| Capitolo IV LA MATERIA E LA COSCIENZA 1. LA CRITICA DELLE CONCEZIONI IDEALISTICHE E METAFISICHE DELLA MATERIA Gli idealisti di regola negano l’esistenza oggettiva della materia. Alcuni ritengono che essa non esiste in generale, che è stata inventata dai materialisti per dar fondamento alle loro conclusioni ateistiche (Berkeley). Altri la considerano un complesso di sensazioni. Terzi ancora la presentano come risultato dello sviluppo della coscienza, la fanno dipendere, la fanno derivare dalla coscienza (Hegel). Tutti i materialisti riconoscono l’esistenza reale, oggettiva della materia. Durante tutta la storia della filosofia le idee dei materialisti sulla materia divergevano sostanzialmente. Nella filosofia antica assolvevano la funzione di materia queste o quelle sostanze, questi o quei fenomeni fra i più diffusi, ad esempio, l’acqua (Talete), l’aria (Anassimene), il fuoco (Eraclito). In seguito si cominciò a considerare materia un’infinità di vari elementi immutabili: i cosiddetti «semi di corpi» (Anassagora) o gli atomi (Democrito). I materialisti francesi del XVIII secolo, Feuerbach ed altri, intendevano per materia il complesso degli atomi immutabili che formano tutte le sostanze esistenti nel mondo. La comprensione della materia come insieme degli atomi o delle sostanze è una comprensione limitata e al tempo stesso erronea. Essa è legata a determinate forme di esistenza della materia, all’assolutizzazione delle proprietà e degli stati che sono loro propri, e perciò non è in grado di abbracciare il totale dei fenomeni che avvengono nel mondo, tutta la molteplicità delle forme dell’essere. L’insufficienza di tale concetto di materia si manifestò con particolare evidenza nel periodo della crisi sorta nelle scienze naturali alla fine del XIX e all’inizio del XX secolo. in seguito alla scoperta dell’elettrone e della radioattività. La scoperta dell’elettrone mostrò, in particolare, che l’atomo non è immutabile e eterno come prima si credeva ma racchiude in sé particelle ancor più piccole, gli elettroni. Si chiarì al tempo stesso che la massa dell’elettrone non è immutabile ma dipende dalla velocità del suo movimento: si accresce se aumenta la velocità di movimento, diminuisce se la velocità si riduce. Prima di questa scoperta si credeva che la massa dell’atomo fosse costante. Proprio a ciò si ricollegava l’idea dell’eternità, dell’indistruttibilità dell’atomo e quindi della materia. Il crollo delle concezioni sull’indivisibilità e sull’eternità degli atomi, sull’immutabilità e sull’indistruttibilità della massa fece dubitare dell’esistenza oggettiva della materia, diede luogo a delle conclusioni sulla sua scomparsa. La logica dei ragionamenti era questa: se l’atomo è divisibile, se esso si scompone in elettroni, la cui massa dipende dal movimento, allora la materia come qualcosa di determinante che è alla base di ogni essere scompare, si trasforma in movimento. Sembrava che tali conclusioni si dovesse trarle anche dalla scoperta della radioattività. La disintegrazione radioattiva dell’uranio, e in seguito anche del radio, fu interpretata come trasformazione della sostanza in movimento, in energia pura. Di ciò ne approfittarono subito gli idealisti. Essi incominciarono ad affermare che le nuovissime conquiste delle scienze naturali confutano il materialismo, mostrano che la materia non esiste, che essa non è che un’invenzione dei materialisti, ecc. Era necessario generalizzare le date scoperte scientifiche, conciliarle con il materialismo dialettico e sottoporre a critica le concezioni idealistiche che prendevano lo spunto da queste scoperte. Fu Lenin ad assumersi un tale compito. 2. LA DEFINIZIONE LENINISTA DELLA MATERIA Dopo aver analizzato nel suo libro Materialismo ed empiriocriticismo la suddetta crisi, Lenin mostrò che il suo sorgere era determinato dal fatto che gli studiosi di scienze naturali stavano sulle posizioni del materialismo metafisico e cercavano di spiegare le nuovissime conquiste nel campo della fisica partendo dai princìpi di questo materialismo. Infatti, la comprensione della materia come insieme degli atomi immutabili è caratteristica del materialismo metafisico e non di quello dialettico. Il materialismo dialettico non riduceva mai la materia ai soli atomi, non li considerava e, del resto, non poteva considerarli immutabili e eterni. Secondo il materialismo dialettico nessuna forma concreta dell’essere della materia, si tratti dell’atomo o si tratti della molecola e dell’elettrone, è eterna, immutabile ma è sempre in movimento, subisce continuamente dei mutamenti, e, in determinate condizioni, si converte in altre forme concrete, queste in terze e così via. «Per la filosofia dialettica scrisse Engels - non vi è nulla di definitivo, di assoluto, di sacro; di tutte le cose e in tutte le cose essa mostra la caducità, e null’altro esiste per essa all’infuori del processo ininterrotto del divenire e del perire...»1. Perciò la scoperta di un fenomeno come la disintegrazione dell’atomo nonché di un fenomeno come la trasformazione della sostanza in luce non solo non confuta il materialismo dialettico ma, al contrario, conferma la verità dei suoi princìpi, in particolare della tesi che tutto quanto esiste nel mondo è in continuo movimento, passa da uno stato all’altro. Che cosa dunque rientra nel concetto di materia secondo il materialismo dialettico? Il concetto di materia secondo il materialismo dialettico è legato a tutto quanto esiste al di fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa, a tutta la realtà oggettiva. Perciò sono materia non solo gli atomi ma anche le particelle «elementari» in cui si decompongono, non solo la sostanza ma anche i raggi di luce che essa emette in determinate condizioni, ecc. «La materia scrive Lenin, fornendo una definizione dialettico-materialistica di questo concetto - è una categoria filosofica che serve a designare la realtà oggettiva che è data all’uomo dalle sue sensazioni, che è copiata, fotografata, riflessa dalle nostre sensazioni ma esiste indipendentemente da esse»2. 3. L’ENTE MATERIALE. Il tipo di materia La materia esiste nella forma di un’infinità di vari corpi legati in un modo o nell’altro fra di essi, nella forma di enti materiali. «Tutta la natura a noi accessibile rilevava Engels - costituisce un sistema, una universale interconnessione di corpi, e intendiamo qui per corpo tutto quel che ha un’esistenza materiale, dalle stelle agli atomi...»3. Un ente materiale o un corpo è solo parte della materia, perciò esso non possiede tutte le proprietà che caratterizzano la materia, in particolare esso non è eterno e infinito, sorge solo in condizioni rigorosamente determinate, occupa un posto limitato nello spazio, esiste per certo tempo e poi scompare, trasformandosi in altri enti materiali. La materia invece è imperitura, spazialmente illimitata. Ciò dimostra che il concetto di materia è legato solo al mondo nel suo complesso, a tutto l’insieme degli enti materiali che lo formano. Gli enti materiali si uniscono in questi o quei gruppi, condizionando così determinati livelli o gradi di sviluppo della materia che possiedono una specificità qualitativa. «... Le parti discrete a diversi livelli (... atomi chimici, masse, corpi celesti) sono punti nodali che condizionano i diversi modi di essere qualitativi della materia in generale...»4 Gli enti materiali aventi una natura comune e rappresentanti questo o quel grado di sviluppo della materia dall’inferiore al superiore, costituiscono un tipo di materia. Sono tipi di materia, ad esempio, i campi elettromagnetico e gravitazionale, gli elettroni, i protoni, i neutroni, gli atomi, le molecole, gli organismi viventi, la società umana, ecc. 4. LA MATERIA E IL MATERIALE Come è stato rilevato sopra, il concetto di «materia», nel senso stretto di questa parola, è applicabile solo al mondo nel suo complesso, a tutto l’insieme degli enti materiali. Per quanto riguarda i singoli enti materiali essi sono ciascuno parte della materia, questo o quell’anello nel suo sviluppo. Essendo determinati anelli della materia unica gli enti materiali presentano un momento comune: tutti essi esistono al di fuori della coscienza e indipendentemente da essa. Per rispecchiare questa comunanza ad essi propria è stato elaborato il concetto di «materiale». È applicabile non solo al mondo nel suo insieme ma anche agli enti materiali che compongono questo insieme, ai tipi di materia, alle proprietà e ai nessi oggettivi che esistono al di fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa. In tale modo, il materiale è tutto quanto si riferisce alla sfera della materia e la distingue dalla coscienza. 5. LA MATERIA COME SOSTANZA Nel definire la materia la contrapponevamo alla coscienza, ma essa, come è stato fatto notare sopra, si distingue non solo dalla coscienza ma anche dai suoi enti, stati e proprietà concreti. In relazione a ciò la materia, rispetto alle sue manifestazioni concrete, stati e proprietà, si presenta come sostanza. In qualità di sostanza la materia è il fondamento di tutto quanto esiste. I fenomeni che si osservano nel mondo non sono altro che le manifestazioni diverse dell’unica natura materiale, le forme diverse del suo modo d’essere, gli stati diversi, le proprietà diverse. Da questo punto di vista la coscienza, come particolare proprietà della materia, non si contrappone alle altre sue proprietà ma è un momento dello stesso ordine. La causa sia della sua esistenza, che dell’esistenza di qualsiasi altra proprietà, risiede nella materia. A differenza del materialismo metafisico che vede la sostanzialità della materia nella sua invariabilità il materialismo dialettico ricollega la sostanzialità della materia al suo costante movimento e mutamento. La materia, passando da uno stato qualitativo all’altro, «in tutti i suoi mutamenti rimane eternamente la stessa»5. Ciò si esprime prima di tutto nella costanza della sua quantità. Con tutti i mutamenti essa rimane invariata. Per quel che concerne il lato qualitativo della materia, la sostanzialità si esprime nel fatto che si conservano le sue proprietà essenziali, i suoi attributi. «... Nessuno dei suoi (della materia - N.d.A.) attributi può mai andare perduto...»6. Se esso è scomparso in un luogo, in un ente materiale, comparirà inevitabilmente in un altro luogo, in un altro ente materiale. Inoltre, la sostanzialità della materia si esprime anche nel fatto che ciascun suo ente è capace in determinate condizioni di trasformarsi in qualsiasi altro ente. Ad esempio, ogni particella «elementare» in determinate condizioni può trasformarsi in altra particella «elementare». Ciò significa che ogni ente materiale racchiude potenzialmente in sé, nella sua natura, tutte le proprietà della materia. La sostanzialità della materia esprime l’unità materiale del mondo. I fenomeni innumerevoli che costituiscono la realtà, hanno una stessa natura materiale, rappresentano le forme, stati, proprietà diversi della materia. 6. IL MOVIMENTO COME FORMA UNIVERSALE DI ESISTENZA DELLA MATERIA 1. La limitatezza delle concezioni metafisiche del movimento. La comprensione marxista del movimento La concezione del movimento sorse insieme alla filosofia. All’inizio il movimento veniva concepito come il sorgere dell’uno e la distruzione dell’altro. Una tale concezione del movimento, in particolare, è caratteristica dei primi filosofi greci (Talete, Anassimene, Anassimandro). Ponendo in primo piano il movimento, il mutamento i primi filosofi greci perdevano però di vista la stabilità. Rivolsero la loro attenzione a ciò altri pensatori, in particolare gli eleati (Senofane, Parmenide, Zenone). A differenza dei primi filosofi essi formularono l’idea della staticità come principio di partenza, attribuendole valore assoluto e giungendo alla negazione del movimento. Empedocle ripristinò la dottrina del movimento e tentò di conciliarla con il concetto di staticità. Secondo lui le quattro «radici» primordiali delle cose (acqua, aria, fuoco e terra) sono eterne e invariabili mentre il movimento non è la distruzione dell’uno e il sorgere dell’altro ma la traslazione delle indicate «radici» immutabili, l’unirsi e il disunirsi di esse. La dottrina del movimento trova ulteriore sviluppo nella filosofia di Aristotele. Egli ristabilì il punto di vista sul movimento come il sorgere dell’uno e distruzione dell’altro. Ma al tempo stesso Aristotele incluse in forma ritoccata nella sua dottrina del movimento anche le concezioni dei successivi filosofi, in particolare di Empedocle. Secondo Aristotele il movimento non significa solo distruzione e sorgere ma anche crescita, diminuzione, mutamento qualitativo nonché spostamento dei corpi nello spazio. Nei successivi periodi di sviluppo della filosofia materialistica si delinea, per quel che riguarda la comprensione del movimento, una tendenza a conferire valore assoluto alla forma meccanica di movimento della materia. Nel XVII XVIII secolo questa tendenza diventa dominante. In quell’epoca il movimento è concepito come spostamento dei corpi nello spazio. Una tale concezione del movimento era propria, in particolare, a Descartes e Holbach. «Il movimento scrisse quest’ultimo - è uno sforzo, mediante il quale un corpo cambia o tende a cambiare la sua posizione»7. La concezione secondo cui il movimento è null’altro che lo spostamento dei corpi nello spazio è una concezione limitata. Essa non abbraccia tutta la molteplicità dei mutamenti propri alla materia. Non sono un semplice spostamento, ad esempio, i mutamenti che si producono nel nucleo atomico, nell’organismo vivente, nella società, ecc. Una definizione coerentemente scientifica del movimento fu data per la prima volta dai fondatori del materialismo dialettico, in particolare da Engels, il quale scrisse: «Movimento, per quel che concerne la materia, è modificazione in generale»8 . Esso «comprende in sé tutti i mutamenti e i processi che hanno luogo nell’universo, dal semplice spostamento fino al pensiero»9. Quindi, il movimento è un concetto filosofico che significa qualsiasi mutamento che avviene nella realtà oggettiva. 2. Le forme fondamentali di movimento della materia Esiste un’infinità di forme diverse di movimento della materia, fra cui si distinguono quelle fondamentali. Esse sono: la forma fisica di movimento della materia, che comprende il movimento delle particelle elementari e dei campi, il movimento internucleare e il movimento delle molecole; quella chimica che riguarda il movimento degli atomi; quella biologica legata al funzionamento e allo sviluppo degli organismi viventi; quella sociale che abbraccia i mutamenti che avvengono nella società e, infine, quella meccanica che rappresenta lo spostamento dei corpi nello spazio. Le forme fondamentali di movimento della materia sono in interconnessione e interdipendenza rigorosamente determinata fra di loro. Alcune forme di movimento sono una premessa del sorgere di altre forme. Ad esempio, il movimento delle particelle «elementari» è una premessa del sorgere degli atomi e del loro movimento. Quest’ultimo è la base per il sorgere delle molecole e del loro movimento. E ciò, a sua volta, porta in determinate condizioni al sorgere della vita e insieme ad essa anche della forma organica di movimento della materia, il che crea le premesse del sorgere della forma sociale di movimento della materia. Tutte le fondamentali forme di movimento rappresentano i gradini di sviluppo della materia, sono legate ai rispettivi tipi di essa e stanno le une alle altre come inferiori e superiori. Una forma inferiore è presente come calco in una forma più alta, ad esempio, la forma fisica di movimento, trasformata, è contenuta nella forma chimica di movimento, quella chimica in quella biologica, quella biologica in quella sociale. Anche se è presente in una forma più alta, la forma inferiore non vi esercita un ruolo determinante ma occupa una posizione subalterna. La forma superiore di movimento esercitando il ruolo decisivo determina l’essenza dei fenomeni che rappresentano una data forma di movimento della materia. 3. Il nesso organico del movimento con la materia Il movimento è un attributo della materia, una sua proprietà essenziale. Esso é indissolubilmente legato alla materia. Non vi è stata, non vi è e non può esservi materia senza movimento, così come movimento senza materia. Del legame indissolubile fra la materia e il movimento ne testimonia la legge della corrispondenza della massa e dell’energia. Secondo questa legge ad ogni determinata quantità di massa corrisponde una quantità rigorosamente determinata di energia. Ad ogni cambiamento della massa si accompagna un rispettivo cambiamento dell’energia, e, al contrario, ogni cambiamento dell’energia provoca un cambiamento della massa. Alcuni filosofi e fisici borghesi non riconoscono il nesso organico tra movimento e materia, cercano di dimostrare la possibilità di ridurre la materia al movimento e su questa base proclamano l’energia elemento primordiale, determinante e considerano la materia una delle forme di energia. A conferma di questo loro punto di vista essi si riferiscono ai casi di trasformazione della sostanza in luce, in particolare dell’elettrone e del positrone in due o tre fotoni, considerandoli casi di trasformazione della materia in energia pura. «La materia scrive, ad esempio, lo scienziato americano R. Marshall - è una delle forme di energia. In certe condizioni è possibile la trasformazione della materia in energia pura e dell’energia pura in materia»10. I fautori del suddetto punto di vista partono dalla concezione metafisica della materia come sostanza e travisano così il vero stato dì cose. La trasformazione degli elettroni e dei positroni in fotoni particelle di energia luminosa rappresenta non la trasformazione della materia in energia (movimento puro), ma la trasformazione di un tipo di materia in un altro, poiché la materia è tutta la realtà oggettiva. Si riferiscono ad essa non solo la sostanza, ma anche la luce e un’infinità di altre forme, note e ancora ignote, dell’essere. Essendo una realtà oggettiva che esiste al di fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa, la materia non può scomparire né interamente né parzialmente, non può trasformarsi in qualcosa di immateriale. Essa esiste eternamente, passando senza fine da uno stato qualitativo o da un tipo all’altro. Le cose stanno analogamente anche per quanto riguarda il movimento. Trovandosi in connessione organica con la materia esso non può scomparire o trasformarsi in qualcosa di diverso, qualcosa che non è movimento, la sua quantità rimane sempre la stessa. Sottolineando l’eternità della materia e del movimento e la loro connessione organica Engels scriveva: «Materia senza movimento è altrettanto impensabile quanto movimento senza materia. Il movimento è perciò altrettanto increabile ed indistruttibile quanto lo è la materia stessa ...». E proseguendo: «... La quantità di movimento presente nel mondo è sempre la stessa»11. 4. Il movimento e la quiete La tesi che la materia è organicamente connessa con il movimento, che quest’ultimo è il suo modo di essere può dar luogo all’idea che nel mondo non vi è nulla di statico, di costante. Una tale idea fu espressa, in particolare, dal filosofo greco Cratilo. Però la realtà è ben diversa. Oltre al movimento è propria alla materia anche la staticità, la quiete. A differenza del movimento che esprime il continuo mutamento, la quiete esprime la staticità, l’immutabilità. Essendo opposta al movimento la quiete non è però isolata dal movimento, ma è organicamente connessa con quest’ultimo, ne è un momento, un caso particolare. La quiete rappresenta un sistema relativamente statico di movimento: il movimento in equilibrio. Ad esempio, il sistema solare, considerato un ente materiale in quiete, non è altro che un movimento dei pianeti che lo compongono, movimento che ripete, dei cicli rigorosamente determinati, cioè un movimento in equilibrio. Qualsiasi corpo è un sistema relativamente statico di movimento, ad esempio un ente materiale della natura inanimata, l’organismo vivente, la società umana. Liquidate i mutamenti caratteristici di questi corpi ed essi scompariranno come dati enti materiali relativamente statici (in stato di quiete). Oltre al movimento in equilibrio ogni ente materiale include in sé un’infinità di altri mutamenti che fino ad un certo punto rientrano nel dato sistema relativamente statico di movimento, non violano l’equilibrio degli elementi che lo formano. Ma una volta raggiunto un determinato livello, questi mutamenti distruggono il dato sistema relativamente statico di movimento e portano alla creazione di un nuovo sistema statico, il quale, a sua volta, dopo essere esistito per un determinato periodo di tempo, pure si distrugge in seguito ai mutamenti prodottisi in esso e pone inizio al sorgere di altri sistemi relativamente statici (in stato di quiete), e questi al sorgere di terzi, e così senza fine. E se daremo uno sguardo a questo processo eterno di passaggio della materia dagli uni sistemi statici agli altri, non è difficile vedere che il movimento è assoluto. Esso esiste sempre: e nel momento del sorgere di un sistema relativamente statico (poiché il sorgere di questo o quel nuovo sistema avviene in seguito al mutamento dei precedenti sistemi), e attraverso di esso (in quanto rappresenta un movimento in equilibrio), e nel quadro di esso, e nel momento della sua distruzione e del sorgere di un nuovo sistema relativamente statico. Per quanto concerne la quiete, essa è relativa, sorge con il sorgere di questo o quel sistema relativamente statico e scompare quando questo sistema si distrugge, sorge di nuovo e, dopo essere esistita per un determinato periodo di tempo, scompare, e così senza fine. 5. Il movimento e Io sviluppo Abbiamo rilevato che la materia è in continuo movimento e mutamento, passa sempre dagli uni stati statici agli altri, distrugge questi o quegli enti materiali e ne crea altri. Ma quale è la tendenza di questi mutamenti, che cosa sorge per sostituirsi agli enti materiali in via di distruzione? Alcuni filosofi ritengono che il movimento della materia avviene descrivendo un circolo, che esso ripete sempre i medesimi cicli. Altri affermano che nel corso dei continui mutamenti della materia si assiste al movimento dal superiore all’inferiore, cioè al regresso. Terzi invece proclamano come movimento dall’inferiore al superiore tutti i mutamenti che si osservano nel mondo. In realtà si assiste a tutti questi tre momenti. Ciò che predomina però è il movimento dall’inferiore al superiore. Il movimento dall’inferiore al superiore, dal semplice al compresso si chiama sviluppo. Possono servire come esempi di sviluppo: la formazione degli atomi sulla base delle particelle «elementari», delle molecole sulla base degli atomi; il sorgere degli organismi viventi sulla base delle sostanze inanimate; la trasformazione degli organismi più semplici, privi di struttura cellulare, in organismi unicellulari e in seguito in quelli pluricellulari; il passaggio dagli organismi capaci di riflettere l’ambiente circostante solo nella forma di eccitabilità agli organismi dotati di sensibilità e di psiche; la trasformazione di un’orda di scimmie in società umana; il passaggio della società dalla comunità primitiva alla schiavitù, al feudalesimo, al capitalismo e, infine, al socialismo, ecc. Nell’affermare che lo sviluppo è la tendenza che domina nel mondo, non si può pensare che ogni forma concreta del modo d’essere della materia sia in stato di sviluppo. Oltre agli enti materiali che cambiano passando dall’inferiore al superiore, vi sono anche enti materiali il cui movimento descrive un circolo o che subiscono dei mutamenti regressivi. Il ruolo determinante dello sviluppo, il suo carattere universale si esprime non nel fatto che tutti gli enti materiali si sviluppano immancabilmente ma nel fatto che essi sono capaci di diventare più complessi, di passare dall’inferiore al superiore. Essendo propria a tutta la materia, ad ogni ente materiale, questa capacità, come qualsiasi altra, si manifesta solo in presenza delle rispettive condizioni. Là dove si presentano tali condizioni, si assiste immancabilmente al passaggio dall’inferiore al superiore, dal semplice al complesso; là dove sono assenti tali condizioni, hanno luogo o un movimento circolare o dei mutamenti regressivi. Ma quegli enti materiali che sono coinvolti in un movimento circolare o subiscono dei mutamenti regressivi non perdono la capacità di passare dall’inferiore al superiore. Questa capacità permane in essi nonostante tutti i loro mutamenti, nonostante tutte le loro trasformazioni e si fa sentire subito non appena incominciano a sorgere condizioni favorevoli al suo manifestarsi. 7. LO SPAZIO E IL TEMPO 1. Il concetto di spazio e di tempo Si è già rilevato che ogni singolo ente materiale è parte della materia. Essendo uno dei suoi anelli innumerevoli esso occupa un determinato posto, ha un’estensione ed è in rapporto con gli altri enti materiali che lo circondano. L’estensione degli enti materiali e il rapporto di ciascuno di essi con gli altri enti materiali che lo circondano si chiama spazio. Inoltre, come si è già detto, ogni ente materiale non è eterno, esso sorge in seguito al mutamento di questi o quei precedenti enti materiali, attraversa gli stadi di sviluppo e poi scompare, trasformandosi in altri enti materiali. La durata dell’esistenza degli enti materiali e il rapporto di ciascuno di essi con i precedenti e successivi enti materiali si chiama tempo. 2. La critica delle concezioni idealistiche e metafisiche dello spazio e del tempo Gli idealisti di regola negano l’oggettività dello spazio e del tempo, la loro indipendenza dalla coscienza. Ad esempio, secondo Berkeley, «ogni luogo o estensione esistono solo nello spirito», così come il tempo, che è, secondo lui, la successione delle idee nella nostra coscienza. Anche Kant nega l’esistenza oggettiva dello spazio e del tempo. Secondo lui essi non rappresentano caratteristiche delle cose ma sono una forma di intuizione. Negano l’esistenza dello spazio e del tempo nel microcosmo anche molti odierni scienziati-naturalisti e filosofi borghesi. Un tale punto di vista è sostenuto, in particolare, da Jeans Eddington, ed altri. Eddington scrive che per gli stati caratterizzati dai ridotti numeri quantici, «lo spazio e il tempo non esistono, per lo meno non ho alcun motivo di supporli come esistenti»12. Alcuni filosofi, anche se riconoscono l’esistenza dello spazio e del tempo, negano il loro nesso con la materia, li considerano forme dell’essere del tutto autonome, indipendenti da essa. Una tale concezione dello spazio e del tempo sorse nell’antichità. In particolare, fu formulata dai pitagorici. Secondo loro, lo spazio è un immenso recipiente che è riempito di varie cose e numeri e che non dipende assolutamente dalle cose che vi entrano e può esistere senza di essi. Democrito concepiva lo spazio come vuoto. Per Aristotele lo spazio era un luogo occupato a turno da cose diverse. L’idea dell’indipendenza dello spazio e del tempo dalla materia fu sviluppata in forma classica nella dottrina di Newton. Secondo Newton lo spazio è assoluto. Esso è eterno, invariabile e immobile, non dipende dalle cose. Le cose invece dipendono dallo spazio, esistono in esso, si muovono rispetto ad esso. Nel pensiero di Newton «si comporta» analogamente anche il tempo. Esso è pure assoluto, esiste di per se stesso indipendentemente dai singoli avvenimenti, fluisce in modo uniforme, in modo sempre uguale. Un tentativo di superare il distacco metafisico dello spazio dalla materia fu compiuto da Descartes, il quale, proclamando l’estensione come la proprietà più importante e unica della materia, in sostanza identificò lo spazio e la materia. Un ulteriore passo in questa direzione fu fatto da Spinoza che considerava lo spazio attributo della materia. Anche Locke considerava lo spazio in rapporto alla materia. Secondo Locke lo spazio si presentava come grandezza dei corpi. Anche se collegavano lo spazio con la materia i filosofi premarxisti non giunsero però alla comprensione della dipendenza delle caratteristiche spaziali dalla natura degli enti materiali. Non solo, ma essi ritenevano che lo spazio di tutti i corpi fosse uguale, possedesse le medesime proprietà. 3. Le caratteristiche fondamentali dello spazio e del tempo Per la prima volta una soluzione coerentemente scientifica è stata data a questo problema dal materialismo dialettico. Secondo il materialismo dialettico lo spazio e il tempo sono le necessarie proprietà oggettive di qualsiasi ente materiale, le forme oggettivamente reali di esistenza della materia. L’estensione e la durata sono caratteristiche non solo delle stelle, dei pianeti, delle cose, in una parola, dei macrocorpi ma anche dei microcorpi, cioè delle particelle «elementari». «Nell’universo scrisse Lenin - non esiste altro che materia in movimento e questa materia in movimento non può muoversi altrimenti che nello spazio e nel tempo»13. Lo spazio e il tempo non solo sono connessi alla materia, ma anche dipendono da essa, sono condizionati dalla natura degli enti materiali, dalla forma di movimento propria a questi ultimi. Questo assunto del materialismo dialettico è confermato con tutta evidenza dai dati della scienza moderna, secondo cui le caratteristiche spaziali e temporali dipendono dal movimento e dalla distribuzione delle masse gravitanti. Quanto maggiori sono le forze di gravitazione, tanto più incurvato è lo spazio e tanto più lentamente scorre il tempo. Inoltre, come mostra la teoria della relatività, in un sistema in moto, rispetto ad un sistema in stato di quiete, i rapporti spaziali si spostano, il corpo risulta schiacciato nel senso del movimento e il fluire del tempo si rallenta. Un’importantissima caratteristica dello spazio è la tridimensionalità. Esso ha le tre dimensioni: lunghezza, larghezza, altezza che possono essere rappresentate con tre linee reciprocamente perpendicolari. Muovendocisi parallelamente ad esse, si può determinare spazialmente qualsiasi corpo. È vero, in questi ultimi tempi sono apparse varie teorie fisiche dello spazio a quattro o più dimensioni. Quando gli scienziati parlano del mondo quadridimensionale, delle sue quattro dimensioni, essi intendono per quarta dimensione il tempo. Perciò i ragionamenti sulla quadridimensionalità non contraddicono la realtà, ma essi non confutano neppure la tesi sulla tridimensionalità dello spazio, al contrario, partono interamente da essa. Le cose stanno analogamente anche per quanto riguarda la pluridimensionalità dello spazio. Parlando di pluridimensionalità i fisici o i matematici intendono non la definizione delle caratteristiche spaziali di qualsiasi corpo, o più precisamente, non solo questo ma anche la misurazione delle proprietà più disparate del corpo (ente materiale), e di queste proprietà esso ne possiede un’infinità. Quindi, può esservi anche un’infinità di misurazioni. Ma ciò sta forse a provare l’erroneità della dottrina della tridimensionalità dello spazio? S’intende di no. Ciò sta a provare che i concetti di «spazio quadridimensionale», di «spazio pluridimensionale» si adoperano non nel loro vero senso, non per esprimere le peculiarità dello spazio ma per caratterizzare i lati e gli stati più diversi di un ente materiale. Se lo spazio ha tre dimensioni il tempo ne ha una sola. Esso fluisce sempre in un solo senso, in avanti. Il presente diventa passato, il futuro diventa presente. È impossibile cambiare questo senso del fluire del tempo, il tempo è irreversibile. Un’altra importantissima caratteristica dello spazio e del tempo è che sono infiniti. A prima vista può sembrare che lo spazio e il tempo siano finiti, poiché esistono nella forma di proprietà e di nessi degli enti materiali finiti. Ma ciò è lungi dal corrispondere alla realtà. Esistendo attraverso le cose finite, lo spazio e il tempo sono infiniti. Il fatto è che ogni cosa è connessa con un’infinità di altre cose. I suoi rapporti spaziali passano nei rapporti spaziali delle altre cose che la circondano e i rapporti spaziali di queste ultime nei rapporti spaziali delle cose che le circondano, e via di seguito, senza fine. Sorgendo in tal modo dai soli enti finiti, lo spazio si dispiega nell’infinità. Le cose stanno allo stesso modo anche per quanto riguarda il tempo. L’esistenza di ogni singola cosa ha il principio e la fine. Ma essa è stata preceduta da un’infinità di altre cose e dopo di essa sorgeranno nuove cose, a queste ultime verranno a sostituirsi altre cose, e così senza fine. Il processo di sostituzione degli uni enti materiali o degli uni stati finiti con gli altri non è mai incominciato e non terminerà mai. Il tempo durerà senza fine. A questo punto bisogna far notare che non tutte le correnti filosofiche riconoscono l’infinità dello spazio e del tempo. I teologi di regola collegano la questione della finità del mondo materiale nel tempo con la volontà divina, gli idealisti la collegano con l’attività creatrice della coscienza, la quale, esistendo fuori dello spazio e del tempo, genera cose sensibili spazialmente circoscritte e finite nel tempo. Vari odierni scienziati e filosofi borghesi argomentano la limitatezza del mondo nello spazio riferendosi alla teoria della relatività. Secondo quest’ultima, la densità osservabile della sostanza e le forze di gravitazione che le corrispondono, devono condizionare l’esistenza della materia nella forma di una sfera chiusa. Questa conclusione deriva dalle equazioni della teoria generale della relatività, la quale presuppone che nello spazio la materia sia distribuita uniformemente. Gli ultimi dati dell’astronomia dimostrano però che la materia è distribuita nello spazio in modo estremamente ineguale. Vi sono anche dei tentativi di utilizzare, per argomentare la limitatezza del mondo nello spazio e nel tempo, un fenomeno come lo «spostamento verso il rosso». È noto che nel percepire la luce che proviene dalle stelle, si osserva lo spostamento del loro spettro verso il rosso. Questo fatto dimostra che l’Universo si espande, che le galassie si allontanano le une dalle altre con una velocità di 120.000-170.000 chilometri al secondo. Tenendo conto della velocità, con la quale le galassie si allontanano le une dalle altre, si può stabilire quando questa sostanza che si allontana in varie direzioni costituiva un tutt’uno. Ciò ha portato alla comparsa di teorie secondo cui l’Universo trae la sua origine dall’atomo-padre, creato da dio, che esso è limitato nello spazio, ecc. Questi ragionamenti hanno per base la supposizione che tutte le leggi osservabili in una parte dell’Universo debbano essere osservate anche nelle altre sue parti. In realtà, le leggi che agiscono in un dato momento in questo o quel campo della realtà sono lungi dal manifestarsi tutte negli altri suoi campi. Solo le leggi universali, oggetto di studio della filosofia, si manifestano ovunque. Per quanto riguarda le altre leggi, esse, manifestandosi in un dato momento in una regione o in una parte dell’Universo, non si manifestano in un’altra. Perciò dal fatto dell’espansione della data parte, da noi osservata, dell’Universo non deriva affatto che attualmente anche le altre sue parti si espandano obbligatoriamente. Esse possono espandersi, ma possono anche restringersi. Ed è più probabile che i processi di espansione e di restringimento siano propri in uguale misura a tutto l’Universo, che in una sua parte prevale fino ad un certo momento una tendenza e in un’altra parte, un’altra tendenza. Poi esse cambiano di posto. 8. IL RIFLESSO COME PROPRIETÀ UNIVERSALE DELLA MATERIA Abbiamo già rilevato che la materia esiste attraverso gli enti materiali, spazialmente e temporalmente finiti, che non semplicemente esistono, ma agiscono gli uni sugli altri. Interagendo, essi apportano i rispettivi mutamenti gli uni negli altri. Questi mutamenti sono determinati, da una parte, dalla natura dell’ente materiale, nel quale sorgono, e, dall’altra, dalle peculiarità del corpo che agisce su di esso. Le peculiarità dell’agente lasciano un’impronta su questi mutamenti e vi si esprimono in un modo o nell’altro. È in ciò che consiste l’essenza di una proprietà come il riflesso, proprietà caratteristica di tutti gli enti materiali. Il riflesso come proprietà universale della materia rappresenta in tal modo la capacità di un ente materiale di riprodurre nei mutamenti di queste o quelle sue proprietà, di questi e quei suoi stati le peculiarità degli altri corpi che agiscono su di esso. Esempi di riflesso fra i più semplici sono la deformazione di questo o quel corpo in seguito all’azione esercitata su di esso da un altro corpo, il riscaldamento del conduttore in seguito all’azione della corrente elettrica che lo attraversa, l’aumento del volume di un corpo come risultato del riscaldamento, ecc. Qualsiasi ente materiale sul quale agiscono altre cose si comporta non passivamente, ma attivamente. Esso esercita un influsso inverso su queste cose, provocandovi dei mutamenti che riproducono in questa o quella forma le sue peculiarità. Perciò ciascuno degli enti materiali interagenti ad un tempo riflette e viene riflesso. Esso riproduce in questa o quella forma le peculiarità delle cose che agiscono su di esso e a sua volta si vede riprodotto nei rispettivi mutamenti di queste cose. Ciò attesta che la proprietà di riflettere è universale, ciò dimostra che essa è inerente a tutti gli enti materiali. 9. LO SVILUPPO DELLE FORME DI RIFLESSO La forma di riproduzione negli enti materiali delle peculiarità dei corpi che agiscono su di essi dipende dalla loro natura. Perciò gli enti materiali qualitativamente diversi riflettono in forma diversa uno stesso stimolo esterno. Il cambiamento delle forme di riflesso è particolarmente evidente con il passaggio della materia da un grado qualitativo di sviluppo all’altro. Nella natura inanimata il riflesso si presenta come un rispettivo mutamento delle proprietà fisiche o come reazioni chimiche che riproducono in questa o quella forma le peculiarità dei corpi o dei fenomeni interagenti. Negli organismi vegetali e animali più elementari esso si manifesta nella forma dell’irritabilità: una reazione allo stimolo esterno, dove si osserva una determinata azione predisposta14 a un determinato momento di selettività. Ad esempio, la pianta reagisce ai raggi luminosi cambiando la posizione delle foglie, orientandole in modo che risultino perpendicolari ai raggi. Una tale posizione delle foglie assicura l’assorbimento di una maggiore quantità di energia solare, necessaria per il funzionamento e sviluppo della pianta. Con la comparsa di organismi viventi più complessi e perfetti, in particolare degli organismi dotati di un sistema nervoso, il riflesso diventa più perfetto. Ora esso si presenta nella forma dell’eccitabilità. Peculiarità di questa forma di riflesso è che qui comincia ad assolvere funzioni di riflessione un organo speciale: il sistema nervoso. Esso esercita il controllo sull’interazione dell’organismo e dell’ambiente esterno. Alcuni tessuti o alcune cellule di questo sistema percepiscono gli stimoli esterni, mentre gli altri trasmettono l’eccitamento alle rispettive parti dell’organismo e assicurano così la necessaria risposta funzionale da parte di queste ultime. Apparso per la prima volta nella forma di fibre e cellule nervose, sparpagliate per tutto il corpo dell’animale, il sistema nervoso subisce, nel corso dell’ulteriore evoluzione dell’organismo, dei mutamenti sostanziali. Le cellule nervose si congiungono e formano i gangli nervosi collegati fra di loro. In seguito, come risultato dell’anastomosi dei gangli nervosi, sorgono i centri speciali: il cervello e il midollo spinale, si forma il sistema nervoso centrale. Con la comparsa di quest’ultimo nelle reazioni dell’organismo agli stimoli esterni intervengono dei mutamenti sostanziali. Se prima gli organismi viventi reagivano solo agli eccitanti che erano legati in un modo o nell’altro alla loro attività vitale, ora, con la comparsa del sistema nervoso centrale, essi cominciano a reagire anche a quegli eccitanti che non hanno di per se stessi alcun valore per l’organismo ma sono legati ai fenomeni di importanza vitale. In altre parole, se prima l’interazione tra l’organismo e l’ambiente esterno avveniva sulla base dei riflessi incondizionati, ora si sono aggiunti a questi ultimi i riflessi condizionati. Essi permettono all’organismo di riflettere il legame tra i fenomeni più disparati non aventi per esso alcuna importanza vitale, da una parte, e i fenomeni che hanno tale importanza, dall’altra. Grazie a ciò gli animali hanno ottenuto la possibilità di reagire prontamente alle mutate condizioni di vita e di adattarsi rapidamente ad esse. La forma di riflesso della realtà legata al sorgere dei riflessi condizionati si distingue sostanzialmente dalle precedenti forme, in particolare dall’irritabilità e dall’eccitabilità. Se queste ultime rappresentavano le forme biologiche di riflesso, la prima rappresenta la forma psichica di riflesso della realtà. 10. LE PECULIARITÀ DELLA FORMA PSICHICA DI RIFLESSO La psiche come particolare forma di riflesso della realtà è sorta insieme al sistema nervoso centrale, insieme alla capacità, determinata da quest’ultimo, di acquisizione dei riflessi condizionati. Con la comparsa della psiche appare il riflesso della realtà per mezzo di segnali, di immagini. Lo psichico si presenta nella forma di immagini dei fenomeni che agiscono sull’organismo, immagini che sorgono nel cervello in seguito all’acquisizione di questo o quel riflesso condizionato. Un tratto specifico del riflesso condizionato è il riflesso di tali fenomeni esterni che di per se stessi non hanno alcun valore per l’organismo, ma risultano legati a questi o quei fenomeni che hanno per esso una ben precisa importanza vitale. Con il sorgere del riflesso condizionato questi fenomeni segnalano altri fenomeni legati all’attività vitale dell’organismo, importanti in senso biologico per esso, rappresentano per così dire questi ultimi. La loro azione sull’organismo equivale all’azione di quei fenomeni importanti in senso biologico di cui sono i segnali. Con questa azione sorgono, sulla base delle connessioni temporanee che si formano nel cervello, le immagini dei rispettivi fenomeni importanti per l’organismo in senso biologico. Ad esempio, un campanello di per se stesso non significa nulla per il cane. Esso non reagisce a questo suono. Ma se a quest’ultimo sarà abbinata la presentazione del cibo, il cane comincerà a reagire al suono di un campanello come reagisce in generale alla vista del cibo. In particolare, si avrà da parte del cane una reazione salivare. Tramite un nesso temporaneo sorto nel suo cervello fra due fonti di eccitazione: il suono di un campanello e il cibo, il cane rifletterà la dipendenza stabilitasi fra questi ultimi: suono di un campanello è un segnale che preannuncia l’apparizione del cibo. Proprio in relazione a ciò il cane reagisce al suono con la salivazione. In tal modo, il riflesso condizionato presuppone lo stabilirsi all’atto della percezione di questo o quel segnale di una connessione con un fenomeno importante in senso biologico. Presentandosi come un lato o un momento necessario dei riflessi condizionati che rappresentano i fenomeni fisiologici, il fatto psichico, in tal modo, è organicamente legato al fatto fisiologico, sorge ed esiste sulla base di esso. Il riflesso condizionato è il risultato dell’attività fisiologica del cervello in risposta alle stimolazioni esterne sull’organismo. Sorgendo sulla base di determinate connessioni fisiologiche nel cervello, dipende da essi. 11. LA COSCIENZA COME FORMA SUPERIORE DI RIFLESSO PSICHICO DELLA REALTÀ 1. Il sorgere della coscienza Apparsa in una determinata fase di sviluppo degli organismi viventi e, in particolare, del loro sistema nervoso, la forma psichica di riflesso della realtà non rimane immutabile, ma si perfeziona, si evolve e in determinate condizioni si converte in una forma di riflesso, qualitativamente nuova: la coscienza. La condizione con la quale la psiche degli animali si trasforma in coscienza è il lavoro. Esso trae la sua origine dall’attività basata sui riflessi degli animali, sull’utilizzazione degli oggetti della natura per conseguire un determinato risultato, legato al soddisfacimento di questo o quel bisogno dell’organismo. Come suppongono gli scienziati, singoli esemplari di scimmie antropomorfe, nel compiere queste o quelle azioni volte a soddisfarne i bisogni, si misero ad adoperare oggetti della natura, ad esempio un bastone per abbacchiare i frutti, una pietra per difendersi dai nemici, ecc. All’inizio queste azioni erano sporadiche. Ma in quanto di regola sortivano un effetto positivo, contribuivano a soddisfare questo o quel bisogno, cominciò a sorgere sulla base di esse un riflesso condizionato e parallelamente anche l’abitudine di adoperare all’occorrenza questi o quegli oggetti della natura in qualità di «strumenti». Quest’abitudine apportò dei mutamenti sostanziali nel comportamento di questi animali. Il loro rapporto con l’ambiente circostante era ora mediato dagli oggetti della natura. Infatti, prima la loro reazione alla realtà che li circondava non era mediata, ora essi agivano su di essa, adoperando come «strumenti» oggetti della natura. Un tale complicarsi del rapporto dell’organismo con l’ambiente esterno influì positivamente sullo sviluppo del sistema nervoso e, in particolare, del cervello. Esso cominciò a sviluppare sempre nuovi nessi al suo servizio, ad assolvere sempre più complesse funzioni e quindi ad evolversi e a perfezionarsi. Ma ciò, a sua volta, esercitava un influsso benefico sull’«attività strumentale» dell’animale. Essa si rendeva più complessa, si sviluppava. In un determinato stadio di sviluppo di questa attività gli animali, in caso di assenza del necessario «strumento» per compiere questa o quella operazione, cercano di adattare a questo scopo un qualche altro oggetto. Appare la tendenza a creare il necessario «strumento» mediante una rispettiva lavorazione di questi o quegli oggetti. L’affermarsi di una tale tendenza fra gli antenati animali dell’uomo condizionò la graduale trasformazione dell’attività basata sui riflessi in attività consapevole, volta a modificare la realtà circostante con l’ausilio di strumenti appositamente creati. La data attività diventa la necessaria forma di rapporto fra gli esseri, che escono dallo stato animale, e la realtà circostante. Essa pone questi esseri in determinati rapporti che non dipendono dalla loro volontà e li raggruppa così in un tutt’uno organico: la società. Affinché questa potesse sorgere, funzionare e svilupparsi normalmente, era necessario un certo coordinamento delle azioni degli individui che la formavano. Ma ciò presupponeva la necessità di chiarire gli scopi, i compiti comuni, di distribuire le funzioni nel processo della loro realizzazione, presupponeva, inoltre, uno scambio di pensieri fra gli individui che agivano in comune. «Insomma: gli uomini in divenire giunsero al punto in cui avevano qualcosa da dirsi»15. Il bisogno condizionò il sorgere del mezzo necessario per soddisfarlo. Tale mezzo divenne per l’appunto il linguaggio. La coscienza ottenne così una forma materiale di esistenza, corrispondente alla sua natura sociale. Essendo un sistema di segni che assicura la conservazione, la rielaborazione e la trasmissione delle informazioni, il linguaggio è un mezzo di espressione dei pensieri e dei rapporti fra gli uomini. Gli uomini in divenire cominciarono a designare i singoli fenomeni, le loro proprietà, le proprie azioni con i rispettivi suoni o segni e con l’ausilio di essi trasmettevano i loro pensieri gli uni agli altri. Le denominazioni da essi date a questi o quei fenomeni assolvevano la funzione di succedanei di questi ultimi. L’uomo reagiva ad essi così come ai fenomeni da loro designati. Le parole diventano i segnali dei fenomeni da esse definiti. Impiegandole, gli uomini riflettono la realtà che li circonda, si scambiano le informazioni ottenute e le utilizzano nella loro vita e attività quotidiana. Il riflesso della realtà attraverso un sistema di parole è una forma di riflesso specificamente umana. Gli animali riflettono la realtà circostante tramite i segnali della stessa realtà, rappresentati, come abbiamo già rilevato, da fenomeni e proprietà che non hanno importanza immediata per l’attività vitale dell’organismo, ma che sono in determinato rapporto con altri fenomeni o proprietà importanti in senso biologico. Il dato sistema dei segnali, comune all’animale e all’uomo, è stato chiamato da I. P. Pavlov primo sistema di segnalazione. Il sistema di segnalazione specificamente umano il sistema delle parole che assolvono il ruolo di segnali di questi o quei fenomeni della realtà stessa - è stato da lui chiamato secondo sistema di segnalazione. La nascita del linguaggio apportò dei mutamenti sostanziali nell’attività basata sui riflessi dell’uomo. Il linguaggio strappò l’uomo alla dipendenza dalla situazione concreta, dipendenza che era di impedimento alla sua attività, creò le condizioni necessarie per le generalizzazioni, per i rapporti con gli altri uomini e contribuì così immensamente alla formazione e allo sviluppo della coscienza degli uomini. 2. L’essenza della coscienza Essendo legata al lavoro e alla società sorta sulla base di esso, la coscienza è un lato necessario della forma sociale di movimento della materia, anche se esiste attraverso la coscienza dei singoli individui che compongono la società. Ogni individuo, attraverso il linguaggio, attraverso i mezzi di lavoro e i metodi d’azione, assimila l’esperienza già accumulata dalla società e trasmette alla società la propria esperienza individuale, traducendola in valori spirituali e materiali, prodotto della sua attività creatrice. Sorta come un lato necessario della vita sociale che si forma sulla base del lavoro, la coscienza si manifestò prima di tutto nel fatto che l’antenato dell’uomo si rese conscio del proprio essere, della propria esistenza, si separò dal mondo esterno, assunse un determinato atteggiamento verso di esso. L’animale non si distingue dal mondo esterno. Esso si fonde interamente con le funzioni vitali del proprio organismo. Il selvaggio, acquistando la coscienza, si accorge per la prima volta del fatto che egli esiste, che si trovano intorno a lui gli oggetti con cui è in rapporto e che sono in rapporto fra di loro. Prendendo coscienza dei propri istinti e delle proprie abitudini, comincia gradualmente a comprendere che cosa avviene intorno. La coscienza è in tal modo la comprensione di ciò che avviene nel mondo circostante. Ma la comprensione di ciò che avviene non è altro che la conoscenza. Il mondo esterno è presente nella coscienza nella forma di immagini che sorgono nel cervello dell’uomo in seguito ai suoi rapporti con questo mondo. L’insieme di queste immagini che riflettono la realtà è per l’appunto la conoscenza dell’uomo. È utilizzando queste immagini, i dati ivi contenuti su queste o quelle proprietà, su questi o quei nessi degli oggetti e dei fenomeni del mondo esterno, che l’uomo arriva a comprendere ciò che avviene intorno a lui. La comprensione di ciò che avviene è una premessa indispensabile dell’orientamento dell’uomo nel mondo. Poggiando sulla giusta percezione della realtà, sulla conoscenza di questi o quei suoi lati e nessi necessari, l’uomo è come se desse uno sguardo al futuro, riproducendo nella forma di immagini ideali quello che non vi è ancora ma che deve accadere in seguito a questa o quella azione sulla realtà. Sulla base di questo riflesso anticipante la realtà l’uomo si pone determinati scopi e subordina ad essi il suo comportamento, le sue azioni. Il porre degli scopi rappresenta, in tal modo, un’importantissima funzione della coscienza. Questa funzione distingue il comportamento dell’uomo da quello dell’animale, distingue l’attività ragionevole dell’uomo dalle azioni istintive degli animali. «Il ragno scrive Marx - compie operazioni che assomigliano a quelle del tessitore, l’ape fa vergognare molti architetti con la costruzione delle sue cellette di cera. Ma ciò che fin da principio distingue il peggiore architetto dall’ape migliore è il fatto che egli ha costruito la celletta nella sua testa prima di costruirla in cera. Alla fine del processo lavorativo emerge un risultato che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era presente idealmente»16. Il riflesso anticipante la realtà è alla base non solo degli scopi che si pongono gli uomini ma è anche alla base dell’attività creatrice, trasformatrice della coscienza, ciò che rappresenta il lato più importante della sua essenza. Sorta sotto il diretto influsso del lavoro che presuppone la trasformazione del mondo in conformità ai bisogni dell’uomo, la coscienza, sulla base delle conoscenze di cui questi dispone, crea del nuovo che non esisteva prima. Questo nuovo, essendo espresso in un sistema di immagini ideali, diventa un piano concreto che traduce in realtà questa o quella possibilità della materia. Essendo un riflesso del mondo, la coscienza ha in tal modo un carattere creativo, influisce attivamente sul mondo circostante e lo trasforma in conformità alle esigenze della società. Quindi, la coscienza rappresenta il riflesso della realtà nel cervello dell’uomo, cui si accompagna la comprensione di ciò che avviene nel mondo esterno, nonché la definizione dei fini, processo basato su questa comprensione, e l’attività riflessiva che assicura un rispettivo orientamento nel mondo circostante e una modificazione creativa di esso nell’interesse della società. 3. Sul rapporto fra coscienza e materia Come deriva da quanto esposto sopra, la coscienza è il secondo dato rispetto alla materia. Ciò si esprime prima di tutto nel fatto che essa esiste non sempre e non ovunque, ma appare solo in un particolare stadio di sviluppo della materia, solo presso gli enti materiali altamente organizzati. Facendo la sua apparizione in una determinata tappa di sviluppo della materia, essa è necessariamente legata ad essa e non può esistere senza di essa. La materia invece non dipende dalla coscienza, essa è esistita prima del suo sorgere. Inoltre, la coscienza è il secondo dato anche per il fatto che essa rappresenta un riflesso del mondo esterno, un calco delle cose oggettivamente esistenti, delle loro proprietà e dei loro nessi. Essendo un riflesso di questi o quegli oggetti del mondo esterno, essa non può esistere indipendentemente da essi, poiché il riflesso non può esistere indipendentemente da ciò che viene riflesso, mentre ciò che viene riflesso esiste indipendentemente dal riflesso. 4. L’elemento materiale e l’elemento ideale Quando noi esaminiamo la coscienza in rapporto al cervello, mettiamo in luce il fatto che essa come un peculiare fenomeno psichico sorge nel cervello ed è il risultato di determinati processi fisiologici che si svolgono in esso. Ma quando noi la esaminiamo in rapporto al mondo esterno, alla realtà in essa riflessa, ne mettiamo in luce l’idealità. L’idealità della coscienza si esprime nel fatto che le immagini che la compongono non possiedono né le proprietà degli oggetti della realtà in essa riflessi né le proprietà dei processi fisiologici nervosi, sulla base dei quali sono sorte queste immagini. In esse non esiste nemmeno un grano della sostanza, caratteristica della realtà riflessa e del cervello. Esse sono prive di peso, di caratteristiche spaziali e di altre proprietà fisiche. Essendo distinto dall’elemento materiale, l’elemento ideale è organicamente legato ad esso. Esso sorge e esiste solo nell’elemento materiale: nel cervello dell’uomo. È il risultato dell’azione dei fenomeni materiali sugli organi di senso. Il suo contenuto è determinato da questi fenomeni e ne rappresenta un riflesso. Sottolineando il nesso organico fra l’elemento ideale e l’elemento materiale e la dipendenza del primo dal secondo, Marx scriveva: «... l’elemento ideale non è altro che l’elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini»17. 5. Sulla soggettività della coscienza Come è stato fatto notare sopra, la comparsa della coscienza presuppone che l’uomo si distingua esso stesso dalla realtà che lo circonda, comprenda quello che vi avviene, ne sappia tener conto nelle sue azioni. Tutto ciò fa dell’uomo un soggetto, cioè un essere che possiede la capacità di comprendere quello che avviene nella realtà circostante, si pone determinati scopi e compie le rispettive azioni per il loro raggiungimento. Per sua natura il soggetto è attivo. L’autonomia relativa del soggetto è il risultato della sua azione sulla realtà circostante allo scopo di conoscerla e di trasformarla. A differenza del soggetto, l’oggetto è quella realtà che viene conosciuta e trasformata dal soggetto. Tenendo presente che l’uomo sorge ed esiste come membro di una determinata collettività di individui che si trovano nella necessaria interconnessione e interdipendenza tra di loro, cioè come membro della società, dobbiamo considerare la società soggetto universale. Proprio essa viene a conoscere e trasforma il mondo esterno. Per quel che riguarda il singolo individuo, esso si presenta come soggetto solo nella misura in cui esprime in sé l’essenza sociale. Il soggetto possiede un proprio particolare mondo interno che rappresenta un riflesso ideale del mondo esterno, della realtà oggettiva. Questo mondo spirituale interiore del soggetto costituisce la sfera del soggettivo. Il soggettivo è in tal modo tutto quello che si riferisce al mondo spirituale dell’uomo (della società), tutto quello che rientra nella sfera della coscienza, tutto quello di cui il soggetto prende coscienza. Quale mondo spirituale del soggetto, il soggettivo dipende dal soggetto, dalle sue peculiarità, dai suoi tratti specifici, dal suo stato. Ma non tutto nel mondo spirituale del soggetto dipende da esso stesso. Il mondo soggettivo dell’uomo presenta tali lati che sono condizionati dalla realtà oggettiva e non dipendono dal soggetto, cioè dall’uomo e dall’umanità. Questi lati rappresentano l’oggettivo nel soggettivo, sono una particolare forma di esistenza del mondo esterno nel mondo interno del soggetto. Ciò significa che la coscienza, essendo un riflesso oggettivo, consapevole della realtà, rappresenta l’unità del soggettivo e dell’oggettivo. Essa presenta lati che, riflettendo questi o quei aspetti dell’oggetto, non dipendono dal soggetto e quelli che dipendono dal soggetto, dallo stato del suo sistema nervoso, dall’esperienza individuale, dalla condizione sociale, dalle condizioni di vita, ecc. Un’importantissima forma di espressione della soggettività della coscienza è la sua attività che si manifesta nelle azioni conformi allo scopo del soggetto. Prima di agire, il soggetto si pone un determinato scopo, definisce le vie e i mezzi per il suo raggiungimento, prende la decisione di compiere le rispettive azioni, ecc. Insomma, tutte le sue azioni passano attraverso la sfera della coscienza, sono una manifestazione della sua volontà. L’attività della coscienza, essendo una forma di riflesso della soggettività, non solo non esclude l’oggettività del suo contenuto, ma l’accentua. Compiendo queste o quelle azioni conformi allo scopo, il soggetto interviene nei processi oggettivi, li modifica corrispondentemente e in tal modo il soggettivo, contenuto nella coscienza, si trasforma in oggettivo che esiste fuori della coscienza e indipendentemente da essa.
1 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., p. 1107. 2 V. I. Lenin, op cit., vol. 14, p. 126. 3 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 365. 4 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 571. 5 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 336. 6 Ibidem. 7 P. H. Holbach, op. cit., p. 13. 8 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 529. 9 Ibidem, p. 364. 10 Roy K. Marshall, The Nature of Things. N. Y., 1951, p. 47. 11 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., VOI. XXV, pp. 57-58. 12 A. S. Eddington, The Nature of the Physical World. Cambr., 1931, p. 198. 13 V. I. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 171. 14 Si veda: Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cít., vol. XXV, p. 466. 15 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 461. 16 Karl Marx, Il Capitale. Roma, Edizioni Rinascita, I (I), p. 196. 17 Karl Marx, Il Capitale, cit., p. 28.
Capitolo V LA CONOSCENZA 1. L’ESSENZA DELLA CONOSCENZA La conoscenza è un riflesso della realtà nella coscienza dell’uomo, una riproduzione consapevole nella forma di immagini ideali dell’oggetto d’indagine, delle sue proprietà e dei suoi nessi. I rappresentanti della filosofia idealistica si schierano contro la tesi sulla conoscenza come riflesso della realtà. Così, gli idealisti soggettivi riducono la conoscenza all’accertamento dell’interconnessione tra le sensazioni e le rappresentazioni, da essi considerate base di ogni essere. Mentre gli idealisti oggettivi presentano la conoscenza come autoevoluzione dell’idea (della ragione), processo che non ha alcun rapporto con il mondo materiale. «... Noi scriveva, ad esempio, Leibniz - otteniamo i nostri pensieri dalla nostra propria essenza senza alcun influsso diretto delle altre cose sull’anima»1. Anche se i fautori della data concezione riconoscono la conoscibilità del mondo, essi, staccando la conoscenza dalla realtà, dai mutamenti pratici che vi avvengono, ostacolano di fatto il raggiungimento della vera conoscenza. A differenza dei filosofi che ammettono la conoscibilità del mondo ma deformano l’essenza della conoscenza, gli agnostici (dal greco ágnostos, «inconoscibile») negano in generale la possibilità di conoscere la realtà circostante. I rappresentanti dell’agnosticismo sono Kant, Hume ed altri. Hume, ad esempio, ragionava così: al nostro intelletto non può essere mai accessibile nulla, all’infuori delle immagini o delle impressioni. Da dove prendiamo queste immagini, noi non lo sappiamo. Forse sono il risultato dell’azione degli oggetti sui nostri organi di senso, forse «derivano dall’energia dell’intelletto stesso», ma forse sono il risultato dell’azione di uno spirito invisibile e ignoto o di qualsiasi altra causa. Tutto ciò, egli prosegue, dovrebbe dircelo l’esperienza, ma essa tace su questo punto e non può non tacere, poiché l’intelletto, avendo a che fare solo con le impressioni, non è in grado di confrontare le impressioni e l’oggetto. Ogni esperienza nel dato caso si ridurrà alle impressioni e al rapporto tra le impressioni. Il riferimento di Hume all’esperienza che testimonierebbe dell’impossibilità di conoscere la realtà oggettiva, è assolutamente privo di fondamento. L’esperienza, a considerarla materialisticamente come attività pratica degli uomini, dimostra proprio il contrario. Essa mostra che l’uomo è in grado di conoscere il mondo circostante, che la conoscenza è un riflesso nella coscienza della realtà oggettiva nella forma di immagini ideali. Dicendo che la conoscenza è un processo di riflesso della realtà nella coscienza dell’uomo, bisogna sottolineare che questo riflesso non è passivo, meccanico, ma è un’intensa attività creatrice. Il soggetto riflette non tutto quello che si trova nel suo campo visivo, ma quello che è necessario per la sua attività vitale, è legato in un modo o nell’altro ai suoi bisogni e può essere utilizzato per soddisfarli. Realizzando il processo della conoscenza, gli uomini si pongono questi o quegli scopi che determinano la cerchia degli oggetti prescelti per essere indagati, l’indirizzo dello sviluppo del sapere, le forme in cui avviene questo processo, ecc. A sua volta il contenuto di questi scopi è determinato dal livello di sviluppo della società, in particolare dal livello di sviluppo delle forze produttive e dai rapporti di produzione degli uomini, nonché dal livello di sviluppo del sapere stesso. Ad esempio, oggi l’uomo si pone, in particolare, scopi come quelli di conoscere le leggi dell’interazione delle particelle «elementari» che costituiscono il nucleo atomico, la struttura delle molecole che condizionano i processi vitali nell’organismo, il meccanismo di accumulazione e di trasmissione delle informazioni. In un passato non tanto lontano i suoi scopi nella sfera delle scienze naturali erano ben più modesti: accertare le proprietà chimiche e fisiche delle sostanze (che si manifestano nel processo della loro interazione), descrivere e classificare gli organismi viventi. 2. LA PRATICA COME FONDAMENTO DELLA CONOSCENZA Il carattere attivo della conoscenza è condizionato non solo dal fatto che essa persegue sempre scopi ben precisi, ma anche dal fatto che il processo della conoscenza avviene nel corso della trasformazione ad opera dell’uomo della realtà, nel corso dell’influsso pratico sul mondo. Nel conoscere la realtà circostante, l’uomo non può e non deve rimanere semplice osservatore, contemplatore passivo di quello che vi avviene. Se l’uomo si limiterà solo ad osservare, a contemplare l’oggetto d’indagine, potrà conoscerne solo alcune proprietà, per giunta esteriori, proprietà che non basteranno per farsi un’idea precisa dell’essenza di questo oggetto. Per scoprire l’essenza dell’oggetto, è necessario agire su di esso, porlo in rapporti distinti da quelli in cui si trova allo stato naturale. Modificando lo stato naturale dell’oggetto d’indagine, l’uomo penetra passo per passo nei suoi segreti, mette in luce la sua essenza, esprimendola per mezzo di queste o quelle immagini ideali. La modificazione pratica della realtà è in tal modo la necessaria condizione per conoscerla. La conoscenza può progredire solo sulla base della pratica. La pratica ha al riguardo un ruolo determinante. Essendo alla base della conoscenza, essendo la necessaria condizione perché l’intelletto umano possa penetrare l’essenza delle cose e dei fenomeni del mondo esterno, la pratica è lo scopo finale della conoscenza, ne è la forza motrice. Infatti, affinché la produzione possa funzionare e svilupparsi, occorre conoscere i necessari lati e nessi di quei campi della realtà che vengono abbracciati dall’attività pratica degli uomini e che vengono trasformati nell’interesse della società. Ma le cognizioni si acquistano nel processo della conoscenza della realtà, processo di cui si occupa soprattutto la scienza. La missione principale della scienza consiste nell’assicurare alla società, e in particolare alla produzione, le cognizioni necessarie per il loro funzionamento e sviluppo. La pratica sociale pone alla scienza determinati compiti, risolvendo i quali la scienza penetra sempre più profondamente nel mondo dei fenomeni, apre sempre nuove proprietà e nessi, progredendo così continuamente. «Quando la società scrisse Engels - ha dei bisogni tecnici, questo è per la scienza un aiuto più grande di dieci università»2. Che lo sviluppo del sapere dipende dalla pratica, dai problemi che essa pone, lo mostra chiaramente la storia dell’evoluzione della scienza. Ad esempio, tali rami del sapere scientifico come la meccanica, l’idrostatica, l’idrodinamica ottennero notevole sviluppo in quella epoca in cui la pratica pose di fronte alla scienza il problema dei metodi meccanici di allontanamento dell’acqua dalle miniere e di sollevamento dei pesi. inoltre, la scienza dei fenomeni elettrici fece notevoli passi in avanti solo dopo che era stata scoperta la possibilità di utilizzarli. Analogamente stavano le cose anche per quanto riguarda lo studio dei processi nucleari. L’impetuoso sviluppo di questo ramo dello scibile è stato una conseguenza della scoperta delle vie per l’utilizzazione pratica dell’energia atomica. Quindi la pratica esercita un influsso determinante sulla conoscenza, è alla base del suo sviluppo. Alcuni filosofi premarxisti, e in particolare Hegel, pure ammettevano il ruolo determinante della pratica nel processo della conoscenza. Il processo della conoscenza, secondo Hegel, avviene solo attraverso l’attività creatrice. Ma presso Hegel la pratica si presenta solo come l’attività riflessiva, creatrice dell’idea, che edifica nel corso dello sviluppo della ragione autocosciente i singoli concetti e dopo di essi il mondo sensibile. Ma in realtà la pratica rappresenta l’attività materiale degli uomini, volta a modificare, a trasformare la realtà circostante. Si riferisce ad essa prima di tutto l’attività produttiva, legata alla modificazione delle cose della natura al fine di renderli adatti al soddisfacimento di questi o quei bisogni della società. L’uomo modifica però non solo la natura, ma anche la vita sociale, i rapporti fra gli uomini, le varie istituzioni sociali, ecc. Perciò si riferisce alla pratica anche l’attività sociale degli uomini, in particolare la lotta di classe che porta in ultima istanza alla modificazione dei rapporti di produzione e insieme ad essi anche di tutta la vita sociale degli uomini. 3. IL CAMMINO DIALETTICO DELLA CONOSCENZA Realizzandosi sulla base della pratica, la conoscenza muove continuamente dalla vivente intuizione al pensiero astratto e da questo alla pratica come criterio della verità delle conoscenze ottenute3. 1. La vivente intuizione La vivente intuizione è un riflesso sensibile della realtà. Essa avviene attraverso la percezione immediata delle cose e dei fenomeni del mondo esterno per mezzo degli organi dei sensi dell’uomo. A differenza dell’intuizione passiva, la vivente intuizione presuppone un’azione attiva sull’oggetto di conoscenza, una sua modificazione conformemente allo scopo e sorge nel corso di questa azione. La vivente intuizione è legata a tali forme di riflesso della realtà come la sensazione e la percezione. La sensazione è un’immagine concreta dell’oggetto che agisce direttamente sugli organi dei sensi. In seguito all’azione dell’oggetto su questo o quell’organo dei sensi si irritano determinate cellule nervose. Questa irritazione viene trasmessa tramite i nervi afferenti alla corteccia degli emisferi cerebrali e ne eccita questo o quel settore. La fonte di eccitazione sorta nella corteccia condiziona la presa di coscienza dell’azione indicata e il riflesso di questa o quella proprietà dell’oggetto agente nella forma di una rispettiva immagine concreta: il colore, l’odore, il suono, il sapore, una determinata forma, la morbidezza, la ruvidezza, ecc. La sensazione è in tal modo «il risultato dell’azione della materia sui nostri organi dei sensi»4, «la trasformazione dell’energia dello stimolo esterno in un fatto della coscienza»5. Questa o quella sensazione non riflette tutto l’oggetto, ma solo alcuni suoi lati e proprietà. Ma in quanto l’oggetto di regola agisce sugli organi dei sensi con molti suoi lati, sorge non una ma una moltitudine di sensazioni diverse, organicamente collegate, le quali forniscono nel loro insieme un’immagine più o meno integra dell’oggetto agente. Questa immagine integra è la percezione. La percezione, in tal modo, è un’immagine integra che sorge nel cervello dell’uomo in seguito all’azione di questo o quell’oggetto sugli organi dei sensi. Cessata l’azione dell’oggetto, la percezione scompare, ma i nessi nervosi temporanei, sulla base dei quali è sorta, non scompaiono subito, ma continuano ad esistere per certo tempo. Come risultato l’uomo può in seguito riprodurre nella sua coscienza l’immagine dell’oggetto che in precedenza aveva agito sui suoi organi dei sensi. L’immagine dell’oggetto che in precedenza aveva agito sugli organi dei sensi, riprodotta nella coscienza, si chiama rappresentazione. Per il suo contenuto la rappresentazione è meno ricca e meno nitida della percezione, riproduce solo parte delle proprietà dell’oggetto che ha agito sugli organi dei sensi. Ma essa presenta una serie di vantaggi, rispetto alla percezione. A differenza della percezione che, essendo sempre legata a questo o quell’oggetto concreto, frena l’attività conoscitiva della coscienza, limitandola al quadro ristretto di un dato caso concreto, la rappresentazione non presuppone un tale legame immediato con l’oggetto, permette di realizzare la conoscenza di quest’ultimo in sua assenza ed estende così le possibilità dell’attività conoscitiva della coscienza. Inoltre, essendo l’immagine di un oggetto o fenomeno concreto, la percezione è sempre individuale, singolare. Mentre la rappresentazione può essere anche un’immagine generale, può fissare solo quello che si ripete in una serie di oggetti e fenomeni simili. Ad esempio, parallelamente alla rappresentazione di un albero o di un uomo concreto, possiamo avere una rappresentazione dell’albero in generale, dell’uomo in generale. Di conseguenza, a differenza della percezione che lascia la coscienza prigioniera del singolare, dell’individuale, la rappresentazione la fa uscire dai limiti del singolare, le permette di individuare il generale e di tenerlo presente nelle rispettive azioni mentali. Il riflesso della realtà attraverso le rappresentazioni esce dai limiti della vivente intuizione che ha a che fare solo con le sensazioni e le percezioni. Il riflesso della realtà oggettiva attraverso le sensazioni, le percezioni e le rappresentazioni si suole chiamarlo conoscenza sensibile. In tal modo, la vivente intuizione non è identica alla conoscenza sensibile, essa è qualcosa di più ristretto, rispetto a quest’ultima. Dopo aver esaminato le forme fondamentali di conoscenza sensibile possiamo definirne le peculiarità. Il più importante tratto distintivo della conoscenza sensibile è che essa collega noi direttamente con il mondo esterno. Le sensazioni e le percezioni sono una conseguenza dell’azione diretta degli oggetti del mondo esterno sugli organi dei sensi. Inoltre, la conoscenza sensibile è concreta. Qui il mondo è riflesso in immagini concrete. Infine, la conoscenza sensibile riflette solo ciò che è alla superficie dei fenomeni, i lati esterni degli oggetti, che di regola sono mutevoli, casuali. Ma l’uomo lo interessano i lati e nessi stabili, necessari, le leggi del funzionamento e sviluppo degli enti materiali, poiché la sua attività pratica è basata su ciò che si ripete inevitabilmente in queste e quelle condizioni, su quello che è necessario. Ma il necessario, le leggi non si prestano alla percezione immediata, costituiscono l’interno dei fenomeni. Tutto ciò testimonia della limitatezza della conoscenza sensibile e della necessità di passare a forme nuove, più perfette, capaci di riflettere l’interno, il necessario, le leggi che si manifestano nella realtà circostante. Queste nuove forme di conoscenza della realtà sono le forme di pensiero astratto. 2. Il pensiero astratto Prima di esaminare le peculiarità del pensiero astratto, dobbiamo stabilire che cosa è il pensiero in generale, che cosa esso rappresenta come particolare fenomeno sociale. Pensare vuol dire distinguere nella coscienza questi o quei lati o proprietà dell’oggetto d’indagine e collegarli in combinazioni particolari al fine di conseguire un nuovo dato della conoscenza. Da esempio elementare di operazione mentale può servire la soluzione di un problema matematico. Ammettiamo che dobbiamo stabilire quante calzature devono essere prodotte il prossimo anno in un paese, se è noto che la sua popolazione è di 200 milioni di persone e ogni persona consuma nel corso dell’anno in media 3 paia di calzature. Inoltre, si sa che il tasso medio annuo d’incremento della popolazione è di 15 persone per 1.000 abitanti. Risolvendo il dato problema, discerniamo determinati dati di fatto, li poniamo in una determinata connessione (rapporto) tra di loro e arriviamo così ad una nuova conoscenza. Così, rivolgiamo la nostra attenzione al numero totale degli abitanti che conta attualmente il paese (200 milioni), poi al tasso medio annuo d’incremento della popolazione, colleghiamo questi due fatti e otteniamo i dati sul numero degli abitanti che conterà il paese nel prossimo anno (203 milioni). Questa nuova conoscenza noi la colleghiamo con il fabbisogno annuo in calzature per abitante (che ci è noto) e otteniamo una cifra che indica il fabbisogno totale in calzature della popolazione nel prossimo anno. Così, discernendo i singoli dati di fatto e collegandoli in queste o quelle combinazioni per ottenere le informazioni che ci mancano, noi pensiamo e nel corso di questa attività mentale risolviamo il nostro problema. La facoltà di pensare è sorta insieme alla coscienza sulla base dell’attività lavorativa degli uomini. In un primo tempo, nelle fasi iniziali di sviluppo della società umana, essa aveva una forma oggettivata. Compiendo queste o quelle operazioni mentali, gli uomini in quella epoca distinguevano e collegavano in nuove combinazioni le immagini concrete: le sensazioni, le percezioni, le rappresentazioni che sorgevano in essi nel corso della modificazione pratica della realtà circostante, nonché gli oggetti stessi e i fenomeni stessi che toccava loro di incontrare nella vita quotidiana. In seguito, man mano che si sviluppava la produzione, l’uomo incominciava a far astrazione dai dati concreti, sensibili, a distinguere il generale nel singolare e a creare su questa base prima le rappresentazioni generali e in seguito i concetti, immagini ideali prive di perspicuità e riflettenti le proprietà e i nessi sostanziali generali degli oggetti e dei fenomeni della realtà circostante. Con il sorgere dei concetti fa la sua apparizione il Pensiero astratto. È la facoltà di discernere e di collegare i concetti allo scopo di acquisire nuove conoscenze. Il concetto è una forma qualitativamente nuova di riflesso della realtà, la quale si distingue sostanzialmente dalle sopraesaminate forme di conoscenza sensibile. A differenza di queste ultime, il concetto è privo di perspicuità. Non si può, ad esempio, presentare in vesti concrete l’elemento chimico, la valenza, il patriottismo, il coraggio, la democrazia, ecc. Tutte queste immagini ideali sono dei pensieri che esprimono una rispettiva comprensione di questo o quello stato di cose. Inoltre, se le immagini sensibili la sensazione, la percezione, la rappresentazione - riflettono le proprietà e i nessi esterni degli oggetti e dei fenomeni della realtà, il concetto rispecchia le proprietà e i nessi interni, essenziali, quello che è proprio per natura alle cose. Nel processo dell’attività riflessiva i concetti, entrando in interconnessione e interdipendenza fra di loro, creano altre forme di riflesso della realtà, in particolare il giudizio e la deduzione. Il giudizio è la più semplice forma del pensiero, la quale rispecchia attraverso una determinata interconnessione dei concetti o delle rappresentazioni la presenza o l’assenza dei nessi tra gli oggetti e le loro proprietà. Sono, ad esempio, giudizi i seguenti pensieri: «l’uomo è un essere sociale», «il capitalismo genera la disoccupazione», «nella società capitalistica il proletario non è proprietario dei mezzi di produzione». Il primo pensiero fissa il nesso fra l’uomo e la società; il secondo il nesso fra il capitalismo, da una parte, e la disoccupazione, dall’altra; il terzo esprime l’assenza del nesso fra il proletariato e la proprietà dei mezzi di produzione nella società capitalistica. La deduzione è una forma del pensiero, la quale rappresenta una tale connessione tra i giudizi che permette di formulare un nuovo giudizio, contenente una nuova idea. Può servire da esempio di deduzione il seguente ragionamento: «Tutti i cittadini di un paese socialista hanno il diritto al lavoro e al riposo. Carlo è cittadino di un paese socialista. Carlo ha il diritto al lavoro e al riposo». Qui i primi due giudizi sono tra di loro in una tale connessione che permette di esprimere un nuovo giudizio che racchiude in sé una nuova idea. Collegando i rispettivi concetti in giudizi, e i giudizi in deduzioni, l’uomo pensa e nel corso di questa attività mentale riproduce nella coscienza, nella forma di un sistema di immagini ideali, i necessari lati e nessi della realtà, l’essenza dell’oggetto d’indagine. La capacità di penetrare l’essenza della sfera indagata della realtà, l’individuazione dei necessari lati e nessi interni, ad essa propri, rappresentano la caratteristica più importante del pensiero astratto che lo distingue dalla conoscenza sensibile. Un altro tratto distintivo del pensiero astratto è il carattere mediato del riflesso. Operando con concetti, giudizi e deduzioni, il pensiero astratto non è legato direttamente all’oggetto d’indagine, esso ha a che fare con i dati sensibili su questo oggetto, ottenuti nel processo della conoscenza sensibile. Proprio questi dati sensibili assolvono il ruolo di istanza mediatrice che separa il pensiero astratto dalla realtà e al tempo stesso lo collega con esso. 3. L’interconnessione del sensibile e del razionale nella conoscenza Abbiamo visto che l’uomo viene a conoscere il mondo circostante per mezzo della vivente intuizione e del pensiero astratto. Ma quale è la parte di ciascuno di questi modi di conoscere la realtà oggettiva? I sensualisti ritenevano che nel processo della conoscenza il momento determinante è l’esperienza sensibile. Mentre il pensiero astratto, dal loro punto di vista, assolve solo un ruolo collaterale, praticamente non aggiunge nulla a quello che è stato ottenuto nel processo della conoscenza sensibile. «Nell’intelletto umano affermavano i sensualisti - non vi è nulla che non sia già presente nei dati sensibili». I nazionalisti affermavano l’opposto. Secondo loro, è determinante il pensiero astratto, la ragione, e non i sensi. I sensi, essi dichiaravano, deformano la realtà, ci traggono in errore, per ciò non si può partire da essi nel processo della conoscenza della verità. L’unico arbitro imparziale è la ragione, solo essa può portare alla verità. Ma come si risolve in realtà il problema: quale dei suddetti cammini della conoscenza è determinante? Né la conoscenza sensibile né il pensiero astratto sono in grado, separatamente, in distacco l’una dall’altro, di assicurare la vera conoscenza dell’essenza dell’oggetto d’indagine. La conoscenza sensibile si limita a fissare ciò che è alla superficie dei fenomeni e non è in grado di penetrarne l’essenza. Il pensiero astratto può penetrare l’essenza, ma esso non dispone dei necessari dati sull’oggetto d’indagine, poggiando sui quali si potrebbe riprodurne nella coscienza l’essenza. Questi dati gli fornisce la conoscenza sensibile. Perciò è evidente che non si può contrapporre la conoscenza sensibile al pensiero astratto e viceversa. L’essenza può essere conosciuta solo con gli sforzi congiunti dell’una e dell’altro. L’interconnessione del sensibile e del razionale nella conoscenza si esprime non solo nel fatto che essi completano e suppongono l’uno l’altro, ma anche nel fatto che essi si compenetrano reciprocamente. Della vivente intuizione ne è caratteristica anche l’attività mentale, nel processo della quale si adoperano le immagini concrete, in particolare le rappresentazioni. Percependo queste o quelle proprietà dell’oggetto d’indagine, l’uomo le considera alla luce dei concetti disponibili e ne prende così coscienza. Ma la derivazione del particolare dal generale e la formulazione su questa base di un giudizio contenente una nuova conoscenza, non è altro che la deduzione, una delle forme del pensare. Inoltre, fissando le proprietà accertate dell’oggetto, l’uomo lo confronta con gli altri oggetti che gli sono noti, e ne stabilisce la somiglianza o la differenza. E anche ciò avviene nella forma di deduzione. In tal modo, la conoscenza sensibile che rispecchia l’oggetto d’indagine nella forma di sensazioni, percezioni e rappresentazioni, è organicamente legata al pensiero, include in sé quest’ultimo come uno dei momenti necessari. Non è assolutamente esente da immagini concrete anche il pensiero astratto. Operando con i concetti astratti, esso deve avere nel suo campo visivo quell’oggetto concreto, la cui essenza è chiamato a scoprire e ad esprimere nella forma di concetti astratti. Quindi la conoscenza sensibile e il pensiero astratto sono in interconnessione e interdipendenza organica tra di loro, e nel processo del loro funzionamento e sviluppo si compenetrano reciprocamente e passano l’una nell’altro. 4. La conoscenza empirica e teorica Nell’esaminare il processo della conoscenza alla luce della compenetrazione reciproca del sensibile e del razionale, della vivente intuizione e del pensiero astratto si rende necessario distinguere i livelli empirico e teorico della conoscenza. La conoscenza empirica è caratterizzata dal fatto che essa ha a che fare con il fenomeno, con quello che è alla superficie dell’oggetto, cioè con i suoi lati e nessi esterni. Qui prevalgono le forme sensibili di riflesso della realtà: le sensazioni, le percezioni, le rappresentazioni. I concetti, i giudizi e le deduzioni al dato livello della conoscenza sono strettamente legati ai dati sensibili, alla loro elaborazione mentale: la fissazione, l’analisi, il raggruppamento, l’individuazione delle proprietà generali e particolari degli oggetti d’indagine. La conoscenza empirica descrive il comportamento dell’oggetto d’indagine, fissa i mutamenti che avvengono in esso e trae dai dati che vengono accumulati le rispettive conclusioni generali. È vero, queste conclusioni sono di scarso valore per la scienza e la pratica, in quanto non fanno che costatare quello che è, quello che si osserva nel corso degli esperimenti, ma non possono spiegarne il perché, non possono stabilire se ciò si presenta necessariamente nelle date condizioni. Ciò può essere stabilito solo dalla conoscenza teorica. Sviluppandosi sulla base della conoscenza empirica, la conoscenza teorica non si limita a contemplare solo la superficie dei fenomeni, ma penetra la loro natura, mette in luce le cause che li condizionano. Poggiando sui dati empirici, essa mira a scoprire i necessari lati e nessi dell’oggetto d’indagine, le leggi del suo funzionamento e sviluppo e a spiegare, partendo da essi, i fenomeni osservati. Il compito della conoscenza teorica consiste, in tal modo, nel «ricondurre il movimento apparente, puramente fenomenico, al movimento reale interno...»6. La conoscenza teorica opera con i concetti, i giudizi e le deduzioni e attraverso la loro interconnessione riproduce nella coscienza l’essenza dell’oggetto d’indagine. 5. La pratica come criterio della verità I vari filosofi spiegano in modo diverso la questione del criterio della verità. Alcuni proclamano criterio della verità la chiarezza del pensiero (Descartes), altri la sensibilità, la percezione immediata di questo o quello stato di cose (Feuerbach), terzi il valore universale (machista Bogdanov), quarti l’utilità (Dewey), ecc. Ma tutti questi fattori non possono farci uscire dai limiti della nostra opinione soggettiva e perciò non sono capaci di distinguere la verità dall’errore. Infatti, la chiarezza del pensiero, ad esempio, testimonia della comprensione di un dato stato di cose da parte del soggetto, ma non della corrispondenza di questo stato di cose alla realtà. Si può sbagliare anche in buona fede. La percezione immediata di questo o quel fenomeno pure può essere ingannevole, deformata. Ad esempio, a grande distanza un oggetto ci pare più piccolo di quanto lo sia effettivamente, ma in realtà esso è sempre lo stesso. Inoltre, il fatto che questa o quella tesi è considerata vera da molte persone, pure non ne esclude l’erroneità, poiché possono sbagliarsi molti. Ad esempio, molti credono nell’esistenza dei diavoli, dell’inferno, del paradiso, ecc. Si avranno i medesimi risultati se utilizzeremo come mezzo per la verifica della verità momenti come l’utilità o la fede. Per queste o quelle persone può rivelarsi utile anche una tesi falsa. Ad esempio, è utile alla borghesia l’idea che lo Stato capitalistico esprime gli interessi di tutte le classi. Ma ciò non corrisponde alla realtà, poiché lo Stato borghese esprime gli interessi degli sfruttatori, in particolare della borghesia, ed è volto contro i lavoratori. Ma come in tale caso controllare la verità di questa o quella enunciazione? La verità delle nostre conoscenze deve essere controllata con la pratica. Solo la pratica può decidere definitivamente che cosa è vero e che cosa è falso. L’idea della pratica come criterio della verità è stata per la prima volta avanzata e conseguentemente sviluppata dal marxismo. Marx scriveva: «La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere... del suo pensiero»7. Infatti, per provare la verità di questa o quella enunciazione, è necessario, appogiandosi su di essa, effettuare queste o quelle azioni pratiche. E se si ottengono i risultati attesi, la tesi enunciata è vera, ma se i risultati saranno diversi, essa è falsa. Ad esempio, dobbiamo provare la verità della tesi che il calore può trasformarsi in moto meccanico. Per farlo, costruiamo una macchina a vapore, fondata sul principio della conversione dell’energia termica in quella meccanica. Il lavoro della macchina mostrerà che la data affermazione è vera, corrisponde al reale stato di cose. 6. La verità oggettiva. L’interconnessione dell’assoluto e del relativo nella verità Abbiamo già rilevato che le conoscenze ottenute nel processo della conoscenza empirica e teorica diventano vere solo se trovano conferma nell’attività pratica. Ma che cosa sono le conoscenze vere? In che cosa si distinguono dalle conoscenze non vere? La conoscenza vera è una conoscenza che corrisponde alla realtà, riflette il reale stato di cose. Essendo conforme alla realtà, la vera conoscenza «è indipendente sia dall’uomo che dal genere umano»8. Gli uomini non possono arbitrariamente, a proprio avviso, modificare il contenuto delle tesi vere. Ad esempio, la tesi che l’energia elettrica può trasformarsi in calore e in moto meccanico, e questi ultimi in elettricità, essendo una tesi Vera che riflette la realtà, non può essere modificata dagli uomini, essi non sono in grado di farlo. Perciò si può dare la seguente definizione della verità oggettiva. La verità oggettiva è un tale contenuto delle nostre conoscenze che riflette il reale stato di cose e perciò non dipende né dall’uomo né dal genere umano. Ma dando una tale definizione, non affermiamo forse noi stessi, dopo i metafisici, che la verità in generale non può mutare, che essa è eterna? No, non lo affermiamo. Anche se gli uomini non possono modificare arbitrariamente il contenuto della verità, esso si modifica inevitabilmente nel corso dello sviluppo della conoscenza sociale e della pratica. Ciò è determinato prima di tutto dal fatto che il processo della conoscenza non segna il passo, ma si sviluppa continuamente sulla base della pratica sociale. Nel corso della conoscenza gli uomini penetrano sempre più profondamente nella realtà circostante, ne scoprono sempre nuovi lati e nessi e così precisano, completano, arricchiscono le proprie conoscenze, le rendono più conformi all’esistente stato di cose. Ad esempio, il fisico tedesco Julius Plücker, facendo passare la corrente elettrica attraverso un tubo a gas rarefatto, scoprì nel 1858 i cosiddetti raggi catodici. Più tardi, nel 1869, Johann Hittorf stabilì che questi raggi si diffondono rettilineamente, deviano sotto l’azione di un campo magnetico, vengono assorbiti dai solidi, ecc. In seguito, nel 1879, il fisico inglese William Crookes espresse l’idea che i raggi catodici rappresentano un flusso di minuscole particelle che escono dal catodo e si muovono ad immensa velocità. Queste particelle, secondo Crookes, sono cariche di elettricità negativa e fanno parte di tutti gli atomi. Una conferma sperimentale dell’idea di Crookes fu data da John Thompson nel 1897. Queste particelle furono chiamate elettroni su proposta del fisico canadese Johnstone Stoney. L’esempio da noi riferito mostra come nel processo di sviluppo del sapere le nostre cognizioni sull’elettrone andassero continuamente modificandosi, diventando più precise e più complete. La data circostanza dimostra in modo abbastanza convincente che la verità oggettiva è relativa, che il suo contenuto dipende in un modo o nell’altro dal livello di sviluppo della conoscenza sociale e della pratica. La verità oggettiva non può rimanere immutabile anche per il fatto che la realtà, da essa riflessa, non sta ferma, ma è in continuo mutamento e sviluppo. Ma se l’oggetto di riflesso muta, passa da uno stato qualitativo all’altro, se scompaiono alcune sue proprietà e nessi e ne sorgono altri, allora anche le nostre conoscenze su di esso non possono rimanere immutabili. Per essere vere, esse devono inevitabilmente essere modificate, devono essere completate, rese conformi alla realtà mutata. Ad esempio, le nostre conoscenze sul proletariato della Russia non potevano rimanere immutate dopo che esso aveva compiuto la rivoluzione socialista, aveva instaurato nel paese la propria dittatura e costruito il socialismo. Perché corrispondano alla realtà, dobbiamo completarle di nuovi dati che caratterizzino la condizione sociale della classe operaia, il suo posto e il suo ruolo nella società socialista. Poi, la verità oggettiva è tale solo entro limiti determinati, a condizioni rigorosamente determinate. Se si esce da questi limiti, se mutano le condizioni, la conoscenza vera si trasforma in conoscenza non vera. Ad esempio, la tesi sulla possibilità di compiere la rivoluzione socialista per via pacifica è vera non sempre e non per tutti i paesi, ma solo per quei paesi in cui sono sorte le rispettive condizioni, in particolare per i paesi dove il proletariato ha effettivamente la possibilità di attrarre dalla propria parte la maggioranza della popolazione, di vincere alle elezioni politiche, di formare un proprio governo e di procedere per via pacifica se la borghesia non opporrà la resistenza armata alla trasformazione in senso socialista dei rapporti sociali. Ciò mostra che la verità è sempre concreta. Quindi, la verità oggettiva è relativa, essa muta inevitabilmente in seguito allo sviluppo della conoscenza sociale, in seguito al mutare della realtà riflessa e delle sue condizioni di esistenza. Ma se la verità non è immutabile, eterna, ma muta inevitabilmente, dipende dal livello di sviluppo della conoscenza sociale, ciò non esclude forse la sua oggettività, la sua indipendenza dall’uomo e dal genere umano? No, non lo esclude. Al contrario, il suddetto mutare della verità è una delle condizioni per assicurarne l’oggettività, in quanto contribuisce a rendere le nostre conoscenze più rispondenti al vero stato di cose. Un esempio del come il mutare della verità contribuisca ad accrescerne l’oggettività è lo sviluppo delle nostre conoscenze sulla radiazione termica. Già nella più remota antichità gli uomini costatarono che la fiamma emette raggi termici. In un primo tempo si pensava che la radiazione termica fosse dovuta solo ai processi di combustione, ma poi fu scoperto che possiedono tale proprietà anche i corpi roventi e alla fine del XVII si venne a sapere che la possiedono anche i corpi non arroventato ma riscaldati. Nel XVIII secolo gli scienziati (Pierre Prevost, 1791) giunsero alla conclusione che la radiazione termica è caratteristica di tutti i corpi indipendentemente dalla loro temperatura. Sempre nel XVIII secolo fu stabilito (Johann Heinrich Lambert, 1779) che la diffusione e la riflessione dei raggi termici avviene analogamente alla diffusione e alla riflessione dei raggi luminosi, che la quantità di raggi termici emessi da un corpo è proporzionale all’aumento della sua temperatura (John Leslie). Fu poi osservato che i corpi che emettono una forte quantità di calore, possiedono una maggiore capacità di assorbimento di esso e viceversa. Infine, nel 1800, fu stabilito (Frederik William Herschel) che nelle regioni diverse dello spettro il calore non si distribuisce in modo uniforme, che l’effetto termico è particolarmente notevole in quella regione dello spettro che corrisponde al color rosso e diminuisce in direzione del color violetto. Noi vediamo come le nostre conoscenze sulla radiazione termica siano andate modificandosi con lo sviluppo della conoscenza sociale. Ma esse sono forse diventate meno oggettive a causa di tutto ciò? Hanno cessato forse di essere attendibili, in particolare, i dati degli antichi, secondo cui la fiamma emette raggi termici? No di certo. Il mutare delle nostre conoscenze sulla radiazione termica le rendeva sempre più vere, sempre più oggettive, di modo che esse rispecchiavano con più precisione il vero stato di cose. Infine, se le nostre cognizioni sono sempre relative, mutano inevitabilmente nel processo di sviluppo della conoscenza sociale e della pratica, ciò non dimostra forse l’assenza di verità assoluta, non ne rende forse impossibile l’esistenza? Proprio una tale conclusione traggono dalla relatività, dalla mutabilità delle nostre conoscenze i relativisti. Per il materialismo dialettico la relatività delle nostre conoscenze non testimonia dell’assenza di verità assoluta, poiché esso vede nel relativo un elemento dell’assoluto. Secondo il materialismo dialettico, la verità oggettiva è ad un tempo relativa e assoluta. In quanto riflette in modo giusto questi o quei lati e nessi della realtà, essa è assoluta, e in quanto questo riflesso non è sempre completo, non abbraccia e non può abbracciare tutto il contenuto dell’oggetto (che è inesauribile), essa è relativa. Quindi, anche se le nostre conoscenze sono sempre relative, ciò non significa affatto che esse non possano pretendere all’oggettività, e in pari tempo, all’assolutezza. L’esistenza della verità assoluta è necessariamente legata all’oggettività della nostra conoscenza. Lenin scrisse: «Ammettere la verità oggettiva, e cioè la verità indipendente dall’uomo e dal genere umano, vuol dire ammettere, in un modo o nell’altro, la verità assoluta»9. La verità assoluta esiste attraverso le verità relative, attraverso quei lati, momenti delle verità relative che riflettono il reale stato di cose. Ma man mano che progrediscono il sapere e la prassi sociale, la quantità di questi momenti e lati si accresce sempre di più. Al tempo stesso la verità assoluta come la somma in continuo aumento delle verità relative diventa sempre più completa. Ma essa non potrà mai raggiungere la compiutezza definitiva, in quanto il mondo in tutta la sua molteplicità è infinito e perciò non può mai essere esaurito fino in fondo. Alla catena rappresentata dalla verità assoluta andranno aggiungendosi sempre nuovi anelli rappresentati da altrettante nuove verità relative, facendoci avvicinare al riflesso sempre più completo e in questo senso assoluto della realtà, non permettendo però mai di esaurirla fino in fondo. 4. LE FORME E I METODI DI CONOSCENZA SCIENTIFICA Venendo a conoscere la realtà circostante, l’uomo elabora e utilizza le rispettive forme e i rispettivi metodi di riflesso della realtà operando con vari tipi di giudizi, deduzioni e concetti, si fa guidare dalle norme o dai princìpi dell’attività conoscitiva. Le forme e i metodi di conoscenza, adoperati dall’uomo, riflettono i lati e nessi della realtà e le leggi di sviluppo della conoscenza sociale e della pratica. Il metodo di conoscenza rappresenta l’insieme dei criteri o dei princìpi che deve rispettare l’uomo indagando questo o quel campo della realtà. Questi princìpi si formulano in base a questi o quei lati e nessi universali della realtà, in base alle leggi che presiedono al funzionamento e allo sviluppo della conoscenza. Una parte dei suddetti princìpi è applicabile in tutti gli stadi di sviluppo della conoscenza, in tutti i settori di ricerca scientifica, l’altra parte in questo o quello stadio di conoscenza, in questo o quel settore della scienza. In relazione a ciò si distinguono i metodi generali di conoscenza scientifica e i metodi e procedimenti particolari di ricerca scientifica. Esaminiamo dunque alcuni dei metodi e procedimenti generali, utilizzati nel processo della conoscenza scientifica. 1. L’osservazione L’osservazione è una percezione premeditata e conforme allo scopo dei fenomeni riguardanti l’oggetto d’indagine. Essa presuppone la formulazione a priori dello scopo, la definizione dei metodi di raggiungimento di esso, un piano di controllo sul comportamento dell’oggetto, l’impiego degli strumenti che estendono le possibilità di percezione e di fissazione di queste o quelle proprietà dell’oggetto. Il successo dell’osservazione e i suoi risultati dipendono pure da quanto l’osservatore sia competente nel dato campo dei fenomeni, dalla sua preparazione e abilità. 2. L’esperimento L’esperimento è un procedimento di ricerca scientifica che presuppone una rispettiva modificazione dell’oggetto o la riproduzione di esso in condizioni appositamente create. A differenza dell’osservazione, dove il soggetto non si intromette nel fenomeno indagato ma si limita a fissarne lo stato naturale, l’esperimento presuppone un intervento attivo del soggetto nella sfera indagata, l’alterazione dello stato naturale delle cose, non solo, ma l’oggetto viene posto in condizioni diverse specialmente previste. Il ricercatore costringe così l’oggetto a reagire alle nuove condizioni e a manifestare nuove proprietà, non osservabili allo stato naturale. Poi, modificando queste condizioni, egli stabilisce come e in quale direzione mutano queste e le altre proprietà dell’oggetto e raccoglie in tal modo un ricco materiale che caratterizza il comportamento dell’oggetto in una situazione diversa. Effettuando questo o quell’esperimento, il ricercatore parte dai dati disponibili sul dato ordine di fenomeni, ne tiene conto nello scegliere il metodo e le vie concrete per realizzare l’esperimento. Inoltre, egli parte da determinate supposizioni che devono essere confermate o confutate dall’esperimento. In altre parole, anche se l’esperimento è chiamato a fornire nuovi dati concreti sull’oggetto d’indagine, esso è legato non solo alle forme sensibili di conoscenza, ma anche al pensiero astratto. 3. La comparazione La comparazione è un metodo di accertamento della somiglianza e della differenza tra il fenomeno, oggetto di indagine, e altri fenomeni. La comparazione è un metodo indispensabile di ricerca scientifica, largamente applicato nei più diversi stadi di sviluppo della conoscenza. Senza di esso è inconcepibile la conoscenza scientifica. Infatti, la scienza ha lo scopo di individuare ciò che è comune ai fenomeni, ciò che si ripete in essi, e di metterne in luce l’essenza. Comparando l’oggetto d’indagine e altri oggetti, confrontando i dati ottenuti in un momento e in condizioni determinate con i dati ottenuti in un altro momento e in condizioni diverse, noi ne stabiliamo così le caratteristiche comuni. La comparazione aiuta ad accertare quello che si ripete nei fenomeni e a trarre sulla base di ciò queste o quelle conclusioni generali riguardanti l’oggetto d’indagine. 4. L’ipotesi L’ipotesi è una delle più importanti forme del pensare che collegano la conoscenza teorica con quella empirica e che assicurano il passaggio dal riflesso dei momenti esteriori al riflesso dei momenti interiori. L’ipotesi è una supposizione, basata sui dati accertati, intorno alla causa che condiziona questi o quei fenomeni. Un’ipotesi si costruisce nel seguente modo. Dapprima si studiano minuziosamente i fenomeni che si riferiscono all’oggetto d’indagine. Mediante osservazioni e esperimenti si raccolgono dati concernenti le proprietà dell’oggetto, accessibili alla percezione, i suoi mutamenti e i suoi nessi con i fenomeni che lo circondano. Sulla base di un’analisi di questi dati si formula una proposizione circa la causa eventuale della comparsa delle proprietà osservabili, proposizione la cui verità è supposta in vista di conseguenze che se ne possono trarre e che la verificano o no in determinate condizioni. Se questa o quella conseguenza supposta non si verifica, l’ipotesi è considerata erronea. Ma se tutte le conseguenze si verificano, l’ipotesi è considerata scientificamente fondata e in seguito, man mano che viene ulteriormente dimostrata e confermata dall’esperienza, si trasforma in una teoria scientifica, in una conoscenza attendibile. Il processo di costruzione di un’ipotesi e di trasformazione di essa in una conoscenza attendibile può essere seguìto su un esempio come la spiegazione dell’aumento della radioattività di una sostanza esposta all’azione dei neutroni in presenza di sostanze leggere. Nel corso dei loro esperimenti Bruno Pontecorvo e Edoardo Amaldi constatarono che la quantità di radioattività, acquistata da una sostanza in seguito all’irradiazione, dipende dagli oggetti situati accanto. Ad esempio, in caso di irradiazione di un cilindretto d’argento in una cassa di piombo, la sua radioattività era modesta, ma se esso veniva esposto all’azione dei raggi su un supporto di legno, essa cresceva considerevolmente. Analizzando le circostanze in cui si osserva il dato fenomeno, Fermi fece una supposizione circa la causa dell’aumento della radioattività nei casi in cui si trovano accanto alla sostanza irradiata dei corpi leggeri. L’essenza di questa supposizione stava in quanto segue. Penetrando in una sostanza e scontrandosi con questo o quel nucleo, il neutrone perde parte della sua energia. La quantità di energia che esso perde in ogni caso concreto, dipende dal peso del nucleo con cui si scontra. Se esso urta contro un nucleo pesante, ad esempio contro un nucleo di un atomo di piombo, rimbalzerà quasi con la stessa velocità, cioè perderà pochissima energia. Se esso urterà contro un nucleo leggero, in particolare contro un nucleo di un atomo di idrogeno, allora, trasmettendogli parte della propria energia, rimbalzerà con una velocità minore. In tal modo, quanto più leggero è il nucleo, tanto maggiore è la quantità di energia che perderà il neutrone urtando contro di esso. Ma il cambiamento della velocità del neutrone ne aumenta le probabilità di essere catturato dal nucleo degli atomi della sostanza che attraversa, poiché, muovendosi più lentamente, esso interagisce più a lungo con i nuclei che incontra sul suo cammino. Perciò, quando si trova accanto alla sostanza irradiata un corpo leggero, ad esempio il legno che contiene una forte quantità di idrogeno, i neutroni, penetrando in esso, rallentano il loro moto e in tale stato vengono più spesso catturati dai nuclei, il che provoca un aumento della radioattività. Nel supporre la causa dell’aumento della radioattività di una sostanza esposta all’azione dei neutroni, Fermi ne trasse la seguente conclusione: la radioattività delle sostanze irradiate dai neutroni deve aumentare in presenza di qualsiasi sostanza leggera. Per controllare la giustezza di questa conclusione, Fermi decise di irradiare l’argento in un ambiente di paraffina (come si sa, la paraffina contiene un numero di atomi di idrogeno notevolmente più grande che il legno che aumenta la radioattività in presenza dell’argento). L’argento irradiato in un ambiente di paraffina acquistava una radioattività maggiore di quella registrata in caso di irradiazione di esso su un supporto di legno. Questo fatto dimostrava quanto fosse giusta la supposizione di Fermi. L’ipotesi assolve un ruolo eccezionalmente importante nello sviluppo del sapere scientifico. E ciò non è casuale, poiché essa rappresenta una forma di passaggio dalla descrizione alla spiegazione dell’oggetto d’indagine, dalla fissazione delle sue manifestazioni esterne alla riproduzione delle cause interne che le generano. 5. L’analogia Un’altra forma del pensare, la quale permette di realizzare il passaggio dalla conoscenza empirica a quella teorica, è l’analogia. L’analogia è un procedimento mentale, nel corso del quale si trae dalla constatazione di un rapporto di somiglianza per queste o quelle proprietà tra due oggetti una conclusione sulla loro somiglianza anche per quel che riguarda le loro altre proprietà. L’analogia come forma del pensare si applica di solito quando ci si trova di fronte ad un fenomeno più o meno studiato che somiglia ad un altro fenomeno non ancora indagato. Tenendo conto di questa somiglianza, si può supporre che il fenomeno non esplorato ubbidisca alle leggi proprie al primo fenomeno. A fondamento di una tale supposizione è il fatto che tra le proprietà e i rapporti che caratterizzano due oggetti, vi è una certa interconnessione e interdipendenza e perciò alcune proprietà e rapporti comuni ad entrambi portano a presupporne altri. La conclusione per analogia ha un ruolo sostanziale nello sviluppo della scienza. Molte importantissime scoperte scientifiche furono fatte estendendo le leggi proprie ad un ordine di fenomeni ai fenomeni di un altro ordine. Così, il fisico olandese Christian Huygens trasse una conclusione sulla natura ondulatoria della luce in base alla somiglianza tra quest’ultima, per tutta una serie di proprietà, e un fenomeno come il suono. Krónig, confrontando il movimento delle molecole di gas con il movimento delle palle elastiche e costatando alcuni tratti comuni di questo processo, calcolò la pressione del gas. La somiglianza che si ha tra il movimento di un liquido lungo un tubo e quello degli elettroni lungo un conduttore servì di base all’elaborazione della teoria della corrente elettrica. Infine, la scoperta di una certa somiglianza tra i processi di riflesso dell’organismo vivente e alcuni processi fisici ha contribuito alla creazione dei rispettivi congegni cibernetici. 6. La modellazione Una stretta connessione tra la conoscenza empirica e quella teorica e il passaggio dalla prima alla seconda sono resi possibili anche grazie ad un procedimento di ricerca scientifica come la modellazione. La modellazione rappresenta la riproduzione di determinate Proprietà e nessi dell’oggetto d’indagine in un altro oggetto appositamente creato, cioè nel modello, al fine di studiarli più a fondo. Può servire da esempio di modello la carta geografica che riproduce determinate caratteristiche della superficie del globo terrestre. Sono modelli le macchine cibernetiche che imitano le proprietà del cervello umano, le formule strutturali che riproducono le proprietà e i nessi della molecola di questa o quella sostanza, dell’atomo, ecc. La modellazione presenta una notevole somiglianza con il metodo di analogia. Qui, sulla base della scoperta di queste o quelle proprietà di un oggetto del modello - si trae la conclusione che le possiede anche un altro oggetto, quello indagato. Pregio della modellazione è che essa permette di accertare queste o quelle proprietà dell’oggetto d’indagine, di presentarle in forma pura e di studiarle in assenza dell’originale. Ciò è di eccezionale importanza nei casi in cui l’accesso all’oggetto e l’azione su di esso sono resi difficili da queste o quelle circostanze o sono impossibili in generale. Si distinguono i modelli materiali e ideali (logici). I modelli materiali sono oggetti appositamente creati o prescelti dall’uomo, che riproducono fisicamente queste o quelle proprietà, nessi o processi che sono caratteristici dell’oggetto d’indagine. I modelli materiali esistono realmente, funzionano e si sviluppano in base a determinate leggi oggettive che esistono fuori della coscienza umana e indipendentemente da essa. È un modello materiale quello di una casa, di un ponte, di una diga, ecc. I modelli ideali rappresentano costruzioni mentali, immagini, schemi teorici che riproducono in forma ideale le proprietà e i nessi dell’oggetto d’indagine. Questi modelli vengono fissati con l’ausilio di determinati segni, disegni e di altri mezzi materiali. A differenza di quelli materiali, i modelli ideali non riproducono lo stato fisico e le proprietà dell’oggetto d’indagine, ma solo le copiano, le riflettono nelle rispettive costruzioni mentali. Il ruolo della modellazione nella conoscenza e nella pratica si è accresciuto particolarmente in questi ultimi tempi in seguito allo sviluppo della cibernetica e della logica matematica. 7. L’induzione e la deduzione Al livello empirico di sviluppo della conoscenza si fa largo uso di una forma del pensare come l’induzione. L’induzione è un Processo mentale, nel corso del quale, sulla base della conoscenza di una serie di casi particolari, si trae una conclusione generale riguardante tutti i fenomeni di un dato ordine. La conoscenza ottenuta per via induttiva è di regola probabilistica, problematica, in quanto qui la conclusione generale si trae dal fatto della ripetibilità semplice di questa o quella proprietà in tutti i fenomeni indagati. La presenza di questa o quella proprietà nei casi esaminati non dimostra affatto che essa si ripeterà necessariamente anche negli altri fenomeni non ancora studiati. Si, può ripetersi, ma può anche non ripetersi. Si ripeterà immancabilmente, se è conforme alla natura dei fenomeni del dato ordine, ma può anche non ripetersi, se non è collegata con la natura di essi ed è condizionata da circostanze esterne. Ma l’induzione non può stabilire, se questa proprietà è un momento necessario o casuale; ci vogliono a questo scopo altri metodi di conoscenza scientifica, in particolare la deduzione, metodo che ha già attinenza con la conoscenza teorica. La deduzione è un processo mentale, nel corso del quale si formula logicamente una nuova idea in base a questi o quegli enunciati che si presentano come regola comune a tutti i fenomeni del dato ordine. Può servire da esempio di deduzione la seguente conclusione: «Lo Stato è uno strumento della classe che domina nella società per reprimere i suoi avversari di classe. Nella società capitalistica la classe dominante è la borghesia. Quindi, nella società capitalistica lo Stato è uno strumento nelle mani della borghesia per reprimere i suoi avversari di classe». È importante il ruolo della deduzione nell’argomentazione scientifica dei princìpi che riflettono i lati e nessi degli oggetti indagati, inaccessibili alla percezione immediata. Anche se l’induzione e la deduzione sono due forme a sé stanti del pensare, esse sono organicamente connesse, presuppongono l’una l’altra e all’infuori di questa unità non sono in grado di assicurare lo sviluppo del processo conoscitivo. Generalizzando i dati empirici che si vanno accumulando, l’induzione prepara il terreno per formulare supposizioni intorno alla causa dei fenomeni indagati, intorno all’esistenza o meno di questo o quel nesso necessario, intorno alle vie da seguire per verificare se siano giuste o meno queste supposizioni. Mentre la deduzione, dando un fondamento teorico alle conclusioni per induzione, toglie loro il carattere problematico e le trasforma in una vera conoscenza. «Induzione e deduzione scrisse Engels - sono necessariamente implicate l’una nell’altra proprio come sintesi e analisi. Invece di innalzare in cielo, unilateralmente, l’una a danno dell’altra, bisogna cercare di usare ciascuna di esse al posto che le è proprio e ciò si può fare solo una volta che si abbia ben presente la loro reciproca applicazione, il loro mutuo completarsi»10. 8. Il metodo di passaggio dall’astratto al concreto L’astratto è un riflesso unilaterale dell’oggetto d’indagine nella coscienza umana. Il concreto è una visione d’insieme dell’oggetto (1) nella forma di un sistema di concetti astratti o (2) in forma sensibile concreta. Il concreto nella prima accezione riproduce l’oggetto come l’unità dei suoi lati interiori, necessari, ne esprime l’essenza; il concreto nella seconda accezione ne riproduce i lati esteriori ed è una rappresentazione superficiale del tutto. Il passaggio dall’astratto al concreto è la più importante forma di conoscenza teorica, capace di riprodurre nella coscienza per mezzo di concetti astratti l’essenza dell’oggetto d’indagine. Questo metodo fu elaborato per la prima volta da Hegel, il quale lo applicò costruendo il suo sistema filosofico. Però in Hegel il metodo di passaggio dall’astratto al concreto non ottenne argomentazione scientifica, in quanto esprimeva il cammino del pensiero puro che esisteva non si sa dove prima della natura e dell’uomo, cioè era per natura un metodo per eccellenza idealistico. Su base materialistica e scientifica questo metodo fu elaborato da Marx ne Il Capitale. Secondo questo metodo, la conoscenza deve cominciare non dal tutto concreto, ma dall’astratto, da un’analisi dei concetti che riflettono questi o quei singoli lati e nessi dell’oggetto. Ma non ogni semplice concetto astratto può costituire il punto di partenza nello studio del tutto. Può servire da punto di partenza solo un tale concetto astratto che riflette il lato o nesso fondamentale del tutto, oggetto d’indagine. Il lato (nesso) determinante esercita un diretto influsso su tutti gli altri lati del tutto. Perciò, prendendo per punto di partenza il lato determinante e esaminandolo nel suo sviluppo, potremo spiegare la comparsa e le peculiarità degli altri lati del tutto, potremo derivarli dai mutamenti del lato (nesso) determinante. Seguendo passo per passo questi mutamenti e spiegando i lati, l’uno dopo l’altro, del tutto indagato, riprodurremo nella coscienza nella forma di un sistema di concetti la necessaria interconnessione e interdipendenza di tutti questi lati e arriveremo così alla conoscenza concreta dell’essenza dell’oggetto d’indagine. Può servire da esempio di processo conoscitivo mediante il passaggio dall’astratto al concreto l’indagine di Marx ne Il Capitale sulla formazione economico-sociale capitalistica. Marx prese come lato determinante di partenza la merce e spiegò alla luce del mutamento e dello sviluppo dei rapporti mercantili il sorgere di tutti gli altri lati e nessi della formazione capitalistica e riprodusse nella coscienza, nella forma di un sistema di concetti astratti che riflettono questi lati e nessi, l’essenza della società capitalistica. Il metodo di passaggio dall’astratto al concreto è applicabile solo in quello stadio di sviluppo del sapere in cui il tutto, oggetto d’indagine, è stato più o meno studiato, in cui sono stati accertati e espressi per mezzo di questi o quei concetti astratti i suoi lati e nessi generali. Ma ciò è possibile solo se la conoscenza muove dai dati sensibili concreti per arrivare all’astratto, perciò questa forma di conoscenza deve precedere il movimento dall’astratto al concreto. 9. Lo storico e il logico nella conoscenza Il concetto di «storico» designa la realtà oggettiva in movimento e sviluppo. Il concetto di «logico» designa la necessaria connessione dei pensieri che riflettono nella coscienza dell’uomo la realtà circostante. Lo storico, rispetto al logico, è il primo dato. Il logico è un riflesso dello storico. Essendo un riflesso dello storico, il logico può corrispondere allo storico, ma può anche non corrispondere allo storico. Esso corrisponde allo storico solo quando nell’interconnessione dei pensieri si riproduce l’effettivo processo storico. E non corrisponde se nell’interconnessione dei pensieri non si riflette la storia dell’oggetto, ad esempio se il corso dei pensieri è invertito rispetto al come è andato sviluppandosi il processo storico. Parlando della corrispondenza del logico allo storico, non dobbiamo pensare che questa corrispondenza sia completa. Il logico non coincide in tutto con lo storico. «La storia procede spesso a salti e a zigzag...»11. Il logico non deve e non può riprodurre tutti questi zigzag della storia. Esso ha lo scopo di riflettere solo i necessari mutamenti, la necessaria tendenza del passaggio dagli uni stati qualitativi agli altri. La corrispondenza del logico allo storico è un necessario momento del metodo dialettico di conoscenza, in particolare del metodo di passaggio dall’astratto al concreto. Come si è già rilevato, secondo il metodo di passaggio dall’astratto al concreto, l’indagine parte da un lato o rapporto determinante. Nel corso dell’indagine si accertano i mutamenti del dato lato o rapporto e si spiegano sulla base di ciò la formazione e il mutamento degli altri lati del tutto. Nel corso del movimento del pensiero qui si riproducono i nessi e i rapporti che riflettono in un modo o nell’altro l’effettivo processo di formazione dell’essenza dell’oggetto indagato. Come risultato, lo sviluppo logico del pensiero corrisponde alla storia dello sviluppo dell’oggetto. È vero, questa corrispondenza riguarda solo i necessari nessi. Il logico in tal modo riproduce lo storico in una forma esente da momenti casuali. Sottolineando la coincidenza del logico e dello storico nel corso del passaggio dall’astratto al concreto, Engels scriveva: «Nel modo come incomincia la storia, così deve pure incominciare il corso dei pensieri, e il suo corso ulteriore non sarà altro che il riflesso in forma astratta e teoricamente conseguente del corso della storia; un riflesso corretto, ma corretto secondo leggi che il corso stesso della storia fornisce...»12. 10. L’analisi e la sintesi Nel processo della conoscenza della realtà circostante, l’uomo distingue sempre mentalmente questi o quei lati dell’oggetto d’indagine e li raggruppa in nuove combinazioni per ottenere così una nuova conoscenza. Il procedimento mentale con cui si risolve l’oggetto indagato nelle sue singole parti (proprietà) è l’analisi, mentre l’unificazione mentale in un tutt’uno delle parti (proprietà) individuate è la sintesi. Nel corso dello sviluppo del sapere, del suo passaggio da un gradino all’altro cambiano le forme e i metodi di indagine scientifica. Ciò riguarda sia l’analisi che la sintesi. Essi non rimangono sempre gli stessi, ma mutano con lo sviluppo della conoscenza. Nei primi stadi, quelli iniziali, di sviluppo del sapere si compie la cosiddetta analisi e sintesi diretta. Una peculiarità caratteristica del dato tipo di analisi e sintesi è che qui si assiste ad una risoluzione diretta, puramente meccanicistica, del tutto indagato nei suoi singoli lati, nelle sue singole parti e ad un diretto raggruppamento meccanicistico dei lati, delle parti risolte in queste o quelle combinazioni. L’analisi avviene indipendentemente dalla sintesi, la sintesi indipendentemente dall’analisi. Esse non sono organicamente legate. Una tale analisi e sintesi assicura la prima conoscenza dell’oggetto. Essa non può dare di più. Con il passaggio del sapere dalla fissazione delle proprietà e dei nessi osservabili alla superficie dei fenomeni, all’individuazione delle cause che li condizionano, appare un nuovo tipo di analisi e sintesi: l’analisi e sintesi a posteriori. Un’analisi dei genere presuppone non una scomposizione meccanicistica del tutto nelle sue parti componenti, ma una scomposizione tale da esprimere la divisione di un dato fenomeno in causa e in effetto. Una sintesi del genere rappresenta non una composizione meccanicistica delle parti risolte in questa o quella combinazione, ma una composizione che rispecchia il nesso di causa e effetto. Il nesso di causa e effetto si presenta qui come perno intorno al quale ruota l’attività analitica e sintetica del pensiero, perno che orienta e coordina questa attività. Il dato tipo di analisi e sintesi porta alla spiegazione dei singoli lati del tutto indagato, alla scoperta della loro natura, delle loro cause. Ma esso non è capace di riprodurre tutti i lati e nessi dell’oggetto d’indagine nella loro interdipendenza naturale, cioè di riprodurre nella coscienza la sua essenza. Nello stadio di conoscenza dell’essenza si rende necessario un nuovo tipo di analisi e sintesi. Questo nuovo tipo di analisi e sintesi si chiama progressivo o sistematico-strutturale. Peculiarità dell’analisi e sintesi sistematico-strutturale è che il processo di scomposizione del tutto nelle sue parti e di unificazione delle parti in un tutt’uno corrisponde alla scomposizione effettiva di questo o quell’ente materiale nei singoli fenomeni, nei lati e nelle proprietà qualitativamente determinati e all’effettiva interconnessione naturale di questi lati e proprietà. Qui l’analisi e la sintesi sono nell’unità organica tra di loro, si compiono in uno stesso tempo. Il procedimento analitico rappresenta qui ad un tempo anche il procedimento sintetico. Ad esempio, la derivazione dallo sviluppo dei rapporti mercantili di tali fenomeni della società borghese come il denaro, il plusvalore, la forza-lavoro, il capitale, ecc. rappresenta non solo un’analisi, ma anche una sintesi, non solo la scomposizione dell’oggetto analizzato nelle sue singole manifestazioni, ma anche la riproduzione di tutto il sistema dei nessi che sorgono fra questi fenomeni. Può servire da esempio di applicazione nel processo della conoscenza scientifica dei sopraesaminati tipi di analisi e sintesi l’indagine di Lenin sulla fase imperialistica del capitalismo. Nel corso di questa indagine Lenin sottopose ad analisi i materiali disponibili sull’imperialismo, scoprendo i momenti che lo distinguevano dalla fase premonopolistica. Tali tratti caratteristici erano: la concentrazione del capitale e la nascita dei monopoli, il mutamento del ruolo delle banche, la comparsa del capitale finanziario, l’esportazione del capitale, la spartizione del mondo fra gli Stati capitalistici. Nel dato stadio di indagine Lenin componeva i tratti caratteristici dell’imperialismo in un tutt’uno non ancora in quella successione che riflettesse la loro necessaria interdipendenza naturale, ma in quella in cui venivano esaminati nella letteratura economica da lui analizzata. Nel dato caso Lenin ricorreva all’analisi e sintesi diretta. Nel corso dell’ulteriore indagine, cercando di scoprire la causa di questa o quella proprietà della fase imperialistica di sviluppo, di definirne la natura, egli applicò l’analisi e sintesi a posteriori. Mediante una tale analisi e sintesi Lenin, ad esempio, stabilì che il monopolio è il risultato della concentrazione eccessiva della produzione. Dopo aver chiarito i tratti specifici dell’imperialismo, Lenin scoprì il momento principale che ne condizionava tutte le altre peculiarità: la comparsa e il dominio dei monopoli. È quel fondamento il cui sviluppo fu all’origine della fase imperialistica del capitalismo, ed è, secondo l’espressione di Lenin, legge universale e fondamentale del dato stadio di sviluppo del capitalismo13. Prendendo per punto di partenza il monopolio e esaminandone lo sviluppo, Lenin riprodusse per mezzo di un sistema di concetti economici l’essenza dell’imperialismo. Egli rilevò che la comparsa del monopolio nella produzione porta alla liquidazione del dominio del sistema di libera concorrenza e assicura la possibilità di fare un calcolo approssimativo della produzione, della capacità del mercato, delle fonti di materie prime e di spartirle tra le unioni monopolistiche. La comparsa del monopolio nel settore bancario trasforma le banche da modeste mediatrici in potenti centri monopolistici che dispongono «di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali...»14. Ciò ha per conseguenza la fusione delle banche e dell’industria e la nascita del capitale finanziario, il dominio dell’oligarchia finanziaria, la formazione di determinate eccedenze di capitale in alcuni paesi che ne condizionano l’esportazione negli altri paesi. Quest’ultima circostanza porta in ultima analisi alla spartizione del mondo fra i maggiori paesi capitalistici. Derivando dal monopolio le peculiarità della fase imperialistica di sviluppo del capitalismo, Lenin individuava determinati lati del tutto indagato nella loro necessaria interconnessione e interdipendenza per mettere in luce l’essenza effettiva dell’imperialismo. Qui ogni movimento del pensiero è ad un tempo analitico e sintetico: la scomposizione del tutto nei suoi singoli elementi e la composizione degli elementi individuati in un tutt’uno organico. Tutto ciò mostra che nel dato stadio di indagine Lenin si servì dell’analisi e sintesi sistematico-strutturale. Si vede da questo esempio che ciascuno degli indicati tipi di analisi e sintesi è legato ad un determinato grado di sviluppo del sapere e ha una propria particolare sfera di applicazione.
1 G. W. v. Leibniz, Neuen Abhandlzíngen iiber den meiischlichen Verstand. Berlin, 1874, S. 429. 2 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere scelte, cit., p. 1252. 3 Si veda: V. I. Lenin, op. cit., vol. .38, pp. 157-158. 4 V. I. Lenin, op. cit. vol. 14, p. 54. 5 Ibidem. p. 48, 6 Karl Marx, Il Capitale, cit., III (I), p. 377. 7 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. V, p. 3. 8 V. 1. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 119. 9 V. I. Lenin, op. cit., vol. 14, p. 129. 10 Karl Marx, Friedrich Engels, Opere complete, cit., vol. XXV, p. 511 11 Carlo Marx, Scritti scelti in due volumi, vol. I. Mosca, Edizioni in lingue estere, 1943, p. 351. 12 Ibidem. 13 Si veda: V. I. Lenin, op. cit., vol. 22, p. 202. 14 Ibidem, p. 211.
|