere sull'esempio del rapporto tra il valore delle merci e i loro prezzi. I prezzi di questa o quella merce sempre sono più mobili rispetto al suo valore, e in questo senso sono un fenomeno più ricco poiché in essi si esprime non solo la dipendenza dalla quantità di lavoro socialmente necessario, speso per produrla, ma anche da tutta una serie di fattori esterni, in particolare dal rapporto tra domanda e offerta sul mercato.
Poi, se il contenuto del fenomeno è determinato non solo dall'essenza l'insieme dei necessari lati e nessi della data cosa ma anche dalle condizioni esterne della sua esistenza, dall'interazione di essa con altre cose (e queste ultime cambiano continuamente), allora il contenuto del fenomeno deve essere fluido, mutabile, mentre l'essenza rappresenta un che di stabile che si conserva nel corso di tutti questi mutamenti. Ad esempio, i prezzi di questa o quella merce cambiano continuamente, mentre il suo valore rimane immutato per un determinato periodo di tempo. Le cose stanno analogamente anche per quel che concerne la condizione economica degli uomini, in particolare degli operai, nella società capitalistica. Essa cambia in dipendenza della fase che attraversa la produzione (ripresa, ascesa, crisi, depressione). L'insieme dei rapporti di produzione (essenza di essi), il quale determina la condizione economica degli uomini, rimane però relativamente immutato, stabile.
Esprimendo la data legge del rapporto essenza fenomeno, Lenin scrisse: «... l'inessenziale, il parvente, il superficiale sparisce più spesso, non si mantiene così "compatto", non sta "così saldo" come l'"essenza"»16.
Essendo stabile rispetto al fenomeno, l'essenza non rimane del tutto immutata. Essa cambia, ma più lentamente del fenomeno. Questo mutamento è condizionato dal fatto che nel processo dello sviluppo del fenomeno alcuni necessari lati e nessi incominciano a rafforzarsi e ad esercitare una maggiore funzione, mentre gli altri passano in secondo piano o scompaiono del tutto. Può servire da esempio il passaggio del capitalismo dalla fase premonopolistica alla fase dell'imperialismo. Se nel periodo premonopolistico di sviluppo del capitalismo dominavano fenomeni come la libera concorrenza e l'esportazione di merci e i monopoli erano lungi dall'assolvere un ruolo di rilievo nella vita economica, nell'epoca dell'imperialismo la libera concorrenza, anche se continua ad aver luogo, è già limitata molto dal monopolio che diventa un fenomeno universale ed assolve un ruolo determinante nella vita della società, l'esportazione di merci passa in secondo piano e diventa dominante l'esportazione di capitali, ecc. Ciò dimostra che anche una stessa essenza può subire determinati mutamenti nei suoi propri limiti.


10. LA POSSIBILITÀ E LA REALTÀ
1. Il concetto di realtà e di possibilità
Mettendo in luce l'essenza dell'oggetto d'indagine ci si rivolge al passato per farsi un'idea della storia del suo sorgere e del suo sviluppo. Una volta accertata l'essenza dell'oggetto, si può dare uno sguardo al futuro, definire non solo ciò che era l'oggetto d'indagine nel passato e che cosa è oggi, ma anche ciò che esso sarà in avvenire. In altre parole, una volta accertata l'essenza di un fenomeno l'insieme dei necessari lati e nessi propri ad esso si può giudicare sia dei suoi stati reali che di quelli possibili.
La realtà è ciò che esiste realmente, la possibilità è ciò che può accadere in opportune condizioni.
Taluni potranno dire: «Se la realtà è ciò che esiste realmente, non si può distinguerla dalla possibilità, poiché anche la possibilità esiste realmente». La possibilità infatti esiste realmente, ma solo come una proprietà, come la capacità della materia di trasformarsi in opportune condizioni da determinata cosa, da determinato stato qualitativo in un'altra cosa, in un altro stato. In questa sua forma, cioè come la capacità, la possibilità si presenta come un momento della realtà e possiede naturalmente una caratteristica così sostanziale come l'esistenza reale.
Ma quando noi parliamo di possibilità come di un che di ancora inesistente, abbiamo in vista non la capacità di un fenomeno di trasformarsi in un altro ma quegli stati qualitativi, quelle caratteristiche qualitative in cui deve trasformarsi, in opportune condizioni, il dato fenomeno. Essi non possiedono l'essere reale, essi sono ancora assenti nella realtà, ma essi possono presentarsi, possono manifestarsi.
In tal modo, intendiamo per possibilità quelle proprietà, stati, processi, cose che sono assenti nella realtà ma che possono fare la loro comparsa grazie alla capacità, propria alla realtà, di trasformarsi da un determinato stato in un altro.
Attuandosi, la possibilità diventa realtà, perciò la realtà può essere definita come possibilità attuatasi e la possibilità come realtà potenziale.
2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche della possibilità e della realtà
Il problema della possibilità e della realtà ha attirato l'attenzione dei filosofi da molto tempo, a cominciare dall'antichità. Ci è stato un determinato tentativo di risolverlo, ad esempio, presso Platone, il quale distingueva l'esistenza possibile e l'esistenza effettiva, reale.
Secondo Platone, possedeva l'essere effettivo il mondo delle idee, delle essenze ideali, e quello possibile il mondo delle cose. Essendo in stato di possibilità, il mondo delle cose, secondo Platone, non può trasformarsi in realtà, acquistare un'esistenza reale. L'essere reale e l'essere possibile sono necessariamente delimitati.
A differenza di Platone, Aristotele, ammettendo l'esistenza autonoma della possibilità e della realtà, indipendenti l'una dall'altra, negava l'esistenza di un limite invalicabile tra di esse. Egli riteneva che il possibile può trasformarsi nel reale, così come il reale può trasformarsi nel possibile. Nella dottrina di Aristotele si presenta come pura possibilità la materia prima e come pura realtà la forma che si fonde in ultima istanza con dio, forma di tutte le forme. Come risultato della fusione della forma con la materia sorgono cose qualitativamente determinate che possiedono l'essere possibile e reale e che cambiano in seguito al trapasso di un opposto (possibilità) nell'altro opposto (realtà).
Il trapasso della possibilità nella realtà avviene, secondo Aristotele, non sulla base delle forze, tendenze interne proprie ad una cosa, ma è dovuto all'azione di fattori esterni, di una forza esterna, cioè di questa o quella cosa realmente esistente. Egli afferma che sempre sorge da una cosa esistente come possibilità una cosa esistente come realtà mediante l'azione di un'«altra» cosa, che «pure» esiste nella realtà.
Partendo dalla data tesi di Aristotele, Tommaso d'Aquino argomentò la necessità dell'esistenza della pura realtà, la quale, agendo, provoca la trasformazione di questa o quella possibilità nella realtà. Secondo lui, può presentarsi in qualità di tale (pura) realtà solo dio.
Un distacco metafisico della possibilità dalla realtà, il conferire valore assoluto ad esse portano inevitabilmente all'idealismo, alla ricerca di un principio attivo capace di unire la possibilità con la realtà e di creare così la molteplicità delle cose e dei fenomeni la quale si osserva nel mondo.
Contro il distacco della possibilità dalla realtà prese decisamente posizione Giordano Bruno. Secondo lui la possibilità non può esistere fuori della realtà, indipendentemente da essa, ma è in connessione organica con essa.
Questa idea la sviluppa Hobbes, il quale, nel dimostrare l'interconessione organica della possibilità e della realtà, sottolinea che esse hanno una natura identica.
Un diverso punto di vista fu sostenuto da Kant. Secondo lui, la possibilità e la realtà non ineriscono alle cose, al mondo esterno, ma sono soltanto caratteristiche della ragione umana, delle sue capacità conoscitive. «... La distinzione tra le cose possibili e le cose reali è tale che vale solo come soggettiva per la ragione umana»17.
L'approccio soggettivistico di Kant al problema della possibilità e della realtà fu estesamente criticato da Hegel, il quale mise in luce, in rapporto allo sviluppo del pensiero, non solo il condizionamento della prima da parte della seconda ma anche la dialettica della trasformazione dell'una nell'altra.
Le leggi indovinate da Hegel dell'interconnessione del possibile e del reale sono state considerate in chiave materialistica e scientificamente argomentate dal materialismo dialettico.
3. L'interconnessione della possibilità e della realtà. I tipi di possibilità
La possibilità diventa realtà non sempre ma solo in opportune condizioni. Ad esempio, la possibilità della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici può trasformarsi in realtà solo nel caso di una crisi di tutta la nazione, di una situazione, in cui non solo gli strati inferiori non vogliano vivere come per il passato, ma anche gli strati superiori non possano governare come per il passato, in cui si aggravino più del solito l'angustia e la miseria delle classi oppresse e si accresca la loro attività, e, infine, in cui la classe rivoluzionaria sia capace di compiere «azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo»18.
Le condizioni sono l'insieme dei fattori necessari per la trasformazione di questa o quella possibilità in realtà.
La trasformazione di queste o quelle possibilità in realtà non significa la riduzione della quantità delle possibilità. L'attuarsi di alcune possibilità porta al sorgere di altre possibilità. Le genera la nuova realtà. Passando così da uno stato qualitativo all'altro, la realtà, in tal modo, non potrà mai esaurire le sue possibilità. Le sue possibilità sono illimitate.
Come si è osservato sopra, ogni fenomeno rappresenta l'unità di una moltitudine di lati e tendenze diversi e opposti e tutti essi sono capaci di trasformarsi (in opportune condizioni) in altri o nei propri opposti. Perciò qualsiasi fenomeno presenta molte possibilità diverse. Tenendo conto delle peculiarità di queste possibilità, esse possono essere suddivise in reali e formali, astratte e concrete, riversibili e irreversibili, coesistenti e escludenti, possibilità dell'essenza e possibilità del fenomeno.
Si chiamano reali le possibilità condizionate dai necessari lati e nessi, dalle leggi di funzionamento e di sviluppo dell'oggetto; si chiamano formali le possibilità condizionate dai nessi e rapporti casuali.
Un esempio di possibilità reale è la possibilità di un'economia pianificata nei paesi socialisti. Essa è condizionata da un fattore necessario per i paesi socialisti come il dominio della proprietà sociale dei mezzi di produzione. Un esempio di possibilità formale è la possibilità per l'operaio di diventare capitalista. Questa possibilità non deriva dalla necessità, non deriva dalle leggi del modo di produzione capitalistico, ma è condizionata da fattori esterni, da un concorso fortuito di circostanze. Le leggi del capitalismo condizionano l'opposto, e precisamente che nella società capitalistica l'operaio deve rimanere operaio.
Generate dai necessari lati e rapporti della realtà, le possibilità reali si distinguono tra di loro per le condizioni necessarie ai loro avverarsi. E a seconda del tipo di connessione con queste condizioni esse si suddividono in possibilità astratte e concrete.
Concreta è quella possibilità per il cui avverarsi possono Presentarsi o si sono già presentate le rispettive condizioni; astratta è quella possibilità per il cui avverarsi sono attualmente assenti le condizioni necessarie per la sua attuazione. Perché si avveri, il fenomeno che la possiede deve attraversare una serie di stadi di sviluppo.
Un lampante esempio di possibilità concreta è la possibilità delle crisi economiche nelle condizioni del capitalismo.
Per il realizzarsi di questa possibilità nei paesi capitalistici possono crearsi e, come lo dimostra la vita stessa, si creano le rispettive condizioni. Essendo concreta in rapporto alla società capitalistica matura, la possibilità in parola è astratta in rapporto alla produzione mercantile semplice. Per il realizzarsi di questa possibilità nel quadro della produzione mercantile semplice erano assenti le condizioni necessarie. Affinché sorgessero, la produzione mercantile semplice doveva attraversare una serie di stadi di sviluppo. Essa doveva trasformarsi in produzione mercantile capitalistica e quest'ultima, a sua volta, doveva raggiungere un determinato grado di sviluppo. Non era casuale perciò che la prima crisi economica del capitalismo scoppiasse solo nel 1825.
A seconda delle peculiarità del processo di trasformazione di questa o quella possibilità in realtà, tutte le possibilità possono essere suddivise in riversibili e irreversibili.
Si chiama riversibile quella possibilità con il cui avverarsi la realtà iniziale diventa possibilità. Irreversibile, quella con il cui avverarsi la realtà iniziale diventa impossibile.
È riversibile, ad esempio, la possibilità del moto meccanico di convertirsi in calore, poiché con il suo avverarsi ciò che prima era realtà il moto meccanico diventa possibilità. Infatti, il calore racchiude in sé la possibilità del trapasso nel moto meccanico. Irreversibile sarà la possibilità di trasformare l'energia chimica del carbone fossile in elettricità. Con il suo avverarsi la realtà iniziale diventa impossibile: l'elettricità non possiede la possibilità di trasformarsi in carbone fossile.
Essendo proprie ad uno stesso fenomeno, le possibilità diverse sono in determinata interconnessione e interdipendenza tra di loro. In base al carattere della connessione tra le possibilità, esse possono essere suddivise in possibilità coesistenti e in possibilità escludenti.
Coesistente (rispetto a qualsiasi altra possibilità) si chiama quella possibilità il cui avverarsi non porta alla scomparsa dell'altra; escludente, quella possibilità il cui avverarsi provoca la scomparsa dell'altra.
Un esempio di possibilità coesistente è la possibilità per il contadino di trasformarsi in kulak, rispetto alla possibilità per lui di trasformarsi in bracciante. Diventando kulak sfruttatore, il contadino può non reggere alla concorrenza, andare in rovina e trasformarsi in tal modo in bracciante, in operaio salariato. La possibilità di trasformazione della proprietà privata capitalistica in proprietà socialista è un esempio di possibilità escludente rispetto alla possibilità di sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La sua realizzazione porta alla scomparsa della seconda, con l'instaurazione della proprietà socialista lo sfruttamento diventa impossibile in un dato paese.
Il realizzarsi delle possibilità diverse, proprie ad un oggetto, si ripercuote in modo diverso sulla sua essenza. Il realizzarsi di alcune di esse non ne modifica l'essenza, mentre il realizzarsi delle altre porta alla trasformazione del dato oggetto in un altro. La possibilità il cui avverarsi non modifica l'essenza di una cosa si chiama possibilità del fenomeno; la possibilità il cui avverarsi è legato a questa o quella modificazione dell'essenza di una cosa, alla trasformazione di essa in un'altra cosa si chiama possibilità dell'essenza.
Ad esempio, quella di ottenere un aumento dei salari in questo o quel ramo della produzione come risultato della lotta degli operai contro i capitalisti è una possibilità del fenomeno, poiché il suo avverarsi non modifica l'essenza sociale dei dati gruppi sociali. Gli operai rimangono quelli di prima: privi della proprietà dei mezzi di produzione, estraniati dal potere, sfruttati dalla borghesia. Mentre quella di una rivoluzione socialista nei paesi capitalistici è una possibilità dell'essenza. Con il suo avverarsi cambia l'essenza dell'ordinamento sociale: la società capitalistica si trasforma in quella socialista.


1 V. I. Lenin, Op. cit., vol. 38, p. 93.
2 Da Abel Jeannière, La pensée d'Héraclite d'Ephèse et la vision présocratique da monde. Paris, 1959, p. 108.
3 Aristotele, Categorie (Logic). Chicago, 1952, v. 1, p. n.
4 G. W. F. Hegel's Werke. Brl, 1840, Sechster Band, S. 267.
5 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 365.
6 V. I. Lenin, op. cit., voi. 38, p. 206.
7 Stuart Chase, The Tyranny of Words. N. Y., 1938, p. 9.
8 Si veda ibidem, pp. 8 9.
9 V. I. Lenin, op. cit., vol. 38, p. 364.
10 Ibidem.
11 L. I. Brezhnev, op. cit., p. 48.
12 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., VOI. XXV, p. 514.
13 E. Schrödinger, Science and Humanism. Physics of Our Times. Cambridge, 1952, p. 21.
14 V. I. Lenin, op. cit., vol. 38, p. 206.
15 V. I. Lenin, op. cit., vol. 38, p. 257.
16 V. I. Lenin, op. cit., vol. 38, p. 121.
17 Immanuel Kant, Kritik der Urtheilskraft. Leipzig, 1878, S. 288.
18 V. I. Lenin, op. cit., vol. 21, p. 192.
 
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EmilianoZapata
view post Posted on 1/12/2012, 00:01




ma è il testo integrale?
 
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view post Posted on 1/12/2012, 00:25
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Che cosa ti fa pensare che non lo sia?
 
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EmilianoZapata
view post Posted on 1/12/2012, 00:43




CITAZIONE (carre @ 1/12/2012, 00:25) 
Che cosa ti fa pensare che non lo sia?

Ho letto l'indice del testo su internet e pare siano più di sei capitoli.
 
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view post Posted on 1/12/2012, 01:53
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CITAZIONE
Ho letto l'indice del testo su internet e pare siano più di sei capitoli.

Sono 17, se non sbaglio.
 
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VOSTOK
view post Posted on 1/12/2012, 14:08




Confermo, questa e' solo la prima parte del libro.
 
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view post Posted on 9/10/2022, 18:31

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