Comunismo - Scintilla Rossa

Le Tesi di Lotta Continua

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Yuri Gagarin
view post Posted on 14/9/2012, 12:25




Le Tesi




SULLA QUESTIONE DELL'INTERNAZIONALE



1. - L'internazionalismo è presente nelle condizioni di esistenza del proletariato sin dal suo nascere, ed è un contenuto strategico permanente delle lotte della classe operaia.
Nessuna distorsione nazionalista, xenofoba, razzista imposta dalla borghesia al proletariato nei punti o nei periodi in cui esso è più debole o sconfitto ha mai potuto piegare o cancellare in modo duraturo questo contenuto di fondo.
Quanto più sviluppate sono le forze produttive del capitale, quanto più esteso è il suo dominio, con tanta maggior forza e chiarezza emerge dai movimenti di lotta della classe operaia la tendenza comunista e internazionalista.

La Prima Internazionale


2. - La Prima Internazionale fondata da Marx fu lo strumento dell'affermazione teorica di questa tendenza presente nelle lotte e della sua diffusione nel movimento.
Il suo grande ruolo, riconosciutole da Lenin, fu quello di avere definitivamente acquisito al movimento operaio la superiorità di una teoria della classe operaia, la teoria di Marx, che la oppone strategicamente al capitale e su di essa fonda la possibilità pratica del comunismo.
La prima Internazionale non fu strumento di direzione politica immediata del proletariato verso la presa del potere, non venne concepita come partito.
Neppure l'esperienza della Comune di Parigi, che produsse un salto nel pensiero di Marx sulla questione della rivoluzione politica, della presa del potere e della dittatura del proletariato, poté trasformare il ruolo della Prima Internazionale nel senso di adeguarlo a compiti di direzione tattica della lotta di classe. La grande lezione teorica e politica che essa trasse dalla storia della Comune rimase consegnata al futuro del movimento.

La Seconda Internazionale



3. - Il ruolo della Internazionale come strumento di affermazione della strategia, indipendentemente dalla necessità della tattica, si esaurì con la Prima Internazionale. Dopo di allora non fu più riproposto, né sarebbe stato possibile. L'internazionale rinacque nel 1889 come emanazione di un partito, la Socialdemocrazia tedesca; attorno all'autorità e alla dottrina di quel partito si raccolse il movimento operaio europeo — e in forma assai più indiretta quello americano.
La continuità con l'Internazionale di Marx era solo apparente. La Seconda Internazionale accolse sin dalla sua fondazione i capisaldi teorici del partito tedesco.
Nacque sotto il segno di una concezione che sostituiva alla teoria della classe operaia la teoria delle forze produttive e degli stadi, e che da essa derivava i compiti del proletariato. Nella teoria delle forze produttive era la premessa della separazione tra « lotta politica » e « lotta economica », tra partito e sindacato, tra « programma massimo » e « programma minimo », tra « compiti di ogni giorno » e « scopo finale ». Alla affermazione puramente ideologica e di principio del primato della politica, corrispose il suo distacco dalla lotta di classe e la reale egemonia del più gretto economismo.
Come la maggior parte dei partiti ad essa aderenti, la Seconda Internazionale si costituì come espressione di un ridotto settore del proletariato (quello « organizzabile » e organizzato a partire dalla sua posizione di maggior forza contrattuale nel processo di produzione, dalla professione e dal mestiere) e della rigida esclusione della massa dequalificata e non organizzata, considerata incapace di perseguire con successo i propri interessi immediati e quindi inabile alla lotta politica.
Il problema dell'unità del proletariato venne inglobato nel ruolo del partito in quanto tale, concepito come totalità astratta, oppure venne rinviato ai tempi lunghi del « programma massimo », al socialismo.
Mentre la pratica dell'organizzazione alimentava incessantemente la tendenza alla revisione teorica del marxismo, alla soppressione dello stesso concetto della rivoluzione, il cosiddetto « centro ortodosso » della Seconda Internazionale, incapace di ricercare nella classe operaia le ragioni della propria adesione al marxismo, la fondò esclusivamente sulla teoria del ciclo e sul suo fatalistico corollario: la tesi radicale del crollo. Secondo questa tesi, alla lunga fase di lento sviluppo che avrebbe preparato la crisi catastrofica del capitalismo corrispondeva il compito di accumulare forze attraverso la lotta economica e il « lavoro minuto di organizzazione, in cui scompariva ogni rapporto con la questione della presa del potere, rinviata all'« ora X », alla battaglia risolutiva che sarebbe seguita al crollo.
La tattica, in questa concezione, smarrisce ogni legame con il problema della rivoluzione, diviene « tattica quotidiana », strumento di pura gestione e autoconservazione della forza accumulata nel corso degli anni, in un rapporto parassitario e difensivo con la classe e le sue lotte: o si identifica con la tattica parlamentare, rivolta ad ottenere la sanzione legislativa dei risultati della lotta economica.
In entrambi i casi si muove tutta nell'ambito dell'economia capitalistica e del quadro istituzionale democratico-borghese, in maniera totalmente subalterna.

La Terza Internazionale



4. - All'origine della rottura della Seconda Internazionale e della creazione dell'Internazionale Comunista vi furono la crisi imperialista sfociata nella guerra mondiale, l'allineamento dei partiti della Seconda Internazionale con le borghesie dei propri paesi e la rivoluzione d'ottobre.
Sulla necessità della conquista violenta del potere e della « dittatura del proletariato », cioè della distruzione dello stato borghese e della costituzione del proletariato in classe dominante, si fondò la discriminante principale fra le socialdemocrazie facenti capo alla II Internazionale e le forze rivoluzionarie che fecero riferimento al partito bolscevico, allo Stato sovietico, all'Internazionale Comunista. Tuttavia i capisaldi teorici della Socialdemocrazia, relativi alla teoria delle forze produttive, alla separazione tra lotta economica e lotta politica, non furono messi in causa dalla III Internazionale. Alla socialdemocrazia essa riconobbe il merito storico di avere raccolto grandi masse intorno alle organizzazioni del Movimento Operaio, di avere assolto al compito della accumulazione di un grande potenziale di forza durante gli anni precedenti la guerra. Il tradimento dei capi socialdemocratici fu visto nella loro rinuncia ad impiegare quella forza al momento opportuno, in dispregio delle solenni risoluzioni dei Congressi della Seconda Internazionale. Nel momento in cui la crisi e la guerra imperialista sembravano aver posto le condizioni per il passaggio da una fase all'altra, dalla accumulazione delle forze alla battaglia aperta, dalla « lotta economica » alla « lotta politica », la condotta dei capi riformisti fu vista come l'ostacolo principale sulla via della rivoluzione, giudicata come « tradimento » e in parte spiegata, in maniera astratta e riduttiva, come pura espressione degli interessi di una ristretta « aristocrazia operaia », chiamata a spartire alcuni privilegi marginali e quindi a subordinarsi all'imperialismo, a farsi portavoce dei suoi interessi allo interno della classe operaia.
La liberazione delle forze raccolte nel corso di tanti anni, che allo appuntamento della storia si presentavano disorientate e imprigionate dalla politica dei capi socialdemocratici, divenne il problema centrale, mai risolto, della rivoluzione in occidente. Un problema la cui soluzione, all’atto della fondazione dell'Internazionale comunista, nel momento in cui la parola d'ordine dell'insurrezione veniva posta all'ordine del giorno, non sembrò richiedere alcuna mediazione tattica. La precipitazione della crisi, vista come « crisi finale » del capitalismo, il collasso degli stati, la dispersione degli eserciti della borghesia, sembrarono porre le « condizioni oggettive » per l'attivizzazione immediata delle masse. Nella tendenza irresistibile alla formazione dei soviet sembrò possibile trascinare e conquistare alla direzione rivoluzionaria sia le masse organizzate nella socialdemocrazia e nei sindacati, sia i settori dispersi e non organizzati del proletariato. Unificazione del proletariato, conquista della maggioranza, presa del potere furono concepiti come tre momenti di un unico passaggio rivoluzionario.
Unica condizione da realizzare in corsa contro il tempo in tutti i paesi europei sembrò quella della creazione dello strumento, il partito, in grado di praticare la tattica dell'insurrezione, l'insurrezione come arte; unica minaccia all'esito dei processo, il pericolo che la rivoluzione scoppiasse « troppo presto », che le masse si lanciassero in avanti senza direzione, come avevano mostrato gli avvenimenti berlinesi del gennaio 1919.
All'interno di questa ipotesi l'Internazionale comunista nacque come partito mondiale dell'insurrezione, come tattica della guerra civile, attraverso una rottura violenta con la Socialdemocrazia, ma raccogliendone al-lo stesso tempo la matrice teorica.
Concepire l'Internazionale come partito, come direzione tattica unica e centralizzata della rivoluzione fu possibile a partire da una ipotesi che aveva come orizzonte l'Europa, e che vedeva il processo rivoluzionario in-vestire contemporaneamente, in condizioni rese omogenee dalla guerra, tutti i principali paesi europei: un processo del quale l'ottobre russo non doveva essere che il preludio.

La crisi dell'Internazionale Comunista



5. - La crisi di quella ipotesi; la ricerca, rimasta incompiuta e poi dispersa, di una diversa dimensione della tattica, di un diverso modo di impostare, con le tesi sul fronte unito, i problemi dell'unificazione del proletariato e della conquista della maggioranza, misero in evidenza, nel corso degli anni seguenti, i limiti della concezione strategica sulla quale l'Internazionale Comunista era nata, limiti che essa aveva ereditato dalla socialdemocrazia classica e che nel periodo anteriore alla guerra avevano con-sentito la coesistenza, nell'ambito della Seconda Internazionale, di rivoluzionari e riformisti.
In un quadro di sconfitta delle forze rivoluzionarie, di pesanti condizionamenti oggettivi e di contraddizioni di classe nell'URSS, e di scontro politico all'interno del partito bolscevico, questi limiti riemersero e a loro volta influirono sia su quel processo storico che aveva investito la società sovietica, fino a mutarne il segno proletario e socialista, sia sulla degenerazione in senso revisionista dei partiti comunisti dell'Europa occidentale (e più ancora di quelli latino-americani). In essi, l'abolizione del problema della rivoluzione, la visione dello stato come strumento neutrale, l'accettazione dell'economia capitalistica si affermeranno via via a partire dalla distinzione in due tempi del processo della lotta di classe (distinzione che autorizza a far cadere le discriminanti classiste per una lunga fase, rimandando, isolando, e in sostanza « neutralizzando » il problema della rivoluzione); si affermeranno a partire dalla separazione fra lotta politica e lotta economica, dalla riduzione della lotta politica a propaganda, e poi pressione interna al quadro istituzionale democratico — borghese, e della lotta economica a pura difesa contro lo sfruttamento capitalistico.
Questo processo di degenerazione non fu lineare né inevitabile (altra fu la via che seppero battere i compagni cinesi, anche in contrasto con la direzione della I.C.); esso si manifestò inoltre con oscillazioni drammatiche delle direttive tattiche imposte dal centro del Comintern, primi sintomi di una involuzione che condusse ad assumere la « difesa dell'URSS » come discriminante strategica rispetto alla socialdemocrazia, e la politica estera di Stalin come obiettivo da assecondare senza riserve. Ancora una volta, come nella II Internazionale, — anche se in maniera meno aperta — l'involuzione in senso revisionista aveva immediate conseguenze di negazione sostanziale dell'internazionalismo proletario.

Le condizioni di un nuovo internazionalismo



6. - Nessuna delle condizioni che resero possibile nel 1919 ai bolscevichi concepire l'Internazionale come strumento della tattica, partito mondiale della rivoluzione, è ripetibile nelle condizioni di oggi.
Di qui deriva il carattere sempre più astratto e ideologico che assume il richiamo al modello originario della Terza Internazionale, richiamo che pure è stato per decenni, prima e dopo la seconda guerra mondiale, una sorta di esito obbligato di ogni posizione che, nell'occidente capitalistico, muovesse dalla critica delle tendenze opportuniste e revisioniste che si erano imposte alla direzione dei partiti comunisti.
Sono la massiccia ripresa delle lotte operaie negli anni più recenti e l'emergere di una nuova crisi del dominio imperialista nel mondo che hanno posto le premesse per il recupero da parte delle avanguardie rivoluzionarie di una autonomia strategica dal revisionismo e per una nuova pratica dell'internazionalismo proletario.
La forma che ha assunto la crisi dell'imperialismo, e la forza strutturale e politica della classe operaia, oggi in tutto il mondo incomparabilmente maggiore che in ogni altro periodo della storia del capitalismo, sono gli elementi nuovi che assumono un rilievo decisivo. La crisi dello imperialismo, pur nella tendenza alla moltiplicazione e alla generalizzazione dei conflitti, è destinata a conservare per un periodo probabilmente lungo un andamento strisciante, senza precipitare in una nuova guerra mondiale. D'altro lato, la forza del proletariato sempre più tende ad esprimersi come autonomia relativa dalle « condizioni oggettive », cioè dai tempi e dai modi di estrinsecazione della crisi. Ogni posizione economicista che faccia dipendere in modo automatico i movimenti della classe operaia dalle variazioni del ciclo capitalistico viene sempre più chiaramente smentita dai fatti.
Su questi elementi si fondano anche le principali differenze tra i pro-cessi rivoluzionari che si affermano in questa fase, e quelli del periodo successivo alle due guerre mondiali nei paesi dell'occidente; la possibilità per i settori di avanguardia della classe operaia di procedere sul terreno della unificazione politica del proletariato ben prima della precipitazione esterna della crisi; la possibilità per il partito rivoluzionario di gettare profonde radici nelle masse, consentendo al movimento di utilizzare le contraddizioni del nemico a livello nazionale e internazionale, e di dominare lo stesso rapporto che le lega alle organizzazioni maggioritarie revisioniste.

Processo rivoluzionario e stato nazionale



7. - Questa prospettiva, che si fa strada in forme e con tempi diversi da paese a paese e nelle varie zone del mondo, non consente alcuna ipotesi di direzione centralizzata della lotta di classe a livello internazionale.
Ciò non va nel senso di deprimere, ma anzi di esaltare in maniera corretta i contenuti internazionali della lotta proletaria.
E possibile oggi individuare in embrione il formarsi di un ciclo di lotte internazionali, sostenuto dal processo di crescente circolazione e omogeneizzazione dei contenuti strategici dell'autonomia operaia. In particolare, la forza strutturale della classe operaia, la sua rigidità sia sul terreno salariale sia rispetto al rifiuto della razionalità produttiva capitalista e della ristrutturazione, se da una parte sono alla radice della crisi capitalista internazionale, dall'altra parte nel pieno della crisi tendono ad esaltare i propri contenuti politici direttamente antagonistici al comando capitalistico e ad investire l'intera area capitalistica industrializzata.
Va però al tempo stesso affermato che l'unificazione del proletariato internazionale e dei contenuti strategici si articola e si misura con lo ambito nazionale, rispetto ai contenuti della tattica, al problema della conquista della maggioranza e della presa del potere. In particolare, il modello dei singoli stati nazionali, il carattere dell'organizzazione maggioritaria del proletariato, il ruolo del sindacato, la stratificazione delle classi danno un segno specifico al conflitto tra classe operaia e stato allo interno dei singoli stati nazionali, segnano tempi e modi del processo rivoluzionario, impongono al partito rivoluzionario di misurarsi con la propria specifica rivoluzione.
E questa ragione di fondo, non semplicemente l'immaturità soggettiva delle forze rivoluzionarie o, genericamente, la disomogeneità di con-dizioni in cui esse si trovano ad operare che rende infondata l'ipotesi di una nuova Internazionale, direzione centralizzata della lotta di classe mondiale. Il raggio di azione del partito, l'ambito entro cui esso può esercitare la direzione tattica (e in cui è quindi pensabile il centralismo) è destinato a rimanere un ambito nazionale, sinché lo stato nazionale permarrà quale centro nevralgico di organizzazione del potere della borghesia e sinché la prospettiva della rivoluzione dovrà misurarsi con le singole realtà nazionali.
In questo quadro va rilevato come sia oggi estremamente accelerata la tendenza della borghesia a farsi tramite più o meno diretto dello imperialismo, abbandonando l'esigenza dell'indipendenza e della sovranità nazionale. Anche laddove la borghesia nazionale mantenga alcuni margini di autonomia, questi scompaiono rapidamente in una situazione di acutizzazione dello scontro fra le classi. La stessa indipendenza e sovranità nazionale, quindi, elementi decisivi del processo rivoluzionario nelle singole realtà nazionali, non sono perseguibili attraverso l'alleanza fra la borghesia (o strati di essa) e il proletariato, ma attraverso l'approfondimento della crisi istituzionale dello stato borghese, l'offensiva anticapitalistica delle masse. In quest'ultima istanza, esse sono garantite solamente dalla capacità proletaria di innescare un processo rivoluzionario e di difenderlo con le armi.

L'esempio della Cina e del Vietnam



8. - Tutti i processi rivoluzionari che si .sono affermati nel mondo nel secondo dopoguerra, in Asia come in Europa e in America Latina (Cina, Vietnam, Jugoslavia, Cuba, Albania), al di là dei modelli di organizzazione politica e sociale cui hanno dato luogo, mostrano come tratto comune l'autonomia dell'avanguardie politiche che li hanno guidati non solo da ogni centro di direzione internazionale, ma anche da ogni schema tattico prestabilito. L'esempio della rivoluzione cinese e del suo rapporto con il Comintern e con il suo surrogato postbellico, il Cominform, è il più evidente.
In Cina l'autonomia della direzione del processo rivoluzionario si è fondata, in modo via via più chiaro, sul recupero di una autonomia strategica rispetto agli schemi della tradizione terzinternazionalista, a partire dal rifiuto della teoria delle forze produttive e dalla affermazione della supremazia della politica sull'economia, che ha consentito di approfondire, anche dopo la presa del potere, il legame del partito con le masse e il carattere decisivo dell'intervento delle masse nelle contraddizioni in seno alla direzione del partito e dello stato.
Con questo carattere della rivoluzione cinese non può essere senza rapporto il rifiuto del partito comunista cinese di costruirsi in centro di organizzazione di una nuova Internazionale; rifiuto che, ben lungi dal rappresentare il sintomo di una deviazione nazionalista, non tende ad ostacolare bensì a favorire lo sviluppo della rivoluzione nel mondo.
La rivoluzione vietnamita costituisce rispetto a questo stesso problema l'esempio più luminoso di una cosciente applicazione dell'internazionalismo proletario. A partire dalla conduzione della lotta di classe e della guerra rivoluzionaria nel proprio paese, il partito vietnamita ha mostrato una straordinaria capacità di orientare e muovere forze rivoluzionarie in tutto il mondo, di determinare e non semplicemente subire gli schieramenti internazionali, di conoscere e utilizzare le contraddizioni del nemico in tutto il mondo, di saper imporre agli stessi alleati la condizione della propria autonomia. Se oggi nel mondo le forze rivoluzionarie hanno maturato una concezione nuova dell'internazionalismo, ciò è dovuto in grande misura all'esempio del Vietnam.

La necessità del confronto e del collegamento fra le forze rivoluzionarie



9. - Il rifiuto della ipotesi di una nuova Internazionale non indebolisce quindi in nessun modo la necessità e la possibilità di una pratica internazionalista, che è sempre più patrimonio delle masse, né la necessità della solidarietà militante, del sostegno e dell'aiuto reciproco tra organizzazioni rivoluzionarie.
In alcune situazioni, il livello dello scontro raggiunto tra proletariato e imperialismo, tale da travalicare l'ambito dei singoli stati nazionali, permette, anzi impone un coordinamento tra le stesse scelte tattiche, un'unità d'azione organica (come in Indocina, nel Cono Sud dell’America Latina, nei paesi dell'Africa Australe, tra le forze rivoluzionarie dei paesi arabi, ecc.).
La conoscenza approfondita delle condizioni in cui ciascuna forza si colloca e opera, il confronto sui temi strategici e sui principi della tattica, la ricerca di una progressiva omogeneità politica e capacità di consultazione e di coordinamento, divengono tanto più importanti quanto più l'aggressività del nemico comune accompagna la crisi del suo dominio. In questo quadro cresce anche l'esigenza di costruire ambiti unitari e stabili per il confronto e il coordinamento politico tra organizzazioni rivoluzionarie di diversi paesi.
Non si tratta di prospettare soluzioni istituzionali, cartelli e schieramenti delle varie organizzazioni rivoluzionarie che si sovrappongano meccanicamente all'attuale frammentazione e disomogeneità reale, ma occorre proporre, precisare e praticare impegni comuni.
E indispensabile avviare il confronto su alcuni grandi temi: una corretta lettura del marxismo, calata nell'analisi materiale della realtà; la teoria della crisi come dato permanente del capitale e il suo attuale carattere prolungato: i principi generali della tattica ed il rapporto con le organizzazioni revisioniste o comunque maggioritarie della classe nei singoli paesi, in relazione alla composizione ed alla storia della classe operaia nazionale.
Al tempo stesso, la più stretta unità d'azione deve essere perseguita in grandi campagne internazionali, legate alle scadenze politiche generali che maggiormente unifichino le condizioni di lotta nei vari stati nazionali.
Questa esigenza si pone con particolare acutezza all'interno della area europea e mediterranea, un'area nella quale confluiscono e si concentrano attorno alla contraddizione principale tutte le contraddizioni della fase presente: tra i due blocchi, tra capitale europeo e americano, tra zone avanzate e zone arretrate, ecc.
In Europa la classe operaia ha subito nel periodo tra le due guerre le più gravi sconfitte di tutta la sua storia, e nel secondo dopoguerra un attacco pesantissimo, passato attraverso una gigantesca operazione di divisione e smembramento materiale, oltre che per la distruzione sistematica delle sue avanguardie politiche. Una operazione che negli altri paesi europei ha potuto incidere molto più a fondo che in Italia, e che è ancor oggi tra le cause della frantumazione e della disomogeneità delle avanguardie sorte negli anni più recenti.
Tuttavia vi sono oggi le condizioni per cominciare a superare questa realtà. A partire dallo stesso retroterra sul quale si è fondato lo sviluppo capitalistico dell'Europa occidentale dopo la guerra, sono andati maturando i presupposti per l'avvio di un processo di unificazione del proletariato su basi infinitamente più ampie che in qualsiasi altro periodo della storia. La formazione e il consolidamento di un unico mercato della forza lavoro nell'area europea e mediterranea costituisce la base materiale di questo processo. L'uso della mano d'opera immigrata, che è stata in mano al capitale l'arma più potente di repressione, controllo, divisione e ghettizzazione del proletariato, si è sempre più logorato negli ultimi anni e tende a rovesciarsi nel suo contrario, nella leva principale per la ricomposizione politica della classe operaia. L'immissione dei proletari immigrati nei settori portanti, la loro crescente insostituibilità nei punti chiave della produzione, accresce il peso specifico della componente immigrata e la forza complessiva della classe operaia multinazionale, favorisce la circolazione dei contenuti dell'autonomia e delle esperienze più avanzate di lotta e di organizzazione, tende a bloccare o a rendere precario l'uso padronale del mercato del lavoro come esercito di riserva e valvola di sicurezza in funzione anticrisi.
Alla crescente omogeneità dei contenuti e delle forme della lotta operaia si accompagna, nei paesi dell'Europa meridionale (Portogallo, Spagna, Italia, Grecia, Turchia) un processo di disgregazione profonda del dominio borghese che si manifesta con la crisi o il crollo dei regimi che tale dominio hanno esercitato nei passati decenni. Pur con le caratteristiche specifiche che questo processo presenta in ciascun paese, esso tende a creare in tutta l'area dell'Europa mediterranea condizioni favorevoli allo sviluppo della rivoluzione.

FONTE

www.bibliotecamarxista.org/lottacontinua/tesi1int.htm

PS appena ho tempo pubblico le altre !
 
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Yuri Gagarin
view post Posted on 14/9/2012, 20:04




Le Tesi




SULLA QUESTIONE DELLA TATTICA



La sinistra rivoluzionaria è oggi chiamata, ben oltre che a fare da pungolo al movimento, o a rappresentarne alcune manifestazioni, ad affrontare la questione della direzione generale del movimento di classe.
Siamo chiamati cioè a definire una posizione strategica, a definire in forma generale una tattica, a definire il ruolo della teoria e dell'organizzazione.

Il Comunismo sta nella lotta della classe operaia



Siamo comunisti. Diceva Marx che il comunismo è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Vale la pena di tornare a questa vecchia affermazione, al suo carattere « strategico ».
Abbiamo visto, in questi anni, crescere quel movimento reale, abbiamo lavorato alla sua crescita. Abbiamo saputo riconoscere il modo in cui, passo dietro passo, la classe operaia si è riappropriata della sua strategia, ha rimesso sui piedi il comunismo, ha affermato la sua autonomia di classe.
Qui, in questo movimento reale, affonda le radici la possibilità del partito della rivoluzione comunista, e della riconquista in forma più matura da parte della classe operaia cosciente della propria storia teorica e politica.
Nell'incontro e nello scontro con questa fase nuova del movimento reale, con la lotta della classe operaia, con i suoi contenuti strategici, la cattiva teoria è diventata pessima teoria, e la giusta teoria si è ricongiunta col suo alimento essenziale, con la pratica, nel suo fuoco si è trasformata e vivificata. Il marxismo si è scrollato di dosso le incrostazioni libresche e le degenerazioni revisioniste, ed è tornato ad essere un'arma decisiva della guerra per l'emancipazione del proletariato.
La crisi del più mostruoso sistema di dominazione imperialista di tutti i tempi ha dato alla luce il suo becchino, più forte, più agguerrito che mai; più direttamente capace di investire alle fondamenta l'organizzazione e la divisione capitalistica del lavoro, più immediatamente capace di unificare le proprie forze.
Il comunismo non è una prerogativa del partito, ma sta dentro la lotta delle masse e la coscienza che la lotta di classe alimenta. Il partito è lo strumento indispensabile perché la lotta delle masse per l'emancipazione trionfi del suo nemico giurato, il capitalismo, i suoi lacché borghesi, il suo stato, il suo potere armato internazionale e nazionale.

Necessità e fondamento della tattica: il partito



Nel partito, i membri più coscienti e disciplinati della classe rivoluzionaria uniscono le loro forze, raccolgono sulla base di una giusta teoria la lezione strategica dell'autonomia di classe e delle sue avanguardie di massa, orientano a partire da quelle il processo fondamentale dell'unità del proletariato.
Nel partito, i membri più coscienti e disciplinati della classe rivoluzionaria costruiscono in forma generale una tattica, cioè un insieme di principi generali, derivati dalla pratica, capaci di orientare il proletariato nel lungo cammino che lo separa dalla presa del potere e dalla distruzione dello stato borghese.
Molti compagni si chiedono: abbiamo una « strategia? ». Abbiamo una « tattica? ».
Noi crediamo di sì, senza niente togliere alle insufficienze, agli errori, ai ritardi della sinistra rivoluzionaria. E non intendiamo certo baloccarci con le trivialità di chi chiama tattica i tempi brevi, e strategia i tempi lunghi., col risultato di non far caso oggi a quello che capiterà domani; o di chi chiama strategia i « principi », o il « programma massimo », o qualche sua variante, e tattica la pura e semplice valutazione della realtà, il buon senso, in fin dei conti.
Noi sottolineiamo il carattere strategico dei contenuti dell'autonomia operaia, della negazione reale del lavoro salariato, dell'unificazione del proletariato sotto la direzione operaia.
È questo carattere strategico che il riformismo e il revisionismo non possono né vogliono riconoscere ed esprimere; è questo carattere strategico che garantisce l'autonomia del partito rivoluzionario come partito comunista.
La tattica, o è un oscillare arbitrario di scelte empiriche, o è l'applicazione organica di un corretto rapporto con la strategia, cioè di una corretta teoria.

Il problema generale dalla tattica



La tattica è il termine intermedio tra il processo dell'unificazione del proletariato, e la rabbiosa e multiforme reazione della classe dominante.
Noi riteniamo che, nella sua forma generale, la questione della tattica abbia al suo centro la questione del rapporto fra autonomia di classe e organizzazione maggioritaria della classe.
Il processo dell'unificazione del proletariato attraversa infatti non solo la diversità di condizioni materiali e ideologiche imposta dalla borghesia ai vari settori del proletariato, ma anche il ruolo maggioritario di una organizzazione del proletariato nel nostro paese, del PCI — che è il frutto complesso di fattori diversi, dalla divisione stessa della classe, al peso di una tradizione storica, alla natura di organizzazione generale.
Questa organizzazione maggioritaria egemonizzata, nei partiti e nei sindacati, dal PCI è strategicamente opposta al comunismo, al « movimento reale che abolisce lo stato di cose presente », all'autonomia operaia.
Essa esprime una direzione borghese, sempre fondata sulla subordinazione degli interessi e delle esigenze della classe operaia, che ha visto — dal 45 ad oggi — oscillazioni diverse. Rispetto ad una accentuazione —maggiormente presente negli anni 50 — che favoriva strati piccolo-borghesi, cercandone la rappresentanza in una battaglia d'opposizione, è cresciuta — dalla fine degli anni 60 in poi, nella misura in cui si modificavano gli equilibri internazionali e si acuiva lo scontro di classe nel paese — la tendenza a stabilire un rapporto diretto con il grande capitale, attraverso l'assunzione in proprio delle sue esigenze di razionalizzazione dell'apparato produttivo, e l'assunzione tendenziale, su questa base, di « responsabilità di governo ».
Tuttavia la nostra comprensione della natura di questa organizzazione sarebbe fallimentare, se non aggiungessimo che, in ultima istanza, essa vincola le sue scelte al mantenimento dell'influenza sulla classe operaia, che costituisce la condizione della sua forza e della sua autorità.
E' questa specifica contraddizione che consente e impone al partito rivoluzionario di adottare una tattica feconda, e di colmare — o comunque
sforzarsi di colmare — il divario tra la propria condizione minoritaria e la necessità di direzione del movimento di classe.
Questa infatti — la direzione generale del movimento — è la responsabilità con cui deve confrontarsi il partito rivoluzionario, e la condizione per un suo rafforzamento autentico, e non certo una furbesca amministrazione di un'area periferica di consenso, o una rincorsa golosa e miope delle zone (e delle parole d'ordine) abbandonate dalle progressive ritirate riformiste e revisioniste.
Un passaggio repentino della maggioranza del proletariato dalle file del PCI alle file del partito rivoluzionario è completamente improbabile.
Sta, contro questa ipotesi, non solo la solidità relativa dell'edificio revisionista (per altro ambigua, legata come è a una forza politica incomparabilmente maggiore della classe operaia italiana rispetto a ogni altro paese capitalista), quanto la natura prolungata della crisi capitalista e imperialista, che modifica l'ipotesi di una precipitazione verticale degli equilibri politici e sociali, di uno spostamento brusco di campo da parte delle grandi masse, di un rapido sviluppo insurrezionale guidato dal partito rivoluzionario.

L'esperienza di questi anni



La verifica sta già alle nostre spalle. Non ci riferiamo solo al Cile, dove pure questi problemi — nel bene come nel male — si sono presentati in forma cristallina.
Ci riferiamo all'esperienza direttamente vissuta da tutti noi, in questi anni, fra sbandamenti, errori e recuperi faticosi, molto spesso; una esperienza al cui valore è destinato ad essere sordo e cieco chi nell'esplosione dell'autonomia operaia nel '69 non vedeva altro se non un'acutizzazione della lotta rivendicativa...; col che ogni opportunismo diventa inevitabile.
Che cosa è avvenuto, dunque, da noi? È avvenuto che la classe operaia, nelle sue avanguardie di massa, ha attaccato frontalmente, nel '69-70, l’organizzazione di fabbrica, ed ha attaccato frontalmente un'organizzazione storicamente maggioritaria che si presentava con la carta da visita della retrocessione della autonomia operaia a ingranaggio dello sviluppo capitalistico.
Da allora in avanti, con la macchina dello sviluppo capitalistico sempre più irreparabilmente inceppata, il PCI e il sindacato corsero al recupero della classe operaia, ma dovettero pagare un prezzo salato, e cioè, in sostanza, la generalizzazione di contenuti, forme di lotta, modi di organizzazione della autonomia operaia, dalle fabbriche maggiori alle minori, dalle zone di. punta alle zone « arretrate » ecc.
A sua volta la classe operaia, il movimento di massa andava conquistando a suo modo, con la coscienza della lunga durata della sua lotta, la nozione della « tattica », cercando la dimensione generale della lotta là love era possibile (e non lo era nell'organizzazione dei gruppi né nei surrogati di « organizzazione di massa » che essi presumessero di fabbricare), e tuttavia conservando la propria autonomia. Nella spinta alla sindacalizzazione del '71, nella spinta a una presenza di massa impressionante nella primavera del '72 dietro al PCI, non c'era un riflusso revisionista del movimento di classe, bensì la piena di una tensione di classe che, senza abdicare alla propria autonomia (lo avrebbero mostrato le lotte), cercava e trovava l'occasione per unirsi, per mettere in campo una forza generale, contro il fascismo e contro la crisi.
Solo in quel periodo, e grazie alla forza della lezione delle masse, noi completammo una riflessione sulla « tattica » che ha poi organicamente orientato la nostra linea, dalla questione dell'organizzazione di massa a quella del governo ecc.
Non abbiamo avuto in passato né abbiamo ora difficoltà a criticare errori di schematismo, che rischiarono di costarci assai cari, e in particolare di separare la fondamentale affermazione del carattere strategico dell'autonomia operaia, dalla quale eravamo nati, dalla sua articolazione tattica.

Una possibilità nuova di affrontare un problema antico


La concezione della tattica e dei principi sui quali deve essere fondata, non ci è stata consegnata dalla tradizione del pensiero rivoluzionario come una eredità compiuta, come molti compagni che amano definirsi leninisti mostrano di ritenere.
Che cos'è la tattica? È il modo in cui riteniamo possibile conquistare alla direzione rivoluzionaria la maggioranza del proletariato. Questa prima definizione è completamente generica, ma è tuttavia necessaria. Non solo, infatti, sono in molti a porre il problema della conquista della maggioranza del proletariato solo a parole; ma c'è ancora qualcuno che dichiara con sicurezza che la rivoluzione è il prodotto di una minoranza, che la questione della maggioranza è il cavallo di battaglia degli opportunisti, dei socialdemocratici, e che è sempre stato così.
E' utile ricordare che questa « teoria » non è nuova. AI contrario questa « teoria » è vecchia, e pretende di farci fare un pauroso passo indietro, non solo rispetto alla nostra esperienza, ma rispetto al patrimonio di insegnamenti che ci è stato consegnato dall'esperienza storica del movimento rivoluzionario.
Nel 1917, in Russia, nel corso di una crisi sociale violenta e accelerata — la guerra imperialista, il crollo dello zarismo, la fame — il piccolo partito bolscevico riesce nel giro di pochi mesi, e perfino di poche settimane, a conquistare la direzione della maggioranza del proletariato e dei contadini, e a conquistare il potere. Dentro il crollo provocato dalla crisi imperialista, pochi mesi bastano a compiere un cammino di molti decenni. La nuova internazionale, i nuovi partiti comunisti, si formano sotto la bandiera di questa prima rivoluzione vittoriosa, e assumono, nella loro struttura e nella loro tattica, l'ipotesi di una rapida estensione rivoluzionaria per via insurrezionale in Europa, partorita dalla precipitazione verticale della crisi imperialista.
Appena due anni più tardi, nel 1921 — il PCd'I è appena nato — il III congresso dell'Internazionale comunista ospita una discussione che vale la pena di ricordare. E Lenin che parla, e nei suoi ripetuti interventi torna come un ritornello questo pensiero: « Lo sviluppo della rivoluzione internazionale non è stato così lineare come ci attendevamo »; il movimento non è stato così lineare come ci attendevamo », ecc.; è a partire da questa constatazione, da questa lezione della realtà, che, citiamo ancora, « il III congresso dell'Internazionale comunista inizia la revisione delle questioni tattiche ».
Sono poste qui le condizioni di una svolta, nella quale i problemi fondamentali della tattica sono lucidamente presenti, anche se il destino successivo di Lenin, della lotta di classe in Occidente, della rivoluzione sovietica, e dell'Internazionale non consentirà di risolverli organicamente. E tuttavia, già allora, questi. problemi sono posti, e non si può non ammirare la grandezza con cui Lenin mette in discussione uno schema politico (lo stesso schema in cui certi « leninisti » lo vorrebbero imbalsamare) di fronte alla lezione della realtà. « Chi non capisce — dice Lenin — che in Europa, dove quasi tutti gli- operai sono organizzati, dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia, è perduto per il. movimento comunista, e non capirà mai nulla ». E ci sono anche allora i compagni solerti, i rivoluzionari « puri », che la sanno lunga, e chiedono di emendare le tesi, di cancellare la parola « maggioranza ». Lenin è implacabile. « I contadini — dice — sono stati conquistati da noi, se non in qualche giorno, come io supponevo e sostenevo erroneamente, in qualche settimana. Mostratemi nell'Europa occidentale un paese nel quale potremmo conquistare la maggioranza dei contadini in poche settimane! » E insiste: « Potete forse illudervi di avere voi, in Occidente, condizioni simili? E' ridicolo! » E spiega: « Quando la rivoluzione è già preparata in maniera sufficiente [...] il concetto di "massa" cambia in quanto, con questa parola, s'intende la maggioranza di tutti gli sfruttati, e non soltanto la maggioranza degli operai; un'interpretazione diversa è inammissibile per un rivoluzionario ». « La maggioranza assoluta non è sempre necessaria, ma per vincere, occorre non soltanto la maggioranza della classe operaia, ma anche la maggioranza degli sfruttati e dei lavoratori rurali ». E ancora: « Quanto più organizzato è il proletariato di un paese capitalisticamente sviluppato, tanto maggiore serietà la storia esige da noi nella preparazione della rivoluzione, tanto più a fondo dobbiamo conquistare la maggioranza della classe operaia ». E spiegava anche che cosa significasse per i rivoluzionari la « conquista della maggioranza »:
La conquista della maggioranza del proletariato da parte nostra è il compito principale.
La conquista della maggioranza non è certamente intesa da noi in modo formale come la intendono i paladini della « democrazia » filistea dell'Internazionale due e mezzo. Quando nel luglio 1921, a Roma, tutto il proletariato il proletariato riformista dei sindacati e il proletariato centrista del partito di Serrati ha seguito i comunisti contro i fascisti, è avvenuta la conquista della maggioranza della classe operaia da parte nostra.
Eravamo ancora lontani, ben lontani dalla conquista decisiva; si trattava soltanto di una conquista parziale, momentanea, locale. Ma era la conquista della maggioranza. Tale conquista è possibile anche quando la maggioranza del proletariato segue formalmente i capi della borghesia o i capi che fanno una politica borghese (come tutti i capi della Seconda Internazionale e dell'Internazionale due e mezzo), o quando la maggioranza del proletariato tentenna. Tale conquista progredisce ininterrottamente e in tutti i modi nel mondo intero. Prepariamola più saldamente e più accuratamente, non lasciamoci sfuggire nessuna occasione seria in cui la borghesia costringa il proletariato a sollevarsi per lottare, impariamo a determinare con esattezza i momenti nei quali le masse del proletariato non possono non insorgere insieme con noi ».
Così, nel 1921, di fronte alla « resistenza » del capitalismo in occidente una « resistenza » fatta di fame e di sangue — di fronte alla « resistenza » della socialdemocrazia e dei suoi sindacati, Lenin poneva con forza il problema della revisione della tattica, e ne indicava, pur se in un modo aperto e tormentato, gli elementi fondamentali: le caratteristiche della crisi capitalista, il peso dell'organizzazione riformista, e a essi commisurava il compito fondamentale della « conquista della maggioranza ».
Quale lezione per i compagni — ce ne sono ancora! — che ripropongono un impaziente sdegno per la « conquista della maggioranza », e esaltano il ruolo della minoranza senza sapervi riconoscere il proprio ostinato minoritarismo!
Conquistare la maggioranza alla rivoluzione: questo è il problema della tattica. Ed è un problema, ripetiamolo, che la storia del movimento rivoluzionario ci ha consegnato. In Oriente, nell'« Asia arretrata », questo problema è stato risolto nella grande esperienza della rivoluzione cinese, della rivoluzione della lunga durata. In Occidente, esso ha dovuto affrontare un corso tortuoso, fino a deviarsi e smarrirsi, come certi fiumi, sotto-terra, per tornare pienamente alla luce, con tutta la sua forza, quando l'inizio di una nuova e profonda crisi del sistema di dominazione imperialista si è ricongiunto con la ripresa dell'iniziativa delle masse. E stato allora — e noi l'abbiamo vissuto e lo viviamo — che le avanguardie operaie e i militanti rivoluzionari hanno strappato la parola d'ordine della « conquista della maggioranza » dalle mani di chi l'aveva ridotta a strumento di concorrenza pacifica ed elettorale con la borghesia, e hanno strappato la bandiera del partito alla impotente contrapposizione fra il partito di massa elettorale della destra revisionista e il « partito di quadri » settario e cospirativo, staccato dalle masse, della sinistra revisionista.
Ecco, dunque, che il problema della tattica ha riacquistato il suo fondamento sicuro — l'autonomia operaia, il movimento reale che identifica il comunismo con l'abolizione dello stato di cose presente — e i suoi termini di confronto essenziali: la natura della crisi imperialista, e la sua forma; la natura e il ruolo del movimento operaio revisionista. Conquistare la maggioranza alla rivoluzione, dentro una crisi del capitale che assume una forma prolungata — e che, dunque, esclude, ben più e ben diversamente che cinquant'anni fa, il crollo subitaneo del regime capitalista, e il rovesciamento subitaneo dei rapporti di forza dentro le masse tra la minoranza rivoluzionaria e l'organizzazione maggioritaria revisioni-sta e riformista — questo è il problema della tattica.
Sul terreno generale, noi orientiamo la nostra tattica rispetto alla direzione maggioritaria del proletariato sulla base dell'analisi delle sue contraddizioni. In ultima istanza, esse si riducono alla contraddizione fra una direzione borghese, e la necessità di conservare la rappresentanza del movimento di classe. Questa contraddizione viene dominata dall'organizzazione revisionista quando l'autonomia anticapitalista della classe operaia è relativamente più debole, e diviene viceversa sempre più dirompente a mano che cresce l'autonomia operaia, e si riducono progressivamente, con la crisi, gli spazi necessari a riassorbirla in tutto o in parte. Il revisionismo non muta natura, ma svela la sua natura di servo di due padroni, altrettanto esigenti ed esosi.
Qual è. in questa situazione, la giusta tattica rivoluzionaria? Non certo quella di inseguire ideologicamente il revisionismo nella sua bancarotta, con l'intenzione di divenirne gli esecutori testamentari; bensì quella di rafforzare l'autonomia del movimento, di lavorare nelle sue lotte e nella sua organizzazione dal basso, alla conquista della direzione rivoluzionaria, di ridurre gli spazi di utilizzazione padronale del revisionismo, per accrescerne viceversa la contraddizione con le esigenze, nazionali e anche internazionali, della restaurazione capitalista, di utilizzare il rapporto di contraddizione fra l'organizzazione revisionista e le masse come un tramite alla azione generale e unitaria delle masse.
E per effetto (li queste contraddizioni che l'azione della sinistra rivoluzionaria, la nostra azione, riesce in particolari momenti a suscitare o orientare l'azione di masse proletarie enormemente più numerose di quelle decine — o, se volete, centinaia — di migliaia di proletari che noi organizziamo o influenziamo direttamente.
La prima condizione di ciò è il nostro rapporto diretto, come partito, con le masse, le loro esigenze, la loro lotta, in uno scontro aperto con la linea revisionista. Questo caposaldo decisivo ci impone di cogliere il rapporto fra l'autonomia di classe, il suo sviluppo, la sua affermazione e l'organizzazione maggioritaria della classe, in una fase in cui esso subisce modificazioni profonde, talvolta contraddittorie ma segnate comunque, nel loro insieme, dal crescere della divaricazione strategica fra linea revisionista ed esigenze delle masse.
E in questo processo che noi vediamo il nostro stesso rafforzamento di partito, il nostro stesso reclutamento diretto, che non ha alcuna prospettiva al di fuori di questa concezione « maggioritaria » della lotta di classe, che vede l'ineliminabile — e sempre più centrale — iniziativa di partito in rapporto costante con i bisogni, la coscienza, le azioni di milioni e decine di milioni di persone, nello scontro costante fra le « due linee » nei luoghi ove vivono, lottano, si organizzano le masse.

FONTE

www.bibliotecamarxista.org/lottacontinua/tesi2tatt.htm
 
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view post Posted on 14/9/2012, 23:33
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Interessante pubblicazione che evidenzia come Lotta Continua dicesse alcune cose giuste, ma le inseriva in una incomprensione fondamentale e generale del materialismo dialettico e del leninismo in particolare. In particolare, da notare la confusione tra strategia e tattica, separati a tratti, ma solo nominalmente a legger bene e di fatto confusi, come tipico dei revisionisti di sinistra. Emblematico il voler definire la tattica prima di aver definito la strategia!
Per non parlare della superficialità, riecheggiante la vulgata trotskijsta, con cui viene affrontata la questione della Terza Internazionale, anche e proprio in merito al rapporto strategia-tattica e l'altrettanto capziosa e grossolana interpretazione (con annessa contrapposizione arbitraria al Comintern) dell'esperienza cinese.
 
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Yuri Gagarin
view post Posted on 15/9/2012, 11:34




CITAZIONE (primomaggio1945 @ 15/9/2012, 00:33) 
Interessante pubblicazione che evidenzia come Lotta Continua dicesse alcune cose giuste, ma le inseriva in una incomprensione fondamentale e generale del materialismo dialettico e del leninismo in particolare. In particolare, da notare la confusione tra strategia e tattica, separati a tratti, ma solo nominalmente a legger bene e di fatto confusi, come tipico dei revisionisti di sinistra. Emblematico il voler definire la tattica prima di aver definito la strategia!
Per non parlare della superficialità, riecheggiante la vulgata trotskijsta, con cui viene affrontata la questione della Terza Internazionale, anche e proprio in merito al rapporto strategia-tattica e l'altrettanto capziosa e grossolana interpretazione (con annessa contrapposizione arbitraria al Comintern) dell'esperienza cinese.

Forse è per via di questa confusione teorica che sono falliti , ma era un bel movimento. A mio avviso è necessario recuperare le esperienze a sinistra del PCI , dai demoproletari ai marxisti leninisti in senso stretto e capire in cosa hanno sbagliato . Lo stesso Lenin studiò ed esaminò oggettivamente socialdemocrazia , laburismo e marxismo classico e costituì un marxismo all'avanguardia ripulito dal revisionismo , che ora impera in Italia ( Troppi nostalgici di Togliatti e Berlinguer , più le derive ultra idealiste di persone come Preve non sono una bella cosa )

Le Tesi




SULLA QUESTIONE DEL MATERIALISMO



La concezione materialistica della realtà e della storia deve costituire il fondamento teorico della nostra politica e la base della formazione di ognuno di noi. Solo così noi potremo garantire al tempo stesso un criterio di verifica non empirico alla nostra linea e una autonomia di giudizio in tutti i campi ai militanti di Lotta Continua.

Il materialismo volgare



Quando parliamo di materialismo, non dobbiamo pensare che il fondamento di una concezione materialistica del mondo debba venirci dalla fisica, dalla chimica, dalla biologia o dalle altre scienze che si riferiscono a ciò che comunemente si chiama materia.
Queste scienze non solo sono, come tutte le scienze moderne, un prodotto della divisione della società in classi; esse si sono sviluppate come strumenti di questa divisione, cioè come strumenti del dominio della borghesia sul proletariato, di cui sono, insieme alla « tecnica » che le incorpora nelle macchine e nella organizzazione capitalistica del lavoro, una delle principali manifestazioni.
Perciò una visione del mondo che si fondi su queste scienze è necessariamente influenzata dal modo in cui esse sono nate e si sono sviluppate e, proprio per questo, non può che essere quella che Marx chiamava « ideologia », cioè giustificazione della divisione della società in classi.
Questo non significa assolutamente che l'intero contenuto di queste scienze sia falso; cioè che non esista alcun rapporto tra il loro contenuto e la realtà, come pretendono certe forme di idealismo. Attraverso queste scienze il dominio dell'uomo sulla natura, cioè il dominio del genere umano sul resto del mondo, si è esteso enormemente, e questa è una conquista irreversibile. Ma il genere umano è diviso in classi, e questo dominio dell'uomo sulla natura si è realizzato finora attraverso la divisione della società in classi. Per capirlo, basta pensare a come avvengono praticamente i processi di appropriazione della natura da parte dell'uomo, cioè i pro-cessi di produzione, nel sistema sociale in cui viviamo, cioè nella società capitalistica.
Le scienze della natura recano in sé, indelebilmente, questo tratto connaturato alla loro origine e al loro sviluppo.
Qualsiasi tentativo di metterle a fondamento di una concezione generale del mondo è, proprio per questo, necessariamente classista e borghese. In questa impostazione rientrano sia le influenze positiviste e meccaniciste (che presentano cioè lo sviluppo storico come un processo naturale e automatico) che hanno finito per dominare la evoluzione del marxismo nell'ambito della Seconda Internazionale, sia la definitiva imbalsamazione che esso ha subito in URSS, sull'onda di una concezione che tende a presentare il marxismo come una branca di una teoria generale dell'evoluzione.
Qualsiasi tentativo di « rovesciare » la natura delle scienze borghesi senza aver prima rovesciato i rapporti sociali che le hanno create, è utopistico e astratto. Rientra in questa impostazione l'illusione che intellettuali scienziati possano costruire una « cultura alternativa » a quella esistente, sulla base di una semplice e isolata contestazione del proprio ruolo. Una illusione ampiamente diffusa nel campo delle « scienze sociali » e delle discipline storiche ed umanistiche, ma che torna spesso a riproporsi anche nel campo delle scienze naturali.
Infine, qualsiasi tentativo di identificare i limiti conoscitivi di queste scienze, connaturati al modo in cui esse sono nate e si sono sviluppate, con un limite della conoscenza umana in assoluto, è un tentativo di limitare il potere conoscitivo dell'umanità e di abbandonare la conoscenza dei rapporti sociali al regno dell'arbitrio e della irrazionalità. Questo è, in fine dei conti, l'ultimo rifugio dell'ideologia borghese, che non riesce più a giustificare lo stato di cose esistente, cioè la società capitalistica, cerca solo più di contestare ogni legittimità scientifica e teorica a chi lo vuole rovesciare, cioè al comunismo, ed alla sua espressione teorica, che è il marxismo.

Il marxismo



Per avere una conoscenza effettiva del mondo e della storia noi dobbiamo partire da quella scienza che non solo presuppone la divisione della società in classi, ma che è il prodotto della lotta per superare questa divisione. Questa scienza è il marxismo, come insieme di conoscenze che il proletariato ha accumulato e verificato nel corso della sua lotta per il comunismo.
Appare subito chiaro qual'è il rapporto tra il marxismo e le altre scienze: senza il marxismo esse non forniscono che una visione distorta ideologica della realtà. Con il marxismo, anche esse possono diventare terreno della lotta per rovesciare questa società. Ma questo è un legame pratico e non astratto: è dato cioè dalla lotta reale del proletariato per conquistare un diverso rapporto con la natura e un diverso rapporto tra gli uomini.
Avere una concezione materialistica del mondo significa dunque fondare scientificamente — cioè spiegare razionalmente — non solo la lotta di classe in generale, ma la possibilità che la lotta di classe nella nostra epoca, cioè la lotta tra proletariato e borghesia, porti al comunismo, cioè al superamento della divisione della società in classi. Si tratta cioè di analizzare la natura della contraddizione tra proletariato e borghesia.
Più precisamente, la questione può essere posta in questi termini: esiste la possibilità di definire il proletariato, i suoi interessi di classe, i suoi bisogni, la sua condizione materiale, in maniera non empirica ma scientifica? Esiste la possibilità di definire il proletariato, non con un semplice elenco di bisogni, individuati non si sa bene a partire da quale punto di vista, ma facendo invece riferimento al modo in cui il capitalismo ne determina l'esistenza? Esiste, cioè, una « teoria » dei bisogni del proletariato in grado di dare un fondamento razionale alla prospettiva del superamento della divisione della società in classi?
Secondo noi sì; essa è il nocciolo del pensiero di Marx ed è inscindibile dai termini in cui Marx aveva condotto la critica della forma più evoluta di ideologia borghese del suo tempo: l'economia politica.

La teoria del valore-lavoro...



L'economia politica, in tutte le sue versioni, presenta il modo di produzione capitalistico come un tutto armonico — capace cioè di garantirsi uno sviluppo equilibrato e ininterrotto attraverso le proprie leggi naturali o « armonizzabile » — capace cioè di trovare nell'intervento dall'esterno del potere politico un correttivo alle tendenze aberranti del mercato. La critica di Marx esclude sia l'una che l'altra cosa e presenta la crisi, cioè la tendenza del sistema alla distruzione delle forze produttive che esso stesso ha creato, come un dato permanente del capitalismo.
Il nocciolo di questa critica sta nella dimostrazione che il capitalismo non può trovare al suo interno, cioè nel mercato, uno sbocco al valore creato dalle forze produttive della cooperazione sociale (cioè dalla produzione organizzata secondo i criteri di una divisione del lavoro sempre più estesa e pronunciata) che esso stesso ha messo in moto.
Questa spiegazione della crisi si fonda interamente sulla teoria di Marx del valore-lavoro. Che cosa dice questa teoria? Essa spiega come il rapporto secondo cui le diverse merci, compresa la forza lavoro, si scambiano tra di loro sul mercato, cioè il loro prezzo tende a coincidere con il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre ciascuna di esse.
Questa regola, valida — come tendenza generale — solo nel capitalismo e non nelle formazioni sociali che hanno preceduto il modo di produzione capitalistico, deriva dal fatto che il capitalismo riduce il lavoro umano a lavoro astratto, tendenzialmente svincolato da qualsiasi contenuto specifico, e quindi universalmente intercambiabile: rende cioè paragonabili fra loro i prodotti del lavoro di uomini e di « unità produttive », cioè di imprese, diverse, sulla semplice base della quantità del lavoro erogato; e non, come accadeva nelle formazioni sociali precedenti, anche della qualità di questo lavoro.
Il processo che mette capo a forme di lavoro sempre più astratte e quindi potenzialmente intercambiabili coincide tanto con quello che in genere viene chiamato sviluppo capitalistico — meglio sarebbe chiamarlo, come faceva Marx, accumulazione del capitale — quanto con il processo di proletarizzazione della società. Si tratta di un processo che liberando progressivamente il lavoro umano dalle sue determinazioni specifiche, continua durante tutta la storia del capitalismo, ben oltre la fase di trapasso dalle formazioni sociali precedenti al modo di produzione capitalistico.
L'analisi di questo processo non può prescindere, come è evidente a tutti, dall'analisi dello sviluppo che il lavoro ha subito nel corso del tempo, sotto le contrastanti spinte della lotta di classe e dell'accumulazione del capitale.

...e i suoi critici



E' qui, nella fabbrica e nella organizzazione del lavoro, come ben aveva visto Marx, che va cercata la radice della teoria del valore-lavoro; è di qui cioè che deve partire l'analisi del capitalismo e delle sue contraddizioni.
Prova ne è il fatto che tutte le teorie che sono approdate ad un rifiuto della legge del valore-lavoro — o a un suo tale travisamento da costituirne una sostanziale negazione — hanno sempre dimostrato un sostanziale disinteresse per i problemi della fabbrica e dell'organizzazione del lavoro, oppure li hanno sì presi in considerazione, ma in modo del tutto separato dall'analisi storica del capitalismo e delle sue crisi.
Nelle concezioni che fanno riferimento alla teoria revisionista delle forze produttive (di cui parleremo in seguito), la teoria di Marx del valore-lavoro è stata dogmaticamente ripresa, per essere trasformata da teoria del lavoro astratto e della crisi, cioè delle contraddizioni del capitalismo, in una teoria dei prezzi relativi e dell'« equilibrio », cioè dell'armonia del sistema capitalistico.

Per anni í marxisti dogmatici si sono affannati per cercare di dimostrare che la teoria di Marx del valore-lavoro era conciliabile con una teoria generale dell'equilibrio; cioè con una teoria che ipotizza una situazione in cui i vari fattori della produzione (lavoratori, impianti, materie prime) si distribuiscono automaticamente, e in maniera razionale, tra i diversi settori produttivi, determinando, attraverso le leggi della domanda e dell'offerta, cioè attraverso il mercato, un livello dei prezzi, dei salari e quindi dei profitti, capace di garantire una accumulazione del capitale uniforme e continua. In questo modo i marxisti dogmatici si sono messi sullo stesso terreno degli economisti borghesi ed hanno assunto come presupposto proprio ciò che Marx aveva sempre negato che il capitalismo potesse mai raggiungere: cioè un equilibrio fondato sulla eguaglianza generale dei tassi di profitto; una eguaglianza che nel capitalismo agisce sempre come tendenza, ma non si presenta mai, se non per puro caso, come una realtà stabile.
L'acquisita cognizione dell'inconciliabilità di una teoria dell'« equilibrio » — cioè dell'armonia del sistema — con la teoria del « valore-lavoro », ha portato molti studiosi moderni a mettere tra parentesi o a negare la validità della seconda, in nome della prima. Questa svolta sta alla origine di molte concezioni soggettiviste e, in ultima analisi, piccolo-borghesi, della contraddizione tra proletariato e borghesia. Il punto di approdo di queste posizioni è una piatta accettazione dello stato di cose presente, cioè della società capitalistica e dei suoi meccanismi; oppure una concezione utopista e piccolo-borghese del socialismo, che critica il capitalismo partendo da una gerarchia soggettiva di « valori » invece che da una analisi oggettiva della lotta di classe e degli interessi che in essa si esprimono.

Il comunismo


Quale formulazione generale possiamo dare, allora, ai bisogni del proletariato sulla base della teoria di Marx del valore-lavoro?
Il capitalismo sviluppa, insieme al proletariato, il bisogno di sottrarsi a un rapporto con la natura e con gli altri uomini coercitivamente determinato. Lo sviluppo che porta a un predominio sempre maggiore del lavoro astratto nei rapporti di produzione fa sì che il legame tra ogni membro del proletariato ed il contenuto specifico del suo lavoro, della sua attività e della sua esistenza si presenti come coercizione esterna, come potere di una classe sull'altra, e non più come una necessità intrinseca, come un destino o un dato immutabile, come accadeva invece per le classi produttrici, se non addirittura per i singoli membri di esse, nelle formazioni sociali precedenti.
In questo bisogno sono impliciti tutti gli altri bisogni del proletariato: il bisogno di riappropriarsi delle condizioni del proprio lavoro e, quindi, dell'intero prodotto di esso; dato che nella separazione dell'operaio dal prodotto del suo lavoro nasce il processo di accumulazione, che, concentrando tutta la ricchezza ad un polo della società e tutta la miseria all'altro riproduce continuamente il capitale ed il proletariato come entità contrapposte ma complementari, e perpetua così le condizioni dello sfruttamento capitalistico e la divisione della società in classi.
Infine, il bisogno di abolire, insieme al lavoro salariato, le condizioni che rendono possibile che la forza-lavoro sia una merce che si scambia come ogni altra merce: cioè il mercato stesso; il che sarà possibile sol-tanto quando la misura della ricchezza sociale avrà cessato di essere il tempo di lavoro per coincidere invece con la soddisfazione effettiva dei bisogni; quando cioè sarà da mettere all'ordine del giorno il motto scritto sulle bandiere del proletariato: « a ciascuno secondo i suoi bisogni, da ciascuno secondo le sue capacità ».

Forze produttive e rapporti di produzione



Questa concezione rappresenta per noi la riconquista del nocciolo originario del marxismo; essa identifica la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e modo di produzione, su cui Marx aveva fondato la possibilità del superamento della società borghese e della divisione della società in classi, con la contraddizione tra il proletariato e l'organizzazione capitalistica della produzione. In altre parole, identifica la principale forza produttiva, alla quale, in ultima istanza, sono riconducibili tutte le altre, nel proletariato, nella sua crescita numerica e qualitativa, nei suoi interessi di classe che si radicano nei suoi bisogni, cioè nelle condizioni storiche della sua esistenza.
Secondo questa concezione, tutte le altre « forze produttive » dalle forze della natura alla scienza e alla tecnica, che sono il prodotto della evoluzione storica, sono tali solo in rapporto con quella forma evoluta di cooperazione sociale che l'esistenza del proletariato ha reso possibile.
Le forze produttive non sono quindi definibili al di fuori del loro nesso con i rapporti di produzione.
Non esiste cioè una storia « autonoma » delle forze produttive, che crescono in modo lineare, passando da una formazione sociale all'altra. Una simile teoria dell'« autonomia » delle forze produttive, sta alla radice di tutte le concezioni revisioniste.

La teoria revisionista delle forze produttive



In realtà, nel modo radicalmente diverso di intendere la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione va ricercata la radice ultima del contrasto tra comunismo e revisionismo.
Una prima concezione, tuttora presente nel movimento operaio revisionista ed anche in molte componenti rivoluzionarie, identificai rapporti di produzione con i rapporti di proprietà, cioè con la proprietà privata. Di conseguenza, per forze produttive intende tutto il resto, tutto quanto ha accompagnato l'evoluzione dei rapporti di lavoro e la loro socializzazione nel corso dello sviluppo capitalistico: la scienza, la tecnica, la crescita e la concentrazione degli impianti, l'organizzazione del lavoro, il mercato. Come ulteriore conseguenza di questa concezione troviamo la convinzione che la statizzazione, ovvero la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, elimini alla radice la contraddizione fondamentale del capitalismo; dove questo è già avvenuto, questa teoria non può che attribuire l'emergere di nuove e radicali contraddizioni a semplici errori soggettivi o a deviazioni inconsapevoli, che non mettono però in discussione la natura di una società che per definizione avrebbe eliminato la contraddizione principale.
Questa concezione delle forze produttive è la radice ultima del revisionismo; essa attraversa un lungo cammino che va dalla Seconda Internazionale alla degenerazione stalinista della Terza.
Ma essa continua a manifestarsi anche in numerose posizioni rivoluzionarie di oggi: tutte quelle, per esempio, che considerano l'URSS o i paesi dell'est europeo « stati operai degenerati », e che continuano a far riferimento, sulla semplice base della abolizione della proprietà privata, ad un ipotetico « campo socialista », che accomunerebbe sia i paesi dove vige la dittatura del proletariato, come la Cina, che quelli a capitalismo di stato, come l'URSS.
Ritroviamo questa concezione teorica nella pratica politica del revisionismo nostrano, che, dalla esaltazione del ruolo di produttore dell'operaio, sfocerà nella difesa corporativa della professionalità, nell'accettazione dell'organizzazione del lavoro che su di essa si fonda, nella delimitazione della organizzazione agli strati qualificati della classe operaia, nella difficoltà di riconoscere prima, di accettare poi, i contenuti nuovi della autonomia operaia di cui sono portatori gli strati meno qualificati della classe operaia, nati con il taylorismo il lavoro a catena: cioè. con una ulteriore trasformazione in direzione del lavoro astratto. Proprio in questi contenuti si esprime invece in forma radicale. i! rifiuto del lavoro salariato. a partire dalla lotta contro gli aspetti più elementari della organizzazione del lavoro: le qualifiche. le gerarchie, gli incentivi, i ritmi, la nocività ecc.

Il gradualismo



Questa concezione, in ultima analisi, vede il passaggio dal capitalismo al socialismo in termini di evoluzione graduale e non di scontro tra le classi; non riuscendo a cogliere il dato qualitativo nuovo che l'esistenza del proletariato rappresenta nella storia delle forze produttive, non riesce nemmeno a spiegare come mai la contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione, che ha sempre messo capo, in passato, a nuove forme di società fondate sulla divisione delle classi, da un certo punto in poi dovrebbe produrre una società senza classi; per cui rimanda allo sviluppo quantitativo delle forze produttive così intese, cioè ad un futuro del tutto indeterminato, quello che in realtà è il problema centrale della lotta proletaria in ogni sua fase: l'abolizione della divisione della società in classi, il comunismo.
Secondo la concezione revisionista delle forze produttive, il capitalismo, accrescendo continuamente la socializzazione del lavoro porta per così dire a un superamento graduale ed automatico di se stesso, che, per compiersi, ha solo più bisogno di rimuovere gli ostacoli che si frappongono a questo sviluppo. Questi ostacoli sono la sovrastruttura giuridica e politica dello stato, secondo le forme più apertamente gradualiste del revisionismo, che non mettono in discussione nemmeno l'esistenza, e la permanenza, del mercato; sono entrambi, sia l'ordinamento giuridico che il mercato, secondo le concezioni rivoluzionarie, che, pur non avendo interamente superato la concezione revisionista delle forze produttive, vedono però nel mercato, e nelle crisi che esso genera, il limite storico che il capitalismo pone allo sviluppo delle forze produttive; per cui, coerentemente, mettono in relazione la previsione di una « crisi finale » del capitalismo con la necessità di una rottura violenta del suo apparato statale.
Sia la prima che la seconda di queste concezioni si fermano alle porte della fabbrica: vedono un limite allo sviluppo delle forze produttive nello stato e nel mercato; non lo vedono nei rapporti di produzione così come essi si manifestano in fabbrica. La contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzione è, per queste concezioni, una contraddizione tra fabbrica e società non una contraddizione nella fabbrica e nella società. Di qui a negare alla classe operaia — e al proletariato, che è il modo di esistere della classe operaia nella società — un ruolo decisivo nella contraddizione, il passaggio è immediato, anche se quasi mai consapevole.

Le radici dell'idealismo



Questa negazione di fatto si è storicamente espressa e continua ad esprimersi nella separazione tra lotta economica e lotta politica. La prima è intesa come il manifestarsi quotidiano dell'antagonismo tra operai e padroni a partire dalla propria collocazione nel processo produttivo, che però non reca in sé niente di rivoluzionario; niente cioè che esprima il bisogno e la possibilità di superare il modo di produzione capitalistico e la divisione della società in classi. La lotta politica, sia nelle versioni parlamentari e gradualiste che in quelle che giudicano inevitabile una rottura violenta dello stato nella crisi, è intesa come la sola con cui la classe operaia e il proletariato si fanno carico di un compito storico — quello di abbattere un modo di produzione superato — di cui non possono avere cognizione a partire dalla loro esperienza quotidiana; e che, quindi, deve venir loro insegnato « dall'esterno ».
Vediamo così che nella concezione revisionista delle forze produttive si radica un'altra separazione fondamentale, che, come quella tra lotta economica e lotta politica, è del tutto estranea a Marx, ma ha accompagnato la successiva storia del movimento operaio: la separazione tra la coscienza di classe e le condizioni materiali di esistenza della classe; la separazione tra l'essere e la coscienza; la negazione che le idee della umanità siano il prodotto dei suoi bisogni; il rifiuto, in ultima analisi, del materialismo.
Soltanto, quindi, una concezione che identifichi le forze produttive nel proletariato e negli antagonismi che lo contrappongono al modo di produzione capitalistico in tutti i suoi aspetti, a partire dai livelli più elementari, permette di restituire integralmente alla lotta di classe il ruolo di contraddizione principale, e permette di evitare le secche dell'idealismo che separa la coscienza dalla sua base materiale.

La reazione soggettivista



La prima reazione contro la teoria revisionista delle forze produttive assume l'aspetto di un soggettivismo esasperato.
Storicamente, all'origine di queste posizioni troviamo un tentativo di recupero in chiave antileninista di Rosa Luxemburg: in Francia esso sfocia in una esaltazione dell'autogestione che non mette minimamente in discussione l'esistenza del mercato capitalistico, la sua anarchia, e il problema del suo superamento.
In Germania — e negli Stati Uniti — esso si innesta su un filone culturale che da tempo ha imbalsamato il marxismo in una critica della cultura e della società, condotta in nome di una razionalità senza storia, il cui unico detentore, in una presunta situazione di generale « integrazione » del proletariato, o addirittura di scomparsa delle classi, sarebbe la casta degli intellettuali.
Di queste teorizzazioni, che fino a qualche tempo la si facevano passare per l'ultimo grido rivoluzionario, è evidente oggi la vuotezza e, spesso, l'approdo qualunquistico.
In Italia, il livello sempre alto mantenuto dalla lotta operaia porta ad indirizzare in modo ben diversamente concreto la critica della concezione revisionista delle forze produttive sul terreno in cui in modo irriducibile si esprime la contraddizione tra operai e capitale: quello dell'organizzazione del lavoro.
La figura e l'opera di Raniero Panzieri sono, da questo punto di vista, centrali. Il suo lavoro non è circoscrivibile in una teoria definita, ma i suoi epigoni però lo cristallizzeranno ben presto in due filoni principali.

La tematica del controllo



Il primo concentra la sua attenzione, in maniera esclusiva, sul problema dell'organizzazione del lavoro nella sua dimensione aziendale o, addirittura, in una dimensione ancora più ristretta, mutuata dalla sociologia americana, il « gruppo omogeneo »: l'accento viene posto sul problema del controllo (« controllo operaio », controllo sulle condizioni di lavoro) e la lotta di classe tende a venir ridotta ad uno scontro astratto per il potere nella fabbrica. Ne resta pressoché emarginato il problema del potere statale.
La novità maggiore sta invece nel fatto che, sulla scorta di una rilettura di Marx, nelle parti che trattano le macchine e la grande industria, viene rimessa in discussione la « neutralità » della tecnologia e dall'organizzazione del lavoro, di cui viene denunciata la funzione di strumenti del dominio capitalista. Le macchine, la tecnica, la scienza che in essa si incorpora, la organizzazione del lavoro e la stessa « forza-lavoro », cioè la classe operaia, nella misura in cui essa è una « funzione » del capitale, vengono ricondotte sotto il concetto di « rapporti di produzione ».
All'altro lato della contraddizione, dalla parte delle forze produttive, non resta in tal modo quasi più niente di definito. I fondamenti materiali della contraddizione tendono cioè a dissolversi nel più puro soggettivismo e, paradossalmente, la mancanza di una teoria che fondi scientificamente l'autonomia operaia sfocia nel suo opposto: un piatto oggettivismo che vede l'organizzazione operaia ripercorrere, in modo speculare, le articolazioni interne della divisione capitalistica del lavoro: le squadre, i reparti, le aziende, i settori. Questa concezione, propria di una parte del PSIUP, del PDUP e della cosiddetta sinistra sindacale, darà i suoi frutti più coerenti e grotteschi nelle teorie dell'inquadramento unico, del « nuovo modo di produrre », per confluire, con il nuovo « modello di sviluppo », nel più ampio alveo del revisionismo riformista.

La mitologia della classe


Il secondo filone esaspera apparentemente l'aspetto opposto, quello « oggettivo »: alla razionalità del capitale, identificata nel « piano », a cui vengono meccanicamente ricondotti tutti gli aspetti dello sviluppo capitalistico, viene contrapposto il « contropiano », la razionalità del proletariato — anzi, della « Classe Operaia » — il cui comportamento oggettivo ha una intrinseca coerenza, direttamente antagonistica al piano del capitale e indipendente dal fattore « coscienza ».
Qui il bersaglio polemico è soprattutto la contrapposizione tra « anarchia capitalistica » e « socialismo realizzato », così come essa veniva presentata da quei teorici revisionisti che identificavano il capitalismo con la proprietà privata e il socialismo con il piano. Ma anche in questo filone, come in quello precedente, il terreno fondamentale dello scontro di classe resta quello di un « potere », concepito in modo astratto e fuori dalle sue determinazioni storiche: non il potere dei singoli, o del gruppo omogeneo, come nel caso precedente, bensì quello di tutta la classe. La misura di questo potere è dato, in maniera del tutto oggettiva, dalle contraddizioni che incontra la realizzazione del piano del capitale. Su questa strada si arriva, in tutta coerenza, a formulare aberrazioni come quelle di un « uso operaio del capitale »: se il capitale non riesce ad usare come vuole la forza-lavoro, sembra automatico che sia questa, trasformata in « Classe », ad utilizzare il capitale. Gli obiettivi del programma operaio vengono così proposti, indipendentemente dal loro fondamento materiale, per il solo fatto che essi « fanno saltare il piano del capitale ».
La storia del capitalismo viene vista come un susseguirsi di cicli sempre uguali in cui, alla rottura del piano da parte della classe operaia si alterna la ricomposizione della razionalità capitalistica ad un più alto livello. Sul piano pratico, questa concezione sfocia nel più bieco opportunismo (cioè nell'accettazione dello « stato di cose presente », ivi compreso il partito revisionista, a cui molti di questi compagni finiscono beatamente per approdare), o nel più cieco volontarismo, che sovrappone, la ricerca soggettiva di una rottura violenta ad un ciclo che per definizione è senza storia.

Il capitalismo senza crisi



Rispetto a quello che è il punto fermo del revisionismo, cioè il rifiuto di mettere in discussione il modo capitalistico di produzione, la linea di demarcazione tra rapporti di produzione e forze produttive si è spostata di 180 gradi: nel revisionismo, tutto ciò che fa avanzare l'organizzazione del lavoro viene considerato fattore di progresso e incluso tra le « forze produttive ». Nelle concezioni soggettiviste a cui abbiamo appena accennato, tutto viene invece ricondotto sotto il concetto di « rapporti di produzione »: non solo la « sovrastruttura » giuridica e culturale, ma anche la scienza, la tecnica, lo sviluppo tecnologico, l'organizzazione del lavoro, il concetto di ragione e lo stesso proletariato, da una parte idealisticamente mitizzato come « Classe », dall'altra ridotto alla sua bruta natura di « forza-lavoro », massa inerte a disposizione dello sviluppo capitalistico.
Non è un caso che tutte le componenti di questa reazione soggettivista ricompaiano oggi in un unico guazzabuglio: dalle civetterie con l'autogestione di matrice francese, all'esclusivismo sul problema della organizzazione del lavoro di marca PdUP, alle teorizzazioni interclassiste — o meglio, aclassiste — sulla « società formata », alla critica del consumismo e alla fustigazione dei costumi, ad una definizione della crisi che prescinde dalla evoluzione storica del modo di produzione capitalistico, per finire con il più totale disorientamento sul problema delle forze produttive e dei rapporti di produzione, e quindi con la rinuncia al concetto stesso di autonomia operaia: tutti ingredienti di quell'eclettismo senza principi che nella « elaborazione » teorica del PdUP-Manifesto ha trovato la sua espressione più compiuta.
Se andiamo alle radici di questo disorientamento, vediamo che in una maniera o nell'altra tutte queste concezioni eludono il problema della crisi; si precludono così la possibilità di fondare una teoria dinamica, e quindi storicamente determinata, e non statica, cioè fuori della storia, della contraddizione tra borghesia e proletariato. Manca la capacità di individuare, all'interno del modo di produzione capitalistico, il fondamento dell'antagonismo tra le classi. Questo fondamento sta nelle condizioni materiali del proletariato, nel suo essere merce tra altre merci; ma ciò rimanda automaticamente all'esistenza del mercato, alla sua anarchia e alle sue contraddizioni; che è appunto quanto le teorie soggettiviste hanno espunto dal loro orizzonte teorico, o perché non l'hanno nemmeno preso in considerazione, o perché l'hanno considerato superato dall'avvento del « piano del capitale »
.

Le condizioni della ripresa



Nonostante le distorsioni operate dai suoi epigoni, l'opera di Raniero Panzieri ha avuto una profonda e decisiva influenza nella formazione della sinistra rivoluzionaria italiana. Negli anni del soggettivismo imperante, che vanno dalla scelta boliviana di Che Guevara all'esplosione del movimento studentesco ed alla proliferazione delle formazioni della sinistra rivoluzionaria, una discriminante di fondo passa tra le formazioni cosiddette « m-l », in realtà dommatiche e staliniste, e quasi tutte le altre.
Le prime, in una versione infantile e fantastica del pensiero di Mao, non hanno saputo trovare altro che uno schermo per precludersi qualsiasi rapporto con lo sviluppo della realtà e della lotta di classe. Le seconde, chi più e chi meno, chi in modo meno rigido e chi in modo più dommatico, trovano tutte un loro punto di riferimento nell'opera di Raniero Panzieri, variamente mescolata con altri filoni teorici e culturali di prevalente derivazione terzinternazionalista o revisionista. Il contributo di Raniero Panzieri è stato quello di spianare la strada alla riscoperta della autonomia operaia, indicando alle successive generazioni rivoluzionarie dove essa andasse cercata: nei rapporti di produzione e nella loro evoluzione.
È il poderoso sviluppo dell'autonomia operaia negli anni '68 e '70 che permette di rimettere sui piedi, cioè di rifondare materialisticamente, quella teoria che la reazione soggettivista alla concezione revisionista delle « forze produttive » aveva finito per far camminare a testa in giù.
In questo incontro fecondo con la realtà della lotta di classe si sviluppò nella pratica una decantazione di quelli che erano gli aspetti positivi e giusti delle teorie precedenti: la critica della organizzazione capitalistica del lavoro da un lato; la ricerca di una definizione dello scontro tra le classi che permettesse, in ogni fase, di identificarne gli interessi fondamentali ed i rapporti di forza reciproci, dall'altro.
Questo incontro, anche se per molto tempo si rimarrà lontani dalla capacità di coglierne tutte le implicazioni teoriche, avviene in una ridefinizione del salario come terreno fondamentale di scontro tra operai e capitale in quella fase.
Da un lato infatti il salario, inteso come prezzo della forza-lavoro, rimanda alla natura di quest'ultima, di merce, cioè, tra altre merci; e quindi riapre la strada ad una analisi delle contraddizioni del capitalismo che non può più prescindere dall'esistenza del mercato; in ultima analisi, rimanda ad una teoria della crisi.
Dall'altro lato, l'analisi della struttura del salario, cioè della sua composizione interna (parte fissa, parte variabile, incentivi, ecc.) mette direttamente in relazione lo scontro sui problemi della organizzazione del lavoro, di cui la struttura del salario non è che una sedimentazione storica, con il mercato e il suo funzionamento; facendo così superare quella dimensione puramente aziendale che la critica all'organizzazione del lavoro rischiava di trascinarsi dietro come suo connotato permanente.
Le tappe di questa riscoperta teorica e le battaglie che l'hanno accompagnata sono parte della storia di Lotta Continua; dei contributi teorici che in essa sono confluiti o che di essa si sono alimentati il più fecondo, per quanto viziato da deprecabili imbalsamazioni accademiche, è forse il rinnovato interesse per il mercato del lavoro, per le sue articolazioni interne, per la sua evoluzione storica. Nelle parti migliori di questi studi, quella che si suole chiamare la « rigidità del lavoro », cioè la forza conquistata dalla classe operaia sul terreno della lotta contro l'organizzazione capitalistica della produzione, viene messa in connessione diretta, anche se non meccanica, con l'evoluzione storica del mercato del lavoro e, quindi. con il ciclo capitalistico e con la crisi; permettendo così di ritrovare il nesso tra ciò che costituisce il nucleo irriducibile dell'autonomia operaia e la crisi che il sistema capitalistico sta attraversando a livello mondiale.
 
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view post Posted on 15/9/2012, 14:53
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compagno

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A mio avviso è necessario recuperare le esperienze a sinistra del PCI , dai demoproletari ....

Io militai per anni nel PdUP. Credo proprio che oggi non ci sia nulla da recuperare di quel tipo.
 
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Ceskystev
view post Posted on 15/9/2012, 15:14




Lotta comunista aveva (o ha?) i suoi difetti, ma un gran pregio l'ha avuto, ha pubblicato tantissime opere di Marx, Engels e Lenin, che normalmente nessuno avrebbe mai trovato, tanto di cappello.
 
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view post Posted on 15/9/2012, 16:16
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compagno

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CITAZIONE (Ceskystev @ 15/9/2012, 16:14) 
Lotta comunista aveva (o ha?) i suoi difetti, ma un gran pregio l'ha avuto, ha pubblicato tantissime opere di Marx, Engels e Lenin, che normalmente nessuno avrebbe mai trovato, tanto di cappello.

Peccato che stiamo parlando delle tesi di Lotta continua.
I fumi solforosi dell'Etna creano danni?
 
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Ceskystev
view post Posted on 15/9/2012, 17:34




CITAZIONE (carre @ 15/9/2012, 17:16) 
CITAZIONE (Ceskystev @ 15/9/2012, 16:14) 
Lotta comunista aveva (o ha?) i suoi difetti, ma un gran pregio l'ha avuto, ha pubblicato tantissime opere di Marx, Engels e Lenin, che normalmente nessuno avrebbe mai trovato, tanto di cappello.

Peccato che stiamo parlando delle tesi di Lotta continua.
I fumi solforosi dell'Etna creano danni?

Errore mio, nomi simili.
 
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view post Posted on 15/9/2012, 23:18
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Forse è per via di questa confusione teorica che sono falliti , ma era un bel movimento. A mio avviso è necessario recuperare le esperienze a sinistra del PCI , dai demoproletari ai marxisti leninisti in senso stretto e capire in cosa hanno sbagliato . Lo stesso Lenin studiò ed esaminò oggettivamente socialdemocrazia , laburismo e marxismo classico e costituì un marxismo all'avanguardia ripulito dal revisionismo

Infatti Lenin non costruì un movimento a sinistra di un'altro (e ce ne erano molti rispetto ai quali stare a sinistra, dai menscevichi ai socialrivoluzionari), ma organizzò e diresse strategicamente in senso autonomo e rivoluzionario la sinistra del movimento proletario russo. Il che è molto molto diverso.
Ciò distingue la potenzialità del leninismo, come analisi, strategia e prassi del movimento proletario d'avanguardia e organizzato, dai limiti del movimentismo marxiano, operaista di sinistra e soggettivista di Lotta Continua e del gauchismo in generale, sebbene oggi, nel buio marasma attuale, ci appare luminescente, non tanto per quello che in sè afferma, ma per la capacità di lotta che la classe e le masse allora seppero mettere in campo.



CITAZIONE
Lotta comunista aveva (o ha?) i suoi difetti, ma un gran pregio l'ha avuto, ha pubblicato tantissime opere di Marx, Engels e Lenin, che normalmente nessuno avrebbe mai trovato, tanto di cappello.

uno sfogo...mi è venuta in mente la scena del film con Troisi in cui qualcuno gli dice che "quando c'era lui i treni arrivavano in ritardo" (intendendo Mussolini) e Troisi risponde "allora potevano farlo capostazione"
Ecco, visto che sono così bravi a editare libri non facciano il "partito rivoluzionario" ma la casa editrice (così ci risparmiano anche le loro falsificanti introduzioni, le quali spesso non fanno altro che negarne e ribaltarne il contenuto e la prospettiva delle opere a cui sono anteposte)
 
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babeuf
view post Posted on 16/9/2012, 11:03




Sono d'accordo con chi sostiene che andrebbe fatto un bilancio dell'esperienza della sinistra rivoluzionaria. Sicuramente il proclamato superamento del leninismo da parte di Sofri si è rivelato nefasto, vero invece che le avanguardie operaie di Lc e dei gruppi operaisti svolsero un ruolo fondamentale nelle fabbriche , soprattutto torinesi , dei primi anni 70. Tra l'altro rispetto alle teorizzazioni di Sofri era molto più interessante il Lenin più Mao di Della Mea del pot. op pisano.
Per quanto riguarda la cultura ml ha a me ha sempre interessato l'Ms milanese, poi Mls..anche se fu un'esperienza finita ingloriasamente a partire dal 77.
Un tentativo davvero interessante di ricostruire il pc fu quello del Pcd'i soprattutto nell'impostazione della linea rossa e della rivista Lavoro Politico.
 
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Yuri Gagarin
view post Posted on 16/9/2012, 12:47




Le Tesi



SULLA QUESTIONE DEL PARTITO




1. - La forza strategica del partito

La concezione del partito è strettamente legata al rifiuto di una dogmatica separazione fra lotta economica e lotta politica della classe operaia. Questa separazione nega il significato strategico della lotta della classe operaia contro il modo di produzione capitalista. Essa appiattisce la lotta quotidiana delle masse proletarie a una funzione di difesa contrattuale, di espansione organizzativa, di preparazione alla politica, e concentra nel partito la strategia.
Essa conduce a una concezione ideologica della coscienza di classe, separandola dalla sua radice nei rapporti di produzione. Negare che il comunismo coincida col processo reale attraverso il quale il proletariato lotta per l'abolizione dello stato di cose esistente, equivale a negare la autonomia di classe come una prerogativa delle masse, e ridurla a una prerogativa del partito.
La forza strategica del partito rivoluzionario consiste viceversa nel suo giusto rapporto con l'autonomia della classe operaia; la sua necessità storica consiste nella necessità ineliminabile di una direzione tattica della lotta proletaria per il comunismo nello scontro per la conquista e l'esercizio del potere politico.

2. - Il partito di avanguardia e la linea di massa

Questa concezione del partito consente una giusta risposta all'alternativa fra il partito di militanti di professione e il partito di massa. Il partito di militanti di professione corrisponde a una rigida definizione ideologica della coscienza rivoluzionaria, e a una concezione del processo rivoluzionario che lo identifica in ultima istanza con il processo insurrezionale, identificando la direzione del partito con la direzione sull'insurrezione. In questo modello storico, il partito appare come il necessario strumento di mediazione — attraverso il programma — di interessi di classe relativamente indipendenti o opposti, per assicurare alla classe operaia l'alleanza di classi e strati maggioritari della popolazione, in un momento di precipitazione della crisi del sistema di dominazione borghese.
Questo modello di partito è inadeguato in una fase storica che vede una profonda modificazione nella composizione di classe, nelle forme storiche di organizzazione della classe, nel modo di manifestarsi della crisi capitalistica.
Nella composizione di classe, dove il fenomeno più rilevante è la crescita quantitativa (e qualitativa) della classe operaia di fabbrica e del lavoro salariato, accompagnata da una progressiva perdita di indipendenza degli strati sociali intermedi.
Nelle forme storiche di organizzazione della classe, in cui si manifesta in modo contraddittorio il peso di un patrimonio lunghissimo di lotte sindacali e politiche e di trasformazioni rivoluzionarie, dall'ottobre sovietico alla conquista proletaria del potere in numerose zone del mondo; il rapporto fra partito rivoluzionario e classe si confronta perciò, e in modo determinante, col peso dell'organizzazione storica, sindacale e politica, della classe.
Infine, nel modo di manifestarsi della crisi capitalista, che ne rende più controllata e prolungata la precipitazione, e impedisce un suo rapido sbocco insurrezionale, aprendo con ciò stesso la possibilità di un ricongiungimento fra lotta quotidiana e scopo finale, fra i momenti che una volta venivano separati e definiti come programma minimo e programma massimo, e dunque la possibilità di una progressiva crescita e radicamento dell'organizzazione rivoluzionaria nella lotta di classe, nella lotta per la unificazione del proletariato.

3. - Il punto d'approdo revisionista del partito di massa

La concezione revisionista del partito di massa rappresenta il punto di approdo della degenerazione del partito di quadri professionali. Essa convive ambiguamente col primo, esprimendo per un lungo periodo la contraddittoria compresenza di un'ipotesi cospirativo-insurrezionale con un'ipotesi pacifica ed elettorale (si pensi alla storia del PCI, alla linea del « doppio binario », alla stretta del '48). Priva di un'autonomia strategica, cioè di una giusta teoria della classe operaia e del comunismo, l'ipotesi insurrezionale si alimenta di una pura autonomia tattica; essa è strategicamente subalterna allo stalinismo e alla sua versione togliattiana, e non va oltre un'azione di resistenza alla trasformazione elettoralistica del partito; una volta sconfitta sul suo terreno, quello della tattica, è destinata a scomparire politicamente, e a riaffiorare come puro deposito settario.
In virtù di questa debolezza strategica, che trova una relativa corrispondenza nella struttura e nella coscienza della classe operaia di quel periodo, trionfa una concezione socialdemocratica ed elettoralista del partito di massa, capace, pur tra fortissime contraddizioni, di raccogliere e di deviare su un terreno rigidamente democratico-borghese e interclassista la forte spinta politica delle grandi masse. In questa concezione viene ripudiata la funzione di avanguardia del partito proletario e il suo rapporto con l'autonomia di classe, cioè una giusta linea di massa rivoluzionaria.
Si esprime, in questa concezione dell'organizzazione, la compiuta evoluzione socialdemocratica del partito comunista, che continua a conservare la sua denominazione e l'uso di una continuità storica e ideologica per una serie di fattori, primo e più importante fra i quali è la forza politica della classe operaia, e le condizioni invalicabili che essa impone a chi ne assume e ne deve conservare la rappresentanza. (Una carta geografica della presenza e della forza dei partiti comunisti in Europa offre un indice distorto ma significativo della dislocazione della forza politica del-la classe operaia).

4. - Il sostegno del compito dirigente del partito di classe

Il partito rivoluzionario è un partito di militanti d'avanguardia. Esso organizza in forma attiva i militanti comunisti consapevoli della necessità di una direzione politica della lotta di classe, della lotta per la conquista della maggioranza del proletariato alla rivoluzione, della lotta per il potere.
Il ruolo di avanguardia del partito dipende strettamente della sua linea di massa. La coscienza di classe è il frutto della lotta di classe. Il partito trae materialmente la sua forza strategica dalla capacità di vivere la vita e la lotta delle masse, di raccoglierne le indicazioni, di analizzarle alla luce della teoria marxista, di ricondurle nella lotta delle masse. Il partito non è il portatore della coscienza politica ma lo strumento per armare la coscienza politica della classe e dei suoi membri più avanzati verso la vittoria rivoluzionaria.
Il partito nasce e affonda le sue radici dove nasce e affonda le sue radici la lotta e la coscienza di classe, e dove si formano le avanguardie del proletariato: in primo luogo nella fabbrica.
La direzione operaia nel partito trova il suo primo terreno di verifica nella presenza del partito nella fabbrica, nella sua capacità di rendersi espressione, e nello stesso tempo di essere strumento di direzione, dell'avanguardia operaia di massa.

5. - L'« interno » e l'« esterno »

L'esperienza storica dimostra che nella concezione rigidamente ideologica della coscienza si annida una rigida e unilaterale separazione tra i membri del partito e le masse, tra l'« interno » e I'« esterno » del partito.
Essa conduce ad affrontare e a risolvere burocraticamente le contraddizioni nel partito separandole dalle contraddizioni nelle masse. L'esperienza del partito comunista cinese rappresenta, a questo riguardo, la più efficace e coerente risposta pratica alla degenerazione del partito bolscevico.
Alla radice di quella degenerazione sta una concezione che mette l’economia al posto di comando, e che espropria le masse del loro ruolo di protagoniste della lotta per il comunismo. La rivoluzione cinese ha saputo trarre i frutti più fecondi dalla lunga durata del suo processo, da una lotta che « dalle campagne è andata verso le città », e dalle lezioni della vittoria, delle difficoltà e della degenerazione della rivoluzione sovietica. Lo statuto approvato dal X congresso del PCC è l'esempio migliore del rapporto organico tra partito e classe, ed è un riferimento fonda-mentale per la nostra definizione statutaria.
La designazione dei membri del partito comunista cinese prevede l’intervento attivo delle masse senza partito. Esso esemplifica una concezione sostanziale e non formalmente disciplinare del centralismo democratico, che non regola solo i rapporti interni al partito, ma anche e soprattutto il rapporto fra il partito e le masse.
Questa concezione vale nella sua sostanza per ogni partito rivoluzionario, qualunque sia la forma diversa che assume nelle particolari circostanze e situazioni in cui esso agisce. Chiamare le masse a designare i membri del partito significa per noi prima di tutto conquistare al partito quei proletari che esse riconoscono come dirigenti nella loro lotta; e in secondo luogo sottoporre costantemente alla verifica dell'azione di massa al giudizio delle masse i militanti che il partito raccoglie per farne dei dirigenti della lotta di classe rivoluzionaria. Questo rapporto vale per il partito nel suo insieme, per la sua linea politica, per í suoi singoli membri. Alla corretta realizzazione di questo rapporto è legata la capacità di lottare contro i metodi amministrativi nel partito, contro le deformazioni ideologiche, avventuriste, opportuniste della sua linea politica, contro il minoritarismo della sua visione politica.
Il compito fondamentale del partito rivoluzionario è costantemente l'attenzione al rapporto fra una linea giusta e i bisogni e la coscienza della maggioranza del proletariato.

6. - L'origine di « Lotta Continua »

Lotta Continua ha avuto un'origine diversa da quelle tradizionali, da quelle della maggior parte delle altre formazioni di sinistra: in queste formazioni, l'atto di nascita coincide con una definizione ideologica, con una filiazione più o meno diretta — spesso nella forma della scissione — dall'organizzazione revisionista (come avviene per le formazioni di origine trotzkista, « marxista leninista », o neo-revisionista: Avanguardia Operaia, partiti « m.1. », PDUP-Manifesto).
La diversità della nostra origine è quello che uno schema degenere chiama « spontaneismo ». Essa ha corrisposto alla consapevolezza che una esistenza non parassitaria del partito è saldamente vincolata al suo rapporto con la lotta di classe; che il « nuovo » nel partito, e il rapporto col vecchio », con la storia del movimento operaio, del suo pensiero e della sua azione, è subordinato all'emergere del nuovo nella classe operaia, nella sua composizione, nella sua lotta.
La nostra storia, tra errori e limiti molto forti, né è una dimostrazione. Lotta Continua è nata come il partito della lotta di un reparto di avanguardia della classe operaia, di una lotta che nella sua immediatezza e particolarità conteneva, come un patrimonio cui attingere sulla base della teoria marxista, un significato generale, un filo conduttore per il cammino dell'unità del proletariato, per la formulazione del programma nel quale il processo di unificazione politica del proletariato trova organicamente espressione.
A quella lotta, al suo carattere al tempo stesso particolare e universa-le, noi abbiamo attinto nella nostra elaborazione teorica, e anche, concretamente, nella costruzione della nostra organizzazione, dei suoi militanti.

7. - La nostra storia

Il 1969 non è stato l'anno zero dell'autonomia operaia in Italia, né la vita politica dei singoli militanti che hanno concorso alla formazione di Lotta Continua è cominciata solo nel 1969; e tuttavia la nascita di Lotta Continua nel 1969 corrisponde in modo organico (e indubbiamente parziale) a quello che è stato un vero e proprio balzo in avanti della lotta e della coscienza della classe operaia.
La storia successiva di Lotta Continua non è stata affatto né doveva essere la storia di una liberazione progressiva da un presunto peccato originale « spontaneista ». Al contrario, altri modi di concepire la costruzione del partito hanno costretto i loro fautori a un tortuoso sforzo di liberazione dall'ideologismo e dal distacco dalle masse, compromettendone o comunque ostacolandone seriamente la comprensione reale dell'autonomia di classe.
Essa è stata invece la storia, tutt'altro che lineare, del superamento di una interpretazione minoritaria del compito del partito rivoluzionario, della conquista di una corretta concezione della tattica. Alla sua nascita, Lotta Continua è stata la manifestazione immediata della riconquista esplicita di un'autonomia strategica della parte più avanzata della classe operaia. Più avanti, ha dovuto affrontare compiti nuovi; costruire la capacità di superare l'immediatezza dell'affermazione dell'autonomia operaia, e accompagnarne o orientarne il processo di consolidamento e di generalizzazione. Questo significava per la classe operaia fare i conti con la propria composizione interna, con le proprie differenze, col resto del proletariato, con le organizzazioni presenti al suo interno: in una parola, con la propria storia. Un processo sociale di dimensioni enormi si sviluppava secondo le leggi della contraddizione che regolano il movimento reale: dall'affermazione dell'autonomia di classe da parte del settore più avanzato della classe operaia, il frutto più limpido del modo di produzione capitalista e al tempo stesso il più radicalmente e universalmente ostile al modo di produzione capitalista, in una contraddizione frontale con la direzione revisionista della classe operaia, alla conquista di una più ampia unità, di una sintesi più avanzata.
La forma che ha assunto si è legata, in modo non gradualistico, al carattere prolungato della crisi borghese e del processo rivoluzionario.
In questo processo, anche Lotta Continua ha dovuto fare i conti con l'analisi delle classi, con la storia del proletariato, con il peso della sua storia passata nella sua storia presente, commettendo gravi errori e rischiando gravi conseguenze nel rapporto con le masse.
La forza strategica, il legame e la comprensione dell'autonomia operaia, ha rischiato di rovesciarsi in una gravissima debolezza tattica. A quella forza strategica era dovuta la giusta e tempestiva comprensione della natura della crisi capitalista, del fallimento dell'alleanza riformista fra capitale avanzato e movimento operaio, della continuità della lotta operaia oltre la chiusura dell'autunno caldo. A quella debolezza tattica era dovuta la previsione che il processo della generalizzazione dell'autonomia operaia, dell'unificazione del proletariato, avrebbe dovuto scavalcare le mediazioni con l'organizzazione storica del proletariato, e che dunque a Lotta Continua spettasse senza mediazioni di stimolare e dirigere quel processo. In ritardo sullo stesso sviluppo reale del movimento di classe, Lotta continua ha rischiato di interpretare riduttivamente l'autonomia di classe, identificandone l'espressione politica ampia e multiforme con la sua posizione e, al limite, con la sua organizzazione, e dunque di mettere al primo posto l'organizzazione, e di oscillare verso tentazioni burocrati-che o militariste.
La rettifica di questi errori ha preso le mosse da un ritorno paziente alla classe operaia, all'analisi e alla riflessione metodica sulla dinamica delle sue lotte e della sua organizzazione, al rapporto con quella dinamica. Il nostro congresso nazionale è un punto di arrivo di questi anni di costruzione del partito all'interno del movimento di classe. Nella comprensione generale del rapporto fra strategia e tattica si fonda la possibilità di autonomia nella costruzione del partito.

8. - I militanti del partito

Alle nostre origine, c'è una coincidenza organica, perfino fisica, fra i compagni dirigenti della lotta operaia e proletaria, e i militanti dell'organizzazione. E la lotta di massa che designa nei fatti i militanti di Lotta Continua, anche se il reclutamento naturale nella lotta di massa non è il solo (esistono anche allora singoli compagni che si raccolgono per altre strade nell'organizzazione). La fonte di legittimazione di quei compagni e dell'organizzazione sono « fisiologicamente » le masse.
Rispetto a quella prima fase, e attraverso una evoluzione ormai lunga, il reclutamento dei militanti si è profondamente modificato. Ancora oggi — e questo è un elemento decisivo per il carattere del partito — un numero molto alto di nuovi compagni proviene dalla lotta, dal tirocinio e dalla candidatura fondamentale nella direzione della lotta di massa. Ma moltissimi altri compagni arrivano all'organizzazione diversamente, sulla scorta di esperienze individuali, dell'interesse o dell'adesione alla nostra linea politica, in alcuni casi da una milizia precedente nel movimento operaio, spesso, soprattutto i più giovani, senza o con assai scarse esperienze di lotta. Questi compagni divengono militanti di un partito di avanguardia che vuole esercitare una direzione rivoluzionaria della lotta di classe. La fonte di legittimazione politica di questi compagni non sono le masse, bensì il partito, Lotta Continua. In ciò si esprime una contraddizione politica che deve essere affrontata correttamente e con modestia. Non è un problema di scuola quadri, o lo è solo in via secondaria. La più importante, la più insostituibile scuola per i militanti rivoluzionari è la lotta di classe. Questo non può significare in alcun modo che le porte del partito si chiudono a chiunque non sia passato attraverso la esperienza della lotta di massa, e da essa sia stato designato come militante di avanguardia. Ciò trasformerebbe il partito in un organismo asfittico e parassitario. Al contrario, il partito deve, lungi dal rilasciare patenti di dirigenti rivoluzionari, saper essere il tramite fra i suoi membri e la scuola delle masse.
Ogni militante ha il diritto di esigere dall'organizzazione che la sua formazione politica avvenga nel vivo del lavoro di massa. Qui, e non altrove, sta essenzialmente la questione della « candidatura », altrimenti ridotta a una pura procedura burocratica, o alla pur necessaria esigenza di vigilanza. La candidatura coincide con un'attività specifica di formazione, nel lavoro di massa, dei compagni che entrano nell'organizzazione per essere dei dirigenti rivoluzionari.
Di fronte a ogni suo nuovo membro è l'insieme del partito che deve sentirsi candidato alla riuscita della sua formazione.

9. - Dove si forma il partito

Il giudizio e la partecipazione attiva delle masse devono essere costantemente ricercati e sollecitati, con uno sforzo specifico. Devono essere combattuti i punti di vista che considerano le masse come oggetto passivo dell'azione del partito, o nella migliore delle ipotesi come suoi giudici finali. La partecipazione attiva delle masse alla costruzione della linea politica non può sempre avvenire nella forma della riunione nelle nostre sedi. Dobbiamo imparare a costruire il partito tra le masse, a riconoscere come militanti quei proletari che tra le masse portano avanti esplicitamente la nostra linea, a dare loro strumenti per consolidare il rapporto con l'organizzazione, senza pretendere di imporgli la strada obbligata delle nostre sedi. L'indicazione data perché il dibattito congressuale sia aperto, parta dai luoghi di lavoro e di vita delle masse, coinvolga attivamente il maggior numero di proletari, anche se non in modo formale, anche senza pretendere di passare attraverso la lettura delle tesi, ma spiegando e facendo discutere i problemi che vengono trattati nelle tesi, questa indicazione non vale solo per il nostro congresso, ma vale quotidianamente per l'azione politica del partito.
Una concezione settaria e parrocchiale della vita del partito non ha alcuna legittimità teorica e pratica. Vi sono compagni preoccupati che tutto ciò annulli l'autonomia del partito: è come essere preoccupati che l'aria tolga autonomia a chi la respira. Ci sono compagni che pensano che la linea « dalle masse alle masse » designi solo il rapporto fra base e vertice del partito e non il rapporto fra classe e partito. Ci sono compagni che temono che la discussione interna nel partito ne venga deviata.
In realtà, la democrazia e la creatività del partito dipendono vitalmente dal rapporto con le masse.
Se questo rapporto manca o si attenua, se il partito non raccoglie e trasmette sistematicamente la voce delle masse, è condannato a morire o a paralizzarsi.
Qui è la forza ineguagliabile del partito rivoluzionario, capace di ascoltare, capire, parlare con centinaia di migliaia e milioni di uomini e donne.
Il partito non può essere chiuso nelle sue sedi, nel suo gergo, in un suo ritmo di lavoro, di discussione e di vita lodevole ma anche pericolosamente deformante; né può essere chiuso in una definizione negativa dei militanti, identificati con chi fa a pieno tempo vita di partito, o con chi adempie a una serie di obblighi. Nella definizione statutaria del militante il più elementare dei diritti e dei doveri è quello di contribuire attivamente, sulla base del lavoro di massa, alla costruzione della linea politica e delle decisioni del partito.
Non vi è niente — o quasi niente: l'unico confine rigido è segnato dalla vigilanza — di ciò che si discute nel partito, che non possa essere discusso fra le masse.
Il militante del partito si riconosce in una pratica collettiva, in una concezione strategica, in una linea tattica, nella disciplina del centralismo democratico, per moltiplicare la forza del proprio lavoro rivoluzionario tra le masse, per costruirgli una prospettiva di vittoria; questo non lo innalza sulle masse, né lo allontana da esse, ma moltiplica le ragioni del suo impegno, della sua fiducia nelle masse. Spesso, dietro la pigrizia nell'applicazione della linea di massa, nella sollecitazione alla partecipazione creativa e al giudizio delle masse, c'è l'incertezza, l'insicurezza nel possesso della linea politica, dei suoi termini organici. E un problema che il partito deve affrontare, e che ciascun militante deve affrontare a sua volta, senza aspettare, senza aver paura del giudizio delle masse, senza pensare che la discussione riguardi solo il partito, e fuori di esso debba esserci solo l'agitazione e la propaganda.

10. - Il reclutamento


Si deve considerare con la massima cura il problema del reclutamento. Troppo spesso si dissolve il problema del reclutamento in quello dell'azione politica generale e dell'intervento nelle lotte, nell'implicita convinzione che il reclutamento di nuovi compagni sia il frutto spontaneo dell'azione politica generale o dell'intervento nelle lotte. Questo è un errore, tanto dannoso quanto è preziosa la conquista di ogni nuovo militante.
Oggi è impensabile una coincidenza immediata tra politicizzazione delle avanguardie di classe e loro reclutamento in Lotta Continua. Dal '69 ad oggi, molte cose sono cambiate, e questi cambiamenti portano il segno della forza di classe. I canali di impegno politico delle avanguardie operaie si sono moltiplicati, hanno aperto varchi nelle organizzazioni tradizionali, hanno investito i consigli, í gruppi, e una vasta rete organizzativa di base. L'adesione alla nostra organizzazione dipende sempre di più dalla comprensione dei termini generali della nostra linea, ed esige dunque come condizione precisa la più ampia e metodica discussione e chiarificazione della nostra linea tra le avanguardie di massa, aprendo un dibattito che si allarghi ai problemi di fondo, alla questione della possibilità e delle con-dizioni della vittoria rivoluzionaria.
Reclutare politicamente nuovi compagni, allargare non solo la simpatia e il consenso di massa alle nostre posizioni, ma le file del nostro partito, è una verifica decisiva della giustezza della nostra linea. In ogni lotta, in ogni situazione di massa, noi dobbiamo saper analizzare specificamente la composizione politica del proletariato, individuare i settori di avanguardia e gli stessi singoli militanti che possono e devono essere conquistati non solo alla linea politica, ma alla milizia di partito.
La scelta di non alimentarsi parassitariamente o demagogicamente di un'« area rivoluzionaria » ecletticamente definita, deve andare di pari passo con l'attenzione al rafforzamento delle file del partito, al reclutamento dei militanti di partito. Ogni tendenza minoritaria e aristocraticista dev'essere combattuta e battuta.

11. - Il centralismo democratico

I rapporti interni al partito sono regolati dal centralismo democratico.
L'adesione cosciente a una disciplina collettiva segna una fondamentale demarcazione fra i militanti del partito e chi non ne ha ancora riconosciuto, o ne nega, la necessità rivoluzionaria.
Il centralismo democratico si oppone alla radice a ogni concezione del partito come federazione di correnti diverse e indipendenti, o come organo di opinione. Il centralismo democratico stabilisce la più ampia libertà nel processo di discussione e di decisione politica, la più rigorosa unità nell'azione e nell'applicazione della linea politica. Il centralismo democratico subordina la volontà del singolo a quella collettiva, la minoranza alla maggioranza, l'organismo inferiore a quello superiore, liberamente eletto.
Il centralismo democratico, lungi dal negare il dissenso e la contraddizione, vede in essi una molla essenziale della vita e della creatività politica del partito, e una manifestazione della lotta di classe in seno al proletariato. « Andare controcorrente » non è l'affermazione tollerante e per-missiva di un « diritto », ma l'affermazione di un dovere. Che ciò si realizzi non dipende dallo statuto ma dal rapporto con la realtà sociale, dalla capacità di sviluppare in modo critico il processo di conoscenza collettiva della realtà sociale.
Il dovere di « andare controcorrente » nella conoscenza delle proprie forze, delle forze del nemico, nell'elaborazione della linea di azione, non può essere riferito all'azione stessa, alla applicazione della linea. In questa fase vige il centralismo più rigoroso, senza il quale l'organizzazione non sarebbe un'organizzazione di lotta e di combattimento.
Fuori da questo metodo, capace di sviluppare al massimo l'autonomia e il decentramento dell'iniziativa dei singoli militanti e delle rispettive strutture dell'organizzazione, e insieme di assicurarne la concentrazione della forza, il partito è disarmato sia nei confronti della sua azione tra le masse in una situazione legale, sia, e più direttamente, nei confronti della sua vita e della sua azione tra le masse in una situazione di scontro frontale o di illegalità.
Il rifiuto delle correnti organizzate e permanenti è la conseguenza di questa concezione del partito, della sua unità, democrazia interna, capacità di azione.
Il confronto e la lotta politica nel partito non possono essere affrontati in termini amministrativi, né tantomeno regolati da una casistica di garanzie giuridico-formali, che riproducono il modello della libertà formale della borghesia, e sono il baluardo più fragile contro la degenerazione della linea politica e del rapporto del partito con le masse. Il confronto e la lotta politica nel partito devono essere regolati dal principio della ricerca dell'unità su una linea politica giusta, che è il frutto della contraddizione. La democrazia non è un diritto, ma un dovere; non è un fine, ma un mezzo irrinunciabile.
Nei casi in cui la contraddizione è antagonistica, la sintesi non è una questione di persuasione, bensì di forza. Ciò avviene di fronte agli agenti del nemico, ai provocatori e agli infiltrati; di fronte a chi conduca nel partito una lotta di opposizione attraverso la strada vigliacca dell'intrigo, della cospirazione frazionista, del colpo di mano; di fronte a chi boicotti ostinatamente l'applicazione della linea del partito.

12. - L'eclettismo nella costruzione del partito: la concezione «istituzionale»

La costruzione del partito procede attraverso la crescita della lotta di classe e l'influenza della lotta di classe sulle organizzazioni che ne esprimono la direzione.
Negli anni scorsi il problema della costruzione del partito rivoluzionario ha ricevuto due risposte fondamentali. Una metteva al primo posto non la classe, ma la sua organizzazione storica, e vedeva la nascita del partito come il prodotto di una trasformazione o di una rottura all'interno dell'organizzazione storica del movimento operaio. Ignorando l'autonomia della lotta di classe, o considerandola subalterna rispetto ai suoi riflessi nell'organizzazione tradizionale del movimento operaio, questa risposta metteva al primo posto una soluzione istituzionale al problema della fondazione del partito, da attuarsi attraverso ipotesi come il « recupero » del partito riformista, l'entrismo, la scissione o la conquista di quote di controllo nel sindacato.
La seconda risposta di fondo, in cui stanno le premesse alla nascita di Lotta Continua, non ignora il peso delle modificazioni nell'organizzazione istituzionale della classe operaia, ma le fonda, e fonda la possibilità del partito sulle trasformazioni nella struttura, nella lotta e nella coscienza della classe.
Il rifiuto di autoproclamarsi in partito e il rifiuto di impegnare le nuove energie rivoluzionarie in una lotta interna al movimento operaio organizzato si sono tradotti in un lungo periodo di costruzione di un rapporto con le masse, di stimolo all'espressione autonoma della classe. La scelta di andare alle fabbriche significava allora il capovolgimento di una vecchia e stantia tradizione politica e restituiva alla classe, fuori dal filtro delle sue consolidate rappresentanze politico-sindacali, il ruolo di protagonista.
Oggi si assiste a un relativo consolidamento di una serie di organizzazioni a sinistra del PCI insieme con la scomparsa di altre, e d'altra parte a una rilevante tenuta del controllo maggioritario sul proletariato da parte dei PCI, e infine a una profonda e contraddittoria trasformazione nel ruolo e nella dimensione dell'organizzazione sindacale, oltre che a uno sconvolgimento nelle organizzazioni di massa un tempo cardinali per il « collateralismo » democristiano.
Ma ancora oggi nelle ipotesi sulla costruzione del partito si confrontano in forma nuova quelle due vecchie risposte di fondo: quella « istituzionale » e quella che mette al primo posto il rapporto diretto con la classe.
Vi sono organizzazioni, come il PDUP-Manifesto e Avanguardia Operaia, che fondano esplicitamente la loro teoria della costruzione del partito sulle modificazioni nello schieramento istituzionale della sinistra, dal PSI al PCI, al sindacato, alla « sinistra cattolica », alle stesse maggiori organizzazioni extraparlamentari, ormai esse stesse sufficientemente stabili e « istituzionalizzate ».
La condizione e la forza del futuro partito rivoluzionario è, più o meno esplicitamente, identificata in queste concezioni con un processo di trasformazione istituzionale, di volta in volta definito come « profondo rimescolamento della sinistra », « aggregazione », « unificazione » eccetera.
Al contrario, la condizione e la forza del partito rivoluzionario risiedono nello sviluppo della lotta di massa, nella maturazione e nella formazione di nuove avanguardie, nella loro crescente conquista di un punto di vista di partito.
Per una lunga fase almeno, il rafforzamento quantitativo e politico del partito dipenderà dal suo rapporto diretto con la lotta di massa e con le sue avanguardie, e non da un processo di unificazione o di federazione di organizzazioni diverse, e tanto meno da una « rifondazione in tutta la sinistra », se per sinistra si intende uno schieramento istituzionale.
Schematicamente, fra noi e queste organizzazioni appare esattamente rovesciato il rapporto fra strategia e tattica — e questo rinvia alla concezione stessa dell'autonomia operaia, del comunismo.
In queste organizzazioni viene praticato sempre, e spesso teorizzato, il più spregiudicato atteggiamento di flessibilità tattica sul terreno che in realtà definisce la strategia, quello dell'autonomia operaia, della concezione della crisi; e, viceversa, una concezione « strategica » di quello che in realtà è il terreno della tattica, del rapporto con l'organizzazione revisionista e riformista.

13. - Le modificazioni nel PCI

E' esclusa l'ipotesi di una trasformazione del PCI in un partito rivoluzionario: questa ipotesi urta frontalmente contro la natura del revisionismo e della sua contraddizione con la linea rivoluzionaria. Le modificazioni nella linea del PCI, indotte da condizioni interne o internazionali, non possono andare oltre i limiti di un indurimento tattico del conflitto col sistema di rappresentanza politica della borghesia. Assai poco credibile è l'ipotesi di una consistente spaccatura verticale del PCI, né legata a condizionamenti internazionali (è del tutto improbabile che una svolta di politica estera del PCUS si traduca nella promozione sovietica di una scissione nel PCI) né di fronte a una eventualità di collaborazione governativa, che lascerebbe il più ampio spazio alla composizione delle differenziazioni interne. E necessario sottolineare la inesistenza, all'interno del quadro dirigente del PCI, non di differenziazioni interne anche profonde, ma di un'alternativa strategica.
Infine, l'ipotesi di una precipitazione della crisi nel rapporto tra il PCI e le masse, sul piano dell'influenza politica, organizzativa ed elettorale, è perlomeno altrettanto improbabile. Al contrario, nella situazione presente, caratterizzata dalla crisi democristiana, dalla enorme sensibilità antifascista e dalla rivendicazione di massa di una trasformazione del regi-me politico, è fortemente operante la tendenza opposta, che vede contraddittoriamente indebolirsi il controllo sostanziale del PCI sulla lotta e sugli obiettivi della classe operaia, ma rafforzarsi il riferimento organizzativo ed elettorale del PCI stesso. L'ingresso del PCI al governo non basterebbe, di per sé, a rovesciare rapidamente questa situazione: al contrario, esso dilaterebbe questa tendenza contraddittoria.
L'ipotesi di un rovesciamento della forza maggioritaria del PCI, e di una stessa rottura interna al suo apparato dirigente, è dunque subordinata a una situazione di aperta guerra civile, o comunque a una situazione in cui sia cresciuta e si sia fatta evidente nella lotta delle masse un'alternativa organizzativa generale.
Ciò contraddice la possibilità di guardare ecletticamente al processo di costruzione del partito rivoluzionario come a un « rimescolamento generale della sinistra ».

14. - La concezione dell'aggregazione

Altrettanto equivoca è una concezione della costruzione del partito come « aggregazione » di componenti autonome e complementari (tra cui una « componente cristiana » concepita grottescamente dai fautori dell'aggregazione come la portavoce di una « trasformazione nelle coscienze » da aggiungere a un marxismo ridotto alla « trasformazione nelle cose »).
Queste posizioni, che riproducono specularmene la vecchia e strumentale teoria revisionista dell'alleanza tra le « grandi componenti popolari » — cattolica, socialista e comunista — servono solo a oscurare i termini reali del problema che il partito rivoluzionario si trova di fronte: rafforzare la direzione dell'autonomia di classe nella coscienza e nelle lotte delle grandi masse, raccoglierne e organizzarne nel partito le avanguardie più consapevoli, sollecitarne la crescita organizzativa alla base, fare leva sulla divaricazione fra linea revisionista e necessità di mantenere la rappresentanza delle masse per sviluppare la dimensione generale della lotta di classe.
La conquista della maggioranza del proletariato da parte del partito rivoluzionario, assai prima di diventare capacità di centralizzazione e di guida diretta della maggioranza del proletariato, deve passare attraverso una lunga fase di scontro politico per conquistare la maggioranza del proletariato a una linea rivoluzionaria. Il terreno di questa conquista è, prima che quello del partito, quello della lotta di massa, del suo programma; e quello dell'organizzazione di massa, nelle forme che essa viene assumendo nello sviluppo delle lotte.

15. - I possibili sbocchi della crisi borghese in questa fase

Nella situazione di classe italiana sono contenute grosso modo, in stretta dipendenza dall'evoluzione interna e internazionale, tre possibilità di fondo, ciascuna delle quali può avere un'ampia varietà di realizzazioni. La prima possibilità è quella di una ristabilizzazione del tradizionale
regime borghese, che arresti la crisi democristiana, e riconquisti un equilibrio sociale rispettoso della democrazia borghese, attraverso una più o meno profonda ristrutturazione economica e istituzionale: questa possibilità ha come condizione la sconfitta profonda, o un ridimensionamento drastico della forza operaia e proletaria e della stessa forza della sinistra revisionista. E questa l'ipotesi a cui lavora oggi il settore più forte del grande capitale, e dietro di lui il grande capitale finanziario europeo e un'ala importante dello schieramento americano.
La seconda possibilità è quella di una precipitazione (per ragioni interne o internazionali o per tutte e due) della crisi del regime democristiano e un suo sbocco reazionario esplicito. Se l'offensiva reazionaria riuscisse a imporsi alla risposta di massa, oppure se ne venisse rapidamente liquidata, o anche, sconfitta dopo una fase più o meno lunga di guerra civile, in tutte e tre queste ipotesi l'esito della lotta certamente modificherebbe i rapporti di forza relativi tra il partito rivoluzionario e l'organizzazione revisionista, ma non ne modificherebbe i termini assoluti: il punto di approdo anche negli ultimi due casi non potrebbe essere in termini immediati né la conquista del potere e l'instaurazione della dittatura proletaria, guidata dal partito rivoluzionario, né la restaurazione del regime statale che avrebbe come suo asse di governo la sinistra riformista e revisionista.
La terza possibilità è quella del fallimento della ristabilizzazione borghese e della sconfitta della scelta reazionaria, e di una trasformazione del regime istituzionale, imposta dalla forza della lotta di classe, attraverso la sconfitta definitiva della DC e la formazione di un nuovo governo di sinistra.
Questo genere di previsioni ha un carattere necessariamente relativo. Tuttavia esse valgono a esemplificare l'impossibilità di fondare la costruzione del partito e della sua linea tattica sia su una ipotesi opportunista di trasformazione dell'organizzazione revisionista e riformista, sia su una ipotesi avventurista (tipica di una posizione militarista, anche se non esplicitata) di scomparsa dell'organizzazione revisionista e di conquista del potere per via diretta, senza il superamento di una fase intermedia, da parte del partito rivoluzionario. Non a caso nella prima posizione i compiti di avanguardia del partito scompaiono, e nella seconda scompare la linea di massa.
Il ruolo d'avanguardia del partito, la sua iniziativa autonoma, la sua capacità di sostenere con tutto il suo peso e senza riserve le tendenze giuste all'interno delle masse impongono all'insieme del partito la capacità di cogliere in ogni momento il rapporto fra direzione rivoluzionaria ed autonomia, in una fase in cui il rapporto fra l'autonomia di classe e l'organizzazione maggioritaria della classe non si presenta in modo statico, subisce modificazioni profonde e contraddittorie, segnate comunque nel loro insieme dal crescere della divaricazione strategica fra linea revisionista e programma delle masse; in una fase in cui il processo di unificazione del proletariato avviene all'interno di uno scontro di classe acutissimo, in cui già sono presenti rabbiosi tentativi di reazione da parte della borghesia e, al tempo stesso, la sua volontà di costruire le condizioni per un'offensiva reazionaria più radicale.

16. – I rapporti con le altre forze che lavorano alla costruzione del partito

La strada maestra della costruzione del partito non sta dunque nell'aggregazione o nella unificazione o nel rimescolamento di forze organizzate ma nel radicamento del partito nel proletariato, nel reclutamento delle sue avanguardie più coscienti, nella conquista della maggioranza a una giusta linea di lotta, nella conquista della maggioranza nell'organizzazione di massa alla linea rivoluzionaria.
I nostri rapporti con le altre organizzazioni minoritarie della sinistra devono perciò ricevere una maggiore attenzione, in una duplice direzione: quella della ricerca più serrata e metodica dell'unità d'azione su una linea giusta, anche se limitata, in tutte le circostanze in cui questo è possibile; quella della battaglia politica più intransigente e netta sul terreno della linea generale, della concezione del processo rivoluzionario. Non dobbiamo sottovalutare questa battaglia, in una situazione che ci vede impegnati in una articolazione difficile e complessa della nostra linea politica.

17. - La formazione dei quadri

La natura della sua origine, la concezione del rapporto fra teoria e pratica, ha salvaguardato Lotta Continua da uno scolasticismo burocratico nella formazione dei militanti, ma ha reso più complesso e impegnativo il lavoro di studio e di conquista di una formazione omogenea. Superare sempre meglio i limiti su questo terreno è un'esigenza dettata non solo dall'efficacia del lavoro di massa, ma dalla continuità stessa del partito.
Pur in uno spazio di tempo estremamente limitato si manifesta nell'organizzazione una differenza generazionale influente, essenzialmente fra due tipi di compagni: quelli che si sono formati politicamente prima dell'esistenza di Lotta Continua, e che ne hanno vissuto fin dall'inizio la storia, e quelli che si formano in Lotta Continua. Nei primi compagni c'è un patrimonio comune di conoscenze, idee, comportamenti, che è sopratutto il frutto di una lunga esperienza comune.
In questa esperienza comune, nell'omogeneità politica da essa prodotta, nella solidarietà profonda, sta una grossa forza dell'organizzazione, che può tuttavia agire come un limite e un ritardo dell'organizzazione nel suo insieme. Quel tipo di omogeneità, legata naturalmente a un'esperienza di azione e di discussione comune ricca ma al tempo stesso consentita dalla sua limitatezza oggettiva, dalla dimensione di una piccola organizzazione, non è consentita in un'organizzazione con una dimensione nazionale, che raccoglie migliaia e migliaia di militanti.
L'omogeneità e la vitalità dell'organizzazione è messa in forse, e comunque impoverita, da una situazione in cui la continuità e la storia della sua linea e della sua azione sono il « patrimonio non scritto » di chi le ha vissute direttamente.
Se questo ritardo non fosse colmato completamente, ne sarebbe limitata l'autonomia dei militanti del partito, ne sarebbe atrofizzata la ricchezza e l'ampiezza della direzione politica, ne sarebbe minacciata la continuità. La formazione politica dei militanti deve rispondere a questi problemi; educare i quadri significa moltiplicare la forza del partito, c la forza della linea del partito tra le masse. I compagni cinesi dicono: « formare milioni di successori ».
Il congresso è una tappa molto importante in questa direzione. Attraverso il congresso, non si realizza solo una verifica più ampia e precisa della nostra linea politica, bensì il passaggio, nelle regole statutarie di funzionamento interno ma più ancora nei principi cui esse si ispirano, a un quadro di « certezza » di tutti i militanti sulla vita del partito. Tanto maggiore importanza ha la conquista collettiva di questa certezza nell'eventualità del passaggio a una situazione in cui la legalità del lavoro rivoluzionario sia soppressa o drasticamente limitata. In quella situazione, la capacità di autonomia dei compagni che fanno parte di un'unica organizzazione centralizzata è chiamata molto più fortemente in causa. L'accumulazione politica che noi realizziamo oggi è decisiva rispetto a quella prospettiva.
Di questo problema fa parte la necessità che tendenzialmente tutti i compagni, e in modo irrinunciabile tutti i compagni dirigenti, curino la loro formazione rispetto al complesso di problemi politici e organizzativi che riguardano la natura politico-militate della lotta. Questa necessità deriva dalla natura dei compiti del partito. Un militante che non curi la sua formazione su questi problemi non riuscirebbe a occupare il suo posto nell'organizzazione nel momento in cui la contraddizione principale si presentasse nella sua forma militare.

18. - Le strutture organizzate

Il Congresso nazionale, svolto attraverso un dibattito collettivo e organico, e la verifica e la rielezione di tutti gli organismi dirigenti ad ogni livello, ha anche il compito di unificare definitivamente la composizione e il funzionamento delle strutture dell'organizzazione.
La struttura organizzativa primaria del nostro partito è la cellula di fabbrica, o di un altro luogo di lavoro o di massa, di caserma, di scuola.
In ogni nostro intervento dev'essere dedicata la massima cura alla costituzione delle cellule di partito: esse sono la base fondamentale della nostra presenza tra le masse. Le cellule di partito fanno capo alle sezioni territoriali; tuttavia devono sviluppare al massimo un'attività indipendente. Soprattutto, le cellule non devono essere concepite come una suddivisione interna alla vita di sezione.
La massima cura va dedicata alla capacità delle cellule di svolgere la loro attività politica, compresa la discussione politica, nei luoghi di lavoro e non nei locali della sezione. Questo è indispensabile per coinvolgere più ampi settori di massa nell'attività politica delle cellule, e per allargare la capacità di direzione, di radicamento, di autonomia e di reclutamento. Questa indicazione va applicata senza esitazioni: bastano due compagni per costituire una cellula in fabbrica o in una scuola o in una caserma o in un ufficio. Ciascuna cellula deve avere un responsabile politico. All'interno di ciascuna cellula, dev'essere definita con la massima cura la responsabilità specifica di ogni militante rispetto ai compiti politici e organizzativi. L'adesione di nuovi militanti al partito viene decisa dalla assemblea della cellula e ratificata dal comitato direttivo della sezione. Ogni nuovo militante dev'essere presentato agli altri compagni nella assemblea della cellula.
La struttura di coordinamento e di direzione delle cellule e dell'intervento territoriale in un quartiere, in un paese, in una zona politicamente omogenea, è la sezione. La costituzione di sezioni territoriali dev'essere curata dovunque esistano le garanzie minime di continuità della presenza politica. Ciascun militante di Lotta Continua, qualunque incarico ricopra, dev'essere iscritto in una sezione e partecipare della sua vita. L'assemblea congressuale di sezione elegge un comitato direttivo in proporzione al numero dei suoi membri. Il comitato direttivo della sezione divide fra i suoi membri le responsabilità politiche e organizzative. Il comitato direttivo della sezione elegge una segreteria collegiale, e al suo interno un responsabile generale della segreteria.
L'assemblea congressuale dei delegati dei congressi di sezione di una città elegge, in proporzione ai suoi membri, un comitato direttivo cittadino; questo elegge una segreteria collegiale, e al suo interno un responsabile generale della segreteria cittadina. L'assemblea congressuale provinciale elegge un direttivo provinciale, e un responsabile della segreteria, che si affianca alla segreteria della città capoluogo o politicamente più importante.
L'assemblea congressuale provinciale elegge i delegati al congresso nazionale.
In ciascuna struttura, a partire dalle sezioni, dev'essere cura dei compagni di coordinare il lavoro politico in settori diversi attraverso commissioni con un responsabile definito, designato in seno al comitato direttivo.
L'assemblea congressuale nazionale dei delegati elegge il comitato nazionale, sulla base di un criterio che contemperi la proporzionalità con la composizione del partito nelle diverse zone e con l'esigenza di rappresentanza politica di ogni zona del paese. Il comitato nazionale elegge una segreteria nazionale, all'interno della quale un compagno assume la responsabilità generale. Il comitato nazionale designa inoltre í responsabili nazionali delle commissioni.
Nella composizione del comitato nazionale, la presenza maggioritaria di militanti operai e proletari interni a situazioni di lavoro e di vita delle masse, e di compagne donne costituisce un impegno decisivo e una verifica fondamentale del legame di massa e della linea del partito.
Il Congresso nazionale decide in modo irrevocabile la distribuzione di incarichi particolari ai compagni, sulla base di una valutazione politica delle esigenze del partito, che in ultima istanza prevale sulle opzioni personali dei compagni. Fra un congresso nazionale e l'altro, questa come ogni altra prerogativa congressuale compete al Comitato nazionale.

19. - I militanti a pieno tempo


Il partito si avvale dell'attività di compagni impegnati a pieno tempo nell'organizzazione, sia in compiti di direzione politica che nel lavoro di apparato (redazione, distribuzione, amministrazione).
Il lavoro dei militanti a pieno tempo è indispensabile alla vita stessa dell'organizzazione. Spetta al partito, nelle sue varie istanze, decidere sulla professionalizzazione dei militanti, e provvedere al loro sostentamento (1).
Essa non implica alcuna modificazione del loro rapporto con l'organizzazione; non comprende alcuna forma contrattuale borghese ed è strettamente dipendente dal giudizio del partito sulla sua necessità e opportunità politica.
Il contributo finanziario del partito a singoli militanti in nessun caso dev'essere superiore a un normale salario operaio. Esso deve essere pubblico, e garantire in qualunque circostanza l'autonomia politica dei compagni che lo ricevono, come dell'intera organizzazione.

20. - Il finanziamento

Il problema del finanziamento della vita del partito è un problema cruciale. Esso non è un problema settoriale; al contrario, è un terreno di verifica essenziale della forza e della vitalità del partito. Un partito rivoluzionario è vitale se riesce a garantire un grado sufficiente di autofinanziamento. Ciò rinvia, ben prima che alle attività specifiche destinate a sostenere materialmente la vita dell'organizzazione, a una giusta applicazione anche su questo terreno della linea di massa. La fonte principale del finanziamento del partito non può che essere nelle masse. La continuità di questo aspetto del lavoro di massa è una condizione decisiva di vitalità del partito.
Il problema della diversità di condizioni economiche dei militanti del partito non può essere risolto in termini rigidamente amministrativi. Tuttavia ogni militante che viva in condizioni economiche privilegiate deve favorire la discussione e la decisione collettiva sul suo contributo alla vita dell'organizzazione. La scelta di non applicare un astratto rigore egualitario è in ogni caso incompatibile con la volontà eventuale di condurre una vita da ricchi. La milizia rivoluzionaria non è il monachesimo, ma ancor meno è un hobby per signori. (In un colloquio del '64 Mao discute con alcuni interlocutori dell'ultimo imperatore della Cina, Hsuan Tung, detronizzato nel 1911, fantoccio dei giapponesi in Manciuria nel '37, « rieducato » dopo la liberazione.
« Kang Sheng: l'imperatore Hsuan Tung è venuto a presentare gli auguri per l'anno nuovo.
Presidente Mao: Dobbiamo unirci molto bene con l'imperatore Hsuan Tung. Egli fu un tempo il nostro capo. Il salario mensile di Hsuan Tung, poco più di cento yuan, è troppo basso: quest'uomo è un imperatore »...).
(Nello statuto del partito comunista cinese si dice: « Dobbiamo essere modesti e giudiziosi, lavorare duramente e condurre una vita semplice, opporci risolutamente al privilegio »).

21. - Il giornale

Il giornale quotidiano è il principale strumento materiale di direzione e di organizzazione politica del partito. A questo giudizio deve uniformarsi l'atteggiamento di ogni membro e di ogni istanza del partito nei confronti del giornale.
La sua sopravvivenza materiale va garantita in primo luogo all'interno del lavoro di massa, investendo di questo problema i proletari, così come la collaborazione stessa al giornale non è un fatto personale di qualche redattore, ma un fatto politico in cui impegnare le avanguardie migliori delle lotte.

NOTE
(1) Oggi i compagni che ricevono un salario o un contributo finanziario dall'organizzazione, al centro o nelle sedi, sono poco meno di 100. Si tratta di compagni che svolgono a pieno tempo un'attività di direzione politica senza avere altre fonti di sussistenza, di compagni che svolgono a pieno tempo un lavoro di apparato (redazione del giornale, distribuzione, amministrazione, ecc.). Nessuno di questi compagni riceve cifre superiori a un normale salario operaio: la maggior parte di questi compagni riceve cifre inferiori alla metà di un normale salario operaio.
Il congresso nazionale riceverà, all'interno di un complessivo rendiconto finanziario, una relazione dettagliata su questo aspetto del finanziamento. E' necessario che l'intera organizzazione ne sia informata e si pronunci sulla necessità di rafforzare l'attenzione e la cura di questo problema. Esso rappresenta una esemplificazione particolare della dipendenza stretta tra la crescita del finanziamento del partito e l'espansione della sua azione.


FONTE

www.bibliotecamarxista.org/lottacontinua/tesi4part.htm
 
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Yuri Gagarin
view post Posted on 16/9/2012, 19:35




Le Tesi



SULLA QUESTIONE DELLA FORZA




1 - La natura dello stato e il problema della forza

La teoria marxista dello stato costituisce il fondamento da cui deriva la necessità per il movimento comunista di confrontarsi con la questione della violenza.
La teoria marxista dello stato è riconfermata, in ogni parte del mondo, dall'esperienza pratica della lotta di classe; laddove la lotta di classe raggiunge un livello tale da assumere la forma di un processo rivoluzionario, la questione della forza si pone come nodo centrale del processo, lo stato si mostra per quello che è nella sua sostanza: l'apparato di violenza della borghesia sul quale si appoggia l'intero ordinamento della società capitalista.
Le teorie revisioniste hanno tutte, nelle loro varie versioni, un minimo. comun denominatore nella tesi secondo cui il potere statale è un mero riflesso del potere borghese nella società, e che nega il carattere autonomo e separato del potere esercitato nella sfera dello stato sull'insieme della società.
Su questa concezione dello stato come parte della società, come terreno di scontro, di incontro e di mediazione tra le classi; poggiano tutte le teorie revisioniste della transizione, vecchie e nuove.
L'estensione delle funzioni dello stato borghese, soprattutto sul terreno della economia, viene spesso invocata come argomento a sostegno delle teorie revisioniste sulla transizione.
In realtà, tutta l'esperienza recente della lotta di classe mostra come l'accrescersi delle funzioni che il moderno stato capitalistico è venuto assommando in sé, soprattutto a partire dagli anni '30, non ne abbia affatto mutato la natura; questa esperienza conferma il valore universale della lezione sullo stato offerta in tempi e situazioni differenti dalla Comune di Parigi, dalla rivoluzione d'Ottobre, dalla rivoluzione cinese, e da tutte le rivoluzioni vittoriose e sconfitte della storia del proletariato.
Lo stato non è una parte della società.
Lo stato non è terreno di mediazione del conflitto tra le classi. Esso svolge un ruolo di mediazione dei contrasti interni alla classe dominante, ma proprio in quanto rispetto a queste stesse divisioni conserva una relativa autonomia. Lo stato è l'organo che concentra dentro di sé, in forma astratta ed assoluta, l'intera violenza di cui il sistema è capace; che copre, garantisce e regola, con la propria esistenza e attraverso il suo « normale » funzionamento, le mille forme di violenza concreta mediante le quali si attua nella società il processo di sfruttamento.
Lo stato non può dunque essere investito da un processo di transizione, bensì soltanto, in fasi di inasprimento dello scontro di classe e di crisi della borghesia, da un processo di disgregazione e decomposizione che ripropone il problema della sua distruzione: che è, in definitiva, una questione di forza.

2 - Crisi imperialista e processo rivoluzionario

Se dalla teoria marxista dello stato deriva la necessità della violenza proletaria, soltanto da una teoria della crisi del sistema imperialista, che sia capace di comprenderne le cause profonde e le forme concrete di svolgimento, di analizzarne le condizioni nazionali e internazionali, si possono ricavare le indicazioni concrete sul modo di orientare, organizzare e dirigere la forza rivoluzionaria del proletariato in ciascun paese verso la presa del potere.
Senza una teoria della crisi imperialista, ogni discorso sulla violenza rimane astratto, slegato da una prospettiva di vittoria, e conduce all'opportunismo di sinistra.

3 - La risposta soggettivista al disarmo revisionista

Nel decennio trascorso, la nascita di una nuova corrente rivoluzionaria in seno alla classe operaia, al proletariato e alle masse studentesche si è dappertutto caratterizzata per aver posto al centro della ricerca di una propria autonomia dalla linea revisionista dei partiti comunisti, la questione della violenza rivoluzionaria.
Si è finiti così per fondare sulle forme di lotta la linea di demarcazione dall'opportunismo e dal revisionismo.
La storia di questi dieci anni ha mostrato come la rivendicazione del diritto alla violenza rivoluzionaria, che ha avuto e conserva un valore soggettivo, non possa essere assunta come discriminante strategica, e sia del tutto insufficiente a fondare una reale autonomia di linea politica. Le forti oscillazioni teoriche, gli sbandamenti, gli errori di volontarismo e di soggettivismo che hanno contrassegnato la storia dei movimenti rivoluzionari sorti negli anni '60, sono il riflesso di questa mancanza di autonomia, che in generale si è manifestata attraverso la forte sottovalutazione del ruolo delle masse, sia nella sfera « politica » che in quella « militare ». Gli errori di militarismo infatti, ancor prima che il prodotto di una concezione unilaterale dei compiti dell'avanguardia, sono un prodotto di una concezione sbagliata della guerra rivoluzionaria. Esperienze pur così differenti tra loro, come quelle dei movimenti neri negli USA, del fochismo in America Latina, dei movimenti derivati dalle lotte studentesche in Europa, recano tutte questo segno comune.
E tuttavia esse si presentano, negli USA e in America Latina, con caratteri di profonda originalità, come il prodotto soggettivo di una necessità storica, e come la espressione viva di un movimento destinato a crescere, a maturare, sia pure attraverso errori e sconfitte: ciò che è assai meno vero per le deviazioni militariste che si sono presentate in questi anni in Europa, e in particolare in Italia.

4 - L'esperienza latino-americana

L'esperienza latino-americana (che ha avuto una forte influenza sulle concezioni che hanno accompagnato la nascita di una nuova corrente rivoluzionaria in Europa, soprattutto nel movimento degli studenti) è particolarmente ricca di insegnamenti.
In America Latina, le avanguardie che cercano di percorrere il cammino della lotta armata negli anni '60 si formano sotto l'influenza diretta della rivoluzione cubana. La sua enorme ripercussione in tutto il Continente, lo smascheramento del ruolo di gendarme dell'imperialismo americano con la guerra del Viet-nam e con i ripetuti tentativi di schiacciare Cuba, gli stessi spazi aperti dal fallimentare tentativo « riformista » kennediano in quella area del suo dominio, creano il terreno propizio al « contagio » del modello cubano.
Il tentativo di riprodurre quel modello su scala continentale viene favorito dai dirigenti cubani, che in esso vedono l'unica possibilità di sottrarsi all'accerchiamento imperialista da un lato e alla ipoteca sovietica dall'altro. Un tentativo destinato tuttavia ad aprire la strada a una serie di deviazioni.
Assieme alla tradizione rinunciataria e opportunista dei partiti comunisti, che in America Latina risente ancor più pesantemente che altrove della degenerazione della Terza Internazionale prima, e del baratto staliniano dopo la seconda guerra mondiale, le esperienze che nascono sull’ipotesi della guerriglia, mentre rivendicano un rapporto diretto di continuità con le lotte risorgimentali indipendentiste dell'inizio del secolo, rifiutano o si mostrano incapaci di utilizzare, nella teoria e nella pratica degli anni '60, un rapporto con la tradizione di lotta della classe operaia degli ultimi decenni ,che ancorché debole, tuttavia esiste in molti paesi.
La riduzione della lotta armata a una questione di metodo; la concezione della guerriglia come elemento esterno di precipitazione del conflitto sociale, come catalizzatore delle forze interessate alla rivoluzione; il rifiuto del terreno legale e delle forme di lotta « pacifiche » di massa; la necessità, entro questo schema, di dare un territorio alla guerriglia prima ancora che una base di massa, esaltano il carattere soggettivista, volontarista e militarista di queste prime esperienze conducendole a una serie di sconfitte, che vanno dall'annichilimento militare delle guerriglie in una serie di paesi, al loro completo isolamento in altri, dove bracci morti di guerriglia perdurano inoffensivi per anni (Colombia, Venezuela).
In situazioni che andavano in quegli anni verso una crisi prerivoluzionaria (Bolivia, Perù) i militanti usciti da quella esperienza rimangono isolati dal movimento di massa e incapaci di comprenderne la dinamica.
La mancanza di prospettiva strategica conduce infine alla sconfitta anche esperienze più avanzate, che partivano dalla concezione della guerriglia urbana, come quella della sinistra brasiliana e lo stesso Movimento di Liberazione Nazionale dei tupamaros in Uruguay (che pure si collocava in un rapporto diverso con le organizzazioni tradizionali del Movimento operaio) il quale solo oggi, attraverso un faticoso e profondo processo di autocritica e revisione politica, comincia a risollevarsi.
A questa parabola che attraverso un decennio ha segnato il cammino dei movimenti sorti sull'esempio della rivoluzione cubana, si sottraggono per molti aspetti due sole situazioni: quella cilena e quella argentina.
Entrambi questi paesi si caratterizzano per un forte peso politico e una tradizione di organizzazione e di lotta della classe operaia (che in Argentina ha connotati sui generis, e non di meno esiste). Entrambi questi paesi vivono, tra il '69 e il '73, una formidabile e unica esperienza di mobilitazione e di lotta di massa. Non in virtù delle proprie primitive impostazioni, bensì grazie all'impatto con questa travolgente realtà, i movimenti di derivazione fochista (il MIR cileno, il PRT-ERP argentino e per un altro verso, con una diversa e ambigua matrice ideologica, la organizzazione dei Montoneros) non solo riescono a sopravvivere ma si rafforzano fino ad assumere un ruolo sempre più importante nella lotta di classe. In Cile esso è strettamente legato all'esperienza vissuta dalle masse alla vigilia e durante il governo di Unità Popolare, e al modo in cui il MIR ha saputo inserirsi in questa esperienza e utilizzarne le lezioni, in Argentina esso è legato a una fase della lotta di massa che ha avuto i suoi punti più alti nelle insurrezioni operaie di Cordoba del '69 e del '71, e nelle sollevazioni popolari che da lì si sono propagate in tutto il paese coinvolgendo il proletariato urbano e rurale.
Al di fuori del rapporto che si è realizzato in quella fase con un movimento insurrezionale delle masse (che ha piegato e sconfitto il regime militare, imponendo, con le elezioni del maggio '73, un esito provvisorio e precario, e tuttavia favorevole all'ulteriore crescita del movimento) non è comprensibile il consolidamento politico e militare delle organizzazioni di avanguardia.
Un consolidamento che, sia in Argentina che in Cile, si trova oggi di fronte ad una difficile prova; ma che si è accompagnato e si accompagna ad un processo di maturazione interna, di discussione e di riesame delle rispettive premesse politiche, sui temi del rapporto avanguardia-massa, della concezione della guerra di popolo e dell'esercito popolare, dell'analisi della situazione internazionale, ecc. Un processo che costituisce il punto di approdo di un lungo purgatorio di esperienze e di lotte in America Latina, e un punto di partenza nuovo di importanza decisiva, per il futuro della rivoluzione nel continente.

5 - La riproduzione europea di modelli esterni

In Europa, se si eccettuano le situazioni caratterizzate (non senza profonde contraddizioni) dall'intrecciarsi e dal prevalere — nella conduzione politica e militare della lotta — della questione della liberazione nazionale sui contenuti di classe (Irlanda, Paesi Baschi, Palestina), le esperienze che hanno imboccato la via della « lotta armata » hanno assunto un carattere tanto più marcatamente soggettivista e idealista, quanto più si sono costruite sulla estrapolazione di modelli esterni, nel più totale distacco dallo sviluppo reale della lotta di classe. La vicenda della RAF tedesca rappresenta l'esempio-limite di come la fuga dalla realtà e l'isolamento dalle masse conduca dei militanti rivoluzionari al nichilismo e al suicidio politico.

6 - L'esperienza italiana

In Italia, il modo in cui il problema della violenza rivoluzionaria riemerge negli anni '60, dopo le forme in cui si era presentato nel dopoguerra con la lotta partigiana, riproduce tutti i limiti di soggettivismo e di minoritarismo che caratterizzano le nuove avanguardie formatesi in quegli anni..
Si ricerca un legame con la eredità della guerra partigiana: ma lo si ricerca nel filone cospirativo e militarista rappresentato dalla « vecchia guardia » stalinista del PCI, e dalla sua concezione insurrezionalista, ben più che nel ruolo che le masse svolsero nella resistenza. Si tenta di recuperare il modello di guerra di lunga durata della Cina e del Vietnam, impoverendolo ai suoi elementi tattico-militari, adattati a confuse teorie sul ruolo delle minoranze etniche e del « Mezzogiorno-colonia ».
Si recupera infine il modello latino-americano, nelle forme mutuate dall'esperienza brasiliana e uruguaiana, che finisce per prevalere sugli altri sia per l'impossibilità di concepire, nelle condizioni dell'Europa capitalista, una guerra manovrata di tipo territoriale, sia per la maggiore « libertà » di intendere il ruolo delle masse nella lotta rivoluzionaria che il modello latino-americano consente.
Questa ricerca ha costituito, negli anni della formazione di una nuova generazione rivoluzionaria, un percorso per molti aspetti obbligato, in una situazione nella quale la direzione operaia non si era ancora affermata con il carattere e con la forza che ha assunto negli anni seguenti sull'intero movimento.
In questi anni, la deviazione avanguardista e militarista si ripresenta (dalla formazione dei GAP e delle Brigate Rosse, alla scomparsa di Potere Operaio, all'attuale militarismo « autonomista ») non più con un ruolo di anticipazione e di apertura, ma come espressione di ritardo e di deformazione endemica che accompagna lo sviluppo della. lotta di classe.
La teoria della « esemplarità » dell'azione armata, la teoria del partito come « miccia » o « detonatore », il feticismo del fucile (o, a un diverso livello, della spranga) che riduce la questione dell'armamento a una questione merceologica, sono i tratti con i quali la deviazione militarista si ripresenta ai margini del movimento come fenomeno di retroguardia. La ignoranza o il disprezzo delle contraddizioni interne del nemico di classe; la sopravvalutazione della capacità di controllo e di repressione del revisionismo, che va di pari passo con la sottovalutazione reale, ad onta di ogni verbalismo, della forza e dell'autonomia delle masse; infine la incapacità di collocare una ipotesi rivoluzionaria nel contesto della crisi dell'imperialismo, delle sue forme concrete e delle condizioni internazionali determinate, sono i caratteri che contraddistinguono sempre l'opportunismo di sinistra.

7 - La maturità della crisi in Italia

L'Italia è, tra i paesi dell'Europa occidentale, quello che offre le condizioni più vantaggiose per lo sviluppo di un giusto rapporto tra avanguardia e masse su tutti i terreni.
E l'unico paese che sia passato attraverso una esperienza relativamente recente di guerra popolare, in cui il proletariato non è stato sconfitto frontalmente (come nella Grecia del secondo dopoguerra o nella Spagna degli anni '30) benché lo sviluppo rivoluzionario della resistenza sia stato deviato e bloccato dalla direzione revisionista del PCI e del Cominform. E il paese in cui più forte è la classe operaia e la sua capacità di unificare l'intero proletariato. È il paese in cui più rigido, ma anche più debole e vulnerabile, è il sistema di dominio della borghesia, che ha nella DC il suo perno insostituibile all'interno delle forme della democrazia borghese.
Nella situazione italiana e nel contesto internazionale in cui essa si colloca;, è possibile e necessario in questa fase storica, dentro questa crisi del dominio borghese e del regime democristiano, portare avanti una linea che contrapponga all'impossibilità crescente della borghesia di restaurare la sua capacità di governo sociale conservando le forme democratiche costituzionali, la capacità del proletariato di rispondere al tentativo di reazione della borghesia con la guerra civile. Prepararsi e preparare le masse, nello sviluppo della lotta di classe, ad affrontare una guerra civile; creare le condizioni più favorevoli alla classe operaia su tutti i fronti, quello politico, quello militare, quello diplomatico, è fin d'ora un compito necessario del partito.
Questi fronti di lotta devono essere sempre tutti presenti, e non possono essere considerati come « stadi » successivi. Allo stesso modo non ci sono due tempi, uno per l'armamento delle avanguardie, e l'altro per l'armamento delle masse, quasi che alle masse spettassero i compiti di un presente slegato dal futuro e al partito i compiti di un futuro slegato dal presente. Prepararsi a una situazione di guerra civile non significa condurre una guerra privata contro lo stato. La possibilità di aprire un processo rivoluzionario nei paesi europei — diceva il compagno Mao Tsetung nel 1938 — vi sarà « quando la borghesia sarà veramente ridotta all'impotenza, e quando la maggioranza del proletariato sarà decisa a condurre l'insurrezione armata e una guerra ». Ridurre la borghesia all'impotenza, condurre la maggioranza del proletariato ad affrontare la guerra civile: queste sono le condizioni che, se non garantiscono la vittoria, offrono una prospettiva di vittoria. Dev'essere combattuta con forza ogni presuntuosa e aberrante concezione che fa della questione della maggioranza il problema di una fase di riflusso e di ritirata, e non il problema di una fase di avanzata rivoluzionaria. Una simile concezione teorizza l'isolamento dell'avanguardia dalle masse nella fase dell'offensiva, e la subalternità frontista delle avanguardie nella fase della sconfitta.

8 - Le radici della « crisi prolungata »

Il carattere prolungato della crisi è l'espressione, sulla scala internazionale, di una profonda modificazione nei rapporti di forza tra capitale e classe operaia, che sconvolge gli strumenti di politica economica degli stati, provoca una crescente ingovernabilità sociale, unifica i cicli e i comportamenti di lotta della classe operaia. Il carattere prolungato della crisi non è una prova della maggiore forza relativa dell'attuale assetto imperialistico rispetto a fasi storiche precedenti, ma una prova della sua più profonda vulnerabilità.
Il carattere prolungato della crisi modifica le condizioni del processo della lotta per il potere. Esso favorisce il consolidamento politico e organizzativo dell'unità del proletariato, e l'unificazione fra lotta immediata delle masse e direzione rivoluzionaria, senza rinviarla al trapasso brusco da una fase espansiva a una fase di collasso dello sviluppo capitalistico. Nella continuità della lotta anticapitalista del proletariato è data la continuità della crescita del partito rivoluzionario nella forma della direzione reale, e non della sola propaganda.
Tuttavia il carattere prolungato della crisi ne modifica la forma, e non la sostanza ultima. Il processo rivoluzionario non si apre con l'apertura di un processo insurrezionale, ma conserva inevitabilmente come sbocco finale l'insurrezione di massa. Non solo, ma momenti di scontro frontale e di lotta insurrezionale sono destinati ad attraversare lo scontro di classe anche prima della lotta per la presa del potere.

9 - Il carattere della fase attuale

Nella fase attuale della costruzione del partito rivoluzionario non è contenuta la possibilità della conquista proletaria del potere, della instaurazione della dittatura del proletariato. Qualunque evoluzione prevedibile dello scontro di classe in questa fase mette all'ordine del giorno una modificazione dei rapporti di forza tra direzione revisionista e rivoluzionaria nella lotta delle masse, non un loro rovesciamento completo, e sulla sua base la conquista proletaria del potere guidata dal partito rivoluzionario.
Nella fase attuale, esiste nelle masse una rivendicazione di potere che va oltre l'ambito di una gestione democratico-borghese della crisi, ma non contiene la possibilità di uno sbocco immediatamente rivoluzionario nello sviluppo dell'organizzazione autonoma di massa, e nel suo rapporto col partito rivoluzionario. Dietro ogni esaltazione del ruolo della avanguardia come detonatore della violenza sociale del proletariato si cela la negazione di questa realtà dei rapporti di forza attuali, e la elusione di una linea organica tesa a superarli a vantaggio della direzione rivoluzionaria.

10 - La necessità della linea di massa

La linea di massa dev'essere applicata rigorosamente al problema della forza. Questo principio vale in qualunque circostanza particolare dell'azione rivoluzionaria. L'azione diretta dell'avanguardia sul terreno della forza non può proporsi la vittoria contro l'apparato di forza del capitalismo e dell'imperialismo; la possibilità della vittoria sta nella forza delle masse e al suo dispiegamento deve essere subordinata l'azione dell'avanguardia.

11 - La questione della forza non è un problema separato

Il problema della forza non può essere concepito come un problema separato. Trattare il problema della forza come un problema separato vuoi dire mettere il fucile al posto di comando. Mettere la politica al posto di comando vuol dire risolvere il problema della forza nello sviluppo della lotta di classe. Lo sviluppo della lotta di classe, l'armamento politico del proletariato, è la condizione del suo armamento materiale.
Il partito rivoluzionario deve garantire il suo rapporto con le masse e il suo compito di direzione e organizzazione politica in qualunque circostanza. Il partito rivoluzionario deve dunque cambiare i metodi di azione e di organizzazione in modo adeguato all'intreccio o al passaggio da una situazione di legalità a una situazione di semilegalità o di illegalità, cioè al variare della forma principale in cui si manifesta la contraddizione di classe. Il partito rivoluzionario non organizza in forma diretta la classe, bensì il reparto avanzato della classe; allo stesso modo, non organizza in forma diretta l'esercito proletario, bensì il quadro dirigente dell'esercito proletario. La concezione minoritaria della lotta di classe è incapace di misurarsi con la dimensione complessiva del problema della forza, con le condizioni storiche che maturano la crisi e la disgregazione dello stato borghese e lo sviluppo di un'alternativa di potere nella lotta e nell'organizzazione del le masse.
È compito del partito utilizzare le contraddizioni interne al nemico e al suo apparato di potere, prodotte dalla forza materiale della lotta di classe, per rafforzare la direzione dell'autonomia operaia. La linea revisionista e la linea rivoluzionaria si scontrano incessantemente: la prima rappresenta la volontà di subordinare la forza delle masse alle contraddizioni della borghesia, e perciò di disarmare politicamente, prima ancora che materialmente, il proletariato; la seconda ricerca nell'approfondimento delle contraddizioni interne alla borghesia una leva per rafforzare l'autonomia di classe, per rafforzarne l'armamento politico e materiale.
Questo scontro fra due linee sul problema della forza si manifesta su ogni terreno: nella lotta sociale, nella lotta politica, nella lotta istituzionale. La divergenza sulla forma della lotta è la manifestazione esterna della divergenza sulla sostanza della lotta, sulla sua subalternità o sul suo antagonismo al sistema sociale dominante, e alla sua organizzazione statuale. Questo scontro ha origine nella fabbrica, dove la linea della subalternità al modo di produzione capitalista si oppone alla linea del rifiuto del lavoro salariato. Esso continua nella lotta sociale, dove la linea che nega l'iniziativa diretta di massa o la riduce a un elemento contrattuale all'interno di una razionalizzazione dei rapporti sociali dominanti si oppone alla linea del rovesciamento materiale di quei rapporti sociali. Si esprime nella lotta antifascista, dove la linea della delega o della pressione sullo stato si oppone alla linea della pratica di massa della lotta antifascista. Si esprime sul terreno della democrazia, dove la linea della razionalizzazione delle istituzioni statali si oppone alla linea dell'alternativa di classe al loro potere, come avviene esemplarmente sul problema delle forze armate, della organizzazione di massa nella vigilanza antigolpista e contro il terrorismo nero, nella mobilitazione di massa contro la strategia della, tensione. Si esprime sul terreno elettorale, dove la linea del baratto fra democrazia borghese e autonomia di classe si oppone alla linea della rottura del regime statuale borghese.
Il problema della forza ha il suo centro in questo scontro irriducibile fra due linee, che investe, a partire dalla fabbrica, ogni terreno della vita sociale. L'analisi dello sviluppo della lotta di classe e della crisi dello stato in Italia in questi anni mostra esemplarmente questo itinerario. Fuori di esso, il problema della forza e dell'iniziativa del partito sul terreno della forza non ha alcuna prospettiva di soluzione. Ogni concezione separata di questo problema, ben lungi dal caratterizzare un ruolo di avanguardia, manifesta una inaccettabile dissociazione fra forma e sostanza, un rovesciamento caricaturale del processo rivoluzionario, un'estraneità completa alla dinamica reale dell'armamento politico e materiale del proletariato.
Sull'opposto versante, ogni concezione, tipica dell'opportunismo massimalista, che separi i contenuti di programma della lotta di massa dal loro rapporto, politico e organizzativo, con l'esercizio della forza e con la natura in ultima istanza militare dello scontro fra le classi, abdica al ruolo del partito rivoluzionario, si pone alla coda del revisionismo, e facilita il cammino della reazione borghese.

12 - Il problema delle forme di lotta

Il marxismo è estraneo a ogni feticismo delle forme di lotta, e a ogni pretesa di ancorarne la scelta e l'uso a un'astratta valutazione di principio; il marxismo ancora la valutazione delle forme di lotta all'unica condizione del loro rapporto con la situazione storica concreta.

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Yuri Gagarin
view post Posted on 16/9/2012, 21:03




Le Tesi



SULLA QUESTIONE DELL'IMPERIALISMO




L'imperialismo e la crisi mondiale



L'imperialismo è la forma che il capitalismo assume nella sua espansione mondiale.
Il mercato mondiale, e il modo di produzione capitalistico che ne è al tempo stesso la causa e il prodotto, hanno reso universali e reciproci i rapporti sociali tra gli uomini: ogni evento storico particolare riflette le sue conseguenze, in misura maggiore o minore, su tutta l'umanità.
Questa è la ragione di fondo per cui la rivoluzione comunista, cioè il processo che porta al superamento del modo di produzione capitalistico, non può che avere dimensioni mondiali: cioè coinvolgere, seppure in forme, e tempi differenti, ma come tappe e parti di un unico processo, tutta l'umanità.
Diciamo che la rivoluzione è un processo internazionale in un duplice senso.
In primo luogo, ogni singola rivoluzione — che è il processo che porta il proletariato di una nazione a distruggere lo stato, cioè la macchina repressiva borghese del proprio paese — trova le condizioni della propria realizzazione nella situazione internazionale.
La tendenza prevalente della nostra epoca è la rivoluzione. Questa tendenza affonda le sua radici nelle stesse condizioni in cui le affonda la tendenza opposta: quella alla reazione, al colpo di stato, all'acutizzazione dell'aggressività imperialista, alla guerra. Queste condizioni sono costituite dalla crisi mondiale; dalla fine di quel periodo di relativa stabilità economica, sociale e politica che ha accompagnato l'espansione capitalistica nei venticinque anni successivi alla seconda guerra mondiale.
Alla radice della crisi mondiale ci sono soprattutto due fattori: il mutamento dei rapporti di forza tra proletariato e borghesia, determinato dalla enorme espansione quantitativa che il proletariato, e soprattutto la classe operaia, hanno attraversato su scala mondiale e dal graduale ma continuo logoramento del potere di comando sul lavoro in tutti í paesi capitalistici sviluppati; la perdita, da parte dei centri decisionali del capitale, e soprattutto degli stati, del controllo sui meccanismi con cui la prima tendenza era stata neutralizzata e regolamentata: l'inflazione, la spesa pubblica, la politica anticiclica, cioè il contenimento dell'ampiezza dell'oscillazione tra i periodi di espansione e quelli di recessione.
Questi fattori, a loro volta, hanno messo in moto, in forma estremamente accelerata, una generale tendenza alla ristrutturazione, alla trasformazione delle tecnologie e alla modificazione su scala mondiale, della tradizionale divisione del lavoro; ed hanno prodotto una acutizzazione della concorrenza capitalistica internazionale destinata a coinvolgere in misura crescente i singoli stati nazionali: entrambe queste misure in tanto sono efficaci in quanto i costi che esse comportano si scaricano sul livello di vita e sulle condizioni di lavoro della classe operaia, contribuendo così ad acutizzare, su scala mondiale e in forme sostanzialmente omogenee, la contraddizione tra borghesia e proletariato.
In secondo luogo, la lotta rivoluzionaria del proletariato di ogni paese ha di fronte a sé una prospettiva di vittoria solo in quanto si iscrive all'interno di un processo generale che porta alla erosione, al ridimensionamento e alla distruzione del potere complessivo della borghesia a livello mondiale, cioè dell'imperialismo. La concezione vietnamita della guerra rivoluzionaria, come processo che si sviluppa su di un triplice fronte, politico, diplomatico e militare, è la più ampia e matura espressione dell'internazionalismo proletario.

La contraddizione tra USA e URSS



L'assetto politico e istituzionale che domina la situazione internazionale a partire dalla seconda guerra mondiale è quello della ripartizione del mondo in due zone di influenza tra gli USA e l'URSS. Questo assetto ha la sua data di nascita ufficiale, anche se simbolica, nella conferenza di Yalta del 1944, ed è rimasto sostanzialmente inalterato, passando attraverso il periodo della guerra fredda, quello della distensione e quello della cooperazione economica; esso è stato solo in parte infranto dalla emancipazione della Cina popolare e di altri paesi socialisti dalle regole delle « zone di influenza », e solo perifericamente alterato dalla lenta ma inarrestabile disgregazione del controllo USA su tutto l'occidente capitalistico.
Seppure con un rapporto di forze reciproco che non è di parità, USA e URSS sono e resteranno per molto tempo le due uniche potenze mondiali in grado di fronteggiarsi sul piano economico, politico e militare. Per questa ragione, sia le contraddizioni intercapitalistiche e interimperialistiche — quelle che nascono, cioè, dal progressivo coinvolgimento degli stati nella concorrenza capitalistica internazionale — sia le contraddizioni tra paesi socialisti e imperialismo — quelle che nascono cioè tra il sistema degli stati imperialisti e il proletariato di una singola nazione una volta che questo sia riuscito a spezzare la macchina statale borghese — sono destinate, in ultima analisi, ad entrare in rapporto e ad alimentare la contraddizione tra USA e URSS.
Questo processo può avvenire sia nella forma diretta di un « passaggio di campo »; sia nella forma di un ridimensionamento relativo dell'ingerenza da parte di una delle massime potenze; sia, infine, nel tentativo di realizzare una completa autonomia o una minore dipendenza, sfruttando a tal fine i contrasti tra le due massime potenze. In tutti i casi, queste contraddizioni sono destinate a riflettersi in una acutizzazione di quelle tra USA e URSS; perciò, in questo campo, la tendenza dominante è quella al confronto, allo scontro e alla guerra e non quella alla distensione, alla collaborazione, alla pace; e questo nonostante che quest'ultima tendenza venga continuamente riproposta dalla necessità dei rispettivi gruppi dirigenti di difendere il proprio dominio di classe attraverso un allargamento, economico e politico, delle sue basi di consenso. Come dicono i compagni cinesi, « la distensione non è che il vento che soffia attraverso la torre ».
Gli sviluppi di questa contraddizione fanno sì che gli USA non possano accettare di abbandonare, o rinunciare a difendere, la propria superiorità economica, politica e militare nei confronti dell'Unione Sovietica. D'altra parte, lo scarto nei rapporti di forza reciproci tra gli USA e gli altri paesi dell'Occidente capitalistico è tale da rendere inconcepibile il suo superamento nel corso della nostra epoca; quindi gli USA sono destinati a rimanere, per tutta una fase, e a meno del loro crollo, la principale e più forte potenza imperialista del mondo, cioè il nemico numero uno dei popoli, dei proletari e della rivoluzione in tutto il mondo. Questo fa sì, inoltre, che la crisi e la distruzione dell'imperialismo USA rappresentino l'obiettivo a partire dal quale vanno definite e misurate le singole fasi del processo rivoluzionario su scala mondiale.

La natura sociale dell'URSS


Di fronte agli USA si trova una potenza socialimperialista: l'URSS. La forma specifica che in URSS ha assunto il processo di accumulazione — il capitalismo di stato — e le caratteristiche storiche del suo espansionismo mondiale — quello che i compagni cinesi chiamano « egemonismo » — non alterano i tratti fondamentali del sistema sociale dell'URSS: si tratta di un sistema fondato sulla produzione di merci, sullo sfruttamento del lavoro salariato e sulla accumulazione del capitale, per quanto concerne la definizione dei rapporti di produzione che dominano al suo interno; di un sistema che ha adattato la forma e gli strumenti dello stato alle esigenze del sostegno e dell'espansione di questi rapporti, per quanto riguarda il suo carattere di potenza imperialista.
Questa verità incontrovertibile non deve però offuscare le peculiarità storiche e sociali dell'URSS, che ne condizionano in modo rilevante la politica e alle quali ci riferiamo quando parliamo di « socialimperialismo ».
La prima caratteristica è data dai rapporti di forza tra operai e capitale in URSS e dalla forma che essi hanno assunto. L'operaio sovietico è l'erede di una grande rivoluzione proletaria e da allora non è mai stato sconfitto in campo aperto. Se lo sviluppo degli avvenimenti, fin dai primi anni, lo ha rapidamente espropriato del potere politico, il .suo legame di continuità con quel grande rivolgimento sociale gli ha lasciato in eredità un rapporto con il lavoro che rende impossibile sia una intensificazione sistematica dello sfruttamento come quella su cui si è fondata gran parte dello sviluppo capitalistico occidentale in questo dopoguerra, sia il ricorso massiccio, per ottenere questo risultato, al ricatto di un esercito industriale di riserva, o all'uso continuato della forza, come accade invece, in forme diverse, in tutto l'occidente.
Anche per queste ragioni, oltre che per la sua particolare struttura politica e militare, non è pensabile che l'URSS possa costituire una sorta di grandioso sbocco di mercato e di investimenti all'economia imperialistica U.S.A., con quel ruolo svolto prima dall'Europa e poi dal 3° Mondo. Tutt'al contrario, l'iniziale, recente coinvolgimento nella crisi di alcuni settori della zona influenzata dall'Urss (quelli periferici, più legati all'economia occidentale) ci offre un'indicazione importante: nella misura in cui aumenta l'integrazione dei paesi dell'Est europeo nel mercato mondiale, estendendo anche al loro interno il principio della divisione internazionale del lavoro, sono destinati a propagarsi anche qui i caratteri tipici del ciclo capitalistico. I prossimi anni ci diranno quanto ciò potrà incidere nel far riemergere in questa zona forme di vera e propria lotta di classe.

La tendenza alla guerra



La natura insopprimibile delle contraddizioni che alimentano lo scontro fra USA e URSS — la concorrenza capitalistica, da un lato, la lotta rivoluzionaria del proletariato contro il capitalismo e l'imperialismo, dall'altro — rende permanente all'interno dell'attuale assetto internazionale la tendenza alla guerra, che può assumere nella nostra epoca dapprima la forma dell'ingerenza militare negli affari interni dei singoli stati, poi quella del conflitto locale, infine quella della guerra globale.
Il giudizio sul carattere inevitabilmente aggressivo dell'imperialismo, e sullo sbocco violento e distruttivo delle sue contraddizioni è sempre stato una discriminante fra i rivoluzionari e i riformisti.
Le armi nucleari e il loro ruolo in questi anni, lungi dal costituire la smentita del giudizio dei rivoluzionari, lungi del costituire una specie di deterrente al di sopra delle classi capace di ricondurre alla ragione gli imperialisti, non sono che la conferma di quel giudizio.
La proliferazione di ordigni nucleari in nazioni sempre nuove, gli stessi recenti accordi sulla « non proliferazione » fra le grandi potenze — che in realtà rappresentano un incentivo reale alla corsa agli armamenti, in un quadro di acutizzazione degli scontri interimperialistici — non sono che uno dei tanti segni di come il capitalismo abbia trasformato il mondo in una immensa polveriera.
Solo la rivoluzione mondiale, in quanto colpisce al cuore l'imperialismo e il socialimperialismo, e impedisce di portare alle ultime conseguenze la loro reciproca aggressività, può evitare la guerra imperialista e salvare l'umanità dalla distruzione.

La contraddizione tra Stati nell'occidente capitalistico



All'interno dell'occidente capitalistico, la lotta di classe, la crisi economica, e lo sviluppo diseguale dei diversi paesi alimentano tensioni crescenti tra gli stati capitalisti sviluppati, per il dominio dei mercati, e tra gli stati maggiormente soggetti al potere imperialista ed i loro oppressori, per una diversa ripartizione del potere e dei frutti dell'accumulazione capitalista.
L'unità del mercato mondiale realizzata sotto l'egemonia USA negli anni successivi alla seconda guerra mondiale ha alimentato una espansione capitalistica senza precedenti. Dal momento in cui la lotta di classe e la crisi hanno cominciato a minare l'espansione economica, questa stessa unità viene rimessa in forse. Gli sbocchi che la produzione capitalistica prima trovava in una domanda mondiale gonfiata dall'inflazione (alimentata, a sua volta, dalle spese degli USA all'estero, e dalle spese di tutti gli stati capitalistici) ora devono essere trovati attraverso una maggiore aggressività di ogni singolo paese sui mercati esteri.
L'origine delle contraddizioni tra gli stati capitalistici sta nella natura stessa del capitalismo, che non può esistere senza che i vari capitali si facciano concorrenza tra loro, e che ha piegato lo stato e i suoi strumenti al servizio di questa concorrenza.
Il capitalismo non esiste senza concorrenza; a questo si riduce, in ultima analisi, il carattere anarchico del modo di produzione capitalistico. La concentrazione del capitale, il passaggio dal capitalismo ottocentesco a quello monopolistico, e da questo a quello di stato, l'istituzione di organismi economici internazionali, non eliminano né la concorrenza né l'anarchia capitalistiche, ma non fanno che spostarle a nuovi livelli. Anche l'avvento delle società multinazionali, lungi dall'annullare la concorrenza internazionale (che è la scala a cui nella nostra epoca è arrivata la concorrenza capitalistica) non fa che esaltarla scatenando, tra i diversi gruppi, una lotta serrata per accrescere la propria influenza sugli stati.
Ma, a differenza di quanto accade tra USA e URSS, le contraddizioni tra i vari stati dell'occidente capitalistico trovano un limite invalicabile nella sproporzione delle forze tra gli USA e tutti gli altri paesi. Questa sproporzione annulla, per tutta questa fase, la possibilità di una guerra dei paesi capitalistici dell'occidente contro gli USA; limita in modo drastico le divergenze sul piano politico, e quindi la ricerca di una reale autonomia da parte dei singoli stati borghesi; fa sì che la concorrenza economica, che è il principale terreno su cui queste contraddizioni si manifestano, mentre tende continuamente a riprodursi in forme nuove e sempre più acute, trovi gli USA sempre in grado, anche se con un costo complessivo sempre più alto, di ridimensionare la forza contrattuale dei paesi concorrenti.
Questo vale tanto per i paesi capitalistici sviluppati quanto per quelli appartenenti al cosiddetto terzo mondo, all'interno dei quali esiste ormai un ampio ventaglio di posizioni. La differenza sta nella forza produttiva, finanziaria, politica e militare dei vari paesi. Ma l'interdipendenza strettissima delle maggiori economie capitalistiche e la forza strutturale della classe operaia limita drasticamente, per le borghesie dei paesi più sviluppati, la possibilità di portare a fondo una sfida economica contro gli USA; mentre la unilateralità dei rapporti economici e la debolezza della classe operaia e dello stesso proletariato nei paesi del « 3° mondo » rendono questa sfida meno difficile.
Nella nostra epoca, in ogni caso, la borghesia capitalistica non è in grado di portare avanti in forma conseguente una lotta per l'indipendenza nazionale. Il moltiplicarsi dei conflitti di interessi con gli Stati Uniti, che è un fatto essenziale del processo di disgregazione dell'imperialismo, mentre può portare ad uno spregiudicato uso tattico dei contrasti fra USA e URSS o addirittura ad un « cambiamento di campo » nei paesi capitalistici del « 3° mondo » retti da regimi di « borghesia nazionale », trova un limite invalicabile nei paesi capitalistici sviluppati, per il fatto che la sopravvivenza dell'attuale assetto istituzionale e dello stesso dominio di classe borghese è in essi indissolubilmente legato, a causa della forza della classe operaia e della conseguente instabilità politica, alla salvaguardia dei più stretti rapporti con gli USA.

Le contraddizioni in Europa



In Europa la crisi e — al suo interno — l'offensiva USA hanno bloccato la tendenza all'unificazione politica ed economica, mettendo in moto un processo di differenziazione fra i singoli paesi, di spinte centrifughe e di polarizzazione fra aree deboli e aree forti, che ha le sue radici, in ultima istanza, nei rapporti di forza fra le classi.
Negli « anelli deboli », che più preoccupano l'imperialismo in questa zona (l'Italia, il Portogallo, la Spagna e la Grecia in primo luogo) le conseguenze della crisi e della tendenza alla « disgregazione dell'impero » si sono manifestate nel modo più ampio, su tutti i terreni: economico, sociale, istituzionale. Nei paesi capitalistici del centro Europa, gli effetti della crisi sono stati assai meno preoccupanti, per due ragioni principalmente: la prima, destinata a non durare, è la capacità di mantenere sostanzialmente intatto — finora — il controllo di una quota rilevante del mercato internazionale. La seconda è di poter contare su un mercato del lavoro molto più ampio e articolato di quello degli altri paesi, grazie al ricorso massiccio e selezionato alla forza-lavoro proveniente dalle aree del sottosviluppo europeo e mediterraneo. Questa possibilità di controllo, che già oggi è investita da profonde tensioni per la dimensione stessa della crisi, sarà nei prossimi anni il terreno principale su cui si giocherà la stabilità di questi paesi.


Imperialismo e terzo mondo



È nei paesi del cosiddetto « terzo mondo » che il peso della crisi si scarica con più violenza sulle condizioni di vita delle masse. Gli effetti della crisi energetica, sovrapponendosi a quelli della crisi mondiale, hanno aperto una divaricazione profonda all'interno dei paesi del « terzo mondo »: accanto a pochi paesi che, in misura maggiore o minore, ne hanno beneficiato, la stragrande maggioranza di questi paesi, spesso quelli più popolati del mondo, hanno subito e subiscono un aggravamento estremo delle condizioni di vita. Da un lato ciò provoca la crescita delle tensioni di massa, d'altro lato si riflette sugli assetti di quei regimi, sulle loro alleanze. Due fattori vanno valutati. In primo luogo, la crescita d'importanza della lotta dei popoli dell'Asia, dell'Africa, dell'America Latina in questo dopoguerra: dalla lotta vittoriosa del popolo vietnamita, al processo rivoluzionario cinese, a quello cubano, alla lotta per la indipendenza dei popoli della Guinea Bissau, Mozambico e Angola (con i suoi effetti sulle sorti del fascismo portoghese e sugli equilibri sia della Africa australe che dell'area mediterranea), all'esperienza cilena.
In secondo luogo, se questi casi ci si presentano con particolare chiarezza, la contraddizione fra i centri dell'imperialismo e i paesi ex-coloniali, la polverizzazione dell'impero e lo stesso processo di proletarizzazione a livello mondiale provocano in continuazione anche altre forme di contraddizione, su singole questioni, fra stati o fronti di stati e gli interessi USA: esse sono certo secondarie, complesse ed ambigue, ma tali da accentuare il carattere di instabilità dell'imperialismo in questa fase.

La politica estera cinese



Tutto ciò deve essere tenuto presente, anche per inquadrare correttamente la politica estera dello stato cinese. Essa si fonda sui cinque principi della coesistenza (reciproco rispetto dell'integrità e della sovranità territoriale degli stati, non aggressione, non ingerenza, eguaglianza e vantaggi reciprochi, coesistenza pacifica) e, nei suoi rapporti con i paesi del terzo mondo, sugli otto principi per l'aiuto economico. Essa si oppone fermamente all'egemonismo delle superpotenze e appoggia le lotte dei popoli per la liberazione e l'indipendenza nazionale. Nel corso degli ultimi anni, la politica estera cinese ha colto alcuni significativi successi e ha fatto della Cina uno dei protagonisti della scena internazionale. La politica estera cinese ha contribuito ad aggravare le contraddizioni interimpeialistiche, ha favorito la trasformazione dell'ONU da docile strumento della politica americana in una tribuna spesso utilizzata da governi progressisti per esprimere posizioni antimperialiste; ha favorito la formazione di fronti internazionali, obiettivamente contraddittori nei confronti dell'imperialismo, su temi specifici come la fame, lo sviluppo demografico, le materie prime, le acque territoriali, ecc. In questi e in altri casi la Cina ha incoraggiato utilmente le tendenze centrifughe presenti nell'impero americano. Così pure la politica estera cinese racchiude come suo elemento positivo la definizione di alcuni principi di fondo, quali: il rilievo che assumono nella nostra epoca le contraddizioni interimperialiste, la tendenza all'aggravarsi della contraddizione tra USA e URSS e il permanere del pericolo di guerra, la non esistenza di un « campo socialista ». Il principio di fondo che dai compagni cinesi stessi abbiamo appreso, e che facciamo nostro, è e rimane: contare sulle proprie forze. Da parte nostra, dovrà essere oggetto di un'analisi sempre più approfondita il problema del rapporto fra la politica di uno stato, nel quale il proletariato ha preso il potere, e la lotta per costruire il comunismo, cioè gli interessi generali del proletariato.

Il Mediterraneo e la NATO



Molte delle contraddizioni della nostra epoca, quella tra borghesia e proletariato, resa più acuta e omogenea dallo sviluppo della crisi mondiale, quella tra USA e URSS, quella tra paesi sviluppati dell'occidente capitalistico (Europa e USA), e quella tra paesi del « 3° mondo » e USA, in particolare per quello che riguarda la lotta per le materie prime, sembrano convergere e concentrarsi nell'area del Mediterraneo.
La guerra del Medio Oriente, la crisi energetica, la guerra cipriota, la crisi monetaria internazionale e le altre forme di concorrenza interimperialistica, la lotta tra USA e URSS per il controllo dei Balcani, l'avvio di un processo sociale di portata storica in Portogallo, il crollo del fascismo in Grecia, Portogallo e la crisi del fascismo in Spagna, la leadership assunta dall'Algeria nella battaglia mondiale per il prezzo delle materie prime, e quella assunta dalla Jugoslavia nel rilancio di una politica neutralistica e di indipendenza dai blocchi, il valore esemplare per tutto l'occidente capitalistico, infine, assunto dalla lotta operaia in Italia fanno del Mediterraneo uno dei punti più « caldi » del mondo.
In questa situazione l'Italia torna ad essere, in modo esplicito, un paese « di frontiera » nel suo duplice senso, territoriale e di classe.
Dal punto di vista territoriale, la guerra e l'instabilità politica in Medio Oriente e nel Mediterraneo Orientale fanno dell'Italia, dopo la crisi nei rapporti fra NATO e Grecia, un avamposto della presenza militare USA. Nella stessa direzione spinge lo scontro per il controllo della Jugoslavia che tende ad acutizzarsi in tempi brevi. E ancora, nella stessa direzione spinge la minaccia che il crollo del fascismo in Spagna metta capo ad un processo sociale analogo a quello che si è sviluppato in Portogallo.
Dal punto di vista di classe, la « frontiera » non è più quella con una lotta operaia egemonizzata dal PCI, e quindi rigidamente subordinata all'URSS, com'era al tempo della guerra fredda, ma con una autonomia di classe che è un punto di riferimento decisivo per la riscossa operaia in tutta l'Europa.
Il peso del PCI, pur in un quadro nazionale e internazionale diverso, è aumentato e non diminuito rispetto agli anni della guerra fredda, tanto da rendere estremamente contraddittorio per l'imperialismo USA, anche in una ipotesi di stabilizzazione politica e sociale, accettare il PCI come elemento di ricambio a livello governativo.
La conseguenza di tutto ciò sta nella progressiva e rapida internazionalizzazione della politica del governo italiano, una politica che è sempre stata strettamente subordinata agli USA, ma che oggi si trova sottoposta a una pressione che tende a sottrarle quegli stessi spazi di manovra che sono l'alimento essenziale della democrazia borghese.
In questa situazione il proletariato e le forze rivoluzionarie non possono porsi il problema del governo, come tappa necessaria del passaggio a una fase successiva della lotta di classe che ponga all'ordine del giorno la presa del potere, se non affrontando, al tempo stesso, i problemi posti dall'internazionalizzazione della politica italiana.
La rivendicazione della neutralità e della indipendenza nazionale, come sbocco necessario di una lotta contro la Nato e la dipendenza del-l'Italia dagli USA, non è solo una parola d'ordine giusta, è una prospettiva reale che trova un ampio terreno di convergenza in processi sociali e politici da tempo in corso in altri paesi del Mediterraneo: la Jugoslavia, la Grecia, l'Albania, Cipro, l'Algeria, il Portogallo.

FONTE

www.bibliotecamarxista.org/lottacontinua/tesi6imp.htm
 
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Yuri Gagarin
view post Posted on 17/9/2012, 12:21




Le Tesi



SULLA QUESTIONE DELLO STATO




La concezione revisionista dello Stato



Lo stato è il prodotto della divisione della società in classi e lo strumento per mantenere il dominio di una classe sulle altre.
Nel corso dello sviluppo capitalistico lo stato borghese ha progressivamente ampliato le proprie basi ed esteso l'area del proprio intervento: con la costruzione di un apparato di consenso, attraverso l'avvento della democrazia parlamentare prima, e l'istituzionalizzazione del potere sindacale poi; con il passaggio da un modello di stato liberale e liberoscambista (che non è mai esistito, allo stato « puro ») a forme sempre più estese di capitalismo di stato: il protezionismo, il controllo centrale della moneta e del credito, il sostegno della domanda, la regolamentazione della dinamica salariale, fino alle più moderne forme di sostegno della ricerca, degli investimenti e della produzione.
Fin dalle sue prime manifestazioni, il revisionismo si è presentato come tendenza a privilegiare queste forme della attività dello stato, facendo passare in secondo piano, o addirittura cancellando, quello che invece ne è l'aspetto essenziale e ineliminabile, cioè la coercizione e il potere delle armi. Nasce così la teoria della « neutralità » dello stato; essa presenta lo stato non come strumento del dominio di una classe sulle altre, ma come terreno neutro di scontro tra le classi, dalla cui conquista dipende, in ultima analisi, la questione del potere. Nella sua primitiva formulazione il revisionismo tende a vedere nei meccanismi della democrazia borghese lo strumento di questa conquista, attraverso il conseguimento della maggioranza parlamentare. Mano a mano che la macchina dello stato si fa più complessa e che la democrazia parlamentare tende a divenirne un aspetto marginale, il revisionismo tende a trasferire nella sfera delle funzioni economiche dello stato il terreno principale di questo confronto: una teoria che in Italia, nelle sue varie formulazioni, dal « piano del lavoro » al « nuovo modello di sviluppo », è riconducibile ad un unico schema: quello togliattiano delle « riforme di struttura ».

La rottura della macchina dello Stato



Ma, regolarmente, la storia della lotta di classe si incarica di ricordare che la natura ultima dello stato è quella di un apparato repressivo armato al servizio del dominio borghese e che l'ampliamento delle funzioni, dell'area di intervento e della stessa base di consenso dello stato borghese non comporta l'eliminazione, o anche solo la modificazione, della sua natura originaria, ma anzi ne esalta il carattere repressivo: così, le funzioni economiche dello stato sono cresciute soprattutto intorno a una corsa senza precedenti agli armamenti: l'ampliamento della sua « base di consenso » ha significato una articolazione e uno sviluppo sempre più capillare degli strumenti di manipolazione, controllo poliziesco, spionaggio; il suo intervento nel campo assistenziale e dei servizi sociali ha comportato un ampliamento senza pari del suo potere di corruzione; e, infine, allo sviluppo delle sue funzioni imprenditoriali corrisponde il trasferimento della concorrenza capitalistica, dal terreno del mercato a quello della lottizzazione del potere, che ha visto uno sviluppo senza precedenti dello spionaggio e del ricatto come strumenti di lotta politica; lo scandalo del Watergate negli USA ha un valore esemplare nel definire le caratteristiche fondamentali del « nuovo modello di stato capitalistico » che domina la nostra epoca.
La natura ultima dello stato borghese è quella di essere un apparato di repressione; lo sviluppo del capitalismo e le trasformazioni che esso induce nello stato borghese comportano un potenziamento e non una riduzione degli strumenti di questa repressione; il passaggio del potere dalla borghesia al proletariato non può avvenire pacificamente e gradualmente attraverso la « conquista dello stato » ma può realizzarsi solo attraverso una rottura violenta che spezzi la macchina dello stato.
Attuale è la lezione che Marx traeva dalla Comune, arricchendo l'impostazione stessa del « Manifesto del Partito Comunista », e Lenin dalla rivoluzione del febbraio 17 in Russia, secondo cui « dopo ogni rivoluzione, che segna un passo in avanti nella lotta di classe, risulta in maniera sempre più evidente il carattere puramente repressivo del potere dello stato » (Marx); secondo cui, quindi, la dittatura della borghesia va rovesciata, spezzandone lo strumento principale, lo stato borghese, e instaurando « l'organizzazione del proletariato come classe dominante ». La dittatura del proletariato è momento necessario, segna un passaggio determinante « dallo Stato come forza particolare, destinata a reprimere una classe determinata, alla repressione degli oppressori ad opera della forza generale della maggioranza del popolo » (Lenin); d'altro canto, essa è momento transitorio, rivolto a creare le condizioni del superamento stesso dello stato, come strumento in ogni caso di repressione. Per questo, la rottura rappresentata dalla dittatura del proletariato non riguarda solo la classe che detiene il potere, non è cioè un « cambio della guardia » entro uno strumento di dominio che rimane identico, ma riguarda la forma stessa di questo dominio.
La sostituzione dell'esercito col popolo in armi, l'abolizione del privilegio dei funzionari (il cui stipendio dev'essere pari al salario operaio), la loro eleggibilità e revocabilità assoluta, in un processo che pone le basi dell'abolizione della burocrazia come funzione speciale di una determinata categoria di persone, e quindi pone le basi dell'esercizio totale e quotidiano del potere da parte delle masse: queste sono le indicazioni embrionali di Lenin, volte a ribadire l'impossibilità che l'« espropriazione degli espropriatori » avvenga attraverso la vecchia macchina dello stato, od una sua graduale modifica. In modo diverso, l'esperienza cilena e — più ancora — quella portoghese ci mostrano come un mutamento radicale di regime possa essere un potente fattore di accelerazione della lotta di classe, ma anche di disarticolazione dell'apparato statale; mostrano infine come la possibilità che questa disarticolazione cresca all'interno delle forze armate — organo decisivo della dittatura di classe borghese sia un elemento strategicamente fondamentale.

Lo Stato italiano: la continuità con il fascismo



Quali sono le caratteristiche dello stato italiano?
Innanzitutto il suo rapporto di continuità con lo stato fascista. La guerra di resistenza e la liberazione non hanno spezzato il precedente apparato statale, fascista, così come l'avvento del fascismo non aveva spezzato, ma, anzi, si era sviluppato, sul tronco del precedente apparato dello stato liberale.
I guasti dell'apparato statale fascista prodotti dalla sconfitta militare e quelli provocati dalla guerra di liberazione furono rapidamente colmati dagli « alleati », cioè dall'imperialismo anglo-americano. L'epurazione dei corpi dello stato dagli individui e dalle forze del passato regime non sfiorò che la superficie di essi e solo per breve tempo, per rovesciarsi ben presto nel suo contrario, cioè nell'epurazione sistematica e programmata di tutti gli elementi portati al suo interno dalla vittoria delle forze popolari, oppure nel loro isolamento dalle masse, equivalente di fatto a una cooptazione nel regime.

La dipendenza dagli USA



In secondo luogo la stretta dipendenza dall'imperialismo USA. La restaurazione dello stato italiano avviene nel clima della guerra fredda all'interno della quale l'Italia rappresenta una duplice frontiera: perché è uno dei paesi confinanti con il blocco sovietico nella parte più « delicata » dello scacchiere europeo; e perché è il paese capitalistico dove la lotta operaia, la lotta antimperialisti e la lotta armata sono più forti e sono egemonizzate dal PCI, che è il più forte partito comunista dell'occidente, con legami ancora strettissimi con l'URSS.
La vita politica della repubblica è fin dall'inizio dominata dall'esigenza dell'imperialismo USA di farne un baluardo anticomunista, ed a questa esigenza si uniformano ben presto non solo le forze politiche di governo, e i corpi dello stato, ma anche lo stesso sviluppo dell'apparato economico produttivo. Si forma così un inscindibile intreccio, che non verrà spezzato né allentato nemmeno nella fase della distensione, e che è il pilastro maggiore su cui da sempre si reggono le fortune della Democrazia Cristiana.

Il regime democristiano



In terzo luogo la forma specifica che ha assunto il nuovo regime statale, in una identificazione sempre più stretta con la Democrazia Cristiana.
La Democrazia Cristiana governa l'Italia da 30 anni ininterrottamente, caso pressoché unico in un paese capitalistico a democrazia parlamentare. Le basi iniziali del suo potere sono costituite dalla continuità con lo
stato fascista: la DC infatti era l'unica forza in possesso dei quadri capaci di turarne le falle; dall'appoggio del Vaticano e dell'apparato ecclesiastico; dall'appoggio incondizionato della grande industria e dell'imperialismo USA; dal controllo politico ed elettorale di ampie masse cattoliche soprattutto contadine, grazie anche all'apparato economico rurale ereditato dal fascismo.
A partire da questa base la Democrazia Cristiana ha realizzato, in brevissimo tempo, la conquista e il potenziamento dei principali corpi dello stato (Forze Armate, polizia, pubblica amministrazione, magistratura) e dei principali gangli della società civile, e cioè: il sistema creditizio, cioè le banche, che in Italia, data la assoluta prevalenza delle piccole unità produttive incapaci di autofinanziamento, permette un controllo pressoché totale di tutto il tessuto economico dell'industria, del commercio e dell'agricoltura; l'industria pubblica, che già sotto il fascismo era in Italia una delle più estese del mondo capitalistico, e che sotto il regime democristiano ha attraversato una ulteriore eccezionale fase di espansione; i canali della spesa pubblica, centrale e locale, che, tra l'impulso dato ai lavori pubblici e la ordinaria amministrazione degli enti di stato e del parastato ha costituito la principale e dinamica fonte di sviluppo per l'occupazione, permettendo alla DC di accaparrarsi il monopolio delle assunzioni e di promuovere una eccezionale dilatazione del « ceto medio » impiegatizio sotto il suo diretto controllo; tutti i principali « servizi sociali », dagli ospedali all'edilizia popolare, alla previdenza sociale, trasformandoli anch'essi in fonti di potere, di occupazione e di corruzione direttamente gestite dal partito; le associazioni professionali, le corporazioni e i sindacati corporativi del pubblico impiego, base principale del reclutamento del proprio personale politico le prime, punto di appoggio per la costruzione del sindacalismo bianco dopo la scissione i secondi; la scuola, in tutti i suoi gradi, da quella materna all'università, con un monopolio quasi esclusivo della prima, senza contare l'estensione degli istituti clericali sovvenzionati dallo stato a tutti i livelli; infine, gli strumenti dell'informazione di massa, dal cinema, alla RAI-TV, all'editoria fino alla stampa. quotidiana.
La DC è sempre stata un partito interclassista e dalla salvaguardia di questo carattere ha tratto la sua forza. Ma dal controllo iniziale di vaste masse contadine e cattoliche le basi dell'interclassismo democristiano si sono progressivamente trasferite al suo apparato di corruzione.
La progressiva identificazione della DC con lo stato, del suo personale politico con il personale dello stato e la estensione del suo potere ben al di là di esso, rappresentano le fondamenta del regime che ha governato l'Italia nel dopoguerra. Questo fatto da un lato ha concentrato nella DC la rappresentanza quasi esclusiva degli interessi capitalistici e borghesi; ma dall'altro ha creato le condizioni perché le divisioni e le contraddizioni che la crisi e la lotta di classe producono nel fronte borghese si riflettano in modo diretto, senza mediazioni e senza possibilità di ricambio, sulla Democrazia Cristiana.
Se da un lato è cresciuta la crisi e la disaggregazione di quel blocco sociale su cui la DC aveva fondato il proprio consenso, d'altro lato si è accelerato un processo di instabilità istituzionale: entrambi questi elementi sono aggravati in maniera decisiva dalla capacità cosciente dell'offensiva operaia di esprimersi e di sviluppare la propria egemonia in tutti i campi.
Sta qui la ragione ultima della crisi democristiana, che ha ormai assunto un andamento irreversibile; ma sta qui anche la ragione per cui la crisi della DC è destinata a trascinare con sé anche la crisi dello stato.

Il capitalismo di Stato



In quarto luogo, quella che abbiamo visto essere uno degli strumenti maggiori di sviluppo del potere democristiano: l'eccezionale estensione, in Italia, del capitalismo di stato, nel suo triplice aspetto di capitale finanziario, di impresa pubblica, di spesa pubblica: in particolare quest'ultima ha da tempo superato la funzione, che fu propria di tutta una fase dello sviluppo capitalistico cominciato negli anni 30, di semplice sostegno della domanda per garantire gli sbocchi alla produzione. L'Italia, seppure in forme « arretrate » e tecnologicamente meno sofisticate, è uno dei paesi capitalistici dove lo stato interviene in misura maggiore per sostenere e regolamentare gli investimenti, la produzione e lo stesso profitto, il quale assume sempre più l'aspetto di una quota-parte del bilancio complessivo statale, invece che quello di un reddito conquistato sul mercato. Questo fa sì che il rapporto tra governo e controllo dell'economia sia eccezionalmente stretto, senza paragone con gli altri paesi capitalistici.
Per questo in Italia il problema del governo coinvolge una quota di potere decisamente superiore che nel resto dell'occidente capitalistico sviluppato. Se ciò ha finora contribuito a rendere impossibile un ricambio di governo, questo stesso fatto fa sì che, ove un ricambio si rendesse necessario, per l'approfondimento della crisi democristiana, esso sarebbe assai critico per le sorti del potere borghese e ben difficilmente potrebbe rappresentare un fattore di stabilizzazione.

L'apparato repressivo



In quinto luogo l'eccezionale estensione che ha in Italia l'apparato militare e repressivo dello stato. Alle tre armi delle Forze Armate (esercito, marina, aviazione) si aggiungono tre corpi di polizia ufficiali (carabinieri, polizia e guardia di finanza) e tre corpi militarizzati, con funzioni analoghe (guardie forestali, guardie carcerarie, capitaneria di porto). I servizi segreti sono almeno sette, per non parlare di quelli che sono talmente segreti che nemmeno si conoscono, anche perché, come molti altri corpi di polizia, stanno a metà tra il pubblico e il privato. L'elefantiasi dell'apparato militare italiano si spiega soprattutto con il suo ruolo nella repressione interna, rispetto alla quale è perfettamente attrezzato ed « efficiente ».

Le forme istituzionali



Infine lo stato italiano ha una forma costituzionale, rispetto alle altre forme di democrazia borghese esistenti, estremamente più esposta alla instabilità politica. Certamente la crescente instabilità politica italiana affonda le sue radici nei processi sociali e nella lotta di classe, e non potrebbe venir superata in nessun modo attraverso un'opera di « ingegneria istituzionale ». Ma non è un caso che tutti i progetti reazionari gestiti dalla DC abbiano messo al centro del loro programma una modificazione della costituzione, dei meccanismi istituzionali e soprattutto della legge elettorale: basta ricordare il filo nero che collega la legge truffa alle speranze riposte nel ruolo del presidente della repubblica, fino alle più recenti proposte di regolamentazione del diritto di sciopero e di riforma istituzionale avanzate da Piccoli e Fanfani.
Gli stessi margini di indipendenza della magistratura hanno favorito lo scatenamento al suo interno di importanti contraddizioni, di fronte allo sviluppo impetuoso della lotta di classe. Se questo ha significato rendere la magistratura dei gradi più bassi un terreno infido per il potere, su cui si può e si deve esercitare la egemonia operaia, si è accelerata al tempo stesso la fascistizzazione dei supremi vertici, che si esprime nella repressione sistematica di ogni dissenso all'interno dell'istituzione, per tentare di sconfiggere le spinte centrifughe, e nella preparazione di riforme apertamente autoritarie, eversive degli attuali equilibri istituzionali.

FONTE

www.bibliotecamarxista.org/lottacontinua/tesi7sta.htm
 
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Yuri Gagarin
view post Posted on 17/9/2012, 17:41




Le Tesi



SULLA QUESTIONE DELLE FORZE ARMATE




Dall'attivizzazione politica dei militari alla militarizzazione della politica



1 - Le caratteristiche fondamentali del progetto reazionario borghese pongono in primo piano il ruolo dei corpi armati dello stato, delle Forze armate, dei corpi di polizia, dei servizi segreti.
Il controllo sulle forze armate e sui servizi di polizia è stato garantito, lungo tutto il dopoguerra, dal monopolio democristiano del potere, dalla sua fedeltà atlantica — cioè dalla soggezione agli USA — escludendo ogni spazio a forze democratiche e riformiste, e alimentando rilevanti feudi esplicitamente fascisti, socialdemocratici e anticomunisti. La « separatezza » dei corpi armati non ha mai messo in forse la loro dipendenza diretta dal potere democristiano, e la loro netta caratterizzazione di destra. A ciò ha contribuito una linea di capitolazione delle forze riformiste, che hanno costantemente subito e anzi avvalorato il monopolio reazionario sulle forze armate.
La crisi della gerarchia sociale capitalista, e la crisi della centralità democristiana, hanno prodotto una progressiva attivizzazione dei corpi militari, mettendo via via in campo la riserva reazionaria che essi costantemente rappresentano nel regime statale borghese. L'attività dell'esecutivo si è progressivamente spostata verso i corpi militari, svelando la natura violenta del regime capitalista, mascherato nelle fasi di « pace sociale » dietro il rispetto della democrazia borghese. La crisi della centralità democristiana ha accelerato un processo di iniziative centrifughe e di autonomizzazione delle forze armate, che conduce tendenzialmente da un loro più massiccio uso nello scontro politico, che ne spezza pubblicamente la separatezza chiamandole alla ribalta nella gestione della crisi istituzionale, a una futura funzione delle forze armate come strumento centrale di una sostituzione di regime. Questo processo sta sotto i nostri occhi. Esso conduce tendenzialmente dalla galvanizzazione politica dei militari alla militarizzazione della politica. Esso costituisce il cuore di un processo golpista, fondato non sulle frange estreme fasciste delle forze armate, bensì sull'intelaiatura centrale dell'apparato militare.

L'antagonismo di classe fra base proletaria e gerarchia borghese è il fondamento della lotta antifascista nelle forze armate



2 - Il carattere delle forze armate italiane, così come di ogni esercito regolare di uno stato borghese, è definito dalla loro struttura di classe, di gerarchia, di comando.
Le forze armate sono un organo decisivo della dittatura di classe borghese. La disciplina e l'automatismo del comando impongono a ogni loro componente, compresa la loro base proletaria, la coerenza con questo ruolo di repressione classista.
Ogni tentativo di definire un carattere « popolare » delle Forze armate, a partire dalla presenza in esse di soldati di leva provenienti da « tutto il popolo », è un inganno.
Le forze armate fondate sulla coscrizione generale obbligatoria raccolgono bensì una parte importante dello schieramento proletario, ma solo nella misura in cui i soldati negano la disciplina fascista e l'automatismo dell'ordine, e organizzano il proprio antagonismo nei confronti della struttura e delle finalità classiste e gerarchiche dell'esercito.
Nell'esercito fondato sulla coscrizione generale obbligatoria si esprime una contraddizione antagonista tra la gerarchia borghese e reazionaria e la base proletaria e popolare. Questa contraddizione, che non si manifesta nei corpi di polizia e nei corpi armati di tipo professionale, è il fondamento di una linea di lotta democratica e di classe all'interno delle forze armate.

La dipendenza delle forze armate dall'imperialismo USA è un elemento determinante del loro ruolo



3 - Le forze armate sono la chiave di volta della reazione borghese, il « partito della borghesia », nel momento in cui la borghesia non riesce a garantire il suo dominio di classe attraverso il rispetto delle regole parlamentari. La possibilità che le forze economiche, sociali, politiche della reazione borghese si unifichino e scendano in campo aperto è legata in ultima istanza all'esistenza di un organo di violenza capace di misurarsi con il proletariato e sconfiggerlo con la forza delle armi.
Le forze armate sono la chiave di volta della reazione internazionale della borghesia. In un quadro internazionale ferreamente dominato dall'imperialismo USA, dalla rigidità e insostituibilità del suo dominio militare, dalla rigidità dei rapporti di forza tra le due principali potenze, l'evoluzione del regime interno di un paese come l'Italia, per la sua posizione strategica e per la sua forza economica, minaccia di squilibrare in misura decisiva i rapporti di forza interimperialisti. Ben prima della borghesia imperialista nazionale, è quella internazionale a revocare il proprio mandato all'assetto istituzionale democratico-borghese, affidandolo alle forze armate, con le quali ha sempre coltivato un legame e un controllo privilegiato. La rigidità dello schieramento politico e militare inter-nazionale tende a essere maggiore di quella degli schieramenti interni (i quali a loro volta, come mostra ad usura l'esperienza italiana, si avvalgono della prima per rafforzare la propria conservazione).
La prima e determinante causa della costituzione delle forze armate come polo di aggregazione della reazione è l'imperialismo mondiale, e la sua direzione nordamericana.

Non è possibile confidare nella democraticità della gerarchia militare



4 - Non è possibile confidare, rispetto alle forze armate italiane, sulla ipotesi di una consistente spaccatura verticale tra un'ala reazionaria e un'ala costituzionale, né tantomeno prevederla. In generale, una spaccatura di questo tipo si è presentata storicamente in presenza di uno scontro interimperialistico e/o di una guerra civile. Pur con diverse sfumature politiche, le gerarchie militari italiane sono interamente subordinate, militarmente ed ideologicamente, allo schieramento atlantico, statunitense e anticomunista, la cui supremazia militare mondiale è un'ulteriore, ragione materiale di questa subordinazione. Inoltre sulla collocazione della gerarchia militare italiana non possono agire, o non è prevedibile che agiscano, quegli elementi che in altri paesi hanno agito: da un lato infatti è assente l'elemento che ha operato in Portogallo (il crollo di un regime militare coloniale); d'altro lato non è prevedibile una situazione come quella che si è creata nel conflitto greco-turco, conflitto fra due paesi appartenenti entrambi alla Nato.
Queste ragioni di fondo sono destinate, pur se non meccanicamente, a prevalere sulle divisioni interne alla gerarchia militare, che hanno tuttavia non i connotati di diverse scelte strategiche di collocazione internazionale, bensì i connotati della lotta di fazione, della concorrenza fra gruppi di potere, del clientelismo, mutuati dal regime istituzionale dal quale il potere militare è stato gestito, e ulteriormente esasperati all'interno di una corporazione chiusa. La storia antica e recente mostra, a volte in modo perfino caricaturale, la strumentalità e la fragilità di queste divisioni, che un'analisi seria non può ignorare, ma che non possono a nessun costo essere contrabbandate come la divisione fra un'ala eversiva e un'ala democratica della gerarchia militare. Ogni strategia antifascista che si affidi fondamentalmente a questa divisione, e non alla divisione di classe fra gerarchia militare e base proletaria, fra il potere militare della borghesia e la forza della classe operaia, è suicida. In particolare, non è ipotizzabile, nel caso di una consistente azione eversiva delle forze armate, una risposta attiva di una parte consistente di esse, inclusa una parte del-la gerarchia militare. Questa contrapposizione attiva potrebbe venire solo a rimorchio di una risposta proletaria capace di apparire vincente. Altra cosa è l'ipotesi di una separazione, all'interno delle forze armate, fra un settore politicamente e militarmente decisivo, e un settore secondario, destinato a essere emarginato e a restare passivo nel momento dell'iniziativa reazionaria. Questa ipotesi è data per scontata in qualunque progetto golpista, e la sua premessa sta nella divisione, tenacemente perseguita, fra un settore « specializzato » e l'insieme delle forze armate. Altra cosa ancora è l'ipotesi, che giudichiamo possibile in una fase avanzata dello scontro di classe, che la forza della classe operaia e del movimento proletario tutto, in primo luogo, ma anche la lotta specifica dei soldati riescano a produrre all'interno della bassa gerarchia una serie di contraddizioni che, può non avendo la caratteristica di essere antagonistiche o di richiamarsi ad una connotazione proletaria, possono però anche a questo livello inficiare il normale funzionamento delle FF.AA., portandovi ulteriori elementi di disgregazione e allargando ulteriormente gli spazi per l'iniziativa di classe.

Le condizioni del processo reazionario nella fase attuale



5 - La rigida dipendenza della reazione interna dalla reazione internazionale, oltre che l'enorme sviluppo dell'apparato repressivo dello stato, segna una netta differenza nei confronti della instaurazione del fascismo di cinquanta anni orsono. Allora, l'instaurazione della reazione passò attraverso la consumazione della sconfitta di una crescita insurrezionale della lotta operaia, l'attivizzazione antidemocratica di strati di massa della piccola e media borghesia e del semiproletariato, la formazione, sostenuta dal grande capitale, di una forza armata irregolare antioperaia, la disgregazione e la consegna dello stato al fascismo. L'allentamento e la disgregazione dei vincoli imperialisti mettevano in primo piano il retroterra nazionale e non quello internazionale del processo reazionario. Diversa è la situazione attuale, in cui la forza strutturale e politica della classe operaia, e il carattere prolungato della crisi, indeboliscono fortemente gli sforzi di attivizzazione reazionaria di massa, e di unificazione reazionaria della grande borghesia. Ciò, ben lungi dal rendere impraticabile il cammino della reazione — come pretende un idillico e disarmante schema diffuso e ostentato anche nella sinistra — lo rende tendenzialmente inevitabile, e rovescia, al suo interno, il rapporto fra armamento irregolare e regolare della classe dominante, a vantaggio del secondo; questa modificazione riproduce la modificazione nel rapporto fra condizioni interne e condizioni internazionali della reazione, a vantaggio delle seconde.

Il lavoro nelle forze armate non è un'attività settoriale



6 - L'indebolimento dell'uso reazionario delle forze armate è dunque un elemento centrale nella costruzione della forza del proletariato. Questa, prima e sopra di ogni altro aspetto, è la posta del nostro lavoro nelle forze armate, dell'unità fra operai e soldati. È una tipica conseguenza del militarismo suicida di certe « avanguardie » l'incapacità di valutare questo aspetto, come in generale la dimensione di massa della lotta per il potere proletario.
Alla centralità di questa linea, si oppone una sottovalutazione del lavoro politico sulle forze armate, o una sua considerazione deviante (come un passaggio fra i tanti e indistinti della « lunga marcia attraverso le istituzioni », o come un'articolazione economicista dell'« unificazione del proletariato ») o, ancora, una sua concezione settoriale.
La contraddizione di classe all'interno delle forze armate può dispiegarsi pienamente solo se l'iniziativa sta nelle mani della classe operaia e del proletariato nel suo insieme. Questo significa che il lavoro sulle forze armate non può essere concepito e condotto come un'attività separata e collaterale del partito; che l'organizzazione dei militanti nelle forze armate non può essere costruita come un'organizzazione separata dal partito, ma come una sua componente essenziale, integrata nell'insieme dell'organizzazione, senza altri limiti se non quelli che derivano da una giusta applicazione della vigilanza.

Applicare una linea di massa tra i soldati, e nel rapporto fra i soldati e il movimento proletario



7 - La lotta delle avanguardie di massa antifasciste nelle forze armate può diventare la lotta della grande maggioranza dei soldati. Ridurre la organizzazione rivoluzionaria nelle forze armate in. una dimensione cospirativa sarebbe un gravissimo errore, come lo sviluppo stesso della lotta dei soldati basta già a provare. Conquistare attraverso una linea di massa la grande maggioranza dei soldati, questo è il compito del partito, dei suoi militanti nelle forze armate, dei suoi militanti fuori da esse. Le condizioni economiche, morali, sociali, il peso della disciplina autoritaria, l'addestramento antipopolare, stanno alla base delle rivendicazioni materiali e democratiche dei soldati. Nella crescita di queste rivendicazioni, nella realizzazione collettiva, sta la garanzia maggiore contro l'uso reazionario delle forze armate. La lotta per la libertà di organizzazione democratica dei soldati, legata alle giuste rivendicazioni materiali, è il banco di prova di una corretta linea di massa nelle forze armate. Anche in questo ambito, soprattutto in questo ambito, il compito dei rivoluzionari è di liberarsi del minoritarismo, di non avere paura di se stessi, di lavorare per la conquista della maggioranza. Rafforzare il partito per conquistare la maggioranza. Al tempo stesso, il movimento dei soldati deve sapersi legare alla maggioranza del proletariato, raccogliendo la contraddizione tra la sensibilità antifascista del proletariato e l'opportunismo delle sue organizzazioni maggioritarie. Questa contraddizione apre un ampio spazio all'iniziativa delle avanguardie dei soldati, nelle manifestazioni proletarie, nei consigli di fabbrica e di zona, negli stessi sindacati, nelle sezioni dei partiti di sinistra. La presenza dei soldati e della loro particolare esperienza è un contributo politicamente determinante alla crescita di un'organizzazione di massa del proletariato capace di misurarsi con la questione del potere.

Il problema dei corpi di polizia - Accrescere le contraddizioni della loro gestione antipopolare e reazionaria


8 - L'apparato armato dello stato, il suo ruolo repressivo e la sua disponibilità reazionaria, non si fondano tuttavia sulle forze armate soltanto, bensì, e massicciamente, sui corpi di polizia, e in particolare, fra essi, sull'arma dei carabinieri. In questi corpi la divisione di classe fra una base di origine proletaria e sottoproletaria e la gerarchia non ha la possibilità di esprimersi come una contrapposizione politica, per il peso tremendo dei condizionamenti disciplinari, ideologici ed economici. Il rifiuto politico del ruolo repressivo, della disciplina disumana, si. esprime in questi corpi nella forma della defezione individuale; è di fatto esclusa la possibilità di un'organizzazione fondata sull'autonomia di classe. Ciò limita drasticamente, ma non esclude la possibilità di un intervento politico su questi corpi. Non si tratta, qui, né di conquistare la maggioranza, né di organizzare una minoranza, bensì di far leva sulle contraddizioni interne allo uso e all'abuso antipopolare dell'apparato repressivo, per ridurne la compattezza e la disponibilità reazionaria. Queste contraddizioni sono inevitabilmente tanto più acute quanto più forte è la lotta proletaria. Nella situazione di classe del nostro paese, la proposta di costituzione di un sindacato confederale della polizia non rappresenta una iniziativa di razionalizzazione dell'apparato poliziesco, bensì un'acutizzazione delle sue contraddizioni interne. Essa riproduce in forma allargata una divisione interna alla borghesia. Essa non può essere confusa con una velleitaria « democratizzazione » della polizia, ma dev'essere vista come uno strumento di indebolimento e di resistenza alla gestione reazionaria della polizia; essa non è dunque contraria all'interesse del proletariato.
Per i corpi di polizia militare, come i carabinieri, che hanno assunto, in dispregio di ogni definizione istituzionale: un peso enorme nelle funzioni generali di ordine pubblico, un ruolo centrale nella cospirazione reazionaria — fungendo da tramite decisivo fra i centri politici reazionari e la gerarchia delle forze armate — e uno spropositato sviluppo propriamente tecnico-militare, dev'essere considerata con favore e sostenuta ogni iniziativa che ostacoli l'impunità e l'autonomia cospirativa degli alti gradi e il regime di terrore interno nei confronti dei graduati subalterni e della truppa. Vanno in questo senso la rivendicazione di una discussione parlamentare su tutte le nomine negli alti comandi; della pubblicità di tutti i provvedimenti amministrativi interni, trasferimenti, punizioni, promozioni, premi; la possibilità di un ricorso diretto all'autorità politica, senza seguire la trafila gerarchica, lo smantellamento di quelle strutture tecniche e militari che non trovano alcuna giustificazione nell'esercizio, comunque inteso, di compiti di polizia, ma predispongono un vero e proprio stato di guerra interna; lo scioglimento completo del SID.


FONTE

www.bibliotecamarxista.org/lottacontinua/tesi8forarm.htm
 
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