| ultimamente lo studio universitario di scienza politica mi aveva portato a studiare i processi politici nel terzo mondo , e nel corso di ricerche personali mi sono imbattuto in questo filosofo marxista che mette in relazione il revisionismo col colonialismo , in particolare il togliattismo e l'eurocomunismo . Egli pone l'accento sulla critica maoista che accusava di non tener docchio il terzo mondo ma anche sull'aristocrazia operaia controrivoluzionaria avversata da lenin , thalman e engels
Fin dall’inizio i partiti comunisti italiano e francese ebbero una visione nazionalistica, che ad un tempo riflesse e guidò il pensiero e la prassi dei loro iscritti secondo la nazione di appartenenza. Togliatti, ad esempio, durante l’invasione fascista dell’Etiopia, lanciò il suo famoso "Apello ai Fascisti", nel quale dichiarava che il suo partito, il PCI, era il vero portabandiera degli "ideali" del partito di Mussolini. E dieci anni dopo, finita la guerra, insieme con Nenni richiese la restituzione delle ex-colonie italiane perdute. Infine, quasi tutti i partiti comunisti dell’Europa occidentale sono diventati eurocomunisti e il PCI è arrivato al punto di appoggiare la NATO, costituita nel 1949 contro Stalin e l’URSS. Il loro contenuto stalinista si è ridotto fino a che oggi essi sono partiti socialdemocratici e nazionalistici come quelli della Seconda Internazionale. Se ne è avuta la conferma con la visita di Occhetto negli USA, dove è stato ricevuto dal presidente Bush, che lo ha accolto come un padre può accogliere un figliuol prodigo. Similmente, i partiti comunisti dell’Europa occidentale, che erano contrari alla CEE a metà degli anni sessanta, sono diventati tutti sostenitori dell’Europa. Inoltre, hanno attivamente appoggiato l’imperialismo del loro paese per ottenere contratti in paesi quali l’Algeria, la Somalia, il Mozambico, l’Angola. Questo cambiamento nelle proporzioni delle componenti di stalinismo e di nazionalismo proprie della dimensione spirituale di questi partiti non è stato "spontaneo" (V.I. Lenin, "Sulla coscienza", in Empirico-Criticismo). Esso ha espresso l’"imborghesimento" delle rispettive classi lavoratrici. Questo imborghesimento, molto rapido durante il boom successivo alla guerra, quando l’Italia registrò i più veloci ritmi di sviluppo economico di tutto l’Occidente, era in parte basato su risorse fresche di mano d’opera e di beni, ivi compresi i prodotti della Mafia e dell’"economia sommersa", provenienti dalla Calabria, dalla Sardegna, dalla Sicilia e dal Mezzogiorno, ossia, in una certa misura, da una divisione Nord-Sud. Ma, soprattutto, l’imborghesimento della classe lavoratrice, che si manifestava nel suo consumismo e nella sua alienazione crescenti, derivava dai superprofitti che fluivano in dosi massicce in Italia dopo la fine della guerra da molti paesi semicoloniali dell’Africa, del Centro e del Sud America, del Medio Oriente. I lavoratori, in questo senso, "tradirono" se stessi, in quanto partecipi del "sistema". Non corrisponde alla realtà storica "accusare" soltanto i loro leaders e i loro partiti. Infatti la dimensione spirituale che loro pertiene ha le sue radici nei rapporti di produzione. (Hosea Jaffe – "Progresso e nazione: economia ed ecologia", Jaca Book, 1990)
I socialisti e i comunisti italiani si espressero a favore della rioccupazione dell'Eritrea, della Somalia e, per un certo tempo, perfino della Libia, quando la questione venne discussa dall'ONU, dopo la guerra. L'argomento degli uomini di Nenni e di Togliatti era che adesso l'Italia aveva un governo di Fronte Popolare, non un governo imperialista, quindi: ridateci le nostre vecchie colonie, in modo che il proletariato italiano possa "prendere il loro destino nelle proprie mani e guidarle al più presto possibile all'indipendenza." Così le idee estremamente "up-to-day" di Engels si trasformavano in arroganza razzista e imperialista. (Hosea Jaffe - "Africa. Movimenti e lotte di liberazione", Mondadori, 1978)
Se una rivoluzione non abbandonasse subito e in toto il sistema imperialista dal primo giorno della rivoluzione, senza condizioni e qualificazione, non sarebbe una rivoluzione socialista, ma una “riforma” social-imperialista.
L’accumulazione socialista, specialmente nella sua fase “primaria” significa soprattutto l’abolizione dell’”innaturale” divisione mondiale capitalistica del lavoro, dei prodotti, del plusvalore. La stessa divisione del lavoro può essere parzialmente rovesciata, dato che l’Europa Occidentale e il Giappone, la Nuova Zelanda e l’Australia e vaste regioni del Canada e degli USA sono molto più adatte all’agricoltura dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, mentre queste ultime sono nel loro insieme, più adatte alla grande industria delle prime, tenendo conto delle loro risorse note, esistenti e potenziali di materie prime e di energia. La ridivisione globale del lavoro, dei prodotti e del plusvalore è la caratteristica fondamentale della moderna “transizione mondiale”. Ma anche una transizione “pre-mondiale”, “nazionale” o “multinazionale” deve assumere questa redivisione come punto di partenza. Per una sottovalutazione di questo aspetto (nonostante le caratteristiche positive e l’utilità dei loro lavori), vedi: O. Lange e F. M. Taylor, “On the Economic Theory of Socialism”, 1938; O. Lange, “Teorie sulla riproduzione e sull’accumulazione”, 1961 (La Habana, 1967); Ota Sik, “Piano e mercato nel socialismo” (1967), Editori Riuniti, Roma 1969; Boffito (a cura di), “Socialismo e mercato in Jugoslavia”, Einaudi, Torino 1968. La ridivisione mondiale del lavoro, dei prodotti (incluso il commercio) e del plusvalore è il centro dell’accumulazione primaria socialista nei paesi coloniali (e semicoloniali). Ma questa redivisione contiene grosse implicazioni per i paesi imperialisti e per la rivoluzione in questi paesi. Poiché il socialismo significa, per cominciare, che i popoli coloniali non continueranno a sostenere le economie “sviluppate” e a sussidiare i redditi e lo standard di vita dei paesi imperialisti (inclusi i lavoratori di tali paesi), risulta chiaro che una seria pianificazione socialista della “transizione” in questi paesi imperialisti deve preventivare la possibilità di misure d’emergenza disponibili per compensare l’effetto devastatore della perdita di materie prime, mercati e plusvalore, che deriva da una rivoluzione sociale non solo nelle colonie ma anche negli stati imperialisti. Se infatti una rivoluzione non abbandonasse subito e in toto il sistema imperialista dal primo giorno della rivoluzione, senza condizioni e qualificazione, non sarebbe una rivoluzione socialista, ma una “riforma” social-imperialista. [...] Il socialismo in effetti, distruggerà la divisione mondiale del lavoro esistente e la sostituirà con una divisione non colonialista. Questa rivoluzione, come ogni altra, esige sacrifici, soprattutto da parte dei gruppi “più ricchi”. Non può cioè avvenire “senza che ciò comporti per nessun popolo un sacrificio qualsiasi sul piano dei consumi”, come pretende Mandel nel suo “Trattto marxista di economia”, durante la sua “modificazione” “passo per passo” (riformisticamente) della divisione del lavoro esistente nel mondo capitalistico, che egli accetta. (Hosea Jaffe - “Processo capitalista e teoria dell'accumulazione”, Jaca Book, 1973)
volevo sapere se conoscevate anche voi questo marxista , visto che mi piace molto il suo anticolonialismo
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